Difendere i beni comuni per combattere la precarietà di vita

[La crisi, l’acqua e il diritto all’insolvenza]
Nell’era della crisi infinita, praticare l’insolvenza significa non pagare l’austerity.
Pratiche individuali già ne esistono nella società italiana che presenta tassi di evasione fiscali altissimi, in cui aumenta a dismisura il numero dei protestati, di chi non paga più le multe, il canone rai, il biglietto dell’autobus e così via.
Ciò che è necessario mettere in campo sono pratiche di rivendicazione collettiva di pezzi di reddito che ci spettano e che dall’alto non cadrà mai.
Ancora una volta, ribadiamo che il reddito di base universale è un obiettivo da conquistare per garantirsi il diritto all’esistenza in un mondo quasi completamente mercificato e che vogliamo cambiare.
Il reddito per noi ha sempre significato per esempio, a partire dalle nostre vite precarie, occupare casa e così non pagare l’affitto e, così, non solo potersi mantenere ma addirittura poter lavorare meno, accettare meno lavori di merda e persino fare una vita politicamente attiva.
La casa è un pezzo di reddito ma da sola non può bastare!
“La crisi non la paghiamo” gridavamo 2 anni fa e, invece, ce l’hanno completamente scaricata addosso aprendo non solo una frana dell’economia ma una ben più larga e profonda crisi di un sistema di rappresentanza, di modello sistemico e culturale e di quell’incrollabile fede nell’ultima ideologia rimasta: il capitalismo.
Ma questo rappresenta oggi uno dei dati più interessanti, proprio perchè questa crisi ha aperto la possibilità, anche semantica, di immaginare una possibile alterità.
Uno degli esempi più forti è quello del referendum di giugno. Improvvisamente una popolazione da molti anni disabituata e disillusa afferma chiaramente che l’acqua non si tocca. E fino a qui va bene perchè l’acqua, emotivamente, è elemento madre: intuitivo e emozionale.
Ma in realtà qualcosa in più c’è.
C’è una campagna fatta dal basso, strada per strada, ci sono spazi di comunicazione guadagnati metro per metro, ci sono ragionamenti lunghi anni che conquistano e si diffondono veloci; l’acqua diviene un paradigma nella società italiana. Non solo tra cittadini ma anche nel dibattito pubblico. I beni comuni sfondano e divengono elemento semiotico riconosciuto, una linea. Forse una barricata.
Le persone dicono infatti con il loro voto che non sono più disposte a sacrificare tutto sull’altare del mercato; la religione neoliberista vacilla anche da noi.
I privatizzatori, bipartisan, si trovano improvvisamente sconfitti e, con loro, anni di beni pubblici saccheggiati a man bassa, ricette in cui le persone sono divenute risorse umane, in cui il mercato del lavoro doveva essere flessibile fino a divenir eprecario, l’innovazione e la garanzia passava per le formule innovative del profitto privato.
Ma ancor di più accade: si forma un ragionamento collettivo sul superamento tra pubblico e privato e che afferma il comune.
In questo contesto chi governa la crisi continua ad affermare che c’è un debito, e c’è, a carico di tutta la società. O meglio a carico di quella parte della società, enormemente maggioritario, che non lo ha contratto.
E questo rientra chiaramente in un circolo vizioso: chi ha fatto profitti sulla nostra vita ha prodotto la crisi e ora vuole che paghiamo il suo debito aumentando esponenzialmente lo sfruttamento della nostra vita stessa.
Per questo, ad oggi, non hanno ancora applicato il referendum e fanno di tutto per aggirarlo. Esattamente come ignorano volutamente le strenue resistenze che molti territori in tutta Italia, a partire dalla Val di Susa, fanno alle così dette grandi opere in cui si ignora completamente quello che è il bene comune e si opta per il profitto privato.
Ma il movimento dell’acqua ci offre un’ulteriore riflessione, quella della contrapposizione diretta con quelli che di volta in volta abbiamo definito privatizzatori, sfruttatori, precarizzatori. Infatti Il Forum italiano dell’Acqua sceglie di lanciare una campagna per l’applicazione del secondo quesito referendario, proprio quello sulla remunerazione del capitale: profitti garantiti in bolletta. E proprio in questa proposta noi vediamo una delle possibilità di non pagare, ancora una volta, di sottrarci al pagamento della crisi generata dal capitale, di poter praticare il diritto all’insolvenza. Il diritto a scegliere il non pagare il debito altrui perchè, quel debito, è una parte del profitto del mercato.
Perchè scegliere di non pagare non è solo una sottrazione dal mercato e dallo sfruttamento di quello che è di tutti ma è anche, implicitamente, una provocazione ed una presa di parola ben chiara.
Una forma conflittuale di praticare contenuti radicali, una delle possibili affermazioni del nostro: “Noi la crisi non la paghiamo” . Che da slogan diventa pratica concreta.
Scegliamo di condividere la nuova campagna lanciata dal Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua perché, quella del diritto all’insolvenza, deve essere una pratica quotidiana, perché se il piano individuale diventa coordinato e quindi collettivo, se diventa riproducibile e capillare sui territori potrà veramente fare male al sistema.
Questa è la forza che leggiamo nella campagna “Obbedienza Civile”, che volendo rispettare la volontà popolare chiede l’immediata eliminazione dalle tariffe della percentuale che garantisce i profitti procedendo, nel caso in cui questo non avvenisse, all’autoriduzione collettiva delle bollette.
Scegliamo di condividere questa campagna perché non si limita a contrastare le privatizzazioni, in una fase storica in cui più nessuna mediazione è possibile, perché utile solo a riprodurre il sistema che ci ha portato fin qui, ma anzi propone pratiche concrete dell’alternativa e della partecipazione.
E in questo ci ricorda tanto la proposta insita nello sciopero precario visto come sciopero politico e non come momento di precipitazione vertenziale per chiedere aumento del salario o garanzie di alcun tipo rispetto ad un determinato settore o contratto, ma che pone al centro il punto di vista precario e mostra la potenza dei precari non la loro debolezza, la complessità della precarietà non il suo atomismo, rilancia per tutti e non per qualcuno.
Come precarie e precarie abbiamo scelto da tempo che volevamo sottrarci allo sfruttamento del mercato e che volevamo stabilire forme di cooperazione e cospirazione per organizzarci al di fuori di contesti sindacali o politici che difficilmente riescono a leggere la precarietà. In questo il movimento si addice maggiormente, secondo noi, ad affrontare concettualmente e praticamente l’attacco che viene mosso a tutti noi.
Perchè la difesa dei beni comuni è un piano di ricomposizione nel quale riconoscersi e riuscire a superare quella divisione forzata di ognuno di noi, delle nostre storie e delle nostre vertenze. Esattamente quello che è rappresentato dalla parcellizzazione a cui sono sottoposte le nostre vite precarie.
Ma anche perchè sappiamo che sono alla base della nostra stessa vita e, dunque, anche della stessa lotta.
Per questo difendiamo i beni comuni e combattiamo contro la precarietà.
Per conquistare il nostro futuro. Diverso dall’esistente e, quindi, tutto da costruire.
Acrobax
Punti San Precario_Roma

Sulle 26 denunce per i fatti del 14 dicembre 2010

Vogliamo dichiarare la nostra vicinanza ai 26 denunciati per i fatti del 14 dicembre 2010.
A quasi un anno di distanza la magistratura e le forze dell’ordine hanno deciso evidentemente di dare un segnale ai movimenti sociali, oggi che il profondo discredito per il governo dei palazzi e delle borse, si traduce sempre più frequentemente in presa di parola diretta di quanti, precar* e indignat*, riscoprono la forza del fare comune e della condivisione.
Barcellona, New York, Oakland, entrambe le rive del Mediterraneo: siamo davanti ad un eccezionale momento di critica radicale allo stato di cose presenti. Non può sfuggire la prossimità temporale delle denunce ai fatti del 15 ottobre: una nuova fiammata di rabbia, in un paese che sembrava ormai condannato ad una docile apatia, schiacciato tra cultura massmediatica, frammentazione sociale e precarietà.
Viene spontaneo domandarsi se dietro a questa operazione di polizia non
ci sia il tentativo tutto politico di mettere in difficoltà attivisti, in alcuni casi ben
noti per il loro impegno costante e alla luce del sole, criminalizzando con loro l’intera piazza che quel 14 dicembre 2010 diede vita ad una delle più belle giornate di lotta degli ultimi decenni. All’apice di un autunno di lotte studentesche, e all’alba del movimento che ancora oggi in Italia, mette in discussione il sistema della rappresentanza, vuota e completamente asservita alla finanza e agli interessi del grande capitale, ci trovammo a migliaia a bussare prepotentemente ai palazzi del potere.
Viene altrettanto spontaneo domandarsi se quello che è stato contestato
ai 26, (danneggiamento, incendio…) non rappresenti nient’altro che uno
spauracchio per quanti, il 15 ottobre, hanno animato la resistenza di Piazza S.Giovanni contro i funzionari di un potere a cui non rimane che lo strumento dell’intimidazione fisica e giudiziaria.
Oggi, mentre scriviamo queste righe, veniamo a conoscenza dell’assoluzione
definitiva per l’ex capo della polizia Gianni de Gennaro e l’ex capo
della digos genovese Spartaco Mortola, per i depistaggi nelle inchieste sul G8 del 2001. Il potere ha la memoria lunga, e lo dimostra anche prendendosi cura dei suoi fedelissimi.
Ma noi continuiamo per la nostra strada: a polizia e tribunali
l’intimidazione? Ai precari la vendetta!

Laboratorio Acrobax

SanPrecario calling!

Domenica 20 a Bologna si è svolta la riunione della Rete degli stati generali della precarietà in cui, i precari e le precarie, stanno costruendo un persorso di narrazione, di attivazione e cospirazione verso lo sciopero precario.

Questo è un percorso che cerca pazientemente di ricucire la divisione forzata che la precarietà ci impone e frammenta ognuno di noi nei nostri ambiti, nelle nostre vite, nei nostri lavori di merda e i ricatti di cui sono fatti.

Per questo abbiamo deciso di attivarci e invocare la protezione dell’unico santo che abbiamo e riconosciamo: san Precario.

Per questo chiamiamo tutti/e ad un incontro Giovedì 24 novembre alle 18.30, presso la sala da tè del Porto Fluviale (via del porto fluviale 24), per poterci confrontare sulla nostra condizione, sull’attivazione di tutte le relazioni complici tra precari/e e sul’organizzazione di possibili iniziative.

 

Se il natale è precario, noi saremo insolventi!

Liceo Anco Marzio in agitazione

Doveva essere solo una megafonata di protesta al Liceo Anco Marzio questa mattina, ma si è conclusa con una giornata di mobilitazione durata più di dieci ore.

Gli studenti dell’Anco Marzio, spronati da una megafonata svoltasi la mattina sotto la sede succursale e nei corridoi della stessa all’e
ntrata di scuola hanno richiesto a gran voce un’assemblea straordinaria per discutere il problema della mancanza di aule nel loro plesso. Dopo due ore di assemblea, partecipata anche da decine di professori gli studenti hanno deciso di occupare la sede centrale di via Capo Palinuro. Nonostante il vergognoso comportamento di alcuni professori che hanno letteralmente sequestrato i loro alunni nelle classi, circa 300 studenti sono riusciti a uscire dalla scuola dirigendosi in corteo non autorizzato verso la sede centrale. Non appena giunti hanno trovato ad attenderli la preside e il resto dei professori, blindati nell’edificio, impedendo sia l’entrata che l’uscita di chiunque. Dopo circa un’ora di trattative, gli studenti aiutati dai loro compagni relegati nella sede, hanno passato i cancelli, occupando la scuola.

Subito si è riunita una seconda assemblea straordinaria in palestra, mentre alcuni studenti trattavano con preside e polizia, giunta in massa davanti all’edificio. Dopo aver chiarito la volontà di non lasciare la scuola a mani vuote, gli studenti hanno organizzato un pranzo sociale, avendo bloccato le lezioni e chiamato la stampa per dare la notizia dell’accaduto. Subito dopo il suono della campanella molti studenti delle scuole di Ostia hanno portato solidarietà agli studenti dell’Anco Marzio. Nel frattempo la preside ha assicurato agli studenti l’arrivo nel primo pomeriggio di un dispositivo proveniente dalla Provincia che sancisse l’assegnazione delle due aule mancanti. In seguito a ciò, alle 15:30 gli studenti si sono riuniti ancora una volta in un’assemblea spontanea nell’attesa del suddetto documento, arrivato solo alle 17:30. Quest’ultimo prevedeva la definitiva consegna delle aule entro e non oltre lunedì 28 novembre 2011, data in cui gli studenti dell’Anco Marzio potranno finalmente avere un’aula in cui svolgere regolarmente le lezioni fino alla fine dell’anno scolastico. Inoltre la Preside stessa ha assicurato l’arrivo degli operai e lo scarico dei materiali in sede succursale fin dalla giornata di domani, martedì 22 novembre.

Dunque dopo 10 ore di partecipata mobilitazione gli studenti hanno abbandonato l’edificio con l’intento di riaggiornarsi giovedì nell’assemblea d’istituto. Questa giornata ha rappresentato una grande vittoria per l’intera componente studentesca del liceo Anco Marzio, che senza l’appoggio dei professori e della preside sono riusciti a risolvere almeno fino a giugno una situazione che era divenuta insostenibile. Ci teniamo inoltre a ringraziare tutti gli studenti e le studentesse che con una grande decisione e consapevolezza hanno deciso di alzare la testa e fare sentire la loro voce una volta per tutte. Daje forte regà!

Gli studenti e le studentesse del Liceo Anco Marzio

Studenti e studentesse di Roma Tre cacciano le aziende (Video)

Il 16 Novembre abbiamo portato a casa un risultato, facendo saltare, come avevamo annunciato, l’incontro con le aziende a lettere e filosofia. Sull’impianto teorico della giornata ci eravamo già espressi, dicendo che la sfilata di imprese del ramo finanziario-gestionale, e la ridicola presenza di decathlon e seat pagine gialle, puntava a costruire l’ennesima passerella di precarizzatori dentro l’ateneo. Il risultato più grande, però, è stato trasformare la vetrina pubblicitaria di manager d’azienda in un’assemblea pubblica che ha coinvolto decine di studenti e studentesse, di ricercatori e docenti. Assemblea che ha preso parola sui livelli di precarietà diffusa e sui meccanismi di mercificazione dei saperi, e che per oltre tre ore ha discusso di lavoro, università, crisi, ricerca, welfare, rivendicando ogni volta il punto di vista di chi subisce la precarietà contro gli spot d’impresa che oggi Roma Tre voleva realizzare. Dopo l’assemblea di ieri sulle forme di autorganizzazione sui posti di lavoro, nei territori e nelle università, e dopo l’occupazione, la facoltà si è risvegliata con la processione a san precario nei corridoi di lettere, e con le barricate simboliche che sbarravano la strada a chi pensava di raccogliere curricula e fare la spesa di manodopera sottopagata. Al rettore Fabiani diciamo che non abbiamo bisogno delle sue iniziative e che, se ritiene, può andare egli stesso a lavorare con contratto a progetto in un negozio di articoli sportivi o in un call center a 4 euro all’ora. Noi, invece che scrivere curricula, preferiamo sin da subito rilanciare i nostri percorsi dal basso, iniziando a costruire una grande assemblea di ateneo sui temi della precarietà e mantenendo vivi gli spazi di conflitto dentro e fuori l’università.

 

 

 

 

 

 

 

NON VI PAGO, NON MI VENDO

retelettere – lettere e filosofia roma tre

facebook – retelettere roma tre

Roma studenti medi in mobilitazione *saveschoolsnotbanks*

Il 17 novembre in oltre quindicimila siamo scesi in piazza a Roma, siamo stati tantissimi studenti delle scuole che hanno animato le vie di questa città, partendo in cortei spontanei dai nostri istituti (in particolare oltre duemila studenti partiti dalle scuole di prati e del centro, hanno svolto un corteo lungo il muro torto arrivando poi alla Sapienza) e raggiungendo poi il concentramento unitario di scuole e facoltà ad Aldo Moro dal quale si è mosso un corteo selvaggio che ha trovato nella partecipazione numerosissima di studenti e studentesse delle scuole uno dei principali elementi di forza e caratterizzazione.

Abbiamo dimostrato che non siamo disposti a restare a guardare in silenzio mentre vengono prese decisioni sulle nostre vite, che sia Alemanno, Berlusconi o Monti a farlo.

E nel fare questo abbiamo dimostrato di essere un grande movimento di massa, che quotidianamente costruisce percorsi autonomi di partecipazione, aggregazione e conflitto nelle scuole e che ieri ha espresso ancora una volta la sua forza. Un movimento crescente che rappresenta la presa di parola di una generazione nata precaria e cresciuta ribelle che nessuno può pensare di ignorare o sottovalutare.

Abbiamo attraversato le vie e le piazze di Roma, senza autorizzazione, forti della convinzione che questa città ci appartene, che non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per manifestare le nostre idee. Ci fa sorridere che Alemanno si ostini a tentare di regolamentare la nostra rabbia, abbiamo più volte dimostrato che non ci stiamo alle sue imposizioni e ai suoi divieti, e non possiamo che ribadirgli che saremo determinati quanto imprevedibili.

Abbiamo deciso che nella giornata di insediamento del nuovo governo tecnico dovevamo essere sotto il Senato, mentre si votava la fiducia, proprio per comunicare a Monti che dovrà fare i conti con noi. Siamo il 99% e in massa rifiutiamo le politiche di neoliberismo che la Bce vuole imporre all’Italia.

E proprio mentre noi lanciavamo uova e ortaggi sotto il Senato, gli studenti di Milano, Torino e Palermo venivano caricati della forze dell’ordine. Vogliamo quindi esprimere tutta la nostra solidarietà ai nostri compagni delle altre città fermati e feriti e vogliamo anche dire al nuovo governo che se è effettivamente interessato a dialogare con gli studenti, come dichiara, può iniziare impedendo che la polizia attacchi cortei studenteschi nella giornata mondiale del diritto allo studio.

Abbiamo letto su diversi quotidiani e sentito in alcune trasmissioni televisive racconti di episodi mai accaduti nel corteo di ieri. Dai cortei infatti non è stato allontanato nessuno studente a volto coperto o con un casco. Abbiamo ripetuto più volte e ribadiamo ancora che non esistono i buoni o i cattivi del movimento, che il nostro movimento è unico, trasversale e di massa. Siamo scesi in piazza ieri con le modalità discusse assieme, con i nostri scudi Book Block proprio perchè non siamo disposti a non tutelarci da indiscriminati attacchi delle forze dell’ordine come quelli che abbiamo visto avvenire in altre città.

E mentre ci riprendevamo le strade di questa città, un ragazzo veniva condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione per i fatti del 15 ottobre. Anche a lui va tutta la nostra solidarietà proprio perchè troviamo assurdo che a pagare per quella giornata debbano essere degli studenti che si sono difesi da cariche indiscriminate in piazza San Giovanni, con una forzatura dello stesso diritto penale nelle imputazioni e nell’entità della pena.

Non siamo più disposti a sopportare che il nostro futuro, le nostre scuole, la cultura, i saperi, debbano pagare il prezzo di una crisi che non hanno provocato, anche per questo lungo il percorso del corteo abbiamo segnalato diverse banche fra cui Cariparma e Unipol con la V per vendetta e con lanci di uova, proprio per ribadire chi sono i responsabili di questa crisi, e chi è che deve sanare questo debito che a noi non appartiene.

Siamo tanti e siamo determinati, e continueremo a dire tutto questo riappropriandoci delle nostre scuole e dei nostri tempi, occupando i nostri istituti come ha fatto oggi il liceo Malpighi di Bravetta!

Nei prossimi giorni ci rivedremo più volte in piazza, proprio perchè abbiamo l’esigenza di dire che questa è la nostra battaglia, e la stiamo vincendo.

Studenti medi in mobilitazione

https://www.facebook.com/pages/Studenti-Medi-in-Mobilitazione/200419589987249

sabato 19 novembre 2011 ore 15.00
assemblea cittadina degli studenti medi

(Video) Il nostro 15 ottobre: un punto di vista precario

1. [La giornata]

Dopo tanta immeritata e non proprio lusinghiera fama, dopo aver lungamente discusso all’interno della nostra comunità umana, territoriale e delle lotte che attraversiamo e contribuiamo ad animare, sentiamo l’irrefrenabile esigenza di dare un contributo ancorché parziale sulla dirompente giornata del 15 ottobre contro la crisi e l’austerity.

Una giornata il cui percorso di costruzione è per noi iniziato 3 mesi fa, quando con decine di precari/e degli Stati generali della precarietà riuniti a Genova, abbiamo deciso di raccogliere l’appello che stava girando per l’Europa e rilanciare l’impegno e la volontà di condividere e connettere a livello europeo le lotte contro l’austerity con le forme indipendenti di organizzazione e di lotta alla precarietà: lo sciopero precario. Un percorso che si sta costruendo da più di un anno.

Tempi lunghi, i tempi del sociale, frammentato e disconnesso, sicuramente molto diversi da quelli delle organizzazioni sindacali o partitiche che d’altronde, sulla precarietà, riescono a fare e capire molto poco.

A metà settembre siamo quindi stati all’Hubmeeting di Barcellona per conoscere, costruire e confrontarci con le piazze euro-mediterranee che da oltre un anno si stanno mobilitando e accampando, stanno occupando e resistendo. Il loro “non ci rappresenta nessuno” è un nodo di riconoscimento fondamentale dei nostri percorsi e della volontà di prendere la parola in prima persona, come precari e precarie.

Allo stesso modo, sin dal primo appuntamento, abbiamo partecipato al coordinamento 15 ottobre, scegliendo il piano del confronto e con la reale intenzione di fare di quella una giornata un momento dove si potessero far convivere le pur diverse sensibilità, scelte e prospettive dentro e oltre la dimensione corteo.

Il 15 mattina ci siamo trovati a Piazza della Repubblica intorno al camion della rotta indipendente verso lo sciopero precario con tanti e tante venute da tutta Italia. Insieme a noi tutta la rete e altre realtà da tutta italia (come la delegazione NoTav o le reti migranti di Brescia) che avevano scelto di condividere il punto di vista precario di quella area di corteo.

Il nostro modo di iniziare la giornata è stato quello di calare uno striscione delle precarie “Inconciliabili” dall’Hotel 5 stelle Exedra-Boscolo, simbolo del lusso e delle ricchezze precluse a noi e invece garantite con il nostro sfruttamento ad una ristretta parte della società. Perché la crisi non è uguale per tutt@. Quando, da sotto la piazza, abbiamo visto la security prendere le nostre compagne siamo entrate in massa a riprendercele: prima dieci, poi venti, poi trecento persone, soprattutto donne, sono salite dalla hall fino sul tetto, allegre ma determinate a non lasciare indietro nessuna. Il 15 ottobre era cominciato.

Andando avanti su via Cavour, dietro a San precario e Santa Insolvenza si sono radunate migliaia e migliaia di persone confluite verso una testa del corteo senza bandiere di partiti o sindacati che parlava di indipendenza e di autorganizzazione delle lotte dei precari, di diritto all’insolvenza e al reddito incondizionato e di base.

All’ingresso di via dei Fori Imperiali, abbiamo scelto di evitare ogni provocazione delle forze dell’ordine schierate in massa prima di Piazza Venezia, a protezione di un potere sempre più isolato, e che già nei giorni precedenti avevano dichiarato di puntare a spezzare il corteo. Abbiamo dunque girato a sinistra, e non perché non ritenessimo comprensibile la volontà di molti di dirigersi verso i palazzi del potere, quanto piuttosto perché non abbiamo mai voluto mettere a repentaglio non solo il nostro spezzone, ormai larghissimo, ma il corteo tutto.

Il nostro obiettivo era un altro, e qui sveliamo la “regia occulta”: poco dopo infatti siamo entrati, prima alla spicciolata poi in massa, dentro il Foro romano, senza pagare i 14 euro e dando vita ad un’occupazione (temporanea?) della suggestiva ed evocativa agorà di duemila anni fa aprendo lo striscione “Whose history? Our history!” (La storia di chi? La nostra storia!)

Volevamo regalare ai precari uno spazio pubblico in cui esprimere il proprio punto di vista, in connessione ideale e materiale con i tanti che nella stessa giornata sono partiti da Plaza Catalunya, a Barcellona, per diverse direzioni per dar vita ad occupazioni di case, ospedali e università. Per riprendersi ciò che non trova altro modo per esprimersi ed affermarsi che quello delle lotte.

Qui avremmo sicuramente voluto sostare di più, provando ad offrire ad un nuovo movimento contro la crisi, la precarietà e l’austerity uno dei luoghi di riconoscimento e un terreno di riconquista.

Ma purtroppo altre tensioni premevano sulla coda della nostra area di corteo a causa delle prime auto andate a fuoco.

La pressione dell’enorme massa del corteo ci ha dunque spinto a proseguire e percorrere molto velocemente anche Via Labicana quando ci siamo resi conto che, alle nostre spalle, la situazione si era decisamente “infiammata”.

A quel punto non siamo riusciti a far altro che constatare la pioggia di lacrimogeni e proseguire a passo svelto nell’unica direzione non bloccata da centinaia di agenti, quella verso piazza San Giovanni, dove siamo arrivati di corsa inseguiti dai blindati e dagli idranti che hanno letteralmente disperso poi l’intera piazza.

Nel giro di pochi minuti, man mano che il resto della manifestazione raggiungeva la piazza finale, migliaia di persone hanno dato vita ad una tenace resistenza verso le forze dell’ordine. Mentre altri mantenevano la calma e permettevano a quelli più impauriti di passare, si difendeva collettivamente lo spazio comune. In modo spontaneo e con un moto di rabbia sociale diffusa si è difesa una collettività ed il suo diritto a non essere spazzata via dalla polizia. Una potenza critica nuova del precariato metropolitano che, come accade nella storia quando esplodono movimenti di massa senza plausibili mediazioni o fantasiose retoriche rivoluzionarie, determinano forti rotture, scompaginano tattiche e facili semplificazioni. Per noi questo è un dato politico, se volete non scontato, anzi dirimente.

Noi eravamo in quella massa insieme a tante e tanti.

2. [Con occhio critico]

La nostra non vuole essere un’epica della giornata, né l’apologia facile della violenza, perché sarebbe una visione molto limitata e sicuramente diversa dalla nostra definizione di radicalità e determinazione che crediamo di aver contribuito a definire negli anni della nostra attivazione sociale e sui terreni delle lotte che abbiamo praticato e che vogliamo continuare.

Vogliamo invece affrontare i nodi critici a partire dai limiti che sicuramente abbiamo avuto.

Però, con lo stesso dovuto rigore, vogliamo sottoporre all’attenzione di tutti/e l’inadeguatezza politica dei movimenti proprio in questa fase in cui così diffusi e condivisi sembrano essere il desiderio e la necessità di una “global revolution”.

Non dobbiamo nascondere che a noi, come acrobati ed acrobate, è mancata la comprensione lucida di alcuni passaggi del corteo e la capacità di gestirne i rapidi ed imprevisti sviluppi.

La tensione che sentivamo crescere intorno al nostro pezzo di corteo ci ha fatto, per esempio, percorrere l’ultima parte di via Cavour e l’inizio dei Fori imperiali in una forma troppo inquadrata, entrando in contraddizione con la natura comunicativa dell’occupazione temporanea del Foro che noi stessi ci accingevamo a fare e contribuendo non poco alla confusione di quel momento.

Per chiarezza ripetiamo che non volevamo in alcun modo finire la nostra giornata a piazza san Giovanni ma che allo stesso tempo non c’era nessuna volontà di determinare l’impossibilità di farlo, per chi lo avesse voluto; all’altezza del Colosseo tutto questo è stato più che evidente alle centinaia di attivisti e compagni che intorno al camion, e nel tam tam di informazioni, provavano a condividere mete alternative, che di fatto sono state impedite da un dispiegamento di polizia inaudito.

L’escalation dello “Stato” di polizia è andata poi aumentando fino ad accanirsi per ore contro chiunque fosse nella piazza San Giovanni girando all’impazzata con le camionette e arrivando persino a sparare lacrimogeni all’interno della Basilica dove decine di persone cercavano riparo.

Crediamo che intorno a questa reazione contro la manifestazione sia più utile per i movimenti fare un’attenta controinchiesta piuttosto che leggere i giornali.

Ora qui emerge un altro nodo problematico che riguarda tutto il movimento, quello consolidato e radicato nelle lotte sociali che certo non si esauriscono con la ‘novità’ degli indignados. Tale percorso nel nostro paese, a differenza di altre realtà internazionali, deve ancora trovare le giuste interconnessioni con le lotte sociali che pure si stanno dando.

Il nodo sta nel difendere lo spazio politico del conflitto nell’era della crisi permanente che ha decretato la fine di ogni mediazione possibile. Ovvero di come, e se, tutelare l’agibilità di movimento per una radicale ed efficace massa critica contro l’austerity e chiunque pretenda oggi o domani di imporla sulla nostre vite già precarie.

Non stupisce che Maroni, o gli organi di informazione lottizzati e al servizio dei poteri forti del paese, mettano sotto accusa chi, già nei comunicati precedenti al 15, così come nella comunicazione sociale in piazza, ha esplicitato l’intenzione di fare di quella giornata, non solo un passaggio costituente o di accumulazione, ma anche di “rottura del quadro di compatibilità”. Ma del resto come oppositori e contestatori determinati di questo governo, e dei suoi ministri, non ci aspettavamo altro.

Sorprende invece, e di più amareggia, quando la critica, tra l’altro formulata come accusa, viene da alcuni ambiti interni ai movimenti e che a volte sembrano condividere l’importanza e il senso delle pratiche di rottura (di qualunque natura) solo se collocate in qualche altro luogo e in qualche altro momento.

Di questo dovremmo discutere a lungo, dentro e oltre il movimento, in un ampio e franco dibattito sulle pratiche che non può prescindere da un ragionamento sulla centralità della produzione di conflitto indispensabile.

Oggi lo riteniamo un orizzonte irrinunciabile dei nuovi movimenti contro l’austerity, la crisi e la precarietà come quelli che proviamo a costruire come rete per lo Sciopero Precario, o quelli contro la devastazione dei territori, come avviene in Val Susa, per la difesa e salvaguardia dei beni comuni, come il percorso fatto dai movimenti per l’acqua, per citarne solo alcuni.

Crediamo ancora che, al centro degli obiettivi di tutte le componenti di movimento, anche tra quelle che investono sulla rappresentanza sindacale e politica, rimanga centrale e strategico il conflitto sociale. Sennò dal nostro punto di vista, sarebbe questo un dibattito problematico e de facto un arretramento dannoso per tutte e tutti.

Certo, è necessario un dibattito sulle pratiche, da fare a 360° gradi e senza facili sintesi e soluzioni poiché capiamo, come è evidente a tutti, che il tema è più che complesso e che la giornata del 15 mette a nudo i limiti di ognuno, senza scorciatoie o linciaggi mediatici e politici.

E proprio sulle pratiche: per come la vediamo noi, è chiaro che, in una giornata di mobilitazione di queste dimensioni, i livelli messi in campo possono anche essere differenti ma devono mantenere la tensione ad inserirsi in un contesto comunemente definito e puntare ad avere la maggiore comprensibilità e consenso possibile.

Quello che abbiamo visto, invece, soprattutto con le macchine incendiate al centro di via Cavour e i luoghi in fiamme accanto a persone palesemente distanti da quelle pratiche come a via Labicana, ci sembrano azioni irresponsabili ed escludenti, poiché di fatto hanno ottenuto il duplice risultato negativo di isolare la prima parte dal resto della manifestazione e, contestualmente, impedire al resto del corteo di procedere. Come, del resto, ci sembrano insensate e pericolose le bombe carta esplose contro altri spezzoni della manifestazione. Anche noi, come tanti altri, abbiamo subito questa sovradeterminazione.

Tuttavia la dinamica della discussione dovrebbe gravitare secondo noi  sull’opportunità o meno di una pratica o di una scelta politica e, mai, nei termini di un “cancro da estirpare” o nella infinita e parziale diatriba tra buoni e cattivi.

Premettendo che noi siamo stati all’interno del coordinamento che ha organizzato il corteo, e dunque ne abbiamo condiviso i limiti, riteniamo che debbano essere assunte delle responsabilità che non sono di poco conto.

Il coordinamento “15Ottobre” non si è mai minimamente sforzato di diventare uno spazio pubblico di dibattito, visto che le riunioni si sono svolte nella prima mattina in sedi dove molto pochi hanno potuto partecipare. A livello internazionale la giornata del 15 Ottobre, nelle oltre 900 città in cui si è svolta, è stata costruita con assemblee di centinaia di soggetti vittime delle politiche di austerity.

Questo per dire che oltre le realtà sociali, sindacali e associative organizzate, c’era bisogno di creare uno spazio pubblico di cooperazione ed informazione sui contenuti della manifestazione, sulle differenti pratiche e sui molteplici contenuti. Perché era evidente che quella giornata era di tutti e di tante differenti forme di espressione. Nello stesso metro quadrato e nella stessa volontà politica è stato invece compresso ciò che molti, giustamente, sostengono che non possa convivere. Si è scelto di dare vita ad una pentola a pressione.

Si è dato da subito un corteo blindato e militarizzato (oltre 3000 agenti schierati), deciso dalla questura di Roma e accettato dal Coordinamento 15 ottobre. E’ stato un errore non opporsi pubblicamente ai veti della questura sul percorso della manifestazione del 15 Ottobre. Tali limitazioni della libertà di movimento e di dissenso si stanno rendendo espliciti in questi giorni anche nei confronti di organizzazioni come la Fiom.

Ora, visto che tutto è pubblico, comprese le successive prese di posizione, riteniamo grave questa scelta e l’abbiamo ripetuto fino alla nausea in quel consesso. Dunque, visto che quello era anche il nostro corteo, abbiamo deciso di partecipare in una forma che tutelasse il nostro spezzone, la partecipazione di tutti/e al corteo e ci garantisse di poterne uscire.

Purtroppo così non è stato e non è dipeso solo da noi. Per ultimo ci è sempre sembrato ridicolo e privo di prospettiva politica costruire percorsi in contrapposizione a qualcuno.

Per questo abbiamo costituito in Italia un percorso politico pubblico, quello degli Stati generali della Precarietà, che affermasse i nostri contenuti.

Per questo abbiamo contribuito a costruire quella stessa giornata in cui centinaia di migliaia di persone si sono mosse in Italia e milioni nel mondo.

Per questo ci pare ridicolo pensare, con cinismo, che qualcuno abbia operato per far attaccare una piazza inerme semplicemente per fare torto a qualcun altro.

Per noi non esistono traditori della causa, esistono solo opzioni e prospettive politiche diverse.

3. [Il partito della paura]

Dopo di tutto però, sta accadendo qualcosa di ancora più grave che vogliamo mettere al centro della discussione. E’ evidente che, oltre ad una gogna mediatica, in cui la nostra e alcune altre realtà vengono additate come responsabili con accuse decisamente fantasiose e confusionarie, si sta passando alla produzione di un paradigma.

Quello del partito della paura.

La manifestazione sembra diventata espressione solo di un dualismo, esasperato nella contrapposizione, e spariscono non solo i tanti contenuti e soggettività presenti, ma persino l’inoppugnabile verità dei numeri. Pare essere scomparso tutto: il prima, tutte le piazze internazionali che da mesi (o come nel caso greco da anni) si stanno mobilitando, la precarietà, la disoccupazione o la cassa-integrazione.

Ma soprattutto, sembrano essere scomparse le politiche di austerity che la crisi porta con sé.

Si produce oltre a tutto questo, una strategia della tensione tirata fuori ad arte, con “terroristi urbani”, richiami a leggi speciali e chiusura incondizionata di spazi di libertà. C’è un violentissimo attacco alle libertà personali e collettive di tutti noi come cittadini, che viene giustificato oltretutto con la delazione di massa. Orwell non sarebbe riuscito a raccontarlo meglio. Tutto questo è pericoloso, inaccettabile e condanna la società del nostro paese ad un nuovo impotente silenzio. Esattamente come il divieto a manifestare che per punizione Alemanno ha inflitto alla città e al paese tutto.

La spasmodica attenzione repressiva sulle legittime proteste della Val di Susa ci consegna un dato chiaro sulla chiusura di ogni spazio di possibile mediazione tra i territori e la cittadinanza da un lato e la politica e le istituzioni dall’altro.

E tutto questo, guarda caso, in previsione di una stagione dove i cittadini, i precari e le precarie, sono sotto un’altissima pressione sociale e stanno appena adesso iniziando a chiedere una trasformazione vera. Non solo verso un governo di colore diverso, e forse questo è uno dei problemi esplosi in seno agli indignados italiani, ma per la trasformazione radicale di un sistema economico e sociale. Non vogliamo più continuare a riprodurre, nel nichilismo (qui ci vuole) dell’avvitamento su se stesso, il sistema capitalistico e la tragicommedia nel suo epilogo decadente che, in Italia, assume tinte da basso impero.

Ma riteniamo che siano fondamentali momenti di discussione collettiva perché ogni contributo lanciato nella rete, a partire dal nostro, sarà sempre una parzialità. In questo momento c’è, secondo noi, la necessità di uno spazio di confronto diretto, in cui la parola sia all’interno di una condivisone, altrimenti tutti rimarremo nell’ambito del proclama che, molto probabilmente, fuori dal movimento interesserà pochi/e.

Siamo convinti che stia iniziando una nuova fase per i movimenti e che ci sia spazio per diverse prospettive in campo, con la premessa che tutti dovremo rimetterci in discussione per essere, diciamo così, all’altezza della complessità dei nostri tempi e della nuova fase che stiamo tutti attraversando.

Per questo riteniamo fondamentale che si apra un confronto pubblico largo, che possa confrontarsi non solo sulle pratiche del 15 ottobre ma anche e soprattutto sui contenuti, sulla capacità comune di prendere parola e porre con forza percorsi di agibilità politica e pratica delle nostre libertà.

Nei movimenti, giorno dopo giorno.

Un caloroso abbraccio a quant* ancora sono detenut*. Libere tutti.

Laboratorio Occupato Autogestito

Acrobax Project

San Cristobal de Las Casas, Chiapas, 15 novembre 2011: liberati due prigionieri politici

E’ stata una notte di festa. Non di gioia totale ma si’ di grande soddisfazione.

 Alle 7 di sera di martedi’ 15 novembre, si sono aperti i cancelli del carcere Numero 5 di San Cristobal, Chiapas.

 Due indigeni tzotzil possono respirare a pieni polmoni l’aria dei boschi circostanti: sono Andres y Jose’. Due indigeni meno in un penitenziario che ne accoglie, ammucchiati l’uno sull’altro, altri cinquecento.

 Andres e Jose’ sono due compagni dell’organizzazione “Los Solidarios de la Voz del Amate” che hanno dato vita allo sciopero della fame che ha raccolto l’attenzione e la solidarieta’ di molti pezzi dei movimenti, in giro per il pianeta. Dal 29 settembre al 6 novembre, per 39 lunghissimi giorni, insieme ad altri otto compagni e una compagna, non hanno ingerito cibo: un grido silenzioso e stoico di dignita’.

 Andres, 39 anni, e Jose’, 34 anni, sono stati arrestati 9 anni e 8 mesi fa per un omicidio mai commesso. Li hanno bendati, portati in una casa clandestina e torturati. Hanno strappato loro le confessioni di cui aveva bisogno il PM per richiedere, ed ottenere, una sentenza di 14 anni di galera.

Questa pratica infernale vissuta da questi due compagni e’, appunto, una pratica: una trafila normale nello spietato e colonialista sistema di giustizia messicano. C’e’ un delitto senza colpevole? Rinchiudi dentro il carcere il primo indigeno analfabeta che trovi (o che piu’ “disturba”) e lascialo marcire in cella, dopo una bella sessione di torture. Cosi’ il sistema continua ad ingrassare, dando un’immagine efficiente di se stesso e lubrificando gli ingranaggi della corruzione con le entrate informali per i funzionari, i giudici, i poliziotti…

Andres e Jose’ sono usciti formalmente usufruendo del meccanismo della pena sospesa per “buona condotta”.

Sale una risata grassa nelle nostre gole nello scoprire che lo Stato ammette che la buona condotta e’ quella convinzione che per anni ha mosso i compagni in carcere ad autorganizzarsi, dai gruppi di studio di spagnolo allo studio del contesto politico messicano, dai principi della sesta dichiarazione dell’EZLN alla gestione di uno sciopero della fame generalizzato, come quello del giugno del 2011 dove i cinquecento reclusi del Numero 5 hanno ottenuto l’allontanamento del dispotico direttore di allora. Una “buona condotta” sinonimo di determinazione e lotta. Anni passati a prendere coscienza di se stessi e della propria posizione di classe, la scoperta della fede come arma di lotta, l’autorganizzazione in un collettivo politico, gli insegnamenti e le lunghe riunioni con il prigioniero politico piu’ esemplare: il maestro Alberto Patishtan Gomez, oggi deportato a un penitenziario di massima sicurezza in Sinaloa (2000 km dal Chiapas) come punizione per quest’ultimo, coraggioso, sciopero della fame.

Lo sciopero della fame. Una misura estrema di lotta, per loro considerata inevitabile.

E la solidarieta’ vostra, di chi legge, di chi si e’ mobilitato a migliaia di chilometri di distanza, nelle piazze e nelle ambasciate messicane. Chi ha messo una firma, chi ha scritto un volantino, chi ha fatto una trasmissione radio. Tutto cio’ conferma che solamente la lotta, portata avanti da piu’ fronti e in maniera coordinata, puo’ darci dei risultati.

Come collettivo Nodo Solidale, con parte del nostro lavoro proprio in Chiapas e al lato dei prigionieri politici messicani, siamo enormemente riconoscenti dello sforzo di tutti i compagni e le compagne che hanno preso parte a questa battaglia.

Ovviamente c’e’ ancora molto cammino da percorrere. Mancano gli altri otto compagni e la compagna Rosa. Mancano tutti gli altri e le altre, rinchiusi dietro le sbarre dell’oppressione. Dal nostro punto di vista manca ancora da costruire quella societa’ senza sbarre e senza frontiere che aneliamo e che, con queste dimostrazioni di fraternita’ organizzata dal basso, stiamo in qualche modo sperimentando.

Con queste righe, vogliamo anche mandare un abbraccio forte e ribelle agli arrestati e alle arrestate del 15 ottobre a Roma. Per noi la battaglia per la liberazione dei prigionieri politici maya del Chiapas, è parte di una riflessione e di una pratica di lotta profonda, quella di esigere la liberazione immediata di tutti coloro che agiscono con pratiche reali contro il Potere e che il Potere stesso mantiene come ostaggi a mo’ di minaccia contro i movimenti sociali.

Inoltre, la stessa riflessione implica ed esige la necessita’ di uscire totalmente dalla logica punitiva dei sistemi di giustizia della presunta democrazia e, quindi, di aprire cento, mille, un milione di volte i cancelli delle carceri fino a quando saranno solo le rovine di una societa’ iniqua, della quale furono il simbolo piu’ azzeccato.

Gracias y la lucha sigue…

Nodo Solidale

http://www.autistici.org/nodosolidale/

 

articolo precedente: http://www.indipendenti.eu/blog/?p=26383

Il governo della repressione

 Collettivo Militant – www.militant-blog.org

Il bisogno di normalizzazione economica va a braccetto con quello della repressione sociale. Non era necessario attendere la lista dei ministri (oltre ai banchieri, due generali e un prefetto) per capire che quello appena varato è anche il governo delle guardie. Infatti, proprio una settimana fa la repressione si è abbattuta sul movimento: il pretesto, la manifestazione del 14 dicembre scorso a Roma.

(leggi http://www.roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_novembre_12/scontri-senato-2010-processo-1902139205678.shtml e leggi http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=169567&sez=HOME_ROMA ).

Con perfetta scelta di tempo, il nuovo governo è sorto più o meno contemporaneamente ad una serie di denunce nei confronti nostri e di quelle strutture che avevano contribuito ad organizzare la manifestazione dello scorso anno, sfociata poi negli scontri di Piazza del Popolo. Non rinneghiamo nulla di quella giornata, ma non possiamo non porci alcune domande su questo strano “timing” repressivo.

Quello che sappiamo, o intuiamo, è che è in corso una lotta interna fra polizia, Digos e Ministero dell’Interno, che si addossano reciprocamente le responsabilità per quello che è successo a Roma il 14 dicembre 2010 e che si è ripetuto un anno dopo, il 15 ottobre. Un rimpallo di responsabilità dovuto alla chiara frustrazione per non aver potuto avviare quell’ondata repressiva che tutti i media si auguravano nei giorni seguenti tali eventi. Una repressione impossibile, visto che, come diciamo dall’anno scorso, la rabbia sfociata il 14 dicembre e il 15 ottobre è stata assolutamente disorganizzata, incontrollata e non premeditata da alcuna struttura politica. La piazza, scavalcando le strutture, si è espressa senza nessuna organizzazione, e dunque anche per la repressione è stato  difficile colpire chi, nei fatti, non ha organizzato quegli eventi. Il giochetto di denunciare i “capi” ha smesso di funzionare. Il 14 dicembre si sono trovati davanti a due possibilità: o arrestare tutta la piazza, o rimanere, come infatti è avvenuto, con un pugno di mosche in mano.

Di fronte ad una situazione simile, al di là dei (relativamente pochi) fermi avvenuti direttamente in piazza, è stato impossibile, anche per gli inquirenti, risalire al grande “organizzatore”, visto che non esiste. Tutto questo ha portato alla frustrazione espressa la scorsa settimana con queste ventisei denunce, che coinvolgono compagni presi a casaccio: la Digos, non sapendo dove e chi colpire, si è scagliata contro i soliti noti, pescando nomi nella solita lista di denunciati tanto per far vedere che a qualcosa serve e per dare il contentino al Ministero e all’opinione pubblica.

L’altra grande motivazione delle denunce a scoppio ritardato è appunto il varo del nuovo governo. Dev’essere chiaro che con il governo tecnico nessuna forma di dissenso può essere prevista, che la stretta repressiva sarà fortissima e che questo è solo l’antipasto. Che le opposizioni, quelle vere, oggi sono più sole che mai e che la repressione avverrà col beneplacito di tutte le forze politiche presenti nelle istituzioni. Nessun compagno avrà più margine di manovra o di mediazione perché è finito il tempo della mediazione stessa. Oggi il consenso dev’essere unanime, e chi si pone fuori dal perimetro politico del governo tecnico non avrà possibilità di movimento. Sarà tollerato il dissenso fisiologico, quello funzionale, di cui necessitano tutte le democrazie per potersi definire tali, ma quando questo oltrepasserà il mero livello formale, la repressione sarà l’unica risposta dello stato.  

Ci attendono tempi grami, questo è solo l’inizio. Per quanto ci riguarda, invece, non saranno certo qualche denuncia in più o in meno, qualche invito alla delazione o qualche richiesta di controllo poliziesco ( http://www.libero-news.it/news/854273/Indignati-Santori-via-dal-web-siti-della-violenza-Black-Bloc.html ) a farci cambiare idee e posizioni. Seguimos en la lucha…