Per guardare avanti, Globalproject sul 15/10

Per guardare avanti

17 / 10 / 2011

Mentre scriviamo è in corso una maxi-operazione delle forze dell’ordine, con perquisizioni e arresti. Quando tutto sarà finito, il piano della discussione sarà un altro: con buona probabilità si restringeranno gli spazi di libertà per tutti, lotte sociali comprese; ci si avviterà attorno al tema repressivo; le questioni che contano – costruire un’alternativa alla dittatura della finanza ‒ verranno messe all’angolo da un nuovo ordine del discorso. Forse andrà così, ma non necessariamente, se riusciamo ad esplicitare da subito un punto di vista radicale sui fatti di sabato.

Partiamo dall’inizio. Sabato 15 ottobre a Roma c’è stata una grandissima manifestazione, mezzo milione di persone hanno attraversato la capitale con la pretesa testarda di far pagare il debito a chi l’ha prodotto, le corporation, le banche, gli hedge fund, i protagonisti di quel processo di trasformazione del mondo segnato dalla precarizzazione del lavoro e dalla finanziarizzazione dell’economia. Mezzo milione a Roma, ma manifestazioni in 1.000 città e 82 paesi di tutto il pianeta terra: un nuovo movimento globale, consapevole e preparato si è messo in cammino, questo è ciò che effettivamente conta.

A Roma, e solo a Roma, occorre ricordarlo, la grandissima manifestazione è stata divisa e frammentata dagli incidenti con le forze dell’ordine e non solo. Non condanniamo, non siamo un tribunale. Ma nella nostra parzialità esprimiamo un giudizio politico, come tutti dovrebbero avere il coraggio di fare. L’unico modo per far fuori le semplificazioni giornalistiche che separano i buoni dai cattivi, la violenza e la non violenza, è dire con forza che le pratiche di conflitto, anche radicali, possono unire, connettere e costruire, ma possono anche dividere e distruggere. Le pratiche messe in campo da alcuni, pochi, durante la manifestazioni di sabato a Roma, hanno diviso il movimento, hanno messo in pericolo chi voleva manifestare (come definire altrimenti una macchina o un palazzo che brucia a due metri dal passaggio dell’intero corteo?), hanno messo in crisi lo spazio pubblico e politico che quella manifestazione voleva costruire. Assumendo questa differenza, il nostro giudizio è chiaro, nettissimo. A San Giovanni, poi, è successo ancora altro. La reazione della polizia è stata scomposta e violentissima: l’uso degli idranti, i caroselli contro l’intera piazza. In risposta a questo fatto c’è stato un gesto di resistenza più ampio che ha coinvolto altri giovani e giovanissimi che poco avevano avuto a che fare con chi, durante il percorso del corteo, aveva deciso di dividere il movimento, con pratiche di conflitto irresponsabili, oltre che inutili (bruciare macchine o cassonetti in via Labicana: altro che assedio ai palazzi del potere!), e che, soprattutto, aveva quasi come unico obiettivo, tutto politico, se non politicista, quello di colpire il Coordinamento 15 ottobre e la piazza, San Giovanni, dove dovevano esprimersi le lotte sociali e di certo non i partiti politici.

Ora, due giorni dopo, facciamo i conti con una scena inquietante e con un problema. La scena inquietante è quella definita da un nuovo dispositivo: la repressione “partecipata”, l’appello alla “delazione di massa”. Che sia il Corriere della sera a promuovere la linea di Cameron e della sua Big Society, non ci stupisce, che sia il mondo dei social network, in autonomia, a definire questo processo, è cosa assai più drammatica. La raccolta “autogestita” dei materiali video e fotografici, utili a colpire i «violenti», ci parla di un mondo davvero complesso, che le retoriche e le pratiche che confondono ed equiparano i riots di Londra con il 14 dicembre, non solo non capiscono, ma finiscono per alimentare. Il dispositivo, appunto, è un rapporto: il rapporto tra delazione di massa e riots indiscriminati, le due cose, come ci ha dimostrato già Londra questa estate (vi ricordate i giovani che andavano a pulire la città?), viaggiano assieme, sono due facce di una stessa medaglia. E questo ci dovrebbe aiutare a fare piazza pulita anche di atteggiamenti linguistici e politici irresponsabili (pensiamo al proliferare di retoriche insurrezionaliste, agite solo per un giochino di posizionamento politico tra gruppuscoli che hanno nostalgia degli anni ’70), perché le parole che usiamo, a volte, producono mostri.

Il problema dei movimenti è semplice. Da adesso in poi non è più possibile eludere la discussione sulle forme di democrazia e sulla molteplicità espressiva dello spazio pubblico di movimento. Le lotte sociali, la generazione precaria, gli studenti e le resistenze operaie, le lotte ambientali e per i beni comuni, devono poter determinare in autonomia il loro modo di stare in piazza, di manifestare, di fare conflitto. Questo vuol dire che non è più possibile rinviare un ragionamento pubblico sulle forme di autoregolamentazione dei cortei, anche e soprattutto quando i cortei vogliono violare le zone rosse o semplicemente sfidare i divieti per invadere la città (come gli studenti hanno fatto negli ultimi tre anni). Come sia possibile una piazza plurale, ma nello stesso tempo democratica, è un problema di tutti, di tutte le lotte sociali, non è un problema di qualcuno, non è un problema dei centri sociali. Per questo la discussione deve essere aperta, per questo c’è bisogno di essere tempestivi, perché il 15 ottobre non può e non deve consegnare il movimento al minoritarismo e al ghetto, perché il movimento non può condannarsi all’impotenza, perché il conflitto, anche radicale e aspro, non può essere messo all’angolo.

AGENZIA

CASARINI, CHIUDERE PER SEMPRE CON LA MALEDIZIONE DEGLI ANNI ’70 = ‘CANDIDATO CON SEL? PETTEGOLEZZO E DIFFAMAZIONE PICCOLA PICCOLÀ Roma, 20 ott. (Adnkronos) – «Ognuno dovrà decidere con chi stare . Quale è la sua gente», ovvero, «è venuto il monento che il Movimento recuperi il senso di realtà. Significa rinunciare a una certa sociologia d’accatto, a certo radicalismo chic dei salotti di sinistra che non hanno perso il vizio di fare gli stregoni con le vite degli altri. Significa chiudere per sempre con la maledizione degli anni ’70 che sono finiti. Fi-ni-ti. E anche male». Luca Casarini, già leader dei Disobbedienti, in un’intervista a ‘la Repubblicà non usa mezzi termini per indicare agli Indignati come uascire dalla situazione creata dalle violenze alla manifestazione di sabato scorso a Roma. «Quello che ho visto a Roma è stato ripugnante. Una minoranza organizzata militarmente ha violentato, messo in pericolo, umiliato una straordinaria multitudine che chiede il cambiamneto e con lei uno spazio pubblico di nuova democrazia che ha preso vita in tutto il pianeta. Con quale risultato? Un’immediata richiesta di repressione generalizzata del dissenso. Un gran bel lavoro sporco a esclusivo vantaggio -accusa Casarini- di un potere corrotto e delegittimato». «I ‘nerì di sabato sono i migliori alleati del Sistema che sostengono di voler abbattere. Perchè sono funzionali e reciproci di quel Sistema. E ne traggo delle conseguenze. Dico che è venuto il momento delle scelte», ribadisce Casarini che alla domanda se Sel gli abbia promesso un seggio in Parlamento, se pensi al ‘Palazzò, risponde infine: «Dietro le mie parole c’è la discussione di una comunità politica. Il resto è pettegolezzo e diffamazione piccola piccola. A me interessa voltare pagina, ritrovarmi con chi vuole il cambiamento». (Spe/Ct/Adnkronos) 20-OTT-11 10:21 NNN

 

Dopo il 14 dicembre è arrivato il 15 ottobre

Comunicato tratto dal blog di Militant.

A mente fredda e con gli occhi decongestionati proviamo buttare giù alcune prime e parziali riflessioni su quanto è successo ieri a Piazza San Giovanni. Cominciamo col dire che in piazza non c’erano nè buoni nè cattivi. Così come non c’erano i black bloc infiltrati, i poliziotti provocatori, gli ultras fascisti… o gli extraterrestri venuti da Marte a rovinare il corteo. Chi, anche a sinistra, oggi ripropone questa chiave di lettura: o non è in grado di “leggere” quello che sta accadendo in questo Paese o, molto peggio, lo ha capito ma fa finta di niente pur di seguire i propri interessi di bottega. Prestando il fianco, in entrambe i casi, a chi già da ieri sera reclamava a gran voce “pene severe” per i compagni e le compagne arrestate. In realtà, almeno per come la vediamo noi, è accaduto quello che era già successo il 14 dicembre scorso. La piazza ha esondato e scavalcato ogni struttura, gruppo, sindacato o partito; ha ignoranto accordi presi in riunioni o assemblee di cui forse neppure era a conoscenza e ha praticato la propria rabbia spontaneamente e nell’unica forma concreta in cui gli era possibile. E nel farlo ha resistito coraggiosamente per ore e ore alle cariche della polizia. Provare quindi ad accollare quello che è successo a questa o quell’altra organizzazione, come oggi fanno alcuni giornali, ci pare un esercizio inutile oltre che sbirresco. Così come ci sembra inutile attardarsi dietro al perbenismo ipocrita di quei “sinceri democratici” che inorridiscono di fronte a un cassonetto bruciato, ma poi plaudono alle proteste che incendiano le città del resto del mondo. Di questa sinistra “presbite” che vede bene le rivolte solo quando divampano in lontananza non sappiamo proprio cosa farcene. Crediamo invece che il nodo intorno a cui ragionare, almeno per chi vuole “abolire lo stato di cose presenti” sia non tanto chi abbia acceso il cerino, o perchè l’abbia acceso, quanto piuttosto il fatto che la prateria abbia preso immediatamente fuoco. C’è un pezzo importante del nuovo proletariato metropolitano che si rende disponibile al conflitto, alla lotta. Forse non sarà centrale nella nuova composizione di classe, però è indispensabile. Fuori da ogni moralismo, dunque, la riflessione che gli scontri di Piazza San Giovanni, così come quelli di Piazza del Popolo, impongono al movimento di classe è come evitare che questa radicalità venga dissipata. Come riuscire a trasformare questa rabbia “corta” in un progetto di trasformazione sociale. Magari partendo con l’assumere in pieno il peso della nostra inadeguatezza.

il fatto è che noi nun semo indignati… a noi ce rode proprio er culo!

Roma, il racconto di un autonomo: “Niente comizi, la piazza si conquista”

Gianluca, redattore di Infoaut, spiega dall’interno l’origine politica della violenza alla manifestazione degli indignati a Roma. “Bruciare macchine e spaccare la statua della Madonna è stata una gigantesca cazzata, ma attaccare banche e ministeri è un segnale politico”. E conferma la presenza in piazza di ultras del calcio e “reduci” degli anni Settanta
“Certo ci sono stati episodi deliranti, come bruciare le macchine, cosa che finisce solo per spaventare il corteo, o spaccare la statua della Madonna. Sono cazzate pazzesche. Ma attaccare le banche o gli uffici dei ministeri, che piaccia o meno, è un’indicazione, un segnale politico”. Gianluca, redattore di Infoaut, portale di politica e controinformazione di diversi collettivi dell’area autonoma, spiega la violenza esplosa alla grande manifestazione degli Indignati a Roma, terminata in ore di scontri in piazza San Giovanni, e con l’annullamento di tutti gli interventi finali.

Lui era lì, nel cosiddetto “blocco nero”, quello dei manifestanti coperti da caschi e cappucci che sono diventati protagonisti delle violenze. “Non raccontiamoci la storiella di due o trecento ‘black bloc’, magari fascisti o infiltrati della polizia”, continua Gianluca. “Tra il Colosseo e piazza San Giovanni, alla testa del corteo si è venuta a formare una componente di migliaia di giovani che non si riconoscevano negli organizzatori della manifestazione”. Addirittura cinque-diecimila, secondo il redattore di Infoaut, testata che in un editoriale definisce i fatti di Roma un episodio di “resistenza”.

Qui sta il cuore della frattura tra pacifici e violenti, con i secondi che di fatto hanno monopolizzato le cronache della protesta tra incendi e sassaiole. “La costruzione del 15 ottobre in Italia è stata nettamente al di sotto di quello che doveva essere. Gli organizzatori sono cadaveri: gruppi, sindacati e partitini che non esprimono niente nelle città, nelle scuole… Secondo loro, il corteo doveva finire con dei comizi elettorali, un modo secondo noi stupido di coronare una giornata di lotta. E la manifestazione sarebbe passata lontano dai veri luoghi della responsabilità”. Vale a dire i palazzi del potere, ritenuti colpevoli della crisi e del “furto” del futuro per le giovani generazioni.

Così, ragiona ancora Gianluca, molti hanno deciso di “uscire” dal programma preconfezionato. “Si possono anche deprecare le violenze di due o trecento persone, ma quando migliaia di giovani resistono per ore alla polizia è un fatto politico, come è accaduto anche nella manifestazione studentesca del 14 dicembre, sempre a Roma. Invece di aspettare i comizi, si sono presi la piazza. Questi giovani sanno che il loro futuro non esiste e non sono più riassumibili e compatibili in partiti, sindacati, associazioni. Se il percorso ufficiale della manifestazione avesse toccato i palazzi del potere, forse le cose sarebbero andate diversamente”.

Le azioni dei “neri” hanno provocato rabbia e reazioni molto decise da parte dei manifestanti che, nella stragrande maggioranza, puntavano a una giornata pacifica. E che invece si sono visti “scippare” i contenuti della protesta dalla risonanza mediatica degli scontri. Ma Gianluca la vede diversamente: “I contenuti politici ormai si conoscono: la crisi economica, il governo che sta in piedi a stento. Non si capisce perché la rivolta vada bene solo in Egitto”.

Alla fine, chi erano i violenti di piazza San Giovanni? “Al di là dei gruppi storici, c’è ormai uno strato sociale che si esprime in questo modo. Certo che Nichi Vendola dice che non si riconosce in quella piazza, ma neppure quella piazza lo voterà mai, perché sa che da lui arriveranno le solite ricettine”. Gianluca conferma che a manifestare a Roma c’erano anche gruppi ultras del calcio: “Ho visto ragazzi con lo striscione contro la ‘tessera del tifoso’, ma va capito che gli ultras sono un fenomeno sociale di massa. Rappresentano una forma di conflitto che per me sta al di sotto, ma dopo la normalizzazione del ministro Maroni tornano in strada e trovano un ambiente affine. Non sono alieni, sono anche loro proletari, stanno anche loro nelle scuole, nei luoghi di lavoro”. Così come, in mezzo a tanti ragazzi, si sono dati da fare contestatori più attempati, “quaranta-cinquantenni provenienti da altre battaglie”.

A questo punto, conclude, la definizione di “black bloc” diventa stretta. Il termine lo inventò la polizia tedesca negli anni Ottanta per definire gli Autonomen, che nei cortei facevano più o meno le stesse cose viste a Roma il 15 ottobre e si vestivano tutti di nero anche per rendere più difficile il riconoscimento nei filmati della polizia. In seguito, è stato utilizzato per definire la tattica di piccoli gruppi più o meno coordinati che si infiltravano nei cortei e ne uscivano per colpire gli obiettivi simbolo del capitalismo. Per Gianluca, i protagonisti degli scontri di Roma sono invece “una minoranza, ma di massa”.

Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.

dal manifesto.it

Chi sono?/ I «RAGAZZI DEL 14 DICEMBRE» DI NUOVO PROTAGONISTI
Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.
Se la governance «stile Bce» esautora la politica, si moltiplicano le figure sociali che non trovano più rappresentanza.

Hammett (da Il Manifesto di domenica 16 ottobre)

Aver poca memoria è un guaio. Un mondo politico affetto da questo male è gerontocrazia. Quello che è avvenuto ieri è un’estensione del 14 dicembre dell’anno scorso. Più in grande, più lontano dai «palazzi del potere», più intenso. Segnala che c’è un problema nel corpo sociale. Un problema che non trova rappresentanza, né a livello politico né sindacale. Ma esiste e non si può rimuovere con i fervorini giornalistici o, peggio, con le dichiarazioni nerborute del politico-che-rende-dichiarazione-alla-stampa.
Segnala che le soluzioni alla crisi stile «lettera Bce» – riducendo drasticamente la spesa pubblica – stanno annullando gli strumenti di «mediazione sociale». Per chi ha ancora un lavoro o una pensione, un riduzione di coperture o diritti è una sciagura in progress, cui cercare di resistere con le unghie e coi denti, magari intaccando i risparmi di una vita con lo sguardo ancora rivolto alla condizione precedente che si cerca – giustamente – di difendere. Per chi si affaccia ora «in società» e cerca di capire quale sia il suo posto, lo stesso taglio indica che per lui non c’è un grande futuro. O forse non c’è proprio.
Quando ieri, sopra le mappe geografiche dei Fori Imperiali, hanno tirato su lo striscione «di chi è la storia? è nostra», si potevano vedere centinaia di ragazzi che magari di storia ne masticano poca, ma non possono accettare di non farne parte. Di non avere ruolo, di essere «mercanzia»; per di più di poco prezzo.
E qualcuno lo capisce, sia sul piano empirico che su quello analitico (più complicato, ma più illuminante). Quando intervistammo i ragazzi del 14 dicembre questa «crisi della politica» ci venne sintetizzata in modo plastico: «Se – come potere – dico che ‘a causa della crisi’ non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che ‘la mediazione’ non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico».
Questa è la condizione della politica del prossimo futuro, quella stilizzata nella lettera di Draghi e Trichet, quella che espropria i singoli paesi della scelta più importante: quella sulla politica economica. Potranno legiferare sul testamento biologico o le intercettazioni, ma non su quale parte della popolazione strangolare e quale tutelare. È tutto qui il campo di applicazione della democrazia occidentale?
Discorso astratto? Il contrario. «Bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono; si parla di sofferenza precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e governance, o avrà le mani legate». Sono passati dieci mesi e in tutti questi giorni abbiamo potuto ascoltare politici di maggioranza e di opposizione esercitarsi sullo spartito: «ce lo chiede l’Europa», seguito da un «purtroppo» o un «per fortuna».
Questi ragazzi abitano le nostre periferie, forse qualcuno anche quartieri più «in». Si vedono tra loro più simili di quanto magari non càpiti ai rispettivi genitori. Arrivano nel centro della città come stranieri in territorio nemico, con coordinate persino approssimative. A dicembre un soldo di cacio con la faccia svelta mi fermò sul ponte per piazza del Popolo per chiedere «signore, qual’è la strada per palazzo Chigi?». E non pensava di entrarci come portaborse…
Dieci mesi fa hanno tenuto le strade del centro per quasi un’ora. Ieri si sono esibiti in diretta tv per oltre tre ore, fin quando le ombre della sera non li hanno portati lontano dalle telecamere. Ma sempre in corsa, contro «obiettivi simbolici» che non sposteranno di una virgola gli equilibri sociali e politici. O magari lo faranno in peggio. Però questa generazione «nata precaria» esiste, l’abbiamo creata «noi» a colpi di «pacchetto Treu» e «legge 30». Reagiscono alla «frammentazione sociale» in modo ruvido, magari «poco simpatico». Ma esiste ed esige risposta. Voltare le spalle e lasciare il problema alla polizia è la risposta peggiore.

Doveva finire con qualche comizio…

da www.infoaut.org

In Italia la giornata del #15 ottobre ci consegna una realtà che mentre scriviamo viene descritta fotogramma per fotogramma dai tg e dai siti informativi, come il giorno in cui un manipolo di teppisti si é impossessato di una giusta causa ed ha rovinato tutto.

Più o meno le stesse parole di Mario Draghi, e quelle di Bersani che si spinge più in là, chiedendo a Maroni di riferire in parlamento nei prossimi giorni perché, come per il 14 dicembre dello scorso anno, si ha paura che i ragazzi colorati con le tende o avevano al loro interno qualche infiltrato di Kossiga memoria, o che le forze dell’ordine abbiano “lasciato fare” il manipolo di teppisti apposta.
La realtà ancora una volta è un’ altra e va ben al di là di queste considerazioni e di quelle che iniziano a circolare tra il movimento.
Al 15 ottobre ci si è arrivati in una situazione assurda, dove gli organizzatori dei comizi finali in piazza San Giovanni, avevano desistito da tempo di sfilare verso i palazzi del potere romano, che era l’unica cosa incisiva in una giornata del genere. Le iniziative dei giorni scorsi volevano smorzare e incanalare una rabbia diffusa e irrapresentabile che oggi si è manifestata in tutta la sua espressione.
Può anche essere vero che all’inizio la giornata avesse preso una piega difficile da spiegare (ma più comprensibile di altre volte se possiamo dire) con l’attacco a banche, Suv e compro oro, ma poi quello che si è visto è stato tutt’altro che qualche gruppo di esagitati, infiltrati, carabinieri o fascisti che dir si voglia nei social network.
Si è visto un corteo di giovani, per lo più giovani, non rappresentati da nessuno neanche all’interno del movimento, che in quel “Que se ne vayan todos”, si sono riconosciuti appieno.
Giovani studenti, precari o disoccupati che si sono portati anche la maschera antigas nello zaino, perché pensavano di partecipare ad una giornata di riscossa, un po’ come per il 14 dicembre dell’anno scorso, dove nonostante tutti i calcoli degli organizzatori, il corteo straripò, fuori dai recinti e dalle mediazioni.
Diciamola tutta, se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso.
La giornata di oggi, piazza San Giovanni nella fattispecie, si è trasformata in ore di resistenza di massa alle forze dell’ordine, chiamate a respingere una rabbia sacrosanta verso un presente di austerity. Magari non è comprensibilissimo ai più, ma le ore di resistenza romana odierna hanno detto chiaro e tondo che al debito, ai sacrifici, alla casta, all’austerity a senso unico, che ribellarsi è qualcosa che può unire, e che può succedere.
Oggi poteva solo succedere qualcosa in più dei piani prestabiliti, era normale, era nell’aria, spiace che ci sia chi non lo ha voluto vedere e si è voluto coccolare il suo orticello fatto di qualche poltroncina con Sel alle prossime elezioni.
Spiace la rinuncia degli organizzatori a puntare dritta verso i palazzi del potere, perché questo ha lasciato di fatto mano libera alla spontaneità, che non essendo indirizzata, ha consumato, dall’inizio, passo per passo, l’attacco a tutto ciò che è considerato simbolo del sistema di iniquità.
Era destino, ed era giusto, siamo nell’Italia dei Berlusconi e dei ceti politici sempre verdi.
Doveva finire con qualche comizio in piazza San Giovanni, è finita con ore di resistenza…
Que se ne vayan todos (ma proprio todos).

Una prima presa di parola del Laboratorio Acrobax sulla giornata del 15/10

Il 15 ottobre a Roma abbiamo vissuto una giornata lunga e densa di avvenimenti su cui vorremmo esprimere alcune riflessioni, anche a fronte del linciaggio mediatico a cui siamo sottoposti.
Questo comunicato è una presa di parola rispetto alla pressione mediatica che si sta producendo intorno a quella giornata; diverso e con altri tempi sarà il dibattito di movimento.
La giornata è stata fatta vivere da migliaia di persone, di cui noi siamo stati una parte e come tale abbiamo provato a curare la riuscita e la capacità di sedimentare, che si sono mobilitate contro la crisi e l’austerity dimostrando che in Italia c’è un malessere diffuso e in quella partecipazione vediamo la volontà determinata di cambiare, di trovare strade alternative alle ricette della banca europea e prendere
parola in prima persona.
Questo l’abbiamo visto in maniera straordinaria nella grandissima partecipazione alla parte di corteo che abbiamo contribuito a costruire in assemblee pubbliche con centinaia di persone, con delegazioni di 15 città, dal nord al sud dell’italia, con migliaia di precarie/e, migranti e studenti, sotto le insegne di San Precario e Santa insolvenza. Immaginato e realizzato all’interno della rete degli
Stati generali della precarietà, nata nel corso dell’ultimo anno e che sta puntando alla realizzazione dello sciopero precario. Per questo abbiamo condiviso l’appello del 15 ottobre e siamo andati a Barcellona per la sua organizzazione internazionale e la costruzione di un movimento europeo.
Quella parte di corteo, a cui molte realtà si sono unite direttamente in piazza della Repubblica, aveva scelto di dare vita ad alcune iniziative di comunicazione, da quella all’albergo Exedra-Boscolo fino all’occupazione di fori imperiali che hanno costruito la nostra presa di parola pubblica e a viso aperto. A chi ci indica come regia di una presunta escalation del livello di scontro raggiunto dalla manifestazione rispondiamo che è semplicemente impossibile e fuori da ogni logica che una struttura cittadina possa organizzare una parte così ampia della manifestazione.
Nel corso del corteo si sono date delle azioni diverse dai livelli che noi abbiamo praticato o condiviso con la nostra rete. Non ci interessa entrare nel dibattito buoni e cattivi, violenza o non violenza che riteniamo molto strumentale e invece sicuramente molto più interessante è il ragionamento su come costruire relazione, condivisione e partecipazione in situazioni analoghe.
Crediamo che la gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine sia stata criminale e intenzionalmente mirata a dividere definitivamente il corteo, con le cariche generalizzate da via labicana, dove il nostro spezzone è stato caricato alle spalle, fino a piazza San Giovanni, con l’accanimento su manifestanti inermi e con caroselli dei blindati lanciati addosso alla gente. A questo migliaia di persone hanno risposto opponendo una tenace resistenza esprimendo una parte sostanziale di quella rabbia che vediamo ogni giorno crescere nel tessuto sociale italiano sempre più sottoposto ad
un’insopportabile precarietà della vita intera.

Leggiamo e vediamo nei mezzi di comunicazione una superficiale lettura di questa giornata a cui, purtroppo, molti esponenti politici danno la stura e che stanno costruendo addosso alle nostre spalle un capro espiatorio. Assurde e ridicole le insinuazioni nei nostri confronti.
Riteniamo grave aver mischiato come figurine di un album realtà e strutture, iniziative e strumenti comunicativi, immagini e simboli.
Una gran confusione che crea un mostro mediatico da sbattere in prima pagina. Noi non abbiamo nulla da nascondere perché sempre alla luce del sole abbiamo messo noi stessi nelle lotte contro la precarietà che costruiamo giorno dopo giorno.
Laboratorio Acrobax

Intervento di Valentino Parlato

Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d’epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un’inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.

A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.

La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale – più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 – non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell’Iri, fondamentale nell’economia anche dopo la caduta del fascismo?

Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all’inizio di una nuova epoca.

Valentino Parlato

San precario sanziona la sede di Equitalia!

Verso la giornata di mobilitazione del 15 ottobre, diritto all’insolvenza per precari e precarie!

EQUITALIA – STROZZINI DI STATO from manuel fantoni on Vimeo.

La rete san precario di Roma, insieme al coordinamento cittadino di lotta per la casa e Militant,  ha fatto visita questa mattina nella sede di Equitalia di via Ippolito Nievo, nei pressi viale Trastevere a Roma, per reclamare il diritto all’insolvenza contro gli strozzini di Stato.
L’azione di comunicazione sociale si inserisce all’interno della settimana di mobilitazione europea verso la giornata del 15 ottobre.

Nonostante le tante iniziative in tutta Italia contro questo sistema di vera e propria oppressione fiscale,  Tremonti vuole usare ancor di più Equitalia (che ne sarà ben lieta visto il suo guadagno a a precentuale) per fare cassa riducendo a soli 60 giorni i termini per i pagamenti, aumentando la capacità di pignorare beni mobili e immobili e tutto questo a prescindere dal fatto che la cartella esattoriale sia giusta o invece “pazza” come milioni  ne sono arrivate.

Tra il consenso dei passanti e delle persone in fila per pagare le cartelle esattoriali abbiamo sanzionato dal basso chi pretende dai precari e dai disoccupati il pagamento delle attuali politiche di austerity  imposte dalla BCE.

La cospirazione continua…il 15 ottobre area indipendente di corteo del punto di vista precario per il diritto all’insolvenza

L’Italia e il Mediterraneo in rivolta

da www.infoaut.org

Verso e oltre il 15 ottobre

Il 15 ottobre si svolgeranno in tutta Europa le manifestazioni lanciate dal movimento 15M per estendere oltre i confini spagnoli la pratica della protesta contro la casta che pretende di farci pagare gli effetti della crisi finanziaria. La scadenza di Roma ha inevitabilmente convogliato su di sé le attenzioni e le aspettative dei soggetti sociali che, in Italia, ritengono sia giunto il momento di far sentire la propria voce, e credono che, senza un’Onda Italiana, le politiche di palazzo sapranno superare la crisi istituzionale nel segno di una continuità conservatrice, antipopolare e contraria agli interessi della maggioranza. Si è diffusa in molti una consapevolezza di fondo: l’attuale condizione storica richiede un salto di qualità nei nostri comportamenti politici. Il sacrificio in piazza di Mohamed Bouazizi, il ragazzo tunisino che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010, ha aperto una nuova fase nel Mediterraneo. Il versante meridionale è entrato in una lunga e complessa fase rivoluzionaria, in grado di modificare in modo inaudito gli equilibri sociali interni a quei paesi e quelli internazionali. Sul versante settentrionale, anzitutto con le mobilitazioni di massa che attraversano la Spagna e la Grecia – paesi che, su un diverso livello, accusano pesantemente gli effetti della crisi mondiale, diventandone a loro volta propulsori – il conflitto sociale è entrato di prepotenza nel cuore degli equilibri monetari del nuovo secolo: l’Unione Europea.

Questi movimenti non sembrano analizzabili, e tanto meno governabili, attraverso ricette precostituite; ci consegnano un’evidenza che è impossibile non assumere nell’analisi generale: si è aperta una fase politica di sperimentazione dal basso. La primavera mediterranea non è e non sarà orientale o occidentale, democratica o dispotica, pacifica o violenta: le categorie in cui è rimasto impigliato gran parte del pensiero politico degli ultimi decenni, anche all’interno dei movimenti, saranno devastate dall’impatto dei conflitti sociali che già si affacciano su questo decennio. Il dato essenziale è il protagonismo di massa di soggetti sociali nuovi, moderni, che si pongono su un livello di rottura radicale tanto con i dispositivi di gerarchizzazione sociale e del reddito, tanto con le forme tradizionali della sovranità politica e territoriale. Dalle migrazioni di massa ai flussi grammatologici di insubordinazione attraverso il web, questi soggetti si presentano come sfuggenti, ingovernabili, insensibili tanto alle imposizioni delle frontiere politiche quanto a quelle linguistiche, giuridiche, informatiche. In questo scenario crediamo sia necessario ovunque consegnare ai movimenti, alle piazze e alle lotte tutta la nuova sovranità, la voce in capitolo, la progettualità rivoluzionaria. Non ci servono “alternative” di contenimento, né sul versante di una “guida” o “gestione” della crisi da parte delle istituzioni della casta, né all’interno dei movimenti.

La crisi non è un male obiettivo, naturale ed inevitabile, senza colpevoli, senza responsabilità soggettive; e le nostre chiamate alla mobilitazione devono essere cassa di risonanza dei desideri e della rabbia sacrosanta di tutte e tutti, senza limitazioni ideologiche o programmatiche, senza sovrastrutture progettuali che esulino dalla pura e semplice necessità di riprodurre nel nostro paese e nel mondo una dinamica estesa e avanzata di conflitto sociale. Ciò di cui abbiamo bisogno sono serbatoi di mania della trasformazione, overdosi di utopia, cuori roventi, esigenza dell’imprevedibile. Cosa vogliamo da questo autunno? Cosa da questo ottobre? La piazza spagnola ci ha fornito una traccia semplice e chiara, proponendo la pretesa di una negazione pratica dell’assetto istituzionale e politico che ereditiamo in Europa: Que se vayan todos! è il loro grido, e deve essere anche il nostro. Ad ogni capo del globo, con le tende, le canzoni o le molotov, i movimenti stanno affermando che con questa organizzazione dell’economia, con questa costituzione della sovranità politica non si può andare avanti. Non si può, nei due sensi di questa espressione: perché non si vuole e perché non è più possibile. È una dimensione soggettiva e oggettiva del non potere, quella che abbiamo attorno e di fronte a noi.

E l’Italia? È la grande assente, fino a questo momento, dei processi in atto: non dal punto di vista dell’attacco alle condizioni di vita e della prospettiva di default, naturalmente, ma dal punto di vista del conflitto; è l’unico grande paese mediterraneo a non essere lambito dal fuoco della rivolta, dall’uragano dell’indignazione. Di fronte al quadro profondamente nuovo che i processi di delegittimazione dell’ordine costituito rappresentano, nella nostra penisola sembra ancora essere ingombrante la tendenza all’elemento rituale, al dejà vu, a un insensato eterno ritorno dell’identico. Si pretende di incanalare la ricchezza politica che si orienta da mesi verso l’autunno in una sfilata ordinata e disciplinata, lontana dal centro e dai palazzi del potere, come indicato dalla questura della capitale. Si vorrebbe fornire una sponda, attraverso questa scadenza, a progetti politici visti e rivisti, che intendono convogliare in un voto istituzionale il desiderio di cambiamento che dal referendum alle manifestazioni studentesche del 7 ottobre cresce nel nostro paese. A beneficio di chi o di cosa, ci chiediamo? Non ne possiamo più del rito e della chiacchiera giornalistica sull’autunno caldo: vogliamo un Autunno Infernale.

Vogliamo un inverno duro per chiunque tenti di farci pagare la crisi. Vogliamo una primavera dei movimenti. Vogliamo anni di negazione dell’esistente, vogliamo un’Italia Valsusina. Non vogliamo un nuovo-vecchio uomo della provvidenza, di destra o di sinistra, alla guida di un progetto politico scaduto in partenza. Ciò che vorremmo fosse chiaro a tutte e tutti è che la casta è finita; e quando parliamo di casta intendiamo non soltanto Berlusconi e Tremonti, Bossi e la Marcegaglia, Bersani o Di Pietro, Montezemolo, Napolitano o Marchionne; intendiamo tutte le forme della vecchia politica, ben al di là dei nomi dei partiti, dei ministri, dei presidenti e dei candidati; intendiamo anche Vendola e De Magistris, ossia coloro che intendono cavalcare la voglia di cambiamento affinché il cambiamento non avvenga mai, affinché prevalgano ancora la delega e la politica di mestiere, gli aggiustamenti strategici, il compromesso annunciato. E ci chiediamo: cosa vorrebbero elemosinare i movimenti da questi signori? E che cosa dalle istituzioni stesse? Non soltanto le chiacchiere e le illusioni, ma persino i soldi sono finiti! Resta una società polarizzata e paralizzata, l’arricchimento spietato o l’impoverimento totale, la bancarotta. È forse il momento di salire sul carrozzone dei partiti, di accettare la logica che, reprimendo e recuperando il conflitto sociale, ci ha portati a questo disastro? È forse l’ora di imporre ai movimenti sociali strutture rigide o autoritarie, prospettive non condivise, destinazioni annunciate?

Il potere politico capitalista risiede completamente, e non da ora, nelle istituzioni finanziarie globali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Federal Reserve. I governi nazionali, le istituzioni internazionali o locali non sono che gli agenti dell’applicazione quotidiana di decisioni prese in quei teatri dal personale tecnico del capitalismo moderno: sono svuotate di qualsiasi autonomia amministrativa o politica. Come se non bastasse, di qualsiasi legittimità: lo si ode nell’eco dei tumulti e delle insurrezioni che agitano il mondo, che si espandono da New York a Damasco, da Santiago del Cile a Londra. L’ingresso nelle istituzioni del default non è l’obiettivo dei movimenti. Il potere politico “alternativo”, o antagonista, è nelle piazze, nelle strade, nelle rivoluzioni; è nelle assemblee di Barcellona, di Tunisi, della Val Susa. Non c’è delega, non c’è candidatura di cui in Italia, oggi, i movimenti possano comprendere il senso. Per questo crediamo che, il 15 ottobre e dopo il 15 ottobre, occorra consegnare a questo paese, finalmente, gli spazi comuni e aperti dove le istanze sociali, schiacciate dalla cappa di uno stato impresentabile e parassitario, possano esprimersi liberamente. Tutte le idee, tutte le istanze, tutte le voglie di questa società disastrata, tutte le progettualità della protesta non possono che trarre ossigeno dall’ingresso dell’Italia in questo Mediterraneo inquieto, e nell’Europa delle tre “A”: quella del conflitto sociale. L’Italia merita il cambiamento, quello vero. E non si potrà cambiarla, per davvero, senza rimetterla al centro del variopinto planisfero delle lotte sociali.

 

www.infoaut.org

VERSO IL 15 OTTOBRE VAL SUSA CHIAMA ITALIA

da www.notav.info

Scriviamo queste righe dalle nostre montagne, sperando che dalle Alpi possano arrivare a tutto lo stivale, da Cortina a Lampedusa. La nostra valle vive un momento di lotta intensa, di resistenza: ogni giorno è qui, ormai, un giorno decisivo. Dai nostri presidi, dalle nostre baite, dai nostri paesi, dalle strade e dai sentieri che li collegano, attorno al fortino militarizzato creato dal governo a difesa del non-cantiere dell’Alta Velocità, stiamo resistendo. Ed è da resistenti che ci rivolgiamo a voi, che ci rivolgiamo all’Italia. La lotta No Tav è una lotta per la difesa della salute e del territorio, ma non solo: è una lotta contro la consegna della ricchezza prodotta collettivamente, in tutto il paese, nelle mani di pochi. È una battaglia contro l’alleanza strategica tra stato e mafia, ma è anche l’idea di un mondo diverso, costruito insieme attraverso nuove pratiche di decisione dal basso. È un movimento in difesa della nostra valle, che amiamo ora come non avevamo mai amato, ma è anzitutto un grido che si leva da un luogo nel mondo, rivolto a tutto il mondo.

Il 15 ottobre, in Europa e non solo, migliaia di persone risponderanno all’appello che giunge dagli indignados spagnoli: da coloro che, a partire dal marzo scorso, hanno deciso di trasformare, a modo loro, la vita politica del loro paese. Persone comuni – non eroi! – proprio come noi e voi, che hanno invaso le piazze delle loro città, parlando alla Spagna della società che vorrebbero costruire, sulle ceneri della classe politica che governa il loro paese. Come la Val Susa non può vincere senza l’Italia – e, lo diciamo con convinzione, un’Italia migliore non può nascere senza la vittoria della Val di Susa – così i ragazzi spagnoli non possono vincere senza l’Europa. Che cosa vogliono? Una politica e un’economia al servizio di tutte e tutti, il rispetto per l’essere umano e per l’ambiente, la morte definitiva dell’accentramento del potere mediatico, dell’abuso sistematico di quello politico, della corruzione, del commissariamento globale da parte della grande finanza. Ogni volta che ripetiamo questi stessi, identici concetti nelle nostre assemblee popolari, ogni volta che li gridiamo lungo le vigne o sotto le reti della militarizzazione, sentiamo di portare avanti una lotta che è la loro stessa; ma è la stessa degli studenti greci e tunisini, dei ragazzi che vengono arrestati sul ponte di Brooklyn e di quelli che cambiano la storia in piazza Tahirir.

Allora che aspettiamo? Il tiranno che ci governa è a Roma! A Roma è il mandante politico dell’invasione militare della Valle, a Roma è il mandante politico del Tav: decrepito, vergognoso e trasversale, proprio come in Spagna, proprio come in Grecia. A Roma sono i palazzi che hanno partorito una manovra di assassinio di due o tre generazioni, e mentre con una mano rapinano gli italiani di 20 miliardi di euro, con l’altra firmano gli accordi con la Francia per regalarne 22 al malaffare, distruggendo con il Tav le nostre vite e la nostra vallata. Mentre già discutono la necessità di una manovra bis per attaccare ancora più a fondo, in nome dei diktat della BCE, la società italiana, spendono 90.000 euro al giorno per gasarci al CS e reprimere in ogni forma il nostro dissenso, per la sola colpa di esserci ribellati al loro decennale strapotere. Questo è ormai la Val di Susa, del resto: un pericoloso esempio per tutte e tutti, da sradicare con la forza. Cosa aspettate? Cosa aspettiamo? Se vogliamo un futuro, un futuro qualsiasi, non abbiamo scelta: dobbiamo sfidare la casta – tutta la casta! – e dobbiamo vincere. A Roma ci saremo per sentire ancora il vostro abbraccio, dopo mesi difficili in cui abbiamo sofferto, ma anche sognato; e tra i nostri sogni ci sarà sempre quello in cui vi vediamo marciare fin sotto i palazzi del potere, e lanciare tutti insieme il grido che arriva, forte e chiaro, dalla Spagna: Que se vayan todos!