A dieci anni da Genova tifiamo rivolta. La prossima.
Quanto sono difficili i ricordi! E le commemorazioni, poi?! Gigi, il nostro Di Lembo, mi diceva che gli faceva sempre una gran fatica metter giù un qualche articolo in occasione di anniversari particolari. Credo che fosse perché scrivere dei nostri anniversari voleva dire guardarsi indietro, ricordare quel che si era, o quel che si era stati, e ciò distoglieva dalla passione dell’animale politico, o meglio sociale, che abita in noi: agire nell’oggi, con un pensiero al futuro, per cambiare — oggi e domani — noi e il mondo che ci sta attorno.
Per ricordare bene Genova bisognerebbe poi esser poeti, ancor più che storici: i miei vent’anni, l’attacco ai simboli del potere, la reazione armata dello Stato, quella ragazza che piangeva il suo amico Carlo la notte del venerdì su un lungomare che sapeva di lacrimogeni. Un dramma, un momento di storia collettiva per una generazione, una spinta — per alcuni — verso l’anarchia, perché quando vedi cose così o ti ritiri a vita privata o abbracci con più forza l’Idea di uguaglianza e di libertà.
Da allora dieci anni di arretramento, anni di lotta di classe portata avanti scientemente dai padroni. Anni in cui l’arroganza dello stato si è mostrata con sempre meno pudore: ruberia generalizzata, consenso della classe politica ai minimi storici, messa ulteriormente a valore di ogni ambito del vivere comune, repressione in aumento fuori e dentro le carceri. Anni di salari che diminuiscono, l’inflazione che cresce, i diritti che scompaiono, una opinione pubblica supina al governante di turno.
Eppure sono stati anche dieci anni di radicamento delle istanza di trasformazione, anni in cui si sono accavallate lotte sempre meno generiche, sempre più puntuali, etiche e materiali insieme.
Da una parte abbiamo assistito all’entrata in crisi delle organizzazioni politiche: non solo dei partiti della sinistra ma di tutte quelle forme “classiche” dell’azione politica organizzata, dall’altra, senza questi “soggetti”, i conflitti sociali — abbozzati o dispiegati — sono stati innumerevoli: nelle scuole e università, nei luoghi di lavoro, per le strade delle città, in difesa dell’ambiente, per la dignità delle donne, per i diritti dei migranti ecc. Tante di queste sono state indubbiamente lotte difensive, per non arretrare ulteriormente, ma sono queste asperità che danno linfa ora a un processo reale di trasformazione sociale.
Oggi non è più tempo di manifestazioni oceaniche e simboliche, non c’è più Genova 2001, né la Firenze del Social Forum, né la Roma del 2003 con i milioni di manifestanti in piazza contro l’attacco all’Irak. Le proteste si sono moltiplicate, sparse sul territorio, la gente scende in strada non solo per una istanza morale, ma perché vede messo in pericolo il proprio presente e la possibilità di un futuro almeno decente.
Le istanze di cambiamento che da Genova in poi si sono sedimentate sanno di stare dalla parte giusta. Sono movimenti carsici, irregolari, ma potenzialmente di massa. Il magma ribolle, sempre negato, oscuro ai più, ma visibile a chi ha occhi per vedere.
Quel che è accaduto a Roma il 13 dicembre 2010 e in Val Susa il 3 luglio 2011 indica che i rivoli del conflitto sono pronti a unirsi. La rivolta e la consapevolezza di quelle giornate segnalano che la resistenza sta crescendo in ogni dove: nella piazze si scappa sempre di meno, sembriamo più fermi nelle nostre ragioni, mentre le istanze di autonomia, autogoverno, rifiuto della delega sono diffuse e radicate; se ci guardiamo intorno, sono sempre di più quelli disponibili a mettersi in gioco.
Abbiamo, certo, tutti contro: forze dell’ordine, politici di qualsiasi schieramento, giornali e televisioni, ma abbiamo, forse, affinato le nostre tecniche. Rifiutiamo la violenza in quanto tale, però sappiamo che difendersi è un diritto, e stiamo quindi imparando a non cascare nella duplice trappola, quella violentista e quella gandhiana a tutti i costi.
Siamo armati fino ai denti, di volontà e di tenacia, e soprattutto sappiamo che è ormai tempo di attaccare nuovamente.
Come anarchici abbiamo molto da dire in questo momento e diversi sono i piani su cui è necessario lavorare: rafforzare le relazioni con i compagni e i movimenti di altri paesi, in Europa e non solo; contrastare la divisione tra “buoni” e “cattivi”, quel “dagli al black block!” che tanti danni ha fatto nel dopo Genova; facilitare le relazioni tra i diversi approcci coesistenti all’interno dei movimenti; far crescere l’appoggio popolare, attraverso l’esempio dell’azione e l’uso intelligente dei nostri mezzi di comunicazione.
E allora diamoci da fare. È luglio, ma l’autunno è già vicino: l’Europa del welfare ha gettato la maschera da quel dì e i governi varano manovre da 70 miliardi di euro come fosse la cosa più normale del mondo. Il re è nudo e non è più tempo di mediazioni. Diego Camacho alias Abel Paz, biografo di Durruti, quando parlava del luglio ‘36 in Spagna, ricordava “l’attimo della rottura. Quando […] spezzi il tempo per dar vita a un nuovo tempo che poi, certo, verrà sommerso da un altro tempo, di segno contrario — ma non importa, l’essenziale è spezzare il tempo”.
Vamonos!
A. Soto
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