Riflessioni sull'organizzazione orizzontale e l'improvvisazione

Riceviamo e diffondiamo:

SULL'ORGANIZZAZIONE ORIZZONTALE E L'IMPROVVISAZIONE.

Spesso ho sentito che nella prassi collettiva (tra compagnx) si tende a tralasciare molta critica del nostro agire, anche se questo risulta deludente.
Ho la pungente sensazione che alle volte ci si trascini in comportamenti quasi divenuti “abitudine” anche se questi non raggiungono lo scopo che ci siamo prefissatx o non arricchiscono il nostro percorso individuale-collettivo.
Io personalmente mi sono ritrovatx in svariate situazione nelle quali, al termine di un'iniziativa pubblica (non parlo qui delle azioni che gruppi scelgono di attuare in numeri ristretti e in modi non palesi) ci si ritrovasse tuttx, o quasi, scontentx sull'andamento della stessa e al contempo prolificx di critiche su ciò che non era andato e ciò che si poteva migliorare, ma poi queste critiche sono cadute nel nulla. Vuoi per mancanza di tempo durante il quale fermarsi e discutere della cosa alla fine dell'iniziativa, vuoi per stanchezza, vuoi per una miriade di fattori concomitanti.
Coll'andare del tempo mi stava passando la voglia di discuterne, ma credo che sia una necessità troppo forte per me e perciò mi sono presx il tempo necessario per farlo in soliloquio, sperando che possa invece diventare patrimonio collettivo quanto scriverò.
In queste poche righe vorrei fare un esempio in termini spiccioli e diretti di qualcosa che nella prassi tra compagnx ho vissuto decine di volte e che non sono mai riuscitx ad invertire, a scongiurare o a criticare efficacemente poi.

In occasioni di iniziative pubbliche che potrei definire di “disturbo” (una passeggiata alle reti, un corteo non autorizzato dal tono tranquillo con una punta non pubblicizzata etc) si decidono in assemblea il tragitto, i tempi e si saggiano differenti possibilità e svolgimenti: se gli sbirri saranno là, se gli sbirri fanno questo, se i numeri saranno tali e così via.
Si prende una decisione. Si decidono grosso modo i “limiti” del nostro agire e i tempi che ci diamo: ovviamente, come in tutte le situazioni, non possiamo (e forse nemmeno lo vorrei…) determinare tutto lo svolgimento degli eventi. Non possiamo mai sapere  precisamente il nostro nemico come si comporterà.
Le decisioni in questa fase vengono prese come di consueto in maniera assembleare.
Ora, si potrebbero scrivere dozzine di pagine a mio avviso su quanto di imperfetto si consumi nelle assemblee, di quanti ruoli facciamo sopravvivere, di quanta autorità informale si celebra, di quanto grossolane alle volte diventino i botta-e-risposta che sottraggono ossigeno alle discussione, ma non è questo il momento per farlo.
Diamo per punto di partenza che la volontà e la tensione di ciascunx di noi siano sempre quelle di far andare nel più orizzontale e antiautoritario dei modi le cose (e sono sinceramente persuasx che sia così).
Nelle assemblee, che di solito per queste azioni si svolgono in numero relativamente ristretto di persone, il che rende secondo me più facile e più orizzontale il confronto, ci si da una linea guida di come vogliamo fare andare le cose.
Si parte.
Nell'immaginare come si svolge l'iniziativa prendiamo la più rosea delle ipotesi: numeri di compagnx soddisfacenti, sbirraglia assente o se presente dall'atteggiamento tranquillo, spazio urbano dove ci muoviamo favorevole e conosciuto, morale alto (“presx bene raga!” cit.).
Per agevolare l'esempio entriamo più nello specifico nella natura dell'obiettivo che ci eravamo datx: raggiungere una recinzione dalla quale tentare un disturbo in differenti modi (colori nel cielo, tenaglie etc).
A questo punto sia che la situazione volga nel migliore dei modi o nel peggiore rimaniamo comunque all'interno di un'azione che abbiamo concordato collettivamente: tuttx x presentx (o quasi: ammettiamo per esempio che durante il tragitto si sia aggiunto qualche passante, curiosx, solidale…) stanno facendo ciò che hanno scelto, che hanno organizzato collettivamente, orizzontalmente: ciascunx ha in se la voglia, le conoscenze, la responsabilità di ciò che sta compiendo.
Finito il momento di disturbo del nostro obiettivo, o se per esempio si fosse verificata l'impossibilità di raggiungere il nostro obiettivo per l'azione della controparte, qualcunx, non ci è dato sapere chi, per spontaneità, per miglior conoscenza della zona, per voglia di incidere maggiormente nell'azione, o per qualsiasi altra ragione che comunque reputo “in buona fede” parla con chi sta “in testa” al corteo e si decide per una variazione.
Si improvvisa. Si altera la decisione collettiva e lo si fa, cosa fondamentale, non per la necessità di rispondere/difendersi dall'azione repressiva del nemico, ma per la volontà di qualcunx dex compagnx. Non tuttx.
Si sparge la voce tra x presentx, si inizia a cercar di riorganizzarzi, si fa passare la voce di dove si voglia andare e cosa si voglia fare di nuovo.
In questo momento tralascio qualsiasi riflessione sulle motivazioni e sull'efficacia di questa “variazione” ma vorrei concentrarmi sulle modalità decisionale e soprattutto sull'orizzontalità di queste.
In queste situazioni infatti e molto difficile (a volte rischioso) e spesso non si ha il tempo di mettersi tuttx in cerchio e dibattere serenamente e orizzontalmente di cosa fare, perché, per quanto tempo etc.
Non si può, in altre parole, improvvisare un'assemblea lampo che abbia in se contemporaneamente la rapidità, la lucidità, l'efficacia decisionale e l'orizzontalità.
Allora chi sta prendendo le decisioni?
Perché x restanti delegano a pochx compagnx conosciutx la possibilità e la responsabilità di cambiare quanto si era deciso tuttx insieme?
Sicuramente in tantissime occasioni ci si fida dell'esperienza, della conoscenza del territorio, della grinta dex compagnx che prendono l'iniziativa, ma non credo sia buona prassi avallare questi comportamenti: riaffermando la fiducia nella buona fede dex miex compagnx, non voglio “accodarmi” a nessunx, ma lottare e decidere e vivere insieme a tuttx.
Credo che sia pericoloso dimenticarci che ci sono tante autorità ancora da scardinare dentro di noi e tra di noi, che la delega a chi è più preparatx (leggasi specializzazione) è una delega subdola che tante volte fa confondere la stima che abbiamo dex nostrx compagnx con l'autorevolezza che ce li fa apparire più legittimatx di altrx a prendere decisioni o a stimolare analisi.
Senza contare il fatto che spessissimo (sempre, nella mia esperienza) si tende in questi casi ad essere preda di fermate continue durante il tragitto, tentennamenti, paranoie (manca qualcunx!? Che fine ha fatto?! Oh è arrivata la voce che i celerini si muovono!) e disagi che fiaccano il morale e rallentano l'azione, ma anche se poi tutto si svolgesse nel migliore dei modi auspicabili e l'azione fosse più incisiva di quanto non si fosse organizzata precedentemente, non ne sarei comunque felice.
L'orizzontalità, l'autogestione e la responsabilità individuale per me rimangono fondamenti imprescindibili dell'agire, perciò se mi ritrovo a “seguire” il corteo e non a parteciparvi attivamente perché non sono più direttamente responsabile di quello che metto in pratica la cosa non mi interessa più.
Credo che già sia estremamente complicato autorganizzare situazione che siano gioiose ed efficaci  durante della assemblee (per quanto accennavo prima), e perciò sono abbastanza sfiduciatx nella mia esperienza dalla nostra capacità di improvvisazione.
Esattamente come ogni pratica/attitudine, l'improvvisare efficacemente e in sintonia cox compagnx credo sia qualcosa che si può affinare, e anzi, sono convintx che sia necessario farlo (tante volte dall'imprevedibilità e dalla rapidità delle nostre azioni dipende l'impreparazione e la fallibilità del nostro nemico).
Non voglio perciò affossare una pratica e invitare alla diserzione di questo tipo di situazioni perchè “tanto va sempre così!”, anzi, tutt'altro, sono per farne sempre di più e sempre diverse ma di darsi il tempo, finita l'iniziativa, di sedersi al sicuro (quando sia possibile, certo) a un tavolo o attorno a un fuoco e discutere di come ci si è sentitx, cosa ha funzionato e cosa no.
In ogni ambito della vita collettiva credo sia una buona pratica per far sì che degli irrisolti momentanei, dei riserbi, delle critiche non sedimentino e si trasformino in rancore, in svogliatezza di “fare insieme”: in presa male.
Questo discorso non è un attacco allo spontaneismo e un elogio dell'organizzazione assembleare, anzi tutt'altro, ma una precisazione, un mettere a fuoco: quando si è davvero spontanex e quando invece l'iniziativa di pochx coinvolge e convoglia tuttx!?
Lo spontaneismo nelle situazioni di eterogeneità (per esempio un corteo che si accende per le strade, animato non solo da compagnx ma da tanta gente differente) è molto diverso dalle iniziative concordate e decise insieme e poi “fatte virare” verso epiloghi e modi che solo pochx hanno deciso sul momento.
L'assemblea, così per come la vivo oggi nel contesto italiano, non ha nulla di glorificabile per quanto mi riguarda, ma credo invece fermamente nel dialogo (sereno o conflittuale) assembleare come metodo: vorrei solo riuscire a trasformarlo e “informalizzare” il momento assembleare.
L’assemblea dovrebbe smettere di essere un momento fissato in uno spazio preparato (il cerchio chiamato a un certo punto etc) ma diventare un metodo, valido sempre, dalla cucina alle barricate, in modo che la rapidità e l’ascolto e la rielaborazione diventino facili per ciascunx di noi.
Ma questo è un discorso ben più lungo e complesso.

In definitiva credo che chiunque tra x compagnx che ha vissuto situazioni simili a quella che descrivo abbia più o meno capito cosa intendo.
Per chiarire ulteriormente la volontà che sta dietro queste righe posso solo aggiungere che questo spunto vorrei che fosse discutibile, da qualche parte, un giorno, prima e/o dopo di un'iniziativa…

Lun, 07/11/2016 – 11:07
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