hugo blanco

Scritti da noi

Contributo alla dicussione per l’incontro con Hugo Blanco

24 apr , 2015  

Pubblichiamo un testo d’ approfondimento per la discussione in occasione dell’ incontro con Hugo Blanco

che si terra il 4 Maggio 2015 a P.za Nuccitelli al Pigneto Roma dalle ore 15,30

scritto a più mani dalla  Comune del Crocicchio e da noi di TerraRivolta.

 

Nel corso delle trasformazioni produttive capitalistiche degli ultimi decenni la classica fabbrica fordista supera il perimetro delle sue quattro mura e tracima al di fuori investendo della sua logica l’area esterna ad essa. La fabbrica diviene modello per tutta la società identificando i territori come fattori di produzione.

Le mille forme di vita delle persone, la cooperazione sociale, nonché le mille opportunità e peculiarità ambientali, vengono sussunte nel processo di valorizzazione capitalistico. Il territorio diviene territorio produttivo, luogo della produzione ma esso stesso fatto oggetto di nuove enclosures, recinzioni: lo spazio pubblico viene occupato dalla speculazione privata, saturato dalla logica capitalista, togliendone l’usufrutto alla collettività. Viene distrutta la peculiarità di ogni singolo territorio: le mille differenze culturali, i mille modi diversi di vedere il mondo e le relazioni umane, i mille approcci differenti alla gestione delle risorse naturali, la variegata biodiversità sia culturale che biologica sono omologate e oggettivate come materia prima da trasformare, distruggere e consumare nel ciclo di valorizzazione del capitale. La messa in produzione delle risorse umane e ambientali azzera le peculiarità degli ambiti territoriali, mentali, relazionali, fisici. Le popolazioni, urbane e rurali, che danno vita ai movimenti che contrastano tutto ciò, si oppongono di fatto alla priorità del capitalismo contemporaneo, cioè quella di estrarre profitto dalla privatizzazione e messa in produzione dei territori. Grandi opere a cascata, “riqualificazione” delle città, infrastrutture pervasive, agricoltura intensiva basata sulla chimica, sono alcune delle priorità strategiche su cui investire ed estrarre profitti, nel nostro paese e nel resto del globo, nell’epoca della cosiddetta crisi finanziaria e dell’emergenza ambientale più drammatica di tutti i tempi. Marketing territoriale, capitale sociale, “fabbrica intorno a te”, sono solo alcuni dei suggestivi slogans con cui burattini e burattinai del potere cercano di dare dignità teorica alla volgare ricerca spasmodica di accumulazione, fondata sulla devastazione ambientale e la precarizzazione generalizzata.

Nei nostri territori metropolitani abbiamo conosciuto e conosciamo il fenomeno della gentrificazione, in cui aree urbane una volta ricche di socialità e di relazioni umane e produttive a misura di uomo, donna e bambino, hanno visto l’espulsione verso le estreme periferie della popolazione originaria, lasciando il posto alla speculazione immobiliare, alla valorizzazione e riqualificazione, sotto l’egida delle banche e della speculazione finanziaria. In quegli stessi territori oggi, faticosamente, i movimenti per il diritto all’abitare provano ad invertire la rotta occupando case, opponendosi fisicamente agli sfratti, provando a immaginare un modo diverso di vivere la città, continuamente sotto la scure della repressione. Ma se è la logica della fabbrica che governa oggi i nostri territori, è la sua cifra intrinsecamente autoritaria a dettare i tempi e le modalità. Come conseguenza constatiamo la sempre crescente militarizzazione delle nostre strade e il moltiplicarsi dei mille dispositivi di controllo volti ad assicurare il pacifico svolgersi dei meccanismi di valorizzazione. Nulla deve disturbare il manovratore.

Ma gli anticorpi sociali sono in movimento.

Nei territori oggetto della valorizzazione capitalista abbiamo visto nascere e svilupparsi in questi anni l’autorganizzazione conflittuale delle popolazioni locali. Alcune di queste lotte hanno raggiunto la notorietà nazionale e internazionale, altre, numerosissime, si sono sviluppate localmente con alterne fortune. Altre poi sono nate nella ricerca di nuove forme di vita in opposizione al principio del “produci-consuma-crepa”, dando vita ad una rete di realtà in rapida diffusione virale. Tutte queste esperienze hanno in comune alcune caratteristiche: la sfida dichiarata al meccanismo del profitto, attaccando l’essenza stessa della problematica; la sfida alla politica e all’impresa sul piano della sovranità, ponendo il problema su chi deve decidere cosa, se le aspettative delle popolazioni locali o gli interessi della megamacchina produttiva; l’autonomia, cioè la pratica di percorsi autogestiti e autorganizzati che rifiutano la rappresentanza e la delega.

In questi percorsi la cooperazione sociale, invece di essere messa al lavoro per produrre plusvalore, si dota di pratiche teoriche e materiali che agiscono contro lo sfruttamento dei territori e delle vite, costruendo nel contempo un altro immaginario, altre relazioni sociali, altre relazioni produttive, fino ad ipotizzare e organizzare i primi nuclei di un’altra economia (o la sua abolizione). Nel contempo i movimenti, piccoli o grandi, sviluppano il concetto di comunità territoriale, luoghi della resistenza ma anche del progetto, in cui ci si riconosce per il concreto assaporare in comune le fasi della lotta e insieme la costruzione delle infrastrutture sociali in cui cominciare a vivere fattivamente un’altra vita.

I territori resistenti sono diventati “lo scenario decisivo”, gli spazi da cui le classi subalterne hanno lanciato la più formidabile sfida al sistema capitalista, fino a diventare qualcosa di simile a contropoteri popolari dal basso.

Come dice Zibechi, bisogna affrontare la problematica dei “territori altri”, ossia di quei territori diversi da quelli del capitale e delle multinazionali, che nascono, crescono e si espandono nei molteplici spazi delle società; esperienze che costruiscono modi di vita non plasmati dall’ideologia capitalista. In questi territori resistenti i “los de abajo”, un ampio ed eterogeneo insieme di persone che include tutti coloro che subiscono l’oppressione del sistema capitalistico, resistono ai poteri in molti modi, più o meno organizzati, creando spazi di autonomia.

È in microspazi di vita quotidiana come questi che «los de abajo» esercitano i loro diritti di cittadinanza, maturano dignità e nuove forme di ribellione, raggiungono spesso risultati sorprendenti. Dal Brasile del movimento dei contadini senza terra , che senza aspettare di prendere il potere statale, ha conquistato in meno di trent’anni 22 milioni di ettari. Passando per l’Argentina, dove dal 2001 a oggi si sono invece formate 205 fabbriche recuperate, cioè abbandonate dai padroni, occupate e poi autogestite dai lavoratori. Arrivando all’Italia della Val Susa e dei no alle grandi opere che determina dal basso lo sviluppo e la difesa del territorio.

Pensiamo che oggi il grado di anticapitalismo di un movimento, come dice Zibechi, «non deriva più solo dal ruolo occupato (operaio, contadino…), né dal programma che si enuncia, dalle dichiarazioni o dall’intensità delle mobilitazioni, bensì anche… dal carattere dei legami sociali che si creano».

Gustavo Esteva scrive: «Il recupero dei verbi sembra essere il denominatore comune delle iniziative che si stanno prendendo nella base sociale. La gente sostituisce sostantivi come educazione, salute o alloggio, che sarebbero le “necessità” la cui soddisfazione dipende da enti pubblici o privati, con verbi come apprendere, guarire o abitare. Recupera così rappresentanza personale e collettiva e rende possibili percorsi autonomi di trasformazione sociale. Esplorare quello che sta avvenendo nella sfere della vita quotidiana dove questo avviene mostra il carattere dell’insurrezione in corso».

Una dimensione comune a queste trasformazioni sociali è la scelta di partire dalla sfera della vita quotidiana (il cibo, la mobilità, il bisogno di cultura e di spazi sociali). Ovunque esistono gruppi di persone che diffondono pensiero critico, agiscono sul tessuto sociale ed economico, cercano relazioni di reciprocità. Si prendono cura dell’ambiente e dei saperi, minano i capisaldi delle culture belliciste, razziste e patriarcali, «qui e ora». Gruppi che non inseguono il potere, ma preferiscono mettere in discussione l’ideologia del profitto e la dittatura della crescita, costruendo, tra limiti e contraddizioni, qualcosa di diverso: rinnovare i nostri immaginari. In America latina molti chiamano tutto questo buen vivir. Scrive John Holloway in «Crack capitalism»: «Se la cellula del capitale è la merce, la forma embrionale di una nuova società al di là del capitale è il bene comune».

I gruppi indigeni che praticano il buen vivir credono che un nuovo equilibro e una nuova «grammatica», si raggiungano attraverso quello che chiamano «pachakutik»: è il tempo che viviamo, tanto aperto quanto imprevedibile e incerto.

Per quanto riguarda il territorio specifico che attraversiamo sta assumendo una centralità particolare la relazione tra città e campagna. Le comunità in formazione che agiscono in questo mare di cemento misurandosi con le contraddizioni e provando ad agire il conflitto sociale, sono entrate in relazione solidale con le realtà contadine che rifiutano la logica dell’agrobusiness delle multinazionali e la truffa del cibo, un sacco alternativo, smerciata dalle nuove catene di distribuzione alimentare. La pratica di piazza dei mercati contadini sta iniziando a far parte stabilmente del panorama urbano. Ma, oltre all’innegabile necessità di essere “struttura di servizio” gli uni per gli altri, a noi interessa che entrino in relazione le lotte che ognuno porta avanti nei propri territori. Infatti i contadini non si limitano a produrre cibo fuori dalla logica del capitale ma sono attivi contro i mille attacchi all’equilibrio ambientale, contro la gestione speculativa delle risorse comuni, con cui si confrontano quotidianamente. Così come i movimenti urbani, oltre a fungere da sponda ai produttori agricoli, sono protagonisti di tante vertenze e lotte. Le comunità in lotta, urbane e rurali, devono intensificare le relazioni e trovare momenti forti di condivisione.

Su queste tematiche ci piacerebbe focalizzare la discussione durante l’incontro con Hugo Blanco, protagonista di tante lotte delle comunità indigene e contadine in America Latina.

Racconta Hugo Blanco:

‘Un uomo va al mercato e vede un bancarella colma di patate. Gli piacciono molto. Vuole comprarle tutte. Non chiede nemmeno uno sconto. Offre un buon prezzo. Il contadino lo guarda con qualche incertezza. Poi dice: Non posso, se vendo tutto a te, cosa venderò agli altri?. Il mercato non è una semplice attività commerciale. È una relazione’. Questo è il buen vivir.

Hugo Blanco è da quasi mezzo secolo referenza e simbolo delle straordinarie lotte contadine e indigene nelle Ande peruviane. Nel 1962 insieme ai contadini della valle La Convencion y Lares, stanchi di aspettare la riforma agraria, occupano le terre dei latifondisti. Per questa rivolta, è condannato a morte ma la sua esecuzione viene sospesa grazie alla campagna sostenuta anche da Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Bertrand Russel ed Ernesto Guevara, e trasformata a venticinque anni di carcere. Per quasi tutta la sua vita è costretto a esili forzati (Cile, Argentina, Messico) e al carcere. Oggi appoggia attivamente l’esperienza zapatista, come il CRIC colombiano e le lotte per l’acqua e contro la devastazione ambientale in America Latina. Ha fondato con il suo collettivo un mensile: Lucha Indigena; si batte contro le multinazionali del cibo e quelle minerarie per la difesa delle terre autogestite dalle comunità indigene e contadine.

 

TerraRivolta

La comune del Crocicchio

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