Genova 2001 – “Public forum” e i professionisti dell’antiglobalizzazione

Ripubblichiamo questo contributo sulle giornate del G8 di Genova, scritto a caldo, nel 2001. Comparso anche qui.

Migliaia di persone, associazioni e partiti sono arrivati alle manifestazioni di Genova dopo settimane o mesi di preparazione. Tutte le teorie, le convinzioni, i metodi, le prospettive presenti nel movimento sono state messe alla prova dagli eventi. Proprio per questo riteniamo che la cronaca della settimana di mobilitazioni di Genova rivesta una particolare importanza politica.

Un bilancio schietto di quelle giornate dovrebbe permettere di chiarire l’intero dibattito interno al movimento antiglobalizzazione.

“Public forum” e i professionisti dell’antiglobalizzazione

Questa cronaca è scritta da chi ha avuto il privilegio di poter stare a Genova da lunedì fino a sabato, partecipando anche all’intera settimana di dibattiti e di preparazione, in particolare al “Public Forum” che si è tenuto tra lunedì 16 e mercoledì 18.

Questa fortuna però non è ovviamente stata riservata ai lavoratori. Il Public Forum era la discussione organizzata da tutte le associazioni aderenti al Genova Social Forum. Lo scopo era quello di discutere e di fatto decidere le parole d’ordine e i metodi con cui doveva continuare il movimento. Il fatto che fosse organizzato nelle giornate lavorative non può essere considerato solo come una casualità o una triste necessità, ma è la spia di quale sia l’attenzione della maggioranza delle associazioni del Gsf verso i lavoratori e verso la necessità di allargare la discussione sui temi della globalizzazione.

La platea e le presidenze delle assemblee del Public Forum, quindi, non potevano che essere composte prevalentemente da funzionari sindacali, giornalisti, universitari, intellettuali di professione, dirigenti di diverse associazioni, liberi professionisti ecc. Nei diversi dibattiti si discuteva di programmi, parole d’ordine, di come continuare il movimento dando per scontato di esserne rappresentativi.

C’è in realtà un abisso tra le concezioni di tutti questi presunti portavoce del movimento, e le aspirazioni profonde che hanno spinto decine e centinaia di migliaia di persone a manifestare a Genova tra il 19 e il 21 luglio.

Il demone della visibilità

Il gesto eclatante, l’atto simbolico, l’evento testimoniale ma “comunicativo” sono il cruccio delle reti antiglobalizzazione. Tra lunedì e mercoledì un vespaio di telecamere si aggirava per il public forum. Questo meccanismo scatenava la gara ad attirare l’attenzione dei media con le trovate più strane. Tutta l’attenzione degli organizzatori era concentrata sul rapporto con i mass media. Mercoledì ho incontrato un giornalista di Radio Popolare che mi ha espresso i seguenti concetti: in 3 giorni ho fatto decine di conferenze stampa, voi manifestanti non sapete nulla di quello che accadrà venerdì, qua si occupano solo di dialogare con i giornalisti e al massimo apprenderete tutte le varie scelte degli organizzatori dalle radio o dai giornali. Ieri sono andato all’iniziativa di Attac: eravamo mille giornalisti a fotografare e guardare un lenzuolo bianco con scritto Attac che pendeva da un ponte.

Venerdì sera l’abbraccio dolce delle telecamere si era trasformato in una morsa mortale. Da circa un’ora girava la notizia del manifestante ucciso. La manifestazione del giorno seguente era comunque confermata.

Il Tg3 delle 19.00 aveva riportato una falsa frase di Agnoletto che dichiarava sospeso il corteo del giorno dopo. Il Gsf si è messo subito a sbraitare ai giornalisti presenti di dare la smentita, di spiegare che la manifestazione era confermata. Il Tg3 smentiva la notizia, mentre il Tg1 confermava il presunto annullamento del corteo.

Il demone della visibilità ora si ritorceva contro tutto il Gsf. Dopo una settimana in cui si erano affidati soltanto ai canali dei mass media, ora ne erano prigionieri, senza aver costruito altri canali per informare la gente. Verso le 21.00 in preda al panico dal palco è arrivato l’invito del Gsf: “chiediamo di usare tutti i canali possibili, soprattutto quelli di partito per far sapere che domani la manifestazione è confermata”. La forma-partito tanto disprezzata e “superata dalla storia” si rivelava l’ultima ancora di salvataggio.

Venerdì 20: il black block, la polizia e gli infiltrati 

Giovedì 19 il corteo dei migranti ha visto la partecipazione di circa 50mila persone. Non era quantitativamente imponente ma già si respirava aria nuova. Il corteo era chiassoso. Slogan si alzavano da ogni dove. Le camionette che di solito sparano musica ad alto volume erano silenziose. La giornata del 19 è passata tranquilla.

Nella mente degli organizzatori venerdì 20 doveva essere un grosso spettacolo per le televisioni: gente che emergeva dal mare violando la linea rossa, catapulte per varcare la cancellata, palloncini che sorvolavano palazzo ducale. Tutto ciò poteva rivelarsi una farsa inutile o una tragedia. Come tutti sanno è stata una tragedia. Gli organizzatori non avevano previsto nulla. Il Gsf ha lasciato 50mila persone in balia del caos. Gli scontri erano annunciati. Il 20 c’erano cinque piazze tematiche diverse da cui dovevano partire diversi piccoli cortei tutti diretti alla linea rossa. Chiunque avrebbe capito che dividere i manifestanti in punti diversi era un errore. Ma l’importante era la logica della visibilità: ogni struttura aderisce unitariamente al Gsf, ma ognuno voleva la propria piazza. Le piazze tra l’altro non erano divise su basi politiche ma in base al comportamento che le singole strutture volevano tenere rispetto alla “linea rossa”.

Il black-block ha iniziato gli scontri dal mattino. La loro tattica era semplice: distruggevano tutto e scappavano, ripiegando sui cortei in modo tale da usare i cortei come scudo. Prendevano in ostaggio migliaia di persone per coprire la distruzione di un negozio, banca o vetrina. È praticamente sicuro che nei cortei e tra il black-block ci fossero infiltrati della polizia. Ma anche se così non fosse, è un dato oggettivo che la tattica del black-block è stata funzionale alla polizia. La polizia usava la scusa del black-block per attaccare le parti politiche dei cortei. Il corteo delle tute bianche è stato travolto dalla polizia prima di assemblarsi. Mesi di training alla “disobbedienza civile” sfumati in qualche secondo. I poliziotti si muovevano all’unisono penetrando come nel burro in piccoli cortei dispersi e non organizzati centralmente.

La violenza di piazza, secondo i sostenitori dell’azione diretta dovrebbe alzare il livello di coscienza e il morale delle masse. Giovedì 19 sera dopo un corteo totalmente pacifico ma vivace e pieno di slogan il morale dei manifestanti era alle stelle. Venerdì alle 13.00 Genova era teatro di guerriglia urbana e la demoralizzazione era il sentimento più diffuso. Tutti i cortei, eccetto quello di Piazza Dante, erano stati dispersi. Nessun corteo era nemmeno partito. Gruppetti di persone allo sbando si aggiravano senza saper dove andare. Alle 13.00 sembrava di assistere ad una Caporetto. Ognuno poteva vedere le banche e i bar in fiamme, cassonetti rovesciati, semafori, cartelli distrutti. Colonne di fumo si alzavano in diversi punti. Lo spettacolo era tutt’altro che esaltante.

Venerdì 20: causa e pretesto

E’ necessario non confondere il pretesto con la causa. Il black-block ha giocato il ruolo di pretesto, la polizia è stata la causa. Le distruzioni del black-block erano funzionali a giustificare l’intervento della polizia. Anche se il black-block non fosse esistito la polizia avrebbe attaccato comunque ed ha attaccato, infatti, anche dove non c’era il black-block.

Piazza Dante era il concentramento più lontano dagli altri. Lì i manifestanti erano completamente privi di protezioni e di ogni tipo di arma. Polizia e manifestanti erano divisi da enormi cancellate di ferro. Il contatto era impossibile. Verso le 16.00, se non mi sbaglio, è girata la voce di ritirarsi verso Piazza Kennedy dove tutti gli altri manifestanti si sarebbero concentrati. Per tutta la città piccoli cortei si ricreavano convergendo su Piazza Kennedy. Il morale tornava alto, le manifestazioni tornavano a prendere forma. La gente ha iniziato a defluire via da Piazza Dante. Era chiaro che ce ne stavamo andando ed era chiaro che non c’era nessun pericolo che tentassimo attacchi. Avevamo le spalle girate quando 3 o 4 esplosioni ci hanno preso di sorpresa. La polizia ci stava bersagliando di lacrimogeni. Dopo un primo fuggi fuggi generale il corteo è riuscito a ritrarsi con un certo ordine.

Venerdì sera: che fare?

Verso le 19.15 circa la notizia del manifestante ucciso era confermata. Alla notizia dell’assassinio, si iniziavano a creare i capannelli di discussione. Il Gsf non aveva previsto nessuna assemblea pubblica, ma solo una… conferenza stampa. La gente però si accalcava attorno alla conferenza stampa trasformandola in un’assemblea pubblica. I primi 30 minuti sono stati parecchio applauditi. I primi interventi erano accolti con entusiasmo: si iniziava a raccontare quello che era successo nella giornata e ci si accontentava della semplice cronaca. Un ragazzo ha preso il microfono ed ha mostrato una pallottola: “L’ho trovata per terra”. Iniziava a diventare chiaro che la polizia aveva sparato. Dopo un’ora di dibattito iniziava però a serpeggiare lo scontento. Gli interventi continuavano a fare la cronaca, però che fare ora? Non arrivava nessuna proposta se non quella di attendere.

I più determinati, iniziavano a spazientirsi. Era necessario dare una risposta collettiva, prendersi delle responsabilità. Diversi piccoli cortei stavano ancora guerreggiando con la polizia. Di fronte al fatto che nessuno del Gsf lanciava una proposta, ancora una volta i più determinati venivano attirati dalle sirene dell’azione diretta. Agnoletto spiegava: “il corteo di Lilliput è ancora bloccato dalla polizia”. Dalla platea si sentiva: “andiamogli incontro, aiutiamoli”. Un paio di interventi iniziavano ad invitare la gente a tornare per le strade a guerreggiare con la polizia. L’inconsistenza del Gsf spingeva di nuovo la gente nelle braccia dello scontro diretto.

Era necessario lanciare alcune parole d’ordine chiare: 1. concentrarsi tutti in unico punto in un grosso presidio pacifico; 2. fare un appello alle strutture sindacali e di partito perché unificassero i loro servizi d’ordine in difesa del corteo, creando un unico ufficio centrale che coordinasse tutti i diversi servizi d’ordine e reclutando volontari per difendere il corteo il giorno successivo; 3. chiedere a tutte le strutture sindacali la convocazione a breve dello sciopero generale; 4. lanciare la parola d’ordine delle dimissioni dell’intero Governo e non semplicemente del Ministero degli Interni.

Il Gsf invece si preoccupava solo di far attendere la gente. Quello che poteva diventare un presidio massiccio e compatto, era invece una trappola per conigli. Non ci potevamo muovere dalla piazza mentre sapevano che ancora centinaia di manifestanti erano spersi per Genova.

Alle 22.00 sono arrivate le proposte ufficiali del Gsf: 1. confermare la manifestazione del giorno seguente (c’era bisogno di dirlo??!) 2. dimissioni del Ministro degli Interni 3. il giorno seguente tutti i poliziotti dovevano essere consegnati nelle caserme. Con quali leve coercitive volevano imporre questo? L’indignazione e la vergogna, purtroppo, non hanno mai smosso da sole la storia. I portavoce del Gsf hanno esplicitamente declinato ogni responsabilità nell’organizzare sia pure un minimo di autodifesa del corteo, come pure molti richiedevano (ad esempio Bernocchi dei Cobas).

Il 21 luglio: le organizzazioni dei lavoratori e l’internazionalismo

L’inizio del corteo del 21 luglio era previsto alle 14.00. Alle 11.00 per le strade di Genova sfilavano già i manifestanti. La città sembrava improvvisamente diversa. Migliaia di bandiere rosse sfilavano per il corteo. La presenza del Prc era imponente anche se totalmente sparsa e disorganizzata. Anche i Comunisti Italiani avevano qualche spezzone. In seguito venivano i Cobas e alcuni spezzoni della Fiom. Attorno a queste strutture si muoveva una massa di manifestanti che singolarmente promuovevano slogan o portavano bandiere rosse. Ogni tanto questo fiume imponente era intervallato da qualche piccola associazione o da uno spezzone di anarchici. I protagonisti del corteo non erano le reti o la “società civile”, ma le bandiere rosse e le organizzazioni principali dei lavoratori. La presenza internazionale era significativa e non simbolica. Lo spezzone del Kke greco aveva almeno duemila presenti. Gli slogan contro la polizia erano i più gridati. Per tutto il corteo risuonava il coro “assassini”.

Verso le 13.00 il clima è improvvisamente cambiato: gli slogan lasciavano spazio ad un silenzio surreale. Nonostante tutto quello che era successo venerdì, ancora pochi avrebbero scommesso sul fatto che la polizia avrebbe attaccato un corteo completamente pacifico. Eppure si intravedevano gli scontri verso Piazzale Kennedy.

Così è stato: attorno a Piazzale Kennedy il corteo è stato spezzato in due dalla polizia. Da circa un mese si sapeva che quello era il punto dove il corteo sarebbe stato spezzato. Perché non c’era un servizio d’ordine a cordonare e a difendere quel punto? Tutti vogliono farsi scudo con la sigla del Gsf, nessuno vuole le responsabilità. A volte i singoli spezzoni avevano il proprio servizio d’ordine, ma nulla poteva essere fatto senza un servizio d’ordine che coprisse l’intero corteo. La polizia dopo aver spaccato il corteo ha iniziato ad attaccare rispettivamente la coda della prima parte del corteo e la testa della seconda parte. Non si trattava di attacchi mirati a fermare e far arretrare il corteo. L’obiettivo scientifico era quello di disperderlo. Attaccata la prima fila, procedevano con la seconda e così via.

La dimostrazione della necessità di un servizio d’ordine di autodifesa che circondasse il corteo è stato dimostrato dal fatto che si sono iniziati a creare cordoni in maniera spontanea, ma questa recezione spontanea non trovava punti di riferimento organizzati.

Il vero volto dello Stato

Da quando nasciamo ci convincono che le persone in divisa blu difendano l’ordine, le nostre case dai ladri e cose di questo tipo. Quelle divise sembrano ancorate alla legge: i guardiani della legge mai potrebbero infrangerla! Portarsi dietro questa illusione è quanto mai pericoloso: il Gsf non ha fornito il servizio d’ordine ai manifestanti, in compenso faceva seguire ogni spezzone da un avvocato. L’illusione era quella di contrapporre la “conoscenza della legge” contro l’apparato statale. L’apparato sabato notte ha fatto irruzione nella sede del Gsf spiegando cosa ne pensava di questa stramba teoria, arrestando diversi avvocati. Gli avvocati durante il corteo non potevano che mettersi le mani nei capelli. Erano i peggiori consiglieri in quei momenti dato che non capivano un briciolo delle dinamiche di piazza.

Quando dei movimenti mettono in discussione aspetti estremamente parziali del sistema capitalista, lo Stato rimane ai margini con fare sornione, assumendo un atteggiamento di presunta neutralità. I poliziotti seguono di solito i cortei all’inizio e alla fine, sonnecchiando e pronti ad intervenire solo in caso di evidente provocazione. Appena si arriva a mettere in discussione l’intero sistema, lo Stato sembra avere un fiuto particolare. Cambia volto ed inizia attivamente a porsi il problema della dispersione del movimento. A Genova la polizia aveva un solo obiettivo: disperdere i manifestanti, spaventarli, arrestare per rappresaglia. Lo Stato ha ritirato fuori improvvisamente tutto il suo repertorio degli anni ‘70: spari sulla folla, idranti, lacrimogeni, camionette di infiltrati, carri armati, pacchi bomba, violenza sui manifestanti isolati.

Anche qua entra in gioco l’elemento soggettivo: lo Stato ricordava esattamente tutti i metodi usati in passato, i manifestanti no. Per noi un partito rivoluzionario è prima di tutto la memoria storica del proletariato. A Genova questo è mancato: molti lavoratori e giovani hanno dovuto fare da soli un corso accelerato sui metodi della polizia direttamente in piazza.

Un futuro di scontri sociali

In questa cronaca ci siamo voluti concentrare coscientemente sui limiti delle giornate di Genova. Casarini, il leader delle Tute Bianche, ha dichiarato al Manifesto: “bisognerebbe decretare lo stato di crisi di tutte le componenti del Gsf”. È l’unica sua affermazione con cui ci potremo mai trovare d’accordo. Il problema delle giornate di Genova non è stato puramente “organizzativo”. Le idee, le prospettive, le strutture con cui la maggioranza del movimento è arrivato a questi avvenimenti si sono rivelate inadeguate. Si tratta di un problema di direzione politica, di cui le questioni organizzative sono un mero riflesso. Le illusioni nelle reti, nella “società civile”, nella disobbedienza civile, nella visibilità mass-mediatica hanno fallito alla prova dei fatti.

In maniera più o meno confusa decine di migliaia di lavoratori e giovani sono scesi in piazza per gridare il loro disprezzo per il capitalismo. Spesso hanno dovuto improvvisare un servizio d’ordine per cercare di difendere il corteo. Si tratta solo di un assaggio dello scontento che cova all’interno della società. Questo scontento sarà la leva da cui partiranno tutti i futuri processi rivoluzionari.

Proprio Genova dimostra, però, che perché questo avvenga, il movimento deve dotarsi di altre idee e di un’altra direzione politica che si basi fondamentalmente sulle idee del marxismo. Queste idee non si autoeleggeranno maggioritarie in qualche “Public Forum” precluso a chi lavora, ma si dovranno dimostrare nei fatti come le idee che più corrispondano alle esigenze della lotta e della sua vittoria.

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