In bici in Africa

«Perché la bici?» ci chiedevano alcuni. E la mia risposta non poteva che avere l’entusiasmo impreciso dei principianti. In bici si va lenti, questo lo si sa, ma si può anche andare lontano. Spostarsi lentamente permette di guardarsi intorno e di fondersi con il paesaggio: il caldo, il freddo, la pioggia, il vento diventano i demoni buoni del viaggio. Mi sembrava che la bici restituisse al viaggio la sua essenza: esplorare, seguendo il proprio istinto, scavando l’orizzonte.
Non si tratta di arrivare da qualche parte, ma di andare, di percorrere la strada e conoscerla nei minimi dettagli. Scoprire cosa c’è in mezzo a quei centri nevralgici di cultura che di solito sono la meta attrattiva dei turisti. Chi conosce veramente cosa c’è tra Venezia e Bologna, tra Bologna e la Riviera, tra Roma e il suo aeroporto? E tra Europa e Africa?

La bici restituisce profondità a un angolo scialbo di periferia e ridà continuità al mondo frammentato al quale siamo ormai abituati. Un mezzo di trasporto che ti fa sentire le distanze che di solito copriamo senza nemmeno pensarci; la bici ci obbliga a misurare lo spazio con lo sforzo fisico delle gambe, delle braccia, della schiena. Queste e altre cose probabilmente dicevo a chi dopo aver posto la domanda si dava il tempo di ascoltare questo guazzabuglio di risposta”.

Marianita Palumbo e Tobias Mohn, Lentamente l’Africa, racconti di viaggio dalla Spagna al Mali, Ediesse, Roma, 2012, pp. 17-18.