Etica, ecologica, anticrisi. Breve elogio della bicicletta

cheroseneEsauritoIn un articolo di Oreste Pivetta su “l’Unità” del 13 maggio 2012 si spera nel caro benzina per un cambiamento delle politiche ciclabili del paese e si menziona quel cambiamento di mentalità e di cultura cui è dedicato il libro di Ivan Illich che l’autore cita più volte. Non penso che il problema dell’automobile, che racchiude in sè lo sfruttamento delle risorse e degli uomini, possa essere messo in discussione dal caro-benzina. Tuttavia, anche se con una mano sul portafogli anzichè con lo sguardo verso la veloruzione, per il momento la crisi economica e il caro benzina stanno spingendo qualche italiano ad usare la bicicletta.

Etica, ecologica, anticrisi. Breve elogio della bicicletta, di Oreste Pivetta, da “l’Unità” del 13 maggio 2012

Il Giro d’ Italia è cominciato in Danimarca. Una scelta di marketing, interessi molto concreti, commerci, turismo… Qualcuno spiegherà che si tratta di fratellanza continentale: si contribuirebbe a fare l’Europa, che la crisi pare stia smontando. Non credo invece che esista in corsa un campione danese in grado di vincere e a cui rendere così preventivamente omaggio.
Conosco Rasmussen, che mi ricorda un esploratore polare più che un candidato alla maglia rosa. Spero che l’omaggio sia a tutti i danesi, pedalatori tra casa e ufficio, scuola e supermercato. Si sono contati i chilometri: ogni cittadino danese ne percorre ogni anno in media più di mille. Fanno il paio con gli olandesi. Il numero delle biciclette supererebbe quello degli abitanti. Una flotta che si muove lungo piste ciclabili, a Copenhagen o ad Amsterdam, tra viottoli e strade silenziose che si inoltrano in una campagna verde smeraldo, come le telecronache ci stanno mostrando.
Sono Paesi che assomigliano a quell’ideale che Ivan Illich, in un saggio intitolato Elogio della bicicletta, contrappose al Paese che ben conosciamo e che mette assieme Roma e Milano e Napoli, code, ingorghi, autostrade, strade e rotonde e naturalmente appalti per queste e per quelle… Sosteneva Illich, ma ne siamo convinti anche noi, che l’industria avesse determinato il modo di muoversi dell’uomo, imponendo i suoi modelli di mobilità, trasporto individuale e motorizzato, infischiandose degli altissimi costi ambientali, energetici e quindi sociali, trasformando gli individui in «schiavi energetici», inasprendo i caratteri di classe della società, divisa secondo la «disponibilità energetica» di ciascuno. Illich lo scriveva nel 1973, quarant’anni fa, con una precisa idea del futuro.

Modelli di mobilità
L’auto aveva promesso velocità e libertà, ci ha regalato lentezza, sporcizia, il paesaggio deturpato, la feroce eterna lotta per il parcheggio. Scriveva Illich: «Per por+tare quarantamila persone al di là di un ponte in un’ora, ci vogliono tre corsie se si usano i treni, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, solo due se le quarantamila persone vanno da un capo all’altro pedalando in bicicletta». Elogio della bicicletta, silenziosa, semplice, pulita. Mezzo meccanico tanto perfetto mai è stato creato: tubi una volta di ferro, poi di acciaio, poi di alluminio, ora di carbonio e titanio insieme in unica lega, per il telaio, due ruote, le gomme, la catena, le pedivelle, il manubrio, il movimento centrale.
La si può arricchire di cambi, campanelli, luci, sacche con gli attrezzi per riparare la gomma bucata. («È nuova, una Wolsit: col fanalino elettrico, la borsetta dei ferri, la pompa…», come scriveva Giorgio Bassani nel Giardino dei Finzi Contini, a Ferrara, la città più pedalata d’ Italia). Per muoversi in bicicletta, basta spingere sui pedali con delicatezza e con regolarità e rotondità. Si può andare ovunque: la bicicletta è «la libertà di andare dove voglio», semplicemente vincendo l’“attrito volvente”, che pesa sulle ruote contro il muro dello spazio davanti a noi.
Non c’è altro: nell’infinita gamma dei perfezionamenti tecnici, il disegno della bicicletta è rimasto immutato da decenni. Una bicicletta di mezzo secolo fa potrebbe ancora servire degnamente, senza chiedere nulla: un po’ di attenzione per l’umidità, un attimo di pulizia, perché la polvere della strada non solidifichi nel grasso del lubrificante e non danneggi gli ingranaggi.
La bicicletta è popolare, in senso politico, e aiuta nelle giuste cause. Alla fine dell’Ottocento, durante i moti operai di Milano, Bava Beccaris, il generale che faceva sparare sui manifestanti, ne vietò l’uso. I nazisti presero esempio: proibito andare in bicicletta, perché la bicicletta era un mezzo di trasporto comune tra i combattenti antifascisti. Ma la usavano anche gli operai delle fabbriche e ci si accorse che la proibizione avrebbe bloccato la produzione industriale.
Così la bicicletta tornò a far da staffetta partigiana. Gino Bartali trasportava messaggi occultandoli nei tubi del telaio, come raccontano Franco Giannantoni e Ibio Paolucci in un libro che è l’esaltazione in chiave democratica del velocipede: La bicicletta nella Resistenza. Basterebbe questo per una medaglia d’oro all’esistenza. Nel dopoguerra divenne simbolo di rinascita: fu, ancora per molto, il tramite tra l’operaio e la fabbrica e al fischio della sirena le tute blu diventavano una marea semovente a velocità costante. C’era chi la bicicletta la conduceva con sé, una mano sul manubrio, l’altra a stringere quella della fidanzata, come si vede in una foto famosissima dolcissima e orgogliosa: sono tre attori, l’operaio, al donna, la bicicletta, di una stessa speranza, verso il “sol dell’avvenire”.
Poi arriverà lo scooter, ancora qualche anno e si passerà alla Seicento, che cominciò a rinchiudere persone, parole e pensieri in una scatola che poteva comunicare con le altre “scatole” solo a colpi di clacson o a gestacci. Un ‘altra rivoluzione cominciava, ma la bicicletta sopravvisse. Di questi tempi è tornata a risplendere, ringiovanita.
Dapprima per ragioni ecologiste e salutiste, quindi per utilità economica: è risparmio allo stato puro, un sistema energetico dai vantaggi insuperabili. I costi sono altri, d’altro genere: si muore in bicicletta, straziati dal solito automobilista “disattento”, abbattuti dalla vettura che stringe in curva, che ti corre al fianco senza rispetto per la tua fragilità. La devastante incultura del nostro paese si legge nella maleducazione che affligge l’automobilista e condanna ad un’esistenza di paure il ciclista. Mancano le piste ciclabili e neppure le sanno realizzare.
A Milano, in una via del centro, gli ultimi giorni della Moratti, la pista l’hanno semplicemente “disegnata” come se una striscia gialla sull’asfalto nero fosse un deterrente sufficiente. In provincia, dove si potrebbero allestire percorsi di chilometri e chilometri, utilizzando magari strade rurali semi abbandonate, ogni comune è una testa diversa: così se ne traccia un pezzo qui, un altro là, un altro ancora qualche chilometro dopo.
Senza considerare che la “connessione” darebbe un senso ad ogni isolata ciclabile, trasformandola in un “romanzo”. Tornare alla bicicletta è un’utopia espressa da qualche movimento di ciclisti organizzati. Purtroppo la politica non ascolta e per giunta siamo un Paese in miseria e senza lungimiranza (una volta, ai tempi del primo centrosinistra, si diceva: senza programmazione): non ci sono soldi da investire, trascurando il valore di una pista ciclabile (un risparmio, ma potrebbe essere anche un richiamo per il turismo, come succede in tanti paesi d’Europa).
Miseramente si è arrivati alla contesa tra pedoni e ciclisti per l’uso del marciapiede (già occupato dalle macchine in sosta). La novità è stata il cosiddetto bike-sharing: la bicicletta noleggiata dal Comune e collocata in apposite rastrelliere. Peccato che la periferia sia stata dimenticata, eppure è nel tratto tra periferia e centro che la bicicletta rimarrebbe più utile.
Non ci sarà rimedio, se chi amministra non metterà da parte una certa sudditanza alle necessità dell’auto. Noi dicevamo, senza bisogno di Illich, che era la Fiat a obbligarci ad usare l’auto e l’autostrada. La Fiat, praticamente, non l’abbiamo più. Forse si potrebbe immaginare qualcosa di diverso, non caritatevole, non marginale, non hobbystico, ma strategico. Forse ci penserà il caro benzina a mostrarci la rotta.