I seguenti tavoli tematici sono coordinati da realtà che lavorano già da tempo sui vari territori, in alcuni casi realtà che si incontrano per la prima volta a Roma per dialogare, condividere azioni e prospettive, in altri casi da soggetti e realtà che vogliono far partire un confronto sulla tematica proposta.
Ogni tavolo dovrà finalizzare e indirizzare la discussione con l’obiettivo generale di proporre e prospettare azioni e percorsi comuni tra le varie soggettività e reti territoriali presenti, interessate e attive su quel tema. Si chiederà anche di contribuire concretamente a definire il percorso di avvicinamento, preparazione e azione prima, durante e dopo l’Expo 2015.
Il metodo che proponiamo è finalizzato alla massima partecipazione dei presenti e, nel contempo, alla redazione di report di sintesi istantanei che verranno poi esposti nella piazza del mercato per essere socializzati con chiunque abbia voglia di leggerli!
5. OGM: tutela biodiversita e sovranità alimentare (scarica il pdf)
*****************
A livello globale, dal 2008 ad oggi, il processo di accaparramento di terre da parte di imprese multinazionali, governi stranieri, nuovi attori finanziari pubblici e privati ha subito una forte accelerazione a causa della convergenza tra crisi finanziaria, alimentare, energetica e climatica, portando alla trasformazione della terra, tradizionalmente non un tipico bene d’investimento, in una risorsa fondamentale su cui prendere il controllo il più velocemente possibile.
Anche in Italia, dove questo processo è in atto già da tempo attraverso la concentrazione dei terreni agricoli in grandi proprietà, attraverso le speculazioni edilizie e la cementificazione selvaggia, la terra è continuamente sotto attacco da vari fronti, e con gli obiettivi più svariati: per coltivare cibo o agro-combustibili su scala industriale, per installare progetti estrattivi, impianti per la produzione di energia o di smaltimento rifiuti, per costruire infrastrutture e grandi opere di dubbia utilità, per sviluppare turisticamente una zona o per espandere città.
E quindi centrali a biomassa che sorgono come funghi, centrali a biogas, biodigestori, termovalorizzatori, termodistruttori, inceneritori, centrali a carbone, centrali geotermiche, autostrade, gasdotti, rigassificatori, parchi eolici. Opere sempre presentate come strategiche, sempre necessarie, sempre indispensabili, ma che rispondono alla stessa logica del profitto, impositiva e replicata pressocchè ovunque, di saccheggio della ricchezza collettiva a favore dei mercati e degli interessi di pochi.
In questo quadro, non solo la terra viene svuotata di una delle sue originarie vocazioni, quella agro-alimentare, ma alle comunità locali che la abitano viene impedito di esercitare la sovranità sui propri territori, deprivandoli del diritto di decidere come organizzare e gestire il proprio ambiente di vita. Così le economie locali vengono così compromesse, il tessuto socio-culturale e la stessa identità e sopravvivenza di un territorio sono messe a repentaglio.
Nonostante si cerchi di criminalizzare e spesso reprimere chi si oppone a questi soprusi, continuano a nascere una mobilitazioni dal basso, spesso in grado di mettere in discussione non solo lo specifico per cui sono nate, ma l intero modello di sviluppo e i propri stili di vta.
Per contribuire a costruire una larga opposizione a tutto questo, Genuino Clandestino ha lanciato la campagna Terra Bene Comune con l’obiettivo di rivendicare la vocazione agricola alimentare della terra, difendere e promuovere l’agricoltura contadina, di piccola scala e biodiversificata e in grado di salvaguardare l’ambiente e gli equilibri sociali, nonchè di costruire un’alleanza fra movimenti urbani, singoli cittadini e movimenti rurali, per riconnettere città e campagnae sostenere le comunità in lotta contro la devastazione dei territori.
Partendo dalla consapevolezza che, a livello locale, la custodia della terra agricola come bene comune non può non coincidere con il cammino per la difesa dei territori, per la riappropriazione degli spazi a uso comune, per la restituzione dei beni collettivi alla loro funzione sociale, per la tutela di un lavoro dignitoso, per il diritto a decidere delle proprie vite, a salvaguardare la propria salute, a gestire le proprie risorse, Genuino Clandestino invita reti, comitati, reti, movimenti sociali a partecipare alla prossima assemblea nazionale a Roma.
Le esperienze di Caicocci e Mondeggi hanno riaperto la speranza e la possibilità dell’alternativa laddove il Potere aveva lasciato abbandono e degrado e si apprestava a privatizzare. Sono esperienze che hanno saputo costruire una partecipazione forte, che hanno riscosso simpatie e favori anche nei media locali, che stanno coniugando il fare e il pensare, che stanno per la prima volta declinando il motto “Terra Bene Comune”. Ciò nonostante sono esperienze fortemente a rischio. innanzitutto a rischio repressivo, per la disobbedienza civile che è stata praticata riaprendo, custodendo, vivendo e coltivando quelle terre e quei casali. L’altro rischio che percepiamo, come contadin@ ribelli che partecipiamo, è che tutta questa lotta arrivi al massimo risultato di un bando pubblico d’assegnazione: cioè logiche clientelari, criteri d’assegnazione legati a imprenditorialità spinta, cammini istituzionali, negazione del diritto a vivere sulla Terra e dell’agricoltura contadina.
1. Come possiamo configurare pratiche, progetti e percorsi che ci consentano di fare di Caicocci e di Mondeggi (e di altri luoghi) delle terre beni comuni dove si costruiscano relazioni sociali, economiche, produttive al di là del capitalismo, dove si contribuisca alla sovranità alimentare dei territori, dove si eroghino servizi che oggi l’austerity nega? Come possiamo fare ciò senza essere spazzati dalla repressione, invischiati nelle scorciatoie istituzionali, o affogati dall’orizzonte del massimo obiettivo del bando pubblico?
2. La riappropriazione diretta delle terre è una pratica di tanti movimenti contadini globali. Spesso le terre recuperate poi vengono gestite in maniera collettiva e con l’orizzonte della sovranità alimentare. Può essere questo della riappropriazione diretta un cammino percorribile anche nell’Italia e nell’Europa attuale?
E poi, vincolare la riappropriazione diretta alla gestione collettiva e assembleare può essere un’opzione valida per far si che i territori recuperati dall’abbandono e liberati dalla privatizzazione e dalla speculazione diventino davvero beni comuni o terre sociali?
In Europa 500 milioni di cittadini mangiano tutti i giorni e chiedono all’agricoltura e all’industria agroalimentare di provvedere. Questi settori generano 46 milioni di posti di lavoro e il 6% del PIL europeo. Lo fanno, però, sempre più per esportare piuttosto che per darci da mangiare. La spirale è spietata e perversa: dipendiamo dalle esportazioni per approvvigionarci di materie prime alimentari a costo e qualità sempre più bassi e trasformarle nel cosiddetto Made in Italy agroalimentare.
Sempre meno imprese, sempre più concentrate, lo vendono a consumatori ricchi fuori dal Paese, perdendo sempre più posti di lavoro nelle nostre campagne che lentamente si spopolano e cedono alla speculazione edilizia. Nel 2013 in Italia a fronte di un calo dei consumi pari al 3,1 per cento si è verificato – secondo dati Coldiretti – un aumento del 4,7 per cento delle esportazioni per un totale di 33,4 miliardi di euro.
E’ questo il modello di produzione e consumo di cibo che ci propone EXPO 2015: l’esposizione universale che sbarca a Milano lasciandosi alle spalle una scia evidente di marketing selvaggio, oltre che di corruzione e cementificazioni indiscriminate legate alla sua costruzione e a quella delle infrastrutture connesse, che sno andate a compromettere aree a vocazione agricola – in primo luogo quella dove sorge la Cascina Triulza che ospiterà le attività della cosiddetta Società civile.
EXPO 2015, che ha come slogan “sfamare il pianeta, energia per la vita”, mette in mostra il paradigma del modello di agrobusiness cui Genuino clandestino si oppone. Un’agricoltura concepita sugli stessi criteri dell’industria pesante e bellica, a spese dei beni comuni, dell’occupazione, dei diritti, dell’ambiente e della qualità della vita di tutti noi gonfia le tasche di pochi grandi gruppi economico-finanziari.
Per facilitare l’imposizione di questo modello su tutta la produzione di cibo del pianeta, le istituzioni internazionali e gli Stati nazionali stanno favorendo dagli anni Ottanta massicce campagne di liberalizzazione commerciale che – bloccate da molti anni all’Organizzazione Mondiale del Commercio, anche grazie ad un intenso lavoro di opposizione, protesta e pressione dei movimenti e delle forze sociali organizzate – proliferano oggi nei negoziati “faccia a faccia” tra Europa, Stati Uniti, Paesi emergenti e Paesi poveri. EPAs – gli Economic Partnership Agreements tra Europa ed ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico – DCFTAs – i Deep and Coomprehensive Free Trade Agreements tra Europa e Paesi della primavera araba – gli accordi con Peru e Colombia, quelli con la Korea, quelli con i Paesi asiatici e anche i tentativi fatti con India e Cina, vanno tutti nella stessa direzione: abbattere tutte quelle regole, quei diritti, quelle garanzie che ci siamo conquistati con anni di lotte e di dialettica democratica in cui la campagna e i contadini hanno giocato un ruolo spesso determinante.
Il mantra che ripete la Commissione europea, supportata dal Fondo monetario internazionale, anche nella nuova bozza di Comunicazione che sta per pubblicare sul “Ruolo del settore privato per una crescita inclusiva e sostenibile dei Paesi in via di sviluppo” è che sarà il settore privato, con i suoi capitali e i suoi profitti, ad avere i soldi necessari a sfamare i nove miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050. E che dobbiamo rendergli il compito quanto più facile possibile, costi quel che costi.
La minaccia più grave che stiamo vivendo è quella che si nasconde nel TTIP: il trattato di liberalizzazione commerciale e degli investimenti che gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno negoziando in gran segreto dal giugno 2013. Questo trattato prevede non soltanto l’abbattimento di dazi e dogane, come proprio di un trattato commerciale, senza troppo chiedersi quali ne saranno le conseguenze sui tessuti produttivi, sociali e ambientali delle due sponde dell’Oceano. Esso, infatti, si propone anche di abbattere tutti gli standard, i requisiti di qualità, di sicurezza e il principio di precauzione rispettato in Europa – che mette fuori gioco da noi carne agli ormoni, pollo al cloro, ma anche gli Ogm; e di proteggere i diritti degli investitori, permettendo alle imprese di citare in giudizio gli Stati che dovessero danneggiare i loro interessi anche per proteggere i diritti e la salute dei propri cittadini, non nei tribunali ordinari ma in appositi collegi arbitrali che risponderebbero solo sulle regole poste dal trattato, ignorando le normative nazionali.
” GLI UOMINI MAGIAVANO CIO’ CHE ESSI NON AVEVANO COLTIVATO. PIU’ NESSUN VINCOLO LI LEGAVA AL LORO CIBO ”
(da “Furore” di John Steinbeck)
Più volte nella storia di tutti i tempi e a tutte le latitudini la” legge del più forte ” ha privato gli uomini e le comunità locali del diritto di autodeterminarsi nel loro fabbisogno alimentare allo scopo di ottenere profitti e potere .
Attraverso vari sistemi ,dai più violenti e brutali ai più sofisticati e ingannevoli la terra e il suo possesso sono stati sottratti a chi ne treva cibo a vantaggio di chi ne traeva profitti.
LA PAROLA D’ORDINE E’ DECONTADINIZZARE IL TERRITORIO .
Molti sono stati i modi che hanno portato alla cancellazione della figura del contadino.
E’ stata, ed è ancora a certe latitudini , usata la forza e la violenza , si è usata l’arma dell’inganno e
del ricatto ed infine, ultimo e più sofisticato, si è fatto in modo di creare una cultura per la quale lasciare la terra significava “progredire” , “emanciparsi” passare da una condizione simile a quella degli animali per andare verso il “progresso” e il “benessere”.
E’ vantaggioso trasformare i contadini in braccianti o meglio ancora migranti che possono aspirare a diventare cittadini/consumatori ,sempre più concentrati in grandi agglomerati urbani con l’ unica possibilità di sopravvivenza rappresentata dall’ottenimento di un compenso per la vendita della propria forza lavoro , ammesso che ci sia chi è disposto a comprarla.
In un contesto come il nostro di oggi essere contadino, praticare un’agricoltura di sussistenza, volta all’ottenimento del cibo per noi stessi e per la propria comunità , vivere di una economia di piccola scala dove il principale reddito consiste nelle relazioni e nello scambio in un clima di solidarietà e di condivisione è un atto rivoluzionario , di “resistenza” .
L’uso degli Ogm (Organismi geneticamente modificati) è l’ennesima soluzione che le multinazionali propongono a problemi che esse stesse hanno creato. Le multinazionali dell’agrochimica, infatti, per affermare il loro monopolio hanno brevettato il materiale genetico, accreditandosi come inventori e rendendo legale il sopruso sula natura e illegale la sua tutela, come lo scambio e la conservazione delle sementi antiche e autoctone
Ciò che sta avvenendo in Friuli Venezia Giulia, è paradigmatico, diversi agricoltori hanno seminato e continuano a seminare OGM, illegalmente ma impuniti.
L’attuale sistema agroindustriale ha un ruolo fondamentale nel dissesto ecologico in cui versa il nostro pianeta. Per produrre cibo si consumano più risorse energetiche, idriche e naturali di quante poi vengono reimmesse nel ciclo vitale della Terra, portando con sé inquinamento, riduzione della biodiversità e gravi problemi sociali, contribuendo in modo sostanziale al Riscaldamento Globale.
La questione degli Ogm, è direttamente connessa alla necessità di un cambiamento delle relazioni sociali ed economiche nella loro globalità, guardando a produzioni alimentari proporzionate ai reali bisogni dei territori e a favore di un agire produttivo rispettoso della natura, oltre che dei diritti dei piccoli agricoltori.
A partire da queste considerazioni sugli Ogm, l’invito è di individuare delle linee di un agire collettivo finalizzato a scardinare le logiche dell’agroindustria, il No OGM e’ un netto No a questa agricoltura, intensiva e monoculturale.
I braccianti salariati – e i più numerosi braccianti avventizi, “giornalieri” – hanno rappresentato un bacino di manodopera centrale per lo sviluppo del capitalismo agrario. Si è spesso trattato di masse di contadini e montanari poveri, migranti interni stagionali, che, con il loro lavoro malpagato, hanno arricchito il capitale delle aziende agrarie. Oggi, la manodopera bracciante da Nord a Sud Italia, è composta principalmente da migranti non comunitari e neo-comunitari, i quali offrono le loro braccia in cambio di quattro soldi, in una condizione di costante incertezza e precarietà lavorativa e abitativa, sotto la minaccia della disoccupazione forzata, il ricatto da parte del padrone, dei suoi caporali, del dispositivo della Bossi-Fini e sotto il peso dei prezzi bassi che le GDO pagano ai contadini .
Si sopravvive in “campi” – tendopoli-ghetto auto-costruite e spazialmente segregate – dove a stento ci si ripara da pioggia e freddo, oppure in abitazioni indegne sotto la minaccia di sgombero, sempre in condizioni sanitarie degradanti, dove l’invisibilità politica e sociale si accompagna sistematicamente a quella lavorativa. I lavoratori accampati ed ultraprecari di Canelli, Foggia, Nardò, Castelnuovo Scrivia, San Ferdinando, Saluzzo, Boreano, Rosarno vanno infatti ad ingrossare le fila di quel bacino di manodopera eccedente utile a fomentare l’economia schiavista del lavoro grigio e nero in agricoltura.
Questa è l’Italia: in Piemonte, Campania, Basilicata, Calabria, Veneto, Puglia le storie si assomigliano, perchè questo è il sistema agroindustriale su cui si fonda lo sfruttamento delle terre e del lavoro voluto dalla UE e dalle organizzazioni padronali. Questo è il capitalismo nelle campagne, la filiera dello sfruttamento, che porta il Made in Italy sugli scaffali del mondo e garantisce i profitti alla GDO.
Le risposte delle istituzioni nazionali e locali sono inadeguate e parziali, per lo più a carico del sistema socio-assistenziale e del terzo settore. Ciò è dovuto ad visione sempre e solo “gestionale”, quando non propriamente “emergenziale”, del movimento dei migranti, ad una riduzione sistematica di queste persone a mera manodopera, da includere “differenzialmente” in un mercato del lavoro segmentato, oppure da escludere temporaneamente in campi o ghetti – dispositivi di regolazione del tempo della mobilità, utili a “decelerare” il flusso di forza-lavoro migrante, in virtù del funzionamento “just-in-time” del capitalismo iperflessibile. A ciò concorrono tutti i gradi dello Stato, dalle politiche migratorie nazionali bi-partisan degli ultimi 25 anni di cui emblematico è il regime di mobilità imposto dalla Bossi-Fini, fino all’atteggiamento discriminatorio dei Comuni che negano a migrant* e rifugiat* la possibilità di iscrizione anagrafica sul proprio territorio.
Il complesso ‘umanitario’ di gestione dei flussi migratori è atto a fornire manodopera a bassissimo costo per il lavoro agricolo, come evidente nel caso del CIE di Palazzo San Gervasio e dei CARA di San Giuliano, di Borgo Mezzanone, nati in distretti in cui è alta la richiesta di mano d’opera e dove i caporali hanno libero accesso per l’approvvigionamento di questa. O, ancora,come ha dimostrato la vicenda della cd. “Emergenza Nordafrica”, laddove i rifugiati sono andati ad ingrossare le fila delle braccia di riserva nelle campagne, fenomeno che non potrà che aumentare con i massicci sbarchi, legati a Mare Nostrum.
A ciò si aggiunge l’assenza di auto-organizzazione sindacale, particolarmente evidente in agricoltura, dove il conflitto è latente perchè i braccianti vivono una condizione lavorativa individualizzata, laddove i sindacati della “concertazione” sono conniventi con il padronato – le cui strategie di sfruttamento/segmentazione/fidelizzazione della manodopera sono pervasive – e con la Grande Distribuzione Organizzata, che si trova al vertice della catena di sfruttamento. L’unica risposta al vincolo padronato agricoloGDO sta nell’auto-organizzazione di lavoratori e disoccupati, migranti e autoctoni, nell’unità dal basso sulle lotte concrete relative a salario, reddito, salute, abitare, contro la distruzione dei diritti del lavoro e la mercificazione della vita nelle nostre campagne.
Pensiamo, infine, che la salvaguardia della terra come i diritti dei lavoratori non possano prescindere dal ritorno ad una AGRICOLTURA CONTADINA, capace di riappropriarsi di terre, tempi e modalità di lavoro lontani dalle logiche capitalistiche.
Lavoro / Auto-organizzazione / Produzione:
Abitare / Spazio-campo / Cura:
La questione bracciantile si pone all’interno della questione contadina e insieme occupazionale di un territorio agricolo depresso e in crisi.
Le tre cose (sfruttamento e lotta del proletariato agricolo, questione contadina e questione occupazionale), dal nostro punto di vista, non sono scindibili e quindi la questione che si pone è: che percorsi possibili mettere in campo per coniugare:
1) recupero dell’agricoltura,
2) ritorno all’agricoltura come alternativa occupazionale all’emigrazione o al supersfruttamento clientelare (per non parlare del “ritorno alla terra” come possibile risposta alla crisi anche in una chiave riappropriativa – vedi appunto terra bene comune…),
3) integrazione multietnica e sedentarizzazione… questa è la prospettiva della contadinizzazione, che in sé non può prescindere dalla questione della riconversione colturale – perché il modo di produzione in agricoltura cambia anche in base a questo, una filiera monocolturale orientata all’esportazione è fisiologicamente dipendente dal mercato, le sue speculazioni e oscillazioni, e, seppure lascia margini ad esperienze di nicchia, in generale trova nella grossa impresa di commercializzazione l’unica realtà in grado di sostenere costi e – appunto – oscillazioni, facendo leva su economie di scala – quantità – da una parte (quindi assetti fondiari latifondistici o controllo della produzione anche quando non in proprietà diretta) e abbassamento dei costi di produzione dall’altra(essenzialmente lavoro, ma anche logistica e trasporti…).
Quindi convertire significa una produzione agricola diversificata, che intanto risponda anche a un’istanza di auto-sussistenza e secondariamente a un mercato locale, con possibilità di filiera sostenibile, raccordata ai mercati esterni ma prima di tutto rivolta ai consumi locali (si pensi alla passata di pomodoro o al pane o alla pasta…), secondo un auspicabile processo virtuoso di distribuzione diffusa del lavoro e del reddito (fare il grano e la pasta e venderla in loco significa che la terra si recupera per coltivarla e ci lavora chi miete e vende, ci lavora il mugnaio, ci lavora il panificatore, il consumatore locale ha un prodotto accessibile e di qualità garantita… ci guadagna il territorio perchè i soldi ricircolano localmente invece di andare fuori… nel caso della pasta idem…).
Resta aperta la questione del rapporto col piccolo commercio:
• è possibile un’alleanza?
• non sarebbe più praticabile una dimensione di spacci autogestiti?
• sono possibili entrambe le cose?
Optare per questa strategia significa non credere che siano possibili margini di avanzamento per la condizione operaia in agricoltura, poiché la fase di sviluppo capitalistico internazionalizzato del settore non consente di mettere in discussione la politica dei bassi prezzi (combinazione di consumo di massa, economia di scala e sfruttamento lungo tutta la filiera su cui si realizzano i margini di profitto). Quindi ogni lotta migliorista, es. contro il lavoro nero, o resterà lettera morta – vedi legge contro il caporalato – o, se efficace, introdurrà degli sviluppi nel modo di produzione orientati a riguadagnare in produttività quanto perso in sfruttamento, quindi più meccanizzazione, più controllo diretto dei fondi, più grandi aziende, meno lavoratori si chiama razionalizzazione capitalistica.
I piccoli scompariranno del tutto e probabilmente lo sfruttamento sarà solo meglio vestito, ma qualitativamente, se non quantitativamente, immutato (si vedano aziende anche considerate modello dell’agroindustria locale che impiegano sistematicamente manodopera inquadrata e retribuita a part time per lavoro full time…). cioé: siccome non siamo in una fase espansiva ma decadente, le prospettive della lotta operaia di necessità non possono essere progressive… al massimo di resistenza. al massimo si può scagliare una migliore sistemazione per le condizioni di vita, che consentirebbe anche una minore ricattabilità e forme meno cruente di sfruttamento come il caporalato (se non hai bisogno di qualcuno che ti trova il lavoro perché il sistema di collocamento funziona, perché è meno dispersa la dinamica d’impiego – non tanti microcontadini che ti prendono per qualche giorno ma poche mediograndi aziende – se c’è una mobilità garantita e meno isolamento residenziale… il caporalato muore o meglio si trasforma nella sua forma legalizzata/edulcorata delle cooperative come ci sono nella logistica).
Ecco perché la lotta deve procedere contemporaneamente sui due fronti:
1. nell’immediato per le condizioni immediate delle masse bracciantili – facendo capire ai territori che questo ha ricadute positive e non negative… perché se queste masse sono meno disagiate tutto il territorio vivrà meno degrado;
2. nel medio e lungo termine per la riappropriazione contadina.
Qui c’è un passaggio politico fondamentale e controverso: la dimensione strategica della lotta bracciantile non è transterritoriale ma territoriale, nelle prospettive della lotta contadinista sul territorio si colloca l’orizzonte strategico a lungo termine della lotta bracciantile.
qui si pone la grossa questione: qual’è il rapporto tra ricomposizione di classe e ricomposizione popolare a base territoriale? qual’è il rapporto tra generale e particolare in quest’ottica? quale la funzione delle reti?
Da quando l’uomo ha deciso di condurre una vita stanziale gli animali hanno sempre avuto un ruolo chiave nel complesso agricolo. Per poterne discutere occorre premettere che l’argomento è complesso e spinoso. Molti hanno scelto di non consumare prodotti animali e carne per ragioni etiche personali o per motivi di sostenibilità ambientale. Ma è anche vero che molti altri hanno scelto di essere consapevoli verso i prodotti animali di cui si nutrono. Nel rispetto delle diversità sensibili di ognuno, la proposta di discussione sull’allevamento tende alla comprensione dei problemi e all’individuazione di soluzioni che possano migliorare la vita di tutti gli esseri umani e animali, nonché dell’ambiente in cui viviamo. E’, quindi, divenuto necessario iniziare un confronto all’interno di Genuino Clandestino sull’argomento.
L’allevamento può essere considerato un tassello fondamentale nel sistema agricolo contadino? Si allevano moltissime specie animali e per gli scopi più diversi, certo è che la mercificazione degli alimenti ha snaturato l’utilità primordiale dell’allevamento, generando comportamenti disumani verso gli animali e l’ambiente. è sempre più evidente che negli allevamenti industriali e spesso anche nei piccoli si consumano le peggiori porcate agricole, dalle stalle con decine di migliaia di capi ammassati in pochi metri quadri, nutriti con pseudo-alimenti come le farine animali e gonfiati con ogni tipo di ormoni e steroidi, alla distruzione di intere aree geografiche per la produzione di foraggio e mangimi; le implicazioni dell’allevamento industriale sono moltissime!
Tanti contadini e allevatori hanno però deciso di sfidare il sistema industriale costruendo aziende agricole a ciclo chiuso all’interno delle quali gli animali sono parte dell’ecosistema, contribuiscono alla rigenerazione delle risorse naturali producendo, allo stesso tempo, sostentamento per i produttori e cibo sano per tutti. Un ostacolo però che si presenta inevitabilmente è costituito dal groviglio di leggi e normative, nonché dalla burocrazia infinita che riguarda ogni tipo di allevamento: dai registri animali alle etichette. le norme sanitarie sulle trasformazioni costringono spesso l’allevatore “responsabile” a lavorare nell’illegalità.