I precari di tutta Italia a Bologna per preparare il loro primo sciopero generale

dal fatto quotidiano

Hanno organizzato gli stati generali er parlare delle esperienze e di come muoversi, anche dal punto di vista legale. “Siamo qui per far sentire la nostra voce. Anche a rischio di perdere il lavoro”

Una riunione che doveva essere informale, ma che alla fine si è trasformata in un’assemblea aperta: così si è aperta la due giorni degli Stati Generali, per organizzare il primo sciopero precario, previsto per il 15 ottobre prossimo.  Al Vag61, in via Paolo Fabbri, a Bologna, ragazzi provenienti un po’ da tutta Italia si sono trovati per discutere di precariato, per raccontarsi le proprie esperienze, come sportelli san precario, risorsa per chi un contratto stabile e sicuro non ce l’ha.

Prima dieci, poi una cinquantina di persone si sono sedute in cerchio, come alle assemblee d’istituto  in una scuola, e hanno parlato a turno di ciò che accade nella loro città e di come cambiare le cose a poco a poco in tutto il Paese. Perché essere precari non è solo una condizione lavorativa, ma è anche uno stato esistenziale spesso rifiutato, che coinvolge tutte le fasce d’età e che tende a isolare gli individui, allontanandoli dalla rete sociale.

Un pomeriggio di workshop e di riflessione in preparazione alla giornata di oggi, la Costituente vera e propria, istituita per organizzare il grande sciopero in tutta Italia.

Molti i temi già discussi. Primo fra tutti la necessità di stabilire una rete solida nel territorio italiano, di creare una sintonia che si traduca in una maggiore efficienza delle iniziative portate avanti. Poi si è parlato di battaglie, di sconfitte e di vittorie, di come la voglia di giustizia di chi è sfruttato si possa trasformare in partecipazione e conflitto, di come, per cambiare le cose, sia necessario denunciare e informare. “Perché l’ignoranza è sempre un’arma che si rivolge contro chi la impugna”.

Il progetto degli Stati Generali è nato nell’ottobre del 2010 e in questi mesi ha subito un’espansione vertiginosa, portando alla nascita di Punti san precario in sempre più città e regioni.

Milano, Roma, Bologna, Genova, Perugia, Caserta, Livorno, Bari. Sono solo alcune delle città rappresentate, solo alcuni dei luoghi dove la rete contro il precariato si è stabilita, fornendo un supporto a tutti coloro che questa condizione la subiscono.

Un supporto legale, pro bono, ma anche politico, una consulenza atta a spiegare al lavoratore quali siano le sue possibilità di rivalsa, quali siano i suoi diritti.

“Spesso” racconta Massimo Laratro, avvocato del punto san precario di Milano, “i giovani sono così abituati all’idea di essere precari, e del lavoro precario in generale, che quando vengono espulsi da una realtà, da un circuito lavorativo, pensano sia normale. Noi spieghiamo loro come muoversi”.

E la popolazione ha risposto a questa iniziativa con grande entusiasmo. Perché la zona grigia che è il precariato esclude spesso da quelle forme di tutela e di supporto che esistono oggi, e a volte c’è un vuoto da riempire che non è solo legale, ma anche politico e sindacale.

“Solo nel 2011, da gennaio a oggi”, racconta l’avvocato Laratro, “abbiamo seguito più di 150 vertenze legali. Ma il lato giuridico è un aspetto marginale di ciò che facciamo. Oggi bisogna dare coraggio ai lavoratori, per uscire dall’isolamento che questa condizione crea. Noi forniamo gli strumenti affinché le persone si organizzino nella loro realtà professionale, ma alla fine sono loro gli attori”.

Ciò che san precario vuole, ciò per cui lotta e scenderà in piazza il 15 ottobre, non è solo la mobilitazione dei precari, ma l’elezione del precariato come tema dominante dello sciopero. Il precariato inteso come male a cui serve una cura, una terapia fatta di un welfare più vicino agli standard europei, del diritto all’insolvibilità in tempo di crisi, di una politica che non sia di austerity, ma di crescita e di una moneta come bene comune, e non riservata alle oligarchie economiche.

“Noi non chiediamo molto”, continua Laratro, “ma senza maggiori risorse i precari continueranno a essere ricattati, e sotto ricatto non potranno rivendicare i loro diritti”.

L’Assemblea Costituente di oggi, a Bologna, sarà aperta a tutti, sindacati, movimenti, associazioni, cittadini. A tutti coloro che vorranno partecipare all’organizzazione dello sciopero precario, che vorranno “promuovere un’ideologia basata sul cambiamento, su una trasformazione che deve avvenire sia dentro sia fuori dalla sfera del lavoro”. Perché, ricordano i ragazzi seduti in riunione, “anche se è difficile per un precario scioperare e far pesare la propria assenza, pur rischiando di perdere il posto, se ci si organizza a rete, se tutti i precari incrociano le braccia, forse qualcosa può cambiare”.

di Annalisa Dall’Oca

Sul sentiero di guerra. Autonomia, indipendenza, territorio

VENERDI’ 7 OTTOBRE 2011 @ LOA Acrobax – via della vasca navale 6

Diretta audio qui

In un mondo che, grazie alla guerra globale permanente e allo Stato d’eccezione fatto norma, si assomiglia sempre di più per gli scenari di conflitto innescati e fomentati ad arte e dall’alto, vogliamo rilanciare un dibattito sulle pratiche comuni di resistenza e autogoverno, ignorando le frontiere che ci hanno imposto.

Vogliamo chiederci se la Val di Susa è poi così distante dalla Selva Lacandona del Chiapas; se il moltiplicarsi dei comitati dei NO risponde a un’esigenza così diversa dall’autorganizzazione indigena contro i mega-progetti imposti dal FMI; se un’assemblea di valligiani o quella di uno spazio occupato hanno una dinamica diversa da quella di un villaggio maya; se le lavoratrici sessuali sui marciapiedi delle metropoli, i migranti sui tetti dei treni o sui barconi e i contadini curvi su campi deserti sono un’altra faccia di una precarizzazione globale.

Vogliamo interrogarci sulle pratiche di liberazione e resistenza in quei territori minacciati qui da un TAV o da una discarica, li’ da una diga o un’autostrada, ma ovunque uniti da un nemico devastante, il capitalismo, e da un’energia comune, la ribellione della gente.

Gli zapatisti ci ricordano che la quarta guerra mondiale è esplosa: il neoliberismo contro l’umanità, quella che custodiamo difendendo i territori, ossia la vita. Emergiamo da tante battaglie che vogliamo mettere a confronto, certi che alcuni sentieri sono gli stessi o sono percorribili a braccietto anche a migliaia di chilometri di distanza.

Il collettivo Nodo Solidale, il LOA Acrobax, con la partecipazione di alcun* compagn* del NOTAV e di Terzigno (o di Acqua Bene Comune) invitano a un dibattito su:

Autonomia, Indipendenza, Territorio: pratiche di lotta e di autogoverno a confronto.

 

A seguire:

 

Presentazione del video “Tessendo Autonomia – progetti in Messico 1.0”

Uno sguardo sul Messico che lotta, raccontato attraverso i progetti della PIRATA. Scorrono le immagini e le parole delle comunità indigene di Oaxaca, dello zapatismo, delle lavoratrici sessuali autorganizzate di Città del Messico. Pezzi di autonomia reale.

Presentazione del libretto “L’Altra Campagna e la lotta di classe delle lavoratrici sessuali in Messico”

L’analisi di fase e le prospettive rivoluzionarie di un collettivo di promotrici di salute e di lavoratrici sessuali, la Brigata di Strada, che si considerano come parte attiva della classe operaia messicana. Un approfondimento politico sulle influenze dello zapatismo nella metropoli e sul superamento della dicotomia “legalizzare o abolire” la prostituzione, a favore dell’autodeterminazione delle lavoratrici sessuali. Tradotto e curato dalla PIRATA

*La PIRATA è la Piattaforma Internazionalista per la Resistenza e l’Autogestione Tessendo Autonomia. E’ una rete di solidarietà dal basso, antifascista, autogestita e non sovvenzionata da istituzioni governative o dai partiti. E’ una cooperazione politica internazionalista creatasi con tre gruppi libertari che, fra altre attività, sono parte attiva nei processi di liberazione in Messico: il collettivo Nodo Solidale, il Collettivo Zapatista di Lugano “Marisol”, il gruppo Nomads dell’Xm24.

Que se vayan todos! *15 Ottobre giornata globale contro l’austerity: Dal diritto all’insolvenza allo sciopero precario

Siamo giunti al 15 ottobre con un importante lancio, a carattere europeo, della mobilitazione contro l’austerity e le politiche neoliberiste, assunte come strategiche dalla Commissione europea e dalla BCE peraltro responsabili dell’ultimo pesante ciclo della crisi globale e finanziaria che le banche e le grandi lobby hanno scatenato contro la cittadinanza tutta.

Dal 15 al 18 Settembre abbiamo attraversato l’hub meeting di Barcellona con le reti e le soggettività che hanno scelto in questa fase storica di riconoscersi in uno spazio politico comune che un po’ ovunque è andato costituendosi tra le rivolte che hanno segnato gran parte dell’ area mediterrane e europea, fino ad arrivare a scalfire la nostra Italietta. Dalla fiammata vista nello scorso autunno studentesco culminato nel tumulto del 14 Dicembre fino alla più solida resistenza Notav, radicata e sedimentata sul territorio dentro uno scontro politico condotto con grande intelligenza e radicalità.

Nel procedere sul nuovo terreno di un vero protagonismo sociale contro le politiche di austerity vorremmo per il prossimo 15 Ottobre indicare un percorso, uno spazio di relazione e di movimento, un area di corteo larga e ampia che determini una rottura del quadro di compatibilità e di pacificazione sociale imposto dalla governance, anche oltre il governo Berlusconi: per la conquista di un piano costituente che rivendichi con orgoglio l’autonomia e l’indipendenza delle forme di vita comuni, nel lavoro e  con il reddito oltre il lavoro, nelle scelte sociali e sessuali, che praticano liberazione da un intero sistema di potere in crisi.

Dovremo costruire questo percorso verso e oltre il 15 per affermare in quella giornata, e nelle giornate precedenti,  nelle pratiche e nella comunicazione il punto di vista precario.
Il lavoro non è un bene comune perché ce lo hanno reso maledetto azzerandone i diritti e negandoci ogni libertà di scelta. Per questo è necessario conquistare un reddito di base incondizionato, non pagare il debito, riappropriarsi dei beni comuni e dei saperi, affermare la dimensione transnazionale di questa lotta anche a partire dalle lotte dei migranti per la rottura del legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno.

Siamo sempre più consapevoli che la reale alternativa alla crisi vive nei processi di indipendenza e cooperazione che sapremo creare nelle lotte.

“Non ci rappresenta nessuno” è il  motiv centrale della nuova sinfonia corale che si alza dalla sintesi dei ragionamenti, delle strategie e delle pratiche condivise tra tanta umanità riunitasi a Barcellona, come oggi a Bologna.
Lo spazio costituente che si vuole definire oggi  è quello che guarda, in una prospettiva di medio lungo periodo, alla costruzione, l’affinamento e la diffusione delle lotte contro la precarietà imposta dall’attuale modello di governo del capitale contro le nostre vite.
Una tappa fondamentale di questo percorso è la costruzione della giornata del 15 ottobre.
Ecco perché proponiamo di caratterizzare quella giornata e la nostra presenza alle mobilitazioni costruendo uno spazio sociale e di movimento che reclami il diritto all’insolvenza, al reddito e alla libertà di movimento per tutti i soggetti che stanno pagando la crisi.

Partendo da questi contenuti, il 15 ottobre faremo valere il protagonismo dei precari e delle precarie e rilanceremo oltre il 15, guardando alla scommessa dello sciopero precario.
Per questo a dicembre sperimenteremo esperienze di sciopero dentro e contro la precarietà, un processo che sappia mettere in campo una comunicazione e una cooperazione tra i precarie e le precarie a partire dalla crisi della rappresentanza politica e sindacale, uno sciopero che arrivi a colpire laddove fa più male, dove si fanno i profitti, dove si produce e riproduce il capitale.

Verso lo sciopero precario, il 15 ottobre vogliamo costruire uno spazio di attraversamento per tutte le generazioni precarie che trasformi l’indignazione in conflitto.
Una rete che realizzi iniziative comuni di avvicinamento dal 7 al 14 ottobre come promosso dall’Hub-meeting  di Barcellona, all’interno della settimana di mobilitazione europea contro l’austerity.
Questa messa in rete è la modalità che scegliamo per l’interconnessione delle nostre esperienze: capace di includere i singoli come i collettivi, di intrecciarsi con altre reti e percorsi, di ridurre le distanze e la frammentazione, di far viaggiare i contenuti e le pratiche riproducibili dentro e fuori i confini dello stato –nazione, dentro e oltre quella giornata.

Stati generali della precarietà
www.scioperoprecario.org

Dispositivi per l’Indipendenza!

Con l’incontro del prossimo 28 Settembre vogliamo aprire un nuovo spazio di lavoro politico per l’indipendenza all’interno del percorso che ci porterà a costruire il 15 Ottobre con una grande manifestazione contro l’austerity. Proponiamo un momento di confronto e di approfondimento con un workshop di riflessione teorica sulla crisi del neoliberismo e sul debito sovrano, con un duplice intento, quello di misurare per un verso le soggettività e le reti sociali indipendenti, le intelligenze di movimento, intorno alla riflessione teorica sulla crisi finanziaria, sul biopotere dei mercati, sul debito e il possibile default e dall’altro lato individuare da subito il moover politico e sociale della trasformazione, sul piano immediato e diretto – immanente si potrebbe dire – dell’iniziativa di movimento e quindi anche delle proposte che ne scaturiscono come appunto quella al diritto all’insolvenza. Poter quindi legare allo sforzo teorico, sempre e di pari passo, un dibattito vero e aperto sulle pratiche e i conflitti. Ma, per rendere questo processo un fiume in piena e non una fusione a freddo, dobbiamo oggi più che mai sul crinale della storia segnata dalla crisi sistemica del capitalismo, immaginare e costruire un nuovo processo costituente per un’alternativa vera, dinamica e radicale. Vorremmo insieme poter cogliere il valore di questa specifica iniziativa nella prospettiva di costruire e sedimentare indipendenza e autonomia anche attraverso ulteriori momenti di dibattito e di confronto. Individuare le giuste traiettorie per costruire un laboratorio politico denso di nuovi legami. Relazioni, amicizie politiche, nuove intese nella condivisione non solo degli strumenti e dell’elaborazione teorica ma anche e soprattutto dentro un collettivo orientarsi nella produzione di movimento, alterità, forme di vita indipendenti. Sarà nostra cura nelle prossime settimane e nei prossimi mesi lavorare per costruire una grande manifestazione contro l’austerity il prossimo 15 Ottobre insieme a tutti coloro che vorranno cimentarsi con il conflitto sociale e praticare le nuove forme dello sciopero dentro e contro la precarietà, consapevoli che buona parte delle cose sono ancora tutte da costruire. Lo vogliamo fare insieme alle nostre compagne e compagni, fratelli e sorelle che si sentono parte di una comunità libera, aperta, ribelle e indipendente.

Mercoledì 28 h 18 Laboratorio Acrobax

Relatore Andrea Fumagalli – Prof. di economia politica all’Università di Pavia

Sono invitati ad intervenire: Collettivo Militant, Redazione Utopia, Comitato romano x l’acqua pubblica, Bin-Italia.

*si potrà seguire in streaming su www.indipendenti.eu

Da piazza pulita a Que se vayan todos!

Il punto di vista precario interviene nella trasmissione piazza pulita La 7.

Restiamo umani blocchiamo questo paese!

15 ottobre contro l’austerity prima tappa verso lo sciopero precario!

Costruiamo la prima dichiarazione d’indipendenza dei precari.

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Breve storiella del debito pubblico

dal blog della militant…

Come sappiamo già da mesi, alcuni paesi europei sono stati privati del loro potere politico di indirizzo economico, e sostituiti da strutture europee economico-finanziarie quali la Banca Centrale Europea, il famigerato Fondo Salva Stati (variante europea del Fondo Monetario Internazionale), nonché dalla stessa Unione Europea e dalla Banca Centrale Tedesca. Di fatto, parlare di commissariamento è fin troppo poco: quello che stanno vivendo i paesi più indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel corso dell’ottocento e del novecento, decine di paesi del secondo e terzo mondo, con l’FMI al posto del Fondo Salva Stati, la Banca mondiale al posto di quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione Europea. Tutti paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le politiche economico-sociali. La storiella del debito, dunque, è abbastanza vecchia da poter essere presa a modello per capire cosa accadrà in Italia, ricordando anche cosa successe a qualche paese invaso dalle stesse cure che toccheranno a noi. Prima di tutto, è stato preparato a dovere il terreno culturale su cui poi andare a intervenire. Si sono create le condizioni psicologiche che hanno portato la gente ad avere una fottuta paura del debito pubblico, così da vedere il ridimensionamento dello stesso come condizione imprescindibile per andare avanti. La storia è più o meno questa: i mercati, che sono formati dalla massa di cittadini-risparmiatori che investono i propri risparmi nelle banche comprando obbligazioni o azioni delle società quotate in borsa, stanno portando un attacco speculativo verso i paesi indebitati vendendo le azioni o le obbligazioni di questi paesi, intimoriti dalla possibile insolvenza di questi paesi. Questi mercati, dunque, non sono altro che una sorta di opinione pubblica mondiale sui fatti economici, per cui se decidono di vendere determinate azioni o obbligazioni è perché non si fidano più della stabilità (=solvibilità) di ciò che hanno in portafoglio. Questa opinione pubblica è spaventata dall’enorme massa di debito di alcuni grandi paesi europei, dunque questo crollo di fiducia determina una fuga di capitali dai paesi indebitati. Quindi il vero motivo di questa sfiducia collettiva è, in fin dei conti, il debito pubblico. Cosa avrebbe prodotto questo debito pubblico? Il debito pubblico sarebbe il risultato di anni di gestione scellerata e spendacciona di questi stati, che nel corso del tempo avrebbero accumulato un debito nel confronti dei loro cittadini in virtù delle proprie politiche di sperpero di denaro pubblico, di salari troppo elevati, di pensioni troppo alte, di servizi pubblici garantiti e così via. Insomma, la soluzione dovrebbe essere quella di rientrare di questo debito riformando l’economia, abbattendo pezzi di stato sociale ormai non più proponibili perché sarebbe finito il tempo delle “vacche grasse”, in cui un po’ tutti abbiamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”, mentre sarebbe giunta l’ora di “tirare la cinghia”. E’ ora di liberare l’economia dai lacci e laccioli che la imbrigliano, diminuendo la spesa statale, abbassando le tasse e così via, per far risalire finalmente la fiducia degli investitori internazionali nei nostri confronti così da generare di nuovo profitti e crescita economica. Torna, vero? Questa, in linea di massima, la visione politica odierna di ciò che sta succedendo in Italia e nei paesi maggiormente indebitati. Bene, tutto questo è falso. Anzitutto, i mercati. Nei mercati finanziari non investono i cittadini, i risparmiatori, i contribuenti o come sono stati definiti nel corso di questi anni coloro che detengono azioni in borsa. Nei mercati finanziari agiscono le società di intermediazione mobiliare, le istituzioni finanziarie e monetarie, i fondi pensione e i fondi d’investimento, le banche, le assicurazioni. Ciò non vuol dire che sia vietato ai cittadini di poter investire in borsa, e sicuramente ci saranno molti “privati” che decidono di impegnare il gruzzoletto risparmiato in azioni. Però gli attori dei mercati borsistici sono altri, sono coloro che possiedono i capitali, quelli veri, e che muovono stock di azioni che niente hanno a che vedere con quelle che potrebbe spostare il singolo risparmiatore. Dunque, nei mercati non è riflessa alcuna opinione pubblica mondiale, o europea. Questi stessi attori protagonisti nelle borse sono gli stessi che nel corso degli anni hanno prodotto la gran parte del debito pubblico italiano. Riflettiamoci un istante con un semplice esempio: poniamo che un ipotetico fondo pensione statunitense possieda, mettiamo, 50 milioni di euro in azioni a Piazza Affari, e realizzando una manovra speculativa decida di venderli. Questa vendita (sommata ad altre vendite) produrrà un abbassamento del valore della borsa italiana di un qualche punto percentuale, che si rifletterà in campo economico in una perdita di fiducia delle istituzioni finanziarie verso la nostra struttura finanziaria, andando così ad aumentare le percentuali di rischio di solvibilità del nostro paese, che quindi andranno ad aumentare il tasso d’interesse che servirà a comprare i nostri titoli del tesoro. Un aumento del tasso d’interesse significa che per acquistare i nostri titoli dovremmo offrire più soldi, per trovare mercato, e così facendo saremmo costretti ad indebitarci di più. Ecco come, in questo semplice quanto evidente esempio, il nostro debito pubblico sarebbe aumentato senza che sia avvenuto alcun tipo di movimento nell’economia reale, nessun aumento di spesa pubblica, nessun abbassamento delle tasse o aumento delle pensioni. Questo è esattamente ciò che sta accadendo all’economia finanziaria italiana per quanto riguarda il debito pubblico, che ricorda vagamente ciò che è accaduto nel corso della storia per le economie dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa che hanno assaggiato la cura dell’FMI. Enormi manovre speculative ai danni delle economie dei paesi emergenti, che aumentava a dismisura il loro debito pubblico – detenuto dagli investitori esteri – e che costringeva, con l’acqua alla gola, queste economie all’abbraccio mortale delle istituzioni finanziarie internazionali guidate da Washington. Perché tutto questo sta avvenendo in Italia in questi anni e non è avvenuto prima? Perché fino all’inizio degli anni novanta il debito pubblico italiano era detenuto da strutture finanziarie italiane (banche e assicurazioni), era un debito interno, detenuto quasi esclusivamente da attori italiani che non avevano alcun interesse a far crollare la fiducia di un mercato nel quale detenevano la stragrande maggioranza di azioni e in cui avevano il loro territorio economico d’appartenenza. Con la crescente finanziarizzazione dei mercati, con il progressivo abbattimento di ogni frontiera per lo spostamento dei capitali, per la cavalcata trionfale della deregulation finanziaria, i mercati azionari italiani si sono sempre più fusi con quelli internazionali. Oggi la quota di debito pubblico detenuta da investitori internazionali è del 52,4%, a fronte del 5,59% del 1991 (dati Bankitalia). Questi investitori internazionali hanno, al contrario di quelli nazionali, tutto l’interesse alle manovre speculative nei confronti di un qualsiasi stato. Non solo perché non rischiano nulla, potendo spostare i propri capitali da una parte all’altra del mondo nel giro di un click col mouse, ma soprattutto perché un aumento del rischio d’insolvenza fa salire i tassi d’interesse per collocare i nostri titoli pubblici sul mercato. Si stabilisce un circolo vizioso per cui più uno stato è a rischio fallimento e più genera profitti per gli investitori internazionali, generando ulteriore debito e dunque aumentando il rischio fallimento. Chi detiene dunque il nostro debito pubblico? Secondo i vari organi di propaganda neoliberista, il debito pubblico dovrebbe essere la quota che ognuno di noi rischia di perdere se lo stato fallisse, i soldi che lo stato ci dovrebbe dare e che non è in grado di onerare (sempre perché è vissuto al di sopra delle sue possibilità e altre mega bufale del genere). Al momento in cui scriviamo, ogni italiano dovrebbe avere una quota di 33.000 euro sul proprio groppone. Anche questo è falso. Il debito pubblico italiano è detenuto per il 52% da quelle istituzioni finanziarie estere di cui sopra (fondi speculativi, banche, assicurazioni, società di intermediazione e così via); per il 32% da banche e istituzioni finanziarie italiane; dal 4% dalla Banca d’Italia e solo per l’11% dalle famiglie e da altre società non finanziarie. Insomma, circa l’85% del nostro debito pubblico è detenuto dalle banche, italiane o estere. Se noi dovessimo finalmente fallire, chi perderà i propri “risparmi” saranno proprio quelle istituzioni finanziarie che hanno contribuito ad esacerbare questa crisi, che ci stanno speculando sopra anche oggi, e che stanno costringendo, tramite la longa manus delle tecnostrutture europee, alle riforme economiche che invece andranno ad incidere, queste si in maniera indelebile, sulla vita delle famiglie italiane. Ovviamente, delle famiglie più povere, visto il carattere squisitamente di classe della manovra economica appena approvata e dettata da Bruxelles. Capito perché non possiamo fallire? Perché fallirebbero le banche e i fondi europei che nel frattempo stanno giocando in borsa col nostro debito pubblico, sicure del fatto che, al momento del bisogno, sarà l’economia reale dei lavoratori in carne ed ossa a ripagare i debiti che vengono prodotti ad ogni movimento speculativo. Questo giochetto, e cioè utilizzare il grimaldello del debito pubblico, gonfiato ad arte dalla finanza internazionale, per poter riformare in senso neoliberista l’economia degli stati, è stato usato nel corso degli anni, come abbiamo detto, proprio nei confronti di quei paesi che avevano bisogno di un “aggiustatina” economica, o che risiedevano su territori appetibili economicamente, o possedevano una vasta mano d’opera a basso costo desiderosa di farsi sfruttare. E non solo in Argentina o in Cile, in Corea del Sud o in Messico come in Brasile o in Bolivia, ma anche in quei paesi del “primo” mondo che avevano bisogno di una svolta liberista, come l’Inghilterra della Thatcher o gli Stati Uniti di Reagan. Questi episodi storici di introduzione forzata di misure neoliberiste sono partiti tutti dall’assunto di un debito pubblico troppo elevato, di una riforma dell’economia per ridimensionarlo e dell’impossibilità di andare avanti in questo modo. Proprio grazie a questo, e alla battaglia culturale (stravinta) sulla necessità di avere un debito in ordine per marciare verso il progresso e il benessere, è stato possibile la vittoria schiacciante del neoliberismo in molti stati. Oggi è il turno dell’Italia, della Grecia, della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda. Sebbene paesi capitalisti e liberisti, hanno ancora uno strato socio-economico basato sulla presenza dello Stato nell’economia, hanno ancora un potenziale non indifferente di profitto per la finanza speculativa mondiale. E’ per questo che o usciamo dalla logica del debito, decidendo di non pagare i nostri debiti agli speculatori internazionali, oppure saremo costretti nell’abbraccio mortale di una nuova spinta neoliberista che devasterà ulteriormente il nostro paese. E’ una riflessione un po’ retorica, ovviamente, visto che sappiamo bene di che pasta sono fatte le nostre “sinistre” e quali sono le loro visioni del mondo per quanto riguarda l’economia e il rapporto con l’Europa. Ma sono riflessioni che dovremmo fare nostre in vista del 15 Ottobre, quando l’opposizione a questa crisi creata dal capitale manifesterà per le strade di tutta Europa. Ci vediamo nella lotta. Riferimenti interattivi e bibliografici: – Girolamo De Michele su debito, manovra finanziaria e speculazione internazionale http://www.carmillaonline.com/archives/2011/08/003994.html#003994 – Andrea Fumagalli su Uninomade http://uninomade.org/la-farsa-dellemergenza-economica-parte-ii/ – Chi ha in mano il nostro debito? http://www.linkiesta.it/chi-detiene-debito-pubblico-italiano- – Rapporto della Banca D’Italia dove, se si ha la pazienza di andarselo a spulciare, si scoprirebbero cose interessanti http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp – “Breve storia del neoliberismo”, di David Harvey, 2005, edizioni Il Saggiatore

http://www.militant-blog.org/?p=5498#more-5498

Dichiarazione dell’Hub Meeting15S di Barcellona, verso il 15Ottobre a Roma

Dichiarazione del Hub Meeting partecipanti 15S

Noi, reti e persone che hanno partecipato al Meeting 15SHub, riunione svoltasi a Barcellona tra il 15 e il 18 settembre, dichiariamo che

– Rifiutiamo il concetto di austerità per affrontare l’attuale crisi e risolverla, in quanto tale approccio presuppone una gestione autoritaria
 e antidemocratica dei beni comuni.

– Denunciamo le politiche di austerità che si traducono in un aumento della diseguaglianza e in un attacco frontale ai fondamenti del welfare e dei diritti conquistati in anni di dure lotte sociali dei movimenti.

– Sottolineamo come, allo stesso tempo, queste politiche di austerità favoriscano interessi economico-finanziari privati, quegli stessi interessi che sono alla base del modello di sviluppo e che ci hanno condotto all’attuale crisi.

Quella che stiamo osservando non è solo una crisi economica, ma  anche e soprattutto una crisi politica. E’ l’apice del processo di disgregazione del patto sociale europeo e rivela impietosamente l’assoluta incapacità
dell’attuale sistema politico di gestire decentemente il bene comune.

A fronte della condizione di precarietà materiale ed esistenziale sempre più diffusa, reclamiamo un processo di democratizzazione radicale della gestione economica e politica in Europa, che consenta la costruzione di un nuovo modello di welfare che poggi su due pilastri:
l’introduzione di un reddito di esistenza, incondizionato, e l’accesso effettivo e libero ai diritti e ai beni comuni
(sanità, istruzione, casa, ambiente, conoscenza).

Per conseguire questi obiettivi, è essenziale un nuovo modello di politica fiscale europea e un nuovo approccio alla questione del debito. Condizione necessaria ma non sufficiente perché ciò possa realizzarsi è l’introduzione di un nuovo insieme di diritti sociali, tra i quali è prioritario il diritto al fallimento per gli individui.

Salviamo le persone, non le banche.
Consideriamo inoltre necessario garantire l’accesso libero alle reti di comunicazione e la neutralità di queste stesse reti, alla conoscenza e all’istruzione e ci opponiamo a qualsiasi processo di privatizzazione e mercificazione del sapere.

In un quadro in cui precarizzazione e disoccupazione continuano a crescere incontrollate, la condizione migrante è l’esempio più eclatante della distruzione dei diritti del lavoratore e dello svilimento delle condizioni di lavoro.
Consideriamo ciò che sta accadendo nel campo lavoro migrante uno scellerato laboratorio di quel che si intende applicare a tutta la classe lavoratrice in un futuro prossimo. Rivendichiamo con forza e urgenza la necessità di svincolare la fruizione da parte dei migranti dei diritti sociali, politici e di cittadinanza dal contratto di lavoro. Al tempo stesso, riteniamo che l’accesso a tali diritti debba essere garantito anche i familiari dei migranti che lavorano in
Europa. Siamo tutti migranti, nessun essere umano può essere illegale!

Dobbiamo trasformare gli attuali modelli di democrazia e riappropriarci della politica, con la partecipazione diretta a tutti gli aspetti della vita sociale, politica ed economica. L’attuale modello di democrazia rappresentativa è evidentemente superato. Non c’è nessuno che ci rappresenti!

Per tutti questi motivi, convochiamo la cittadinanza per il prossimo 15 Ottobre affinché possa esprimere con forza il rifiuto di questa strategia di uscita dalla crisi e rivendicare una democrazia che sia reale.

Non abbiamo più nulla da perdere ma tutto da guadagnare!

15SHM Statement

18 Sep

Declaración de los participantes del 15S Hub Meeting

Nostras, las redes y personas participantes en el encuentro 15SHub Meeting que tuvo lugar en Barcelona entre los días 15 y 18 de septiembre

Rechazamos el concepto de austeridad para explicar la actual situación de crisis y afrontar su solución ya que supone una gestión autoritaria y antidemocrática de la riqueza común.         

Denunciamos que las políticas de  austeridad producen  un incremento de  las desigualdades y un ataque  frontal contra los pilares del Estado del Bienestar europeos y los derechos sociales que éste ha garantizado como resultado de las múltiples luchas sociales.

Al mismo tiempo, estas políticas de austeridad favorecen los intereses económico-financieros   privados responsables del modelo de desarrollo económico que ha provocado la actual crisis.

Ésta no es tan sólo una crisis económica sino sobre todo una crisis política. Es la culminación de la ruptura del pacto social europeo. Además pone en evidencia el agotamiento del sistema de partidos políticos en la gestión del bien común.

Ante la precariedad material y existencial, reclamamos la democratización de la economía  y de la gobernanza europea que permita la construcción de un nuevo modelo de bienestar social fundado en dos aspectos: la provisión de una renta básica incondicional y el acceso efectivo y libre a los derechos sociales y los bienes comunes (sanidad, educación, vivienda, medioambiente, conocimiento ..)

Para la consecución de este modelo se hace necesaria una política fiscal, presupuestaria y social europea así como la auditoría de la deuda. Condición necesaria pero no suficiente para ello es el reconocimiento de un nuevo catálogo de derechos sociales, entre los cuales se revela prioritario el derecho a la quiebra de las personas: rescatemos a las personas no a los bancos.

También consideramos necesario garantizar la neutralidad y el libre acceso  a la red, al conocimiento y la educación contra las dinámicas privatizadoras y mercantilizadoras del saber.

En una situación de precariedad y desempleo creciente, la condición migrante es el más claro ejemplo de la privación de los derechos laborales y de la desvalorización de la actividad productiva. La condición del trabajo migrante es el modelo que pretende ser impuesto al conjunto de la población trabajadora. Reivindicamos la desvinculación de los derechos sociales, políticos y de ciudadanía del contrato de trabajo. Así mismo reivindicamos la concesión de los mismos al conjunto de los migrantes residentes en los países europeos. Todos somos migrantes y nadie es ilegal.

Debemos  transformar los modelos de democracia y reapropiarnos de la política a  partir de la participación directa en todos los ámbitos de la vida  social, política y económica.  El actual modelo de democracia representativa está agotado: nadie nos representa.

Por estos motivos convocamos a la ciudadanía el próximo 15 de Octubre para que exprese su rechazo a las políticas de salida de la crisis y reivindique de una verdadera democracia.

 

Nada que perder, todo por ganar

http://bcnhubmeeting.wordpress.com/

 

LIBERI TUTTI, LIBERE SUBITO!

Ancora una volta il tribunale di Torino, si pronuncia contro la libertà di chi manifesta per difendere la Valle dallo scempio del treno ad alta velocità.
Lo ha fatto durante l’udienza del tribunale delle libertà che la scorsa settimana ha discusso della liberazione dagli arresti domiciliari del nostro compagno Giorgione.
La corte ha atteso 3 giorni per pronunciarsi e  negandogli infine la libertà. Giorgione dunque si trova ancora agli arresti domiciliari.
Tutto questo solo per aver partecipato alle iniziative contro il cantiere dello scorso 24 agosto. Tutto questo solo per aver portato, come altre migliaia di persone in questi mesi e anni, la sua solidarietà alla popolazione della Val di Susa.
Ancora una volta,  l’unica risposta che arriva alle popolazioni in lotta per la difesa dei territori, da parte dello stato è la repressione.
Denunciando ciò mandiamo anche la nostra solidarietà a Nina e Marianna che dopo la mobilitazione dello scorso 9 settembre si trovano ancora in stato di arresto presso il carcere delle Vallette.
Inoltre rifiutiamo con forza le dichiarazioni di quei politicanti che da mesi definiscono le mobilitazioni contro il tav come iniziative di assassini contro la democrazia,  offendendo e minimizzando così una lotta che dura da anni, una resistenza popolare  contro le nocività, volta a difendere i propri territori e i propri  spazi come beni comuni per tutt@.

Ancora una volta, sempre con rabbia e con amore
solidarietà alla lotta no tav solidarietà alle compagne arrestate

*Nina  Marianna  e Giogione liberi subito!
 
Laboratorio Acrobax Project – Coordinameto cittadino di lotta x la casa – Roma

 

Nina e Marianna libere subito!

Dopo il presidio di lunedì a Torino diventato poi corteo che ha percorso il centro cittadino, anche la Val di Susa vuole scendere in piazza per chiedere l’immediata liberazione di Nina e Marianna.
Con il comunicato delle donne No Tav del movimento riunitesi nel Coordinamento dei Comitati martedì scorso, ecco un’altra iniziativa per stringerci attorno a loro e per testimoniare come la Val di Susa non si lascia intimidire e, addirittura, rilancia.

Tra pochi giorni il tribunale delle libertà deciderà se scarcerarle oppure no, noi le vogliamo libere…subito!

Lunedì tutti in strada per una fiaccolata che partirà alle 20,30 dalla stazione di Chiomonte.
Nina e Marianna non sono sole!
Giù la mani dalla Val Susa!

Appello per la libertà di Nina e Marianna.

Le donne sono l’anello forte e dolce del Movimento NO TAV; quando entrano nelle lotte, lo fanno perché sentono in pericolo le radici stesse della vita, il diritto al futuro.

Nina e Marianna sono donne del movimento NO TAV.

Nina è un’operaia, madre di tre figli, impegnata nel sociale, volontaria del 118. Marianna è una ragazza ventenne, una dei tanti giovani che si sono avvicinati alla lotta NO TAV per generosità, senso di responsabilità e speranza.

Venerdì sera erano con noi, alla Maddalena di Chiomonte, lungo le recinzioni del fortino dove stanno asserragliate le “forze del disordine” a difendere un cantiere che non c’è e grandi sporchi interessi che invece sono ben presenti e mettono a repentaglio il futuro sociale, ambientale, economico non solo del territorio Valsusino, ma dell’intera collettività.

Andammo alle reti in tanti, almeno un migliaio di uomini e donne di tutte le età; fummo immediatamente accolti dal lancio fitto di lacrimogeni, sparati ad altezza d’uomo per intossicare e ferire meglio. L’aria si fece presto irrespirabile, una nebbia fitta e velenosa contro cui poco potevano i fazzoletti inzuppati di Malox e le maschere antigas. In questi casi il respiro si inceppa, le gambe diventano pesanti, occhi e polmoni in fiamme.

Quando gli uomini in armi uscirono dai cancelli per caricare la folla che resisteva ai lacrimogeni, non tutti riuscirono a mettersi in salvo; questa volta le prede furono due donne: Marianna e Nina, intervenuta con lo zaino del pronto soccorso a prestare la prima assistenza ad un ferito.

Nina e Marianna ora sono in carcere, alle Vallette: il loro arresto è stato convalidato ieri, nonostante fossero incensurate.

Come Nina e Marianna, altri giovani sono stati in precedenza arrestati, incarcerati, cacciati col foglio di via o accompagnati agli arresti domiciliari.

In un Paese nel quale sono ormai saltate tutte le garanzie democratiche e costituzionali, dove la militarizzazione dei territori e lo stato di polizia costituiscono lo strumento repressivo di quel partito trasversale degli affari che siede in Parlamento e nelle istituzioni, la generosità, la solidarietà, la difesa dei più deboli , la sete di giustizia e umanità diventano un crimine da punire col carcere. Di questo crimine sono colpevoli, come tutti noi, Nina e Marianna.

Ma il popolo NO TAV non arretra, la lotta non si arresta, la resistenza continua e si allarga ovunque ci sono ingiustizia e repressione.

A Nina e Marianna giunga il nostro abbraccio affettuoso, forte e solidale: le vogliamo libere subito!

Libertà e giustizia per tutti i compagni arrestati ed inquisiti.

 

Il Movimento NO TAV

da www.infoaut.org

La minaccia dell’articolo 8

di Luciano Gallino, la Repubblica, 15 settembre 2011

I commenti all’articolo 8 del decreto sulla manovra finanziaria hanno insistito per lo più sul rischio che esso faciliti i licenziamenti, rendendo di fatto inefficace l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori allorché si realizzino “specifiche intese” tra sindacati e azienda. È stato sicuramente utile richiamare l’attenzione prima di tutto su tale rischio, di importanza cruciale per i lavoratori.

Tuttavia un’attenzione non minore dovrebbe essere rivolta ad altre parti dell’articolo 8 che lasciano intravvedere un grave peggioramento delle condizioni di lavoro di chiunque abbia o voglia avere un’occupazione alle dipendenze di un’azienda.

Vediamo dunque che cosa potrebbe succedere ad un lavoratore (o lavoratrice) che già è occupato in un’azienda, oppure stia trattando la propria assunzione, laddove associazioni dei lavoratori rappresentative sul piano nazionale o territoriale abbiano sottoscritto con quell’azienda le “specifiche intese” previste dall’articolo 8. Sappia in primo luogo l’interessato che – se ci sono state delle intese in merito – ogni suo movimento sul lavoro sarà controllato istante per istante da un impianto audiovisivo. L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori lo vieterebbe, ma l’articolo 8 del decreto permette di derogarvi. Gradirebbe forse, quel lavoratore, un orario intorno alle 40 ore? Se lo tolga dalla testa. In forza di un’altra “specifica intesa”, entro quell’azienda l’orario normale è di 60 ore, il limite massimo posto da una direttiva della Commissione europea, limite che per particolari mansioni può salire a 65; però, in forza della stessa intesa, può in qualche mese scendere a 20. Vorrebbe essere classificato come operaio specializzato, come lo è da tanti anni? Gli viene fatta presente un’altra intesa, stando alla quale quell’azienda può attribuire a uno specializzato la qualifica di operaio generico: prendere o lasciare. Può anche accadergli, dopo qualche tempo, che l’azienda gli proponga di convertire il contratto di lavoro a tempo indeterminato in un contratto da collaboratore a progetto rinnovabile, se garba all’azienda, di tre mesi in tre mesi.

Un contratto grazie al quale si ritroverebbe a lavorare nella veste di un autonomo – tali essendo i collaboratori a progetto – che deve effettuare la sua prestazione con tutti i vincoli del lavoratore subordinato, a partire dall’orario e dai controlli audiovisivi, ma senza fruire dei benefici che questi hanno, tipo avere per contratto le ferie retribuite.

Le situazioni lavorative sopra indicate non sono illazioni gratuite. Se le parole del decreto hanno un senso, sono tutte situazioni rese materialmente e immediatamente possibili, nel caso in cui l’articolo 8 diventi legge, dai punti che vanno da a) (concernente gli audiovisivi) fino ad e) (riguardanti le modalità del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni) del comma 2 dell’articolo in questione. Con un minimo impegno se ne possono individuare innumerevoli altre; quale, per dire, un’organizzazione del lavoro che abolisca del tutto le pause sulle catene di produzione, o introduca operazioni di dieci secondi da ripetere seicento volte l’ora.

La giungla di situazioni lavorative in cui qualsiasi lavoratore o lavoratrice potrebbe trovarsi sommerso è resa possibile dal comma 2-bis (o 3 che sia, nell’ultima versione). Tale comma costituisce un mostro giuridico quale la Repubblica italiana non aveva mai visto concepire dai suoi legislatori. Infatti esso permette nientemeno che di derogare, ove si siano stipulate le suddette intese tra associazioni dei lavoratori o le loro rappresentanze sindacali operanti in azienda, dalle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2. Non qualcuna: tutte. Al riguardo la formulazione dell’articolo 8 non lascia dubbi: esso mira a stabilire per legge che è realmente possibile derogare da tutte le leggi che hanno finora disciplinato le materie sopra elencate. Dette leggi comprendono non soltanto lo Statuto dei Lavoratori del 1970, il pacchetto Treu del 1997, la legge 30 del 2003 con il successivo decreto attuativo (emanati dalla stessa maggioranza di governo), ma pure le centinaia di disposizioni legislative introdotte dagli anni 60 in poi che si trovano citate in calce a ogni manuale di diritto del lavoro (si veda ad esempio quello del compianto Massimo Roccella).

Oltre che ignorare, ma per il governo attuale son piccolezze, gli articoli 3 e 39 della Costituzione.

Di fronte a una simile mostruosità, eventuali accordi tra i sindacati confederali che si impegnassero a rifiutare ogni deroga di quella parte dell’articolo 8 riguardante i licenziamenti senza giusta causa del comma 2 sarebbero evidentemente scritti sull’acqua (a parte l’amenità di sottoscrivere di corsa una deroga a un decreto millederoghe). Per un verso perché rappezzare il vulnus dell’articolo 18 dello Statuto sarebbe certamente utile; ma al prezzo di accettare il gravissimo stravolgimento di tutte le regole concernenti l’organizzazione del lavoro e della produzione che il decreto pretende di introdurre. Per un altro verso, l’ambiguo comma 1 spalanca palesemente la porta a ogni genere di degrado dell’attività dei sindacati: dalla contrattazione sindacale al ribasso (nota fattispecie del diritto del lavoro), alla formazione di mille sigle locali, alla concreta possibilità che anche rappresentanze sindacali delle maggiori confederazioni cedano sul piano locale a pressioni, lusinghe, o calcoli di convenienza. A sommesso avviso di chi scrive, l’articolo 8 del decreto sulla manovra economica non è in alcun modo emendabile o assoggettabile a pattuizioni. Se non si vuole far fare un salto indietro di mezzo secolo alla nostra civiltà del lavoro, va semplicemente cancellato.

(15 settembre 2011)