1992. La Cecla e l’antropologia dell’automobile

MateeCode (2)In macchina per andare a scuola, a lavorare, a fare la spesa; in macchina per fare l’amore (c’è anche un sito con le istruzioni… roba da non crederci) e in macchina per litigare. Il mondo è il film che scorre dietro i finestrini, le nostre gambe e le nostre braccia sono una protesi del mezzo meccanico sinomimo di progresso e libertà. Immersi in questa realtà sintetica e meccanica non ci accorgiamo del traffico, non ci accorgiamo dell’inquinamento, non ci accorgiamo che la macchina è un’arma puntata contro tutto ciò che ne è al di fuori. Che fare? Intanto consiglierei di non andare in macchina, ma di utilizzare la bicicletta o i mezzi pubblici, poi per invitare tutti ad una riflessione consiglio la lettura di un breve testo illuminante: la prefazione di Franco La Cecla al libro Dopo l’automobile di Colin Ward, scritto nel 1991, poi tradotto e pubblicato nel 1992 dalla casa editrice elèuthera.


 

Per una antropologia dell’automobile

C’è un angolo che, a viso fermo, i nostri occhi non riescono a cogliere: questo blind spot, l’angolo oscuro che ci definisce come vedenti e che ci impedisce, ad esempio, di vedere il nostro viso, è una metafora esemplare di come le cose più vicine ci sfuggono e quelle più familiari sono spesso sorvolate dal nostro sguardo. Credo che nulla come la nostra condizione di esseri conviventi dentro o accanto ad una automobile si adegui alla metafora del blind spot, dell’angolo cieco. Nulla di più comune, quotidiano, costante è tanto trascurato dalla riflessione sulla nostra condizione umana di «moderni».
Eppure le nostre parole vengono espresse in mezzo al rumore delle auto, i nostri dialoghi più o meno intimi si svolgono al loro interno. Le auto sono la cornice della nostra vita quotidiana, lo sfondo, la compagnia voluta o no di buona parte dei nostri gesti. Solo nel chiuso delle case possiamo sfuggire alla loro fedeltà, ma le conseguenze di questa assiduità ci raggiungono anche lì, si tratti di rate da pagare, di piani di fuga per il week-end o di spot pubblicitari. Questa nostra storia con l’auto, quella per cui uno studioso come Wolfgang Sachs ha parlato di Amore per l’automobile, ricostruendo negli ultimi cento anni la storia sociale del nostro desiderio di auto, è una vicenda appassionata ma rimossa.
L’auto è, come recita bene il titolo inglese del presente libro di Colin Ward, freedom to go, libertà di andarsene, vento nei capelli, ebbrezza del distacco, via dalla pazza folla, rifare da soli il percorso del mondo, è il «ti passo a prendere», è avventura come non mancano mai di ricordarti le campagne pubblicitarie per le auto. Si può essere perfettamente coscienti dei danni di un mondo invaso dalle auto, ma se non si tiene in conto il vento che c’è dentro al freedom to go, si rischia di vedere le auto senza quelli che ci stanno dentro (casualmente è proprio quello che i pubblicitari ci fanno per lo più vedere, auto di cui non si vede il guidatore). Forse è per questo che la «questione delle automobili» non è ancora diventata una questione che ci sta a cuore, che possa davvero preoccupare la maggioranza di coloro che con esse convivono. Le auto definiscono la nostra identità più di quanto riusciamo, anche da buoni ambientalisti, ad ammettere. Quanto è consolante pensare che tutto il problema stia nell’inquinamento, nei gas di scarico, nel riciclaggio dei materiali da costruzione. Consolante perché salva il popolo seduto in automobile, quello che ha posto nel suo immaginario il paesaggio di campagna goduto alla brezza della leggera velocità, quello che ha imparato a vedere il mondo dal parabrezza, e che declina insieme libertà individuale e voglia di fruizione nomadica del mondo.
Per questo il libro di Colin Ward comincia col piede (!) giusto: «Avevo intenzione di scrivere un libro anarchico sui trasporti». Chi meglio di un anarchico può spiegare la visione «anarchica» che sta dietro alla passione per l’automobile, la solitudine della libertà di essere «unico» e veicolato, chi più di un anarchico può spiegarci che l’auto è figlia della modernità laica che si libera attraverso le macchine e si appropria della loro potenza con la propria volontà? E Colin Ward fa infatti una analisi antropologica dettagliata ed efficace. In questo libro il traffico non è un’astrazione o una scienza dei trasporti, ma un insieme di storie quotidiane, una antropologia del movimento al cui centro c’è l’interesse per le motivazioni e la vita quotidiana della gente, per questo non ce la sentiamo di rimproverargli l’accento eccessivo sulla condizione inglese che conosce direttamente. È un testo di storia sociale, scritto secondo una buona tradizione anarchica, con uno stile diretto e documentato e con un’ottica che non trascura la condizione operaia e quella dei cittadini intesi come comunità insediata.

È ovvio che l’auto sia una fregatura. La sua promessa di libertà le si ritorce contro. L’unicità di un popolo in cui tutti hanno la macchina nega qualunque slancio via-dalla-pazza-folla. E l’auto sembra il tipico paradigma della libertà umana: questa è solo possibile nei limiti accettati di una condizione umana (fragile) che non pretenda di diventare prometeica, che non si doti di una potenza che nel superarsi azzeri gli altri e se stessa. Infatti il godimento automobilistico presuppone sempre un divario, una marcia in più, il lasciarsi indietro la folla. Per questo se Marx fosse vivo oggi comincerebbe dall’auto una analisi del concetto di valore. Oggi il diagramma delle classi e dei ceti, delle relazioni di potere e di sottomissione è tutto leggibile per strada: i vigili urbani potrebbero diventare i migliori analisti di economia politica. La forza e la prepotenza, l’impunità e il privilegio si giocano sull’asfalto delle nostre città più che in borsa o in ogni altro luogo e un buon occhio allenato sa distinguere, regione per regione, con quali forme e con quali comportamenti si esprimono «in vettura» e «tra vetture» i rapporti di potere. Per tutti vale un apologo siciliano: una città come Palermo, sede di un potere occulto e criminale «tollera», anzi esprime un traffico dominato da grandi auto blu o metallizzate, Mercedes e Bmw, Fiat di rappresentanza e altro. Nel traffico l’unica incertezza è tra le auto delle autorità con scorta e quelle dei «potenti in affari» senza. Ma ad entrambe è concesso un privilegio singolare: quello di poter circolare in pieno giorno a fari accesi, come a voler simboleggiare uno scarto rispetto alla massa, l’urgenza e lo spreco che ne consegue, il lampeggiamento per avere strada immobilizzato come da una paralisi delle palpebre che avesse colpito gli occhi di un boss. Chissà perché così pochi sociologi e politologi, antropologi urbani e psicologi hanno lavorato su questa evidenza quotidiana, chissà perché il traffico continua ad essere considerato solo un problema degli ingegneri e degli ambientalisti? Mi sembra che invece niente meglio del traffico sia la fotografia della condizione umana e sociale oggi, con le differenze, i giochi di posizionamento, le mentalità dominanti e le peculiarità locali. Colin Ward fa una parte di questo lavoro e ci sono pagine estremamente acute, come quelle sul tasso degli incidenti d’auto e sul rapporto tra rischio e percezione del rischio in questo campo.

In qualche modo il costo altissimo in vite umane è accettato perché si tratta di fare andare avanti la normalità delle cose. Rispetto all’emergenza di una guerra, la guerra sull’asfalto è talmente un male necessario da diventare nessun male, ma solo casualità. La morte «per strada» è diventata una delle poche morti per cui si è inventato un tipo di cordoglio nuovo. Le «edicole» improvvisate, i fiori e le foto e le scritte sui luoghi degli incidenti d’auto non sono una ribellione contro il «sistema automobilistico», ma una scansione della religione della fatalità, del destino che colpisce a caso e inaspettatamente. Queste considerazioni spostano ancora più in là l’ampiezza del blind spot. Il sistema delle auto è penetrato nel fondo della nostra anima, diventando ovvio, il ritmo normale delle cose. In fin dei conti non è proprio qui il fascino dell’auto, nel fatto che dopo aver appreso a guidare un’auto ci si dimentica di come si guida perché si comincia a guidare automaticamente, come se l’auto fosse una protesi riuscita? E sicuramente dopo il cavallo e le armi l’auto è una delle protesi con pochi casi di rigetto. In più, come il cavallo è una protesi nobilitante. L’uomo a cavallo, il cavaliere è il prototipo dell’uomo alla guida; non importa dove debba andare, il fatto è che è fatto per andare. Anche nell’ultimo codice della strada approvato in Italia si ribadisce questa supremazia dell’automobilista. Ogni altra cosa che non sia un’automobile è d’intralcio per le strade, si tratti di pedoni, bici o carretti. Strano che su questa riproposizione di valore nessuna associazione ambientalista abbia fatto valere il suo disaccordo. Ma qui veniamo al dunque e torniamo a Colin Ward. Colin Ward ci rammenta che in un mondo che ha depresso tutti gli altri tipi di trasporto, l’auto è diventata una scelta obbligatoria per i più e ci ricorda che una buona parte degli automobilisti non «amano» la propria macchina e ne farebbero volentieri a meno. Il suo ragionamento rispetto alle alternative riprende tesi coraggiose sostenute da altri in passato (vedi Ivan Illich e la sua critica della velocità in Per una storia dei bisogni, Mondadori, e Jean Robert, Il tempo rubato da poco tradotto e pubblicato da Red. studio) e le aggiorna con dati e discussioni più recenti. Ma non si può parlare di alternativa nel campo dei trasporti se non si parla di cambiamenti su altri piani: quelli, appunto, dell’immagine e dell’immaginario connesso all’automobile. È su questo piano che ambientalisti, gruppi locali e gente di buona volontà può lavorare con efficacia. Essendomi da molti anni battuto perché le associazioni ambientaliste in Italia si lanciassero in «campagne» di messa in ridicolo delle pretese «libertarie» dell’automobile e avendo visto come frutti solo noiosi dossier di dati e centraline di controllo inquinamento, comincio a pensare che le associazioni ambientaliste siano convinte di avere come referenti i politici e non direttamente i cittadini.

Un discorso sull’automobile, per scalzarla dall’immaginario di questo secolo, dovrebbe procedere anzitutto da una messa sotto accusa di tutta la pubblicità di auto: una buona parte di essa continua a spingere sul pedale dell’ebbrezza della velocità, anche quando si tratta di superare i limiti vigenti in Italia, e continua a far vedere auto «single» sperdute in non so quale lontano Paese. Sarebbe così facile pensare a contropubblicità, usare l’arma corrosiva dell’ironia e ribaltare quelle immagini e quelle promesse. L’altro piano è quello dei diritti allo spazio. Nessuno ha mai scritto in nessun codice che le strade sono delle auto. L’occupazione di suolo pubblico è considerata un reato se non è sottoposta ad una regolamentazione che assicuri a tutti i cittadini il godimento dello stesso bene: lo spazio urbano. Negli ultimi cinquant’anni si è assistito ad una resa incondizionata della vita di strada a favore dell’unica presenza vincente in forma di carrozzeria metallica. Colin Ward ricorda che è per questo che negli ultimi vent’anni ci sono stati meno incidenti in cui sono rimasti coinvolti bambini: perché i bambini sono stati levati dalla strada e chiusi in casa. Associazioni ambientaliste non timide potrebbero chiedere che la strada e non solo i marciapiedi ridiventino spazio di vita, di gioco, di svago. Questo ci riporta all’altro termine del blind spot, in questo caso il blind spot ambientalista. Che ce ne facciamo di una città liberata dai gas di scarico se la città rimane occupata ed ingombrata da masse di automobili? È possibile che la questione dello spazio e del diritto ad esso non venga ancora sollevata in tutta la sua importanza? Nessuno ha ancora pensato a proibire le città ad auto più grandi di una utilitaria e l’effetto è che, visto che la gente sta sempre più in macchina che in casa, preferisce, quando ne ha i mezzi, comprarsi una macchina che assomigli ad una casa, con telefono, fax e minibar. Contro questa tendenza sarebbe facile andare, sia con l’ironia che con precise richieste di limiti. Ma sembra che di fronte alle auto la fantasia riceva duri colpi e mi sembra già una sconfitta dover vedere le stesse industrie di auto farsi belle con campagne sulle proprie auto ecologiche. D’altro canto l’auto nella natura non è un nuovo mito «pornoecologico»? Che c’è di meglio di una fuoristrada che penetri in luoghi vergini del territorio nazionale? Una buona parte di queste osservazioni sono semplici appelli contro la pigrizia dello sguardo; è proprio vero che siamo talmente abituati alle auto che non riusciamo a vederle e a capire cosa ci fanno e cosa noi gli facciamo fare.
Io non credo che le auto siano brutte, anzi, sono forse il luogo in cui, senza pensare al loro uso, è profusa una grande intelligenza e molto senso estetico. Il punto è che tra auto e trasporto non c’è più nessun collegamento e questo l’hanno capito bene e già da tempo le società automobilistiche (per l’Europa, ma ci sono da invadere altri Paesi e territori!). La questione è allora di cosa farcene ancora dell’auto: può diventare un bell’oggetto da collezione. I giapponesi già organizzano dei parchi di divertimenti per quelli che vogliono usare l’auto, un’elite di buongustai un po’ retrò; e a Palermo, luogo d’avanguardia per il consumo di lusso, le grandi feste dei «signori d’affari» prevedono sempre una pausa per scendere giù in garage a sentire il rombo della Ferrari acquistata e immobilizzata come investimento. La nostra intelligenza voglia aiutarci a pensare con sufficiente ironia un mondo in cui le auto possano essere ammirate nei musei e la gente si accorga di come è divertente attraversare la strada e di quanti incontri, come ne Il Maestro e Margherita, possano avvenire durante quest’avventura.