Le carceri scoppiano!

Sono oltre 67.000 le persone rinchiuse nelle carceri del nostro Paese
in strutture che ne potrebbero contenere al massimo 42.000.

Il maggior sovraffollamento degli ultimi 60 anni. Un record.

Le condizioni di detenzione sono inaccettabili: mancanza di acqua e di igiene, di spazi per attività sportive o semplicemente per muoversi, docce
insufficienti, vitto immangiabile, assistenza sanitaria nulla ecc.
Amnesty International le definisce“trattamenti inumani e degradanti” e
“tortura”. Per questi “trattamenti” lo Stato italiano è stato
condannato più volte dalla Corte europea di Strasburgo.

 

Nel 2008 il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha sottoposto il nostro Paese
alla Universal Periodical Review, una procedura di revisione periodica
riguardante i diritti umani. Sull’Italia sono state emanate ben 92
raccomandazioni. Eppure si continua a torturare: alla Diaz, come a
Bolzaneto e in piazza a Genova nel luglio 2001. Non si tratta di
episodi isolati e straordinari: ma di pratiche ordinarie dello Stato,
delle classi dirigenti e delle istituzioni.

Qual è il motivo di questa “grande carcerazione” cosi come definita
dagli esperti? In questi ultimi decenni i reati gravi contro le
persone sono in diminuzione, e allora? La risposta è che in un momento
in cui l’Europa sta vivendo una delle più grosse crisi economiche, il
sistema capitalistico risponde con la repressione e la carcerazione
coatta per soffocare la nascita del conflitto sociale dove ogni
violazione dell’ordine pubblico deve essere sanzionata. In sostanza il
peso di questa crisi è scaricato sulle spalle, già massacrate, dei più
poveri, di chi lavora in modo precario, di chi non trova lavoro, di
chi con il magro salario non arriva alla terza settimana del mese. Le
carceri italiane non sono piene di potenti corrotti o inquisiti
eccellenti, ma di autori di piccole trasgressioni: oltre 25.000 sono
condannati a pene inferiori ai 3 anni (e per le leggi italiane
dovrebbero trascorrere la sanzione in “misura alternativa” non in
carcere). Negli ultimi decenni sono state create leggi liberticide
come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la ex Cirielli sulla recidiva,
che sostenute dalle campagne forcaiole della stampa nostrana hanno
alimentato un clima che rende sempre più difficile l’accesso alle
misure alternative. E’ con questa stessa repressione che per una
manifestazione si rischiano fino a 15 anni di carcere; ogni
mobilitazione, ogni lotta subisce l’aggressione delle forze
dell’ordine e la condanna della magistratura giunge puntuale con pene
altissime. In questo paese la cosiddetta “legalità” considera più
grave una manifestazione collettiva per un bisogno negato (lavoro,
casa, sanità, ecc.), piuttosto che l’azione criminale di chi devasta
l’ambiente, saccheggia
le nostre vite e riduce alla fame e/o uccide.

Le detenute e i detenuti si ribellano, a questo massacro non ci stanno!

Sono decine e decine le carceri in lotta.
Dal sud al nord Italia la protesta si espande: scioperi della fame o
del vitto, battiture delle sbarre e sciopero delle lavorazioni. I
detenuti e le detenute chiedono Amnistia, Indulto, accesso rapido alle
misure alternative, di uscire dal carcere, di mettere fine a quel
sovraffollamento spaventoso che rende, la già dura condizione di chi è
privato della libertà, del tutto inaccettabile e invivibile.

Siamo al fianco di chi lotta in carcere e vogliamo fare nostri gli
obiettivi di lotta della popolazione detenuta
Sosteniamo e diffondiamo in tutta la città la loro lotta!

Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare a un presidio giovedì
2 agosto davanti al Ministero di Giustizia in via Arenula a partire
dalle ore 17.00

LIBERE TUTTE LIBERI TUTTI

compagne e compagni contro il carcere

Sgombero del campeggio? I notav rilanciano con la marcia di sabato

In prefettura si è tenuta la riunione del comitato regionale per la sicurezza, nella quale il presidente della Provincia Antonio Saitta chiede lo sgombero del campeggio notav, definito dallo stesso Saitta “un campo militare”. È da qualche giorno che politici, sindacati di polizia, digos, giornalisti utilizzano vocaboli senza senso, lontani dalla realtà, usati solo per fare “scoop”, per non dover ammettere che in val susa c’è una resistenza popolare in atto, che risponde all’arroganza del potere, che si dice democratico ma che non ascolta una valle intera che si oppone contro una scellerata opera, Ovviamente Saitta non poteva esimersi dal non citare, nel suo intervento, la retorica della legalità tanto cara ai politici come ai magistrati, sapendo però bene che proprio il cantiere è illegale perché installato senza nessun progetto di lavori esecutivi. Allo stesso modo si comporta il siulp, sindacato di polizia, che chiede al ministro dell’interno l’intervento dell’esercito, sapendo bene che il cantiere illegale di Chiomonte è già sito strategico di interesse nazionale e che le forze militari, con reparti speciali stanziano da mesi al suo interno. La val di susa è già militarizzata e si è potuto appurare nuovamente a Bussoleno la notte scorsa durante il presidio notav- nonuk contro il passaggio del treno radioattivo. Quindi il siulp forse vuol lasciare intendere che di fronte ad una opposizione popolare ci vogliono i carri armati e fucili spianati? Alla richiesta di sgombero chiesta dai soliti Cota ed Esposito, quindi si aggiunge a gran voce Saitta al quale proprio non va giù sapere che a Chiomonte c’è un campeggio popolare, autogestito, dove si fanno dibattiti, incontri, spettacoli, dove si mangia bene e si sta tutti insieme, uniti dalla lotta contro il tav. Nessun campo militare, nessun sentiero ad ostacoli sul quale allenarsi alle pratiche di guerriglia, nessuna gerarchia militare. Nel campeggio notav ci sono donne e uomini, giovani e giovanissimi che non hanno bisogno di campi militare per sapere come si difende il proprio territorio, come circondare un cantiere che nessuno vuole e che tutti insieme si decide di smontare, riuscendoci anche molto bene… Questa è la val susa, questo è il movimento notav, che decide quando, dove e come fare le iniziative. Guarda la conferenza stampa di presentazione alla marcia popolare notav di sabato 28 luglio nella quale il Movimento invitata tutti a parteciparvi.

www.notav.info

www.infoaut.org

 

Alcune questioni sullo stato dei movimenti di Toni Negri

da www.uninomade.org

Alcuni compagni americani ed europei mi chiedono: ma perché in Italia non c’è stata Occupy? Perché l’unica espressione della moltitudine in lotta rimane attualmente il movimento della Val di Susa? Con un paradosso evidente: i no TAV, se hanno certamente radicamento forte, se esprimono una tonalità originale di lotta di classe nella post-modernità, non possiedono le caratteristiche dei movimenti Occupy – un’espansività generale della proposta sociale, una potenza destituente delle vecchie gerarchie  della rappresentanza – e soprattutto non possiedono ancora realmente una dinamica allargata di costituzione politica “comune” che apra a radicali rivolgimenti politici…

 

Ora il paradosso è anche un altro. Perché porsi questa domanda proprio quando  la dinamica di Occupy sembra già esaurita? Più generalmente: quando le primavere arabe sono in buona parte terminate sotto il tallone dei militari, nella tragedia della guerra civile o, dulcis in fundo, hanno prodotto regimi islamici che sembrano annunciare restringimenti di libertà e di pratiche politiche appena riscoperte, restaurazioni del vecchio sotto gli orpelli, semmai più tremendi di quelli delle vecchie dittature, del teologico-politico? Quando i movimenti europei sono stati soffocati dalla mefitica atmosfera della crisi economica, e quelli americani sono li lì dall’essere assorbiti dalle macchine politiche che dominano ormai interamente le scadenze elettorali?

 

Ma forse la realtà può essere letta altrimenti. Il movimento Occupy, laddove è insorto, quand’anche fosse stato sconfitto, ha rinnovato l’orizzonte dell’azione politica, sconvolgendo il fondamento dei programmi costituzionali e imponendo una nuova immagine della democrazia, affermando il “comune” al centro – nel cuore, e all’orizzonte – di ogni progetto sociale. Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi: ha segnato un passaggio senza reversibilità alcuna; ha, fin dentro la sua sconfitta, spalancato un insieme di possibili che ridefinisce d’ora in poi il mondo che verrà. In questo senso, ha vinto: ha costituito nuova grammatica politica del comune. Da Occupy non si torna in dietro.

 

Torniamo allora al punto. Perché dunque in Italia non c’è stata Occupy? La questione è irrilevante dal punto di vista della tendenza; è invece importante se vogliamo capire localmente l’agenda politica che avremo da gestire nei prossimi mesi – un’agenda i cui effetti immediati, concreti, biopolitici, riscontrabili nella materialità delle esistenze, dei modi di vita, dei sogni e delle disperazioni, non possono – non debbono – essere ignorati.

In Italia, probabilmente, non c’è stata Occupy perché, in buona parte, i movimenti italiani non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco: questa loro continuità, ed il peso della loro tradizione, soffoca il nuovo regime dei desideri, delle aspirazioni, delle sperimentazioni – insomma di quello che abbiamo chiamato le nuove potenze costituenti del comune – che pure le nuove generazioni portano con se quando si aprono al politico. Quella continuità ha fatto dell’Italia un paese in cui la politica dei movimenti, nonostante le repressioni feroci, è sopravvissuta a se stessa e ha permesso la trasmissione di esperienze e saperi delle lotte essenziali; ma allo stesso tempo, ha paradossalmente impedito che nuove sperimentazioni si facessero strada. Il patrimonio delle lotte, cosi prezioso, non può diventare patrimoniale: se cede alla tentazione, diventa a sua volta ciò di cui tanto aveva sofferto in altri tempi: istanza di occultamento, obbligo di silenzio, volontà di cecità.

 

Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali.

Ora, però, nelle fabbriche sono spesso schiacciati da una improvvida alleanza che essi stessi hanno tentato con l’organizzazione socialista del mondo del lavoro. Solo raramente l’ideologia della produttività è stata assunta nelle fabbriche come il nemico da combattere; quando lo è stata, ce ne siamo scordati. La trasformazione del lavoro a cavallo fra XX e XXI secolo non è stata riflettuta per quello che effettivamente è (e che i movimenti, precisamente, trent’anni fa, hanno contribuito a rendere evidente): una trasformazione radicale – dall’operaio massa all’operaio sociale; dal lavoro materiale al lavoro “immateriale”, linguistico, cooperativo, affettivo; fino all’egemonia del lavoratore cognitivo. Sindacati socialisti e sindacatini fabbrichisti hanno troppo spesso continuato a considerare il lavoro “bene comune”, cioè niente di più – e niente di meno – che la “giusta misura” dello sfruttamento capitalista.

 

Nelle scuole e nelle università, poi, l’autonomia dei movimenti, anche quando ha contestato il “merito” – e troppo poche volte lo ha fatto in maniera realmente efficace e schietta  –  non è quasi mai riuscita a incarnare, materializzare e organizzare una vera domanda di libertà dei saperi. Raramente ha provato a costruire lotte attorno allo studio, alla formazione, alla qualificazione in quanto programmi di costruzione politica del comune. E spesso si è arenata nella strenua difesa di un “pubblico” ormai incapace di proteggere le scuole e l’università contro il loro smantellamento, e diventato strumento principe della messa al lavoro della produzione sociale. Il riformismo non è mai cosa bella – in alcuni casi, facendosi coraggio, lo si capisce quando, disperatamente, cerca di salvare il salvabile; ma lo si odia quando si fa complice delle politiche del peggio: assoggettamento, declassamento, disciplinarizzazione, sfruttamento, disprezzo – il tutto per salvare uno Stato che sembra poco preoccupato di salvare i suoi “cittadini”.

 

Quanto al modello dei centri sociali, che è stato fondamentale – in particolare nella fase post-repressione che ha caratterizzato il difficile guado dala fine degli anni ’70 ai primi anni dei ’90, ha troppo spesso perso ogni prospettiva politica che non fosse subordinata all’interesse della propria riproduzione, della propria sopravvivenza. I centri sociali sono stati, per la maggiore, luoghi, strumenti, prodotti di una stagione di lotte continuata con altri mezzi nonostante la sconfitta degli anni ’70; ma sono diventati, in tanti casi, il fine di se stessi – l’unico orizzonte di una realtà ormai ridotta al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo. Molti si sono dunque piegati alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica. Hanno smarrito ogni capacità di azione e non a caso stanno spesso, negli ultimi anni, ripiegando su linee istituzionali a livello locale e/o nazionale. Certo, localmente, l’analisi può sembrare ingiusta. In molti casi, lo è. Ma la domanda va posta lo stesso: siamo sicuri che il modello “slow food” sia davvero adeguato alle scommesse e alle sfide davanti alle quali la crisi ci mette? O che l’imprenditorialità “buona” basti a dimenticare il gioco al massacro che si sta svolgendo subito fuori dalle mura, nelle nostre vite?

 

Insomma: tre luoghi “storici” dell’autonomia sociale, che hanno reso possibile la resistenza e l’organizzazione, la sperimentazione di pratiche, l’invenzione di altri modi d’azione; ma tre luoghi che, proprio perché “storici”, sembrano oggi sempre più inadeguati. Tre luoghi che troppo frequentemente sembrano pezzi di modernariato della nostra memoria, ricchezze patrimoniali un po’ imbalsamate: foglie di fico ben leggere davanti all’incedere della realtà. Tre luoghi che sono diventati tre “beni comuni” come sempre lo sono stati nelle parrocchie, il lavoro, lo studio e il patronato – laddove bene comune significa solo bene vicino, locale, bene di condivisione, bene da condividere in famiglia. Il comune, se non è il prodotto di una dinamica costituente, si riduce a ciò: una serie di commons sicuri di suscitare consenso popolare – come non essere d’accordo con la difesa della natura, il buon vivere, la genuinità, il buon gusto -, e spesso immediatamente travisati da discorsi di elogio dell’Ancien Régime: quanto si stava bene prima – prima dell’Europa, prima delle macchine, prima della tecnica, prima della modernità, prima della globalizzazione, prima dell’operaio sociale, prima del consumo di massa. Evviva: torniamo a Peppone e don Camillo, alla dignità del lavoro operaio, all’Italia che vive di poco e lavora tanto, alle balere. Per carità, lasciamo alla Chiesa e alla Lega, o a quel che rimane del vecchio PCI che non finisce di sopravvivere alla propria morte, quella assurda e mortifera nostalgia.

 

Non contenti di questo, molti movimenti sociali si sono infilati in una strada contorta e buia, accettando i ricatti loro posti sulla questione della “violenza”, sulla valutazione della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni, sono stati colpiti di accecamento davanti alla corruzione che le infestava. Che ci volesse l’ultima sentenza su Genova per capire da quale parte stava la violenza? E quale giochetto infame avevano fatto e continuavano a fare tutti coloro che, di fronte ad un movimento in crescita (che andava di pari passo con crescita del disagio, della disperazione e della rabbia di tutti quelli che oggi, letteralmente, non ce la fanno più) ricattavano ad ogni motto “riottoso” – “violenza si, violenza no”?

Molti, nei centri sociali, hanno cercato alleanze politiche dentro un quadro parlamentare che andava disfacendosi ed hanno stretto alleanze sindacali che hanno avuto l’effetto opposto a quello che era realmente desiderato: hanno spinto i sindacati ancor più verso posizioni corporative, negando ogni tematica di reddito sociale o di alleanza con altri strati precari. In certi casi, hanno perfino considerato le rivolte arabe, i riots inglesi, e alcune forme di auto-organizzazione come passaggi negativi, come regressioni politiche, come pure “spontaneità” infra- o impolitiche.  Siamo sicuri che provare a capire prima di giudicare non ne valeva la pena? O si era talmente ossessionati dalla propria sopravvivenza che tutto il resto diventava secondario?

Fino agli ultimi  capovolgimenti in data: sentiamo tanti, oggi, piagnucolare sul fatto di non aver ragionato abbastanza sul ricatto “a proposito di violenza” che hanno subito; si lamentano del fatto  che la loro presunta internità alle dinamiche sociali non è riuscita a trasformarsi in una estraneità attenta e critica agli sgambetti ed alle inerzie continuamente subite – sicché ora si chiedono se doversi richiamare niente di meno che all’“illegalità di massa”…. Ci sembra solo un lamento, come l’altro che abbiamo inteso in questi mesi, e che ci lascia – anche questo – a non dir poco esterrefatti: Dio è violent!

 

Per chi ha vissuto tutto questo dall’interno dei movimenti, questa fase assomiglia molto a quella che seguì il disfacimento dei gruppi sessantotteschi nei primi anni ’70. Come per i centri sociali provenienti dal movimento no global, anche allora, nel 1973-74, i partitini sopravvivevano a se stessi. Alcuni, presentatisi alle elezioni, erano stati spazzati via, altri si erano barricati attorno a giornali ed iniziative sparse. Il mondo, quello delle lotte operaie e delle lotte sociali, andava ormai avanti senza di loro. Fu così che, a partire dal ‘73-‘74 l’autonomia emerse e mostrò improvvisamente la sua enorme forza di resistenza e di proposta (di resistenza: vale a dire di proposta) – almeno fino al ’77. Poi, ancora, sopravvisse come etica e come modello organizzativo alla sconfitta dei movimenti, e torniamo all’inizio della nostra analisi.

 

Oggi si tratta di rinnovare quel modello. I suo limiti di allora – troppa spontaneità dei singoli, troppa violenza di massa – sembrano già superati dalle attuali caratteristiche della composizione dei nuovi movimenti – spazialmente diffusi, culturalmente convergenti (non a caso è sul terreno dei lavoratori della cultura che in Italia c’è stato, da ultimo, qualche positivo fracasso), politicamente rivolti alla costituzione del “comune”. Questo è quello che vogliamo chiamare Occupy.

 

C’è bisogno di un nuovo protagonismo. Proponendo l’autonomia diffusa dei movimenti, sappiamo che la ricerca di nuovi obiettivi e la sperimentazione unitaria di nuove lotte sono il primo passaggio da realizzare. Lo “sciopero dei precari”, il “reddito di cittadinanza”, la riapertura urgente di forti lotte operaie sul salario, la pratica di risposte efficaci all’offensiva del capitalismo finanziario sul debito, la difesa sociale del Welfare ecc.: questi i passaggi principali sui quali la conricerca e la proposta di lotte unitarie debbono provarsi. Organizzare i poveri e gli operai insieme, non semplicemente per il salario ma per il Welfare; organizzare gli studenti e gli indebitati di tutte le categorie, non semplicemente per misure di sostegno ma per il reddito universale di cittadinanza; organizzare i migranti insieme ai pensionati perché non è solo la cittadinanza che interessa i primi  e la garanzia di diritti ormai maturati i secondi, ma l’organizzazione biopolitica dell’esistenza tutt’intera.

 

L’autonomia dei movimenti deve riportare le sue lotte verso un obiettivo politico di composizione. Ed esso non può consistere se non nell’espressione di un potere costituente che rinnovi radicalmente l’organizzazione della vita nel lavoro e nella società.

 

Toni Negri

 

19 luglio 2012

 

 

Processo Notav: resoconto della quinta udienza preliminare

Da www.infoaut.org

Oggi venerdì 13 luglio si è svolta la quinta udienza preliminare del procedimento penale che vede imputati i 46 NO TAV per i fatti del 27 giugno e del 3 luglio avvenuti in Val Susa.

In aula hanno preso parola gli ultimi avvocati della difesa per discutere le posizione dei loro assistiti. Essi hanno fatto notare, con le dovute specificità individuali, come la riproduzione fotografica fornita dalla digos torinese ritraggano immagini statiche solo ed esclusivamente del soggetto sottoposto al presunto reato, decontestualizzate dal resto, con uno spazio temporale fra una foto e l’ altra di diverse ore. Nell’intenzione dell’accusa questo potrebbe far presupporre che l’imputato abbia perpetuato per diverse ore il reato contestatogli. Le foto che ritraggono quel singolo momento, in quella singola situazione fisica e temporale, non vengono interpretate come un momento unico, ma come una continuazione dell’azione nell’arco di un lungo tempo.

Ovviamente questa posizione dell’accusa viene contestata dalla difesa che ritiene invece quel momento un momento unico, specifico. In più ciò che manca assolutamente è la ricostruzione del comportamento di un altro importante attore in campo oltre i manifestanti, cioè quello delle forze dell’ordine che avrebbero, ad esempio, iniziato il lancio di lacrimogeni prima del lancio di sassi.

Alla fine della discussione degli avvocati difensori, i pm hanno fornito nuovi atti probatori, in riferimento al materiale sequestrato dalla digos durante le perquisizioni dei mesi precedenti, riconducibili ai soggetti interessati. Questa operazione viene immediatamente contestata dalla difesa, per difetto di procedura, poiché tutto il materiale probatorio deve essere consegnato prima della discussione in aula dell’udienza preliminare. Il gup Edmondo Pio, di fronte a tale obiezione, non ha potuto far altro che appoggiare la richiesta della difesa, rigettando il nuovo materiale fornito dai pm.
Terminata l’udienza preliminare gli imputati hanno voluto leggere un documento scritto e redatto collettivamente dai 46 imputati, di cui riportiamo il testo:

Noi, imputati Notav inquisiti in questo procedimento protestiamo contro la permanenza di misure cautelari che vedono tre di noi comparire ancora in stato di detenzione carceraria durante le udienze preliminari.

Ad un anno di distanza dai fatti contestati, dopo sei mesi dall’arresto, riteniamo un accanimento punitivo il mantenimento di queste misure nei confronti di tre imputati che, per posizione personale e per reati contestati, non sono diversi dagli altri a piede libero.

La loro permanenza in carcere riveste solo una funzione di immagine a fini puramente mediatici per rafforzare le tesi della procura torinese.

Lo stesso discorso vale anche per gli altri tre imputati ancora agli arresti domiciliari.

Noi tutti siamo parte di un grande movimento collettivo che si batte contro un’opera inutile, devastante e nociva per un intero territorio e la comunità che lo abita.
 

Si parte e si torna insieme!

org

Roma non si vende!

 

La sentenza del Consiglio di Stato che ha bloccato la discussione in aula sulla vendita di ACEA è un risultato che si inserisce in un percorso lungo tre mesi, in cui abbiamo aperto un percorso pubblico nella città e bloccato e rallentato la discussione, con molta determinazione, fatica ma anche allegria.

Per questo è una vittoria che consideriamo di tutti/e noi, e ci fa gioire, nonostante oggi ci sia stato un brutto episodio in cui l’occupazione simbolica, che abbiamo contribuito a costurire, sia stata sgomberata.
Va detto, per onor della cronaca, che era un’iniziativa pacifica a cui si è risposto con un’ottusa prova di forza, tanto più che avveniva mentre arrivava la notizia dal Consiglio di Stato.

E’ chiaro però che la battaglia è ancora lunga e difficile, soprattutto per ottenere finalmente la ripubblicizzazione del servizio idrico ed iniziare così ad invertire la rotta.

Questo il comunicato di “Roma non si vende:

Per questo è importante fare in modo che l’assemblea di Mercoledì prossimo (il 18 alle 18 al Rialto) sia partecipata, perchè c’è bisogno dell’intelligenza, della forza e dell’entusiasmo di tutti/e noi per disegnare le prossime traiettorie del movimento.

Una prima vittoria contro la vendita di ACEA
Oggi attiviste e attivisti, cittadini e cittadine della rete “Roma non si vende” sono tornati per l’ennesima volta sotto al Campidoglio per dimostrare la loro contarietà alla delibera 32 voluta dalla Giunta Alemanno che mette in vendita il 21% di ACEA.

Dopo giorni in cui la maggioroanza ha ripetutamento messo in pratica forzature in Consiglio comunale, dopo aver calpestato la volontà popolare espressa con il referendum dell’anno scorso e aver impedito ai cittadini di entrare a seguire la discussione pubblica, abbiamo deciso di occupare simbolicamente l’entrata del Campidoglio.

La reazione è stata assolutamente in linea con quella delle ultime settimane e, dopo averci ignorato per due ore, hanno deciso di sgomberare con la forza un presidio assolutamente pacifico.

Ma la lotta di questi mesi iniziata con la grande manifestazione del 5 maggio ha prodotto i suoi risultati. Infatti, la notizia di oggi è che il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso fatto su tutte le forzature fatte dalla Giunta Alemanno e sospende la discussione sulla delibera 32.
Questa di oggi rappresenta, in primis, una vittoria della mobilitazione messa in campo da “Roma non si vende” da tre mesi a questa parte e sicuramente un duro colpo per la maggioranza.

L’acqua non si vende, l’acqua di difende!
Roma non si vende

Noi senza lavoro voi senza vergogna – assemblea dei precari sotto la regione Lazio

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Giovedì 12 Luglio presidio-assemblea dalle ore 11.

Il consiglio regionale ha approvato il 28 giugno l’assestamento di bilancio confermando una manovra recessiva e non adeguata al contesto di sofferenza che stanno attraversando migliaia di soggetti: dall’emergenza abitativa e ambientale, alla precarietà, alla generale crisi occupazionale e allo specifico ed elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile. In questo contesto la Polverini conferma le politiche anti-sociali portate avanti dalla propria giunta con un provvedimento di assestamento del bilancio annuale e pluriennale 2012-2014 che vale 1,5 miliardi di euro. L’emorragia di posti di lavoro sta colpendo decine di migliaia di lavoratori che, se non già precari, vengono precarizzati dall’imposizione autoritaria di nuove condizioni di lavoro, generando una rincorsa al ribasso nella deprivazione di ogni diritto, sia nel comparto privato che in quello pubblico. Per questi motivi il 19 giugno con uno striscione che recitava “Il vostro sviluppo la nostra disoccupazione, noi senza lavoro voi senza vergogna” la rete dei precari indipendenti per la P.A. e i punti san precario hanno interrotto il convegno su etica e reti di impresa presso la sede della camera di commercio di Roma organizzato da Sviluppo Lazio con la presenza della presidente regionale Polverini. Il motivo della contestazione era la mancata stabilizzazione contrattuale per i precari a tempo determinato, ultimi di una serie di licenziamenti bianchi (mancati rinnovi) che ha coinvolto tutte le categorie contrattuali più deboli, dalle finte partite iva ai co.pro. ai tempi determinati. Sviluppo Lazio è un agenzia tecnica regionale per gli investimenti, la cui maggioranza delle azioni è della Regione Lazio. Come atto di rappresaglia, dopo il convegno, ha ‘esonerato’ quei lavoratori interni individuati come contestatori dall’attività lavorativa fino a scadenza di contratto. Atto, che riteniamo gravissimo, che è oggetto in questi
giorni di interpellanze regionali e parlamentari. Le condizioni di vita e di lavoro che vivono i precari di Sviluppo Lazio sulla propria pelle sono purtroppo comuni alle centinaia di migliaia di lavoratori che vivono in questa regione, dai precari delle agenzie tecniche della P.A. e degli enti di ricerca pubblici come l’Isfol, ai lavoratori dell’Ex Alitalia, dell’Argol, dellaTecnoindex, della Sigma Tau, dell’Ex Agile Eutelia, della Format, della Lighting Italia, della Teleperformance e di tantissime altre realtà lavorative, alle quali una gestione scellerata della crisi ha imposto senza margini di contrattazione un pesante tributo sacrificale di posti di lavoro. I lavoratori non solo hanno dovuto subire la perdita dell’occupazione, a cui negli anni avevano dedicato energie competenze e aspettative, ma anche la beffa di essere considerati costi insostenibili dentro un processo di ristrutturazione aziendale che colpisce oramai senza alcuna differenza sia il pubblico che il privato. Infatti nel caso dei precari di Sviluppo Lazio si è assistito ad una sorta di “spending review” regionale, che in modo del tutto arbitrario chiude gli occhi sugli stipendi di manager e consulenti, spesso con doppi e tripli incarichi, o sulle decine di milioni di euro di fondi strutturali europei persi per l’incapacità di assegnarli e spenderli adeguatamente. Mai come in questo periodo, nella nostra regione, tale situazione
mostra tutta la sua grottesca paradossalità: fondi che dovevano e potevano essere investiti in politiche
sociali, in politiche attive per il lavoro e a beneficio di tutti i soggetti che stanno pagando il costo della crisi e dell’austerity, vengono perduti per incapacità tecnica e politica. Evidentemente sostenere i soggetti in condizione di fragilita’ economica e sociale non e’ una priorità della Polverini, troppo impegnata invece a
finanziare provvedimenti di sostegno al credito delle imprese. Infatti, la giunta, all’inizio del suo mandato nel 2010 ha subito bloccato e de-finanziato la legge regionale per il reddito minimo garantito, ottenuta nel 2009 grazie alle importanti battaglie dei movimenti sociali. Tale dispositivo redistributivo aveva fatto
emergere 130 mila soggetti precari, disoccupati e inoccupati invisibili e senza strumenti di protezione sociale. Il contesto di crisi occupazionale sta diventando drammatico visto l’elevatissimo numero (circa 60 mila) di cassintegrati nella regione, che si unisce alle condizioni di estrema vulnerabilità in cui versano ampie fasce di popolazione. In questa condizione soltanto attraverso una larga coalizione sociale è possibile cambiare le politiche della Giunta regionale. Riteniamo necessario lanciare un presidio-assemblea per giovedì 12 luglio davanti alla Giunta regionale, via Cristoforo Colombo 212- dalle ore 11.00.
Una giornata di mobilitazione perché i precari di Sviluppo Lazio vengano reintegrati, per esprimere indignazione verso le politiche scellerate della giunta Polverini e per costruire un percorso di attivazione unitario contro la crisi, l’austerity e le politiche di precarizzazione.

Prime adesioni: Precari indipendenti per la p.a, Punti San Precario Roma, Comitato cassintegrati Alitalia “Overbooked”, Coordinamento lavoratori autoconvocati, Cub Trasporti, USB, USB-Isfol, Atdal Ass. Over 40

Intervista ad Hanno Balz, professore di Storia contemporanea presso la Leuphana Universität Lüneburg (Germania)

Nel tuo lavoro sui movimenti sociali e culturali negli anni 80 ti concentri sulla diffusione di prospettive individualiste. Come si concilia questa tendenza con il cambiamento dei modelli di produzione, la frammentazione della classe operaia e la progressiva soppressione dei sistemi di welfare?

Prima di tutto dobbiamo distinguere: il più grande arretramento del regime neoliberale ha avuto luogo nel Regno Unito della Tatcher e nell’america di Reagan. In Germania, per esempio, il sistema di sicurezza sociale è rimasto relativamente intatto durante gli anni ’80, – qui l’agenda neoliberale è riuscita ad imporsi negli anni ’90. La ragione per questo è che, ad un meta-livello, la competizione tra Germania Est e Ovest imponeva al governo di Kohl di difendere un certo standard di sistema di welfare sociale e una classe relativamente privilegiata di lavoratori qualificati con lavori sicuri.

La diffusione della nozione di un primato dell’individuo dai tardi anni ’70 in poi ha espresso una cultura del soggetto post-moderno e certamente è stato un prodotto dei cambiamenti della società durante la crisi degli anni ’70. Non solo la Sinistra si è concentrata sempre di più sul personale ma anche la reazione politica che avrebbe trionfato alla soglia degli anni ’80 ci si riferiva sempre di più.

Margaret Thatcher, per esempio, ha ripetutamente asserito il primato dell’individuo e nella sua campagna, come fece Reagan subito dopo, ha usato un vocabolario che deve essere suonato familiare ai membri delle sub-culture: ora, autorealizzazione, libertà, fantasia e soprattutto avventura e rischio erano i concetti chiave della loro versione di un capitalismo indomito che divenne noto come neoliberismo.

La Tatcher espresse il credo della sua politica nel 1987: “Penso che abbiamo attraversato un periodo in cui troppe persone hanno creduto che se loro hanno un problema, è compito del governo risolverlo. ‘Ho un problema, prenderò un sussidio’, ‘Sono senza casa, il governo me ne deve dare una’. Loro stanno spostando il loro problema sulla società. E la società non esiste. Ci sono uomini e donne individuali, e ci sono le famiglie. E nessun governo può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono prima guardare se stesse

La parola chiave qui è “auto-determinazione”. Come un’ideologia post-materialista è stata adottata per la flessibilizzazione dell’accumulazione capitalista è stato mostrato dai lavori di Boltanksi e Chiapello, soprattutto nel loro libro: “Il nuovo spirito del capitalismo”. Questa flessibilizzazione nel luogo di lavoro (gruppi, gerarchie livellate, outsourcing) consisteva in una maggiore insicurezza e, in ultimo, a un maggiore sfruttamento del lavoro umano, mentre prometteva maggiore autonomia e autodeterminazione. Questo è ciò che Michel Foucault esaminò nei suoi lavori sulla governamentalità e chiamò “Tecnologie del sé”. Alla fine ci si sente meglio ad essere responsabili per il proprio sfruttamento che sentire la frusta del padrone sulla schiena. Questo è il capitalismo 2.0.

Il fascino verso la responsabilità individuale da allora è accompagnato da politiche di crescente pressione sociale nella forma di un sistema di welfare mutilato, alti tassi di disoccupazione, maggiore carico di lavoro. Non sorprende che in questo periodo la discussione su una “società del rischio” (Ulrich Beck), rispetto ai rischi individuali (sociali) che dovevi accettare, ha guadagnato importanza.

Certamente il collasso del socialismo Est-europeo si è aggiunto al processo che è evoluto attraverso gli anni ’80 ma è giunto a pieno compimento solo quando un tipo differente di società è scomparso dalle cartine geografiche.

Guardando al 2001 (G8 di Genova, la repressione brutale e l’inizio della politica della guerra al terrore), è possibile considerare questo evento come una sorta di pietra miliare per i movimenti sociali? In che maniera ha determinato una qualche sorta di discontinuità per la cultura politica autonoma dei due decenni precedenti?

Tra la “Battaglia di Seattle” 1999 e le dimostrazioni anti-G8 a Genova la sinistra transnazionale sembrava essere forte e crescente. Ma è ovvio che dopo il 2001 c’è stato un certo declino nelle capacità di mobilitazione di una sinistra radicale. Penso, che questo non ha necessariamente a che fare con la repressione, ma con il fatto che con la guerra in Iraq è sorto un grande movimento per la pace di carattere liberale. Come si può osservare in altri tempi, un movimento così vasto ha spesso l’effetto di emarginare le voci e i movimenti più radicali. Questo, ad esempio, è stato il caso durante il grande movimento per la pace nei primi anni ’80 in cui il movimento autonomo inizialmente è stato una parte importante ma poi è stato messo da parte dal movimento tradizionale tramite la negazione di solidarietà.

Inoltre ci sono stati cambiamenti interni nei movimenti, essendo spesso autocritici verso la scena e la sua storia, per esempio quando si tratta di relazioni di genere e di attitudini chauviniste. Forse in questo troviamo anche un cambio generazionale nei movimenti, con il vecchio attivista che lascia le nuove modalità della politica alle spalle.

La recente crisi economica è stata accompagnata da un’esplosione di dissenso in tutto il mondo: sembra che la scelta della “sottrazione” (“drop out”) stia venendo sostituita da rivendicazioni collettive di carattere sociale e politico. Che opinione ti sei fatto?

Tutto sommato, oggi sembra essere più duro “sottrarsi”, perchè il sistema di welfare, come “rete di salvataggio”, non è lo stesso degli anni ’80 e’ 70 per molte parti d’Europa. D’altra parte, il concetto di sottrazione si è trasformato se guardiamo alla scena techno (specialmente a Berlino).

Le droghe sono cambiate, ma c’è sempre una tendenza alla rinuncia in questa scena. Se parli con gli attivisti più anziani, spesso esprimono l’incapacità di comprendere la voglia che hanno le giovani generazioni di studiare, tendere ad una carriera accademica o cose simili.

In generale, una attitudine anti-sistemica degli attivisti è più difficile da trovare rispetto a 20 o 30 anni fa. Ciò è evidente se guardi alla generale ricerca di consenso del movimento “blockupy”, ad esempio, che potrebbe essere all’origine di una mancanza di analisi radicale in questo movimento. La storia mostra che i tempi di crisi di solito non conducono ad una crescente radicalizzazione piuttosto ad una svolta conservatrice nella società, espressione di incertezza o anche di paura. E’ ancora più chiaro se guardiamo alla Germania o alla Grecia.

I movimenti sociali devono confrontarsi con nuovi modelli politici e sociali. Nell’agenda politica dei movimenti è tornata centrale la prospettiva del futuro: non è riduttivo guardarla solo dal punto di vista della delega?

Al momento vedo una scarsità di ragionamenti utopici. Se si chiedesse agli attivisti, che parlano di rivoluzione, cosa succederà il primo giorno dopo questa rivoluzione, non si avrebbero molte risposte. D’altro lato ci sono stati modelli elaborati di politiche riformiste, come per la Tobin-tax e iniziative sulle politiche globali. Qui ci troviamo davanti ad una tendenza realista/riformista che rispecchia una cultura politica degli “esperti”. Abbiamo idea della società nella quale vogliamo vivere e come raggiungere questo obiettivo in un mondo globalizzato, complesso e altamente industrializzato?

I movimenti si sono sempre confrontati con un approccio duplice alla sua storia: prima cosa, nella dinamica a cambiare il movimento ed emanciparlo dal proprio passato, c’è una tendenza al “disapprendimento”, come possiamo vedere nella scena punk degli anni 70 e più tardi in quella “autonoma” (in senso tedesco, ndt). Dall’altra un movimento deve studiare le proprie origini e vecchie analisi per non fare gli stessi errori di 20 anni prima. Tra questi due aspetti dovrebbe manifestarsi un nuovo movimento.

In linea generale i movimento dovrebbero chiedersi: che impatto hanno le azioni, siamo in grado di disturbare l’ordine egemonico prevalente? Siamo in grado di persuadere porzioni sempre più ampie di popolazione o desideriamo essere un blocco nell’ingranaggio? Come possiamo evitare di essere sussunti?

Una lezione che è stata appresa negli ultimi 40 anni di movimento è che il capitalismo non è come immaginato dalla vecchia sinistra ortodossa, un colosso dai piedi d’argilla che basta spingere per farlo collassare in 100 pezzi. Per la capacità del capitalismo di assorbire o modificare una certa ampiezza della critica (come dopo il “1968”) dovremmo piuttosto parlare di colosso dai piedi di gomma (o anche di schiuma)-puoi spingerlo, ma assorbe la pressione…

Tenendo questo in conto, i movimenti odierni possono imparare (o disimparare) molto.