Scuola Estiva UniNomade: Conricerca e biocapitalismo

 

 

 

Presentiamo a Roma la summer school di uninomade scegliendo l’università come terreno sociale di cooperazione e di confronto anche a partire dalla centralità che incarna nelle trasformazioni della
metropoli, nei suoi flussi produttivi, all’interno del suo continuo e
dinamico processo di valorizzazione. Uninomade rappresenta oggi un
prezioso spazio di elaborazione teorica e politica dove i movimenti
possono trovare le sintonie giuste per tracciare nel lingiaggio comune
anche un possibile spazio di riflessione politica e ed elaborazione
teorica comune: una sorgente alla quale abbeverarsi e contaminarsi, un
necessario contributo alla soggettivazione politica dei movimenti.
Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare all’incontro che si
terrà a Sociologia lun 3 h 17:00

Il Collettivo UniNomade propone per settembre una ‘scuola estiva’ a Passignano sul Trasimeno in Umbria. Per registrarsi e richiedere ulteriori informazioni scrivere a: summerschool@uninomade.org. I materiali preparatori si trovano su questa pagina (continuamente aggiornata). Per le soluzioni di alloggio consultare questa pagina.

 

 

UniNomade Summer School
Conricerca e Biocapitalismo
6-9 Settembre 2012

Auditorium Urbani, Via Europa [mappa]
Passignano sul Trasimeno, 06065 Perugia

 

Viviamo oggi in una fase segnata da continuità e discontinuità: la crisi si approfondisce e assume il profilo di condizione permanente del capitalismo contemporaneo, anche se a ciò non corrisponde in modo meccanico e sincronico il “ricomporsi” dei processi di conflitto. E tuttavia, quasi quotidianamente assistiamo al moltiplicarsi – dalle fabbriche alla metropoli, in Italia e in giro per il mondo – di movimenti e lotte che ci parlano del concreto rovesciamento della crisi in uno spazio di possibilità.

É in questo passaggio storico che il Collettivo Uninomade 2.0 propone quattro giorni di confronto e approfondimento sulla costituzione ‘biopolitica’ del presente e sulle modalità di attivazione di processi di conricerca. Indagare la produzione di soggettività e la potenza costituente dentro la nuova composizione del lavoro vivo, le forme di lotta e le temporalità differenziate, i luoghi e le dinamiche di connessione: ecco la sfida che collettivamente  abbiamo di fronte.

Vogliamo esercitare una critica dell’economia politica all’altezza del presente, cogliere le relazioni tra rendita finanziaria e potere sulle vite, sviluppare pratiche biopolitiche capaci di aprire nuovi spazi di cooperazione tra singolarità, trasformare in antagonismo il conflitto messo a valore dal capitale — e sperimentare, dunque nella crisi, processi costituenti per la riappropriazione del comune.

La “scuola estiva” di UniNomade vuole perciò essere un momento di confronto e discussione tra esperienze, uno spazio di elaborazione di linguaggi comuni, di condivisione di metodi e processi di conricerca. Si propone di contribuire, innanzitutto, alla creazione collettiva di una maniera di vivere la politica dentro la crisi, cioè di uno stile di militanza. Invitiamo perciò alla partecipazione compagni e compagne, collettivi, gruppi di inchiesta, reti, tutte e tutti coloro che sono impegnati nelle lotte e nella costruzione di un pensiero e una pratica all’altezza della trasformazione dell’esistente.

*  *  * 

Programma provvisorio

6 settembre

  • 17:00-19:00.  Toni Negri: Biocapitalismo e costituzione politica del presente

7 settembre 
Critica marxiana dell’economia politica e suoi sviluppi in epoca di biocapitalismo cognitivo

  • 09:00-13:00. Adelino Zanini, Toni Negri, Carlo Vercellone, Matteo Pasquinelli.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare sui processi di valorizzazione nel biocapitalismo: coordinano Gigi Roggero e Salvatore Cominu.

8 settembre
Rendita e biopotere: socializzazione del reddito e rifiuto del debito

  • 09:00-13:00. Christian Marazzi, Stefano Lucarelli, Maurizio Lazzarato.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare relativi ai processi di socializzazione del reddito e di rifiuto del debito: coordinano Andrea Fumagalli e Sandro Chignola.

9 settembre
Biopolitica: la fabbrica della strategia ai tempi delle moltitudini

  • 09:00-13:00. Cristina Morini, Tiziana Terranova, Toni Negri, Giso Amendola.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca su corpi, queer e (ri)produzione: coordinano Anna Curcio e/o Roberta Pompili.

http://uninomade.org/uninomade-estiva-2012/

 

Perchè la memoria è un ingranaggio collettivo

E’ ormai da alcuni mesi che realtà sociali ed antagoniste propongono un dibattito dopo la proiezione del film “Diaz, don’t clean up this blood” di Daniele Vicari. E il perché risiede, probabilmente, non in una corsa sfrenata a ripetere meccanicamente iniziative su tutto il territorio nazionale ma, piuttosto, nella necessità di trovare dei momenti di approfondimento e discussione di una delle pagine più forti della storia italiana.
Perchè chi vuole vedere quel film sa di essere di fronte ad un episodio che è entrato ormai a far parte degli eventi che hanno segnato questo paese. Lo sono quei giorni, le ore, i giorni e le settimane che lo hanno preceduto.
Le aspettative e le energie di chi lo ha preparato e vissuto. Di chi lo ha subito, sulla propria coscienza e sulla propria pelle. Chi lo ha respirato nella sua portata di trasformazione e di disvelamento di una nuova fase del nostro paese e dei poteri che lo governano.
Perchè, come ogni evento di portata storica, tralasciando l’epica che questa affermazione porta con se, ha un coinvolgimento e un’influenza non solo per chi vi ha partecipato, dalla parte dei sommersi o dalla parte dei salvati, ma anche per chi si trova per sua superficilità, o per scelta o per età lontano da quegli eventi.

Perchè Genova è stato il racconto di un’ondata che ha portato prima, durante e dopo migliaia, centinaia di migliaia di persone in piazza. Genova non è stata, (perchè non lo è mai nella storia), un evento singolo, ma la parte più evidente di un iceberg.
E quello stesso movimento, non nelle sue strutture organizzate, nelle sue critiche e limiti, non nella sua sconfitta, ha sedimentato ed agitato potenza a livello globale.
Con le parole e i contenuti, con l’immaginario e le storie, con quello che è ne stata la sua ricchezza.
E’ stato il propellente per un’ondata di nuove lotte sociali che il potere ha temuto  e represso.

Per molti e molte di noi, Genova 2001 ha avuto un ruolo centrale nella crescita politica e di vita. Genova 2001 per molte e molti di noi ha rappresentato quel punto d’inflessione da cui non si torna indietro.
Molte e molti di noi erano a Via Tolemaide, a piazza Alimonda, e nei viali alberati davanti al porto. Eravamo presenti e volutamente coscienti di voler vivere quelle giornate, perché sapevamo che quelle giornate ci avrebbero fatto sentire vive e vivi. Perché in quelle giornate la ragione era dalla nostra parte. Perché in fondo e in maniera molto chiara, quelle giornate di contestazione andavano contro un modello di crescita neoliberista che 10 anni fa colpiva altre parti di mondo e che ora travolge in pieno la nostra piccola eurolandia.
E lo ha avuto per chi è stato a casa a vedere quelle immagini o semplicemente ha deciso da quel momento di mettersi in movimento.
Lo e’ stato per quelle decine di gruppi che sono sorti in tutta Italia all’indomani di quel Luglio.
E lo è stato per chi, in quelle giornate, aveva solo 10 anni.

E dire che la giustizia non fa parte di questo mondo ci sembra un’iniqua e sterile ovvietà. Ha invece più senso ribadire che, come sempre, lo stato assolve se stesso mentre per l’ennesima volta traduce un movimento politico di contestazione in un lento e sanguinoso processo a carico di pochi.

Il significato tutto politico della sentenza emessa dalla cassazione a luglio 2012 resta e rimane inequivocabile, una sentenza che è oggetto di una produzione discorsiva in strettissima relazione con i dispositivi del potere in atto. Una sentenza che decanta, afferma e sedimenta nuove pratiche del potere dichiarando che la vetrina di una banca vale di più di un corpo torturato, di una milza asportata o d’irreversibili lesioni all’apparato respiratorio. Questa è per noi l’unica verità politica che nessun tribunale di questa fantomatica democrazia potrà mai deliberare.
E meno male che in queste ultimi mesi una fortissima campagna sociale è riuscita in poche settimane a raccogliere l’indignazione di più di 10.000 persone. Una campagna che crede nella memoria come ingranaggio collettivo perché  solo partendo  dalla memoria collettiva è possibile tracciare quelle strategie e tattiche sociali per far si che le parole “devastazione” e “saccheggio” non diventino la ricetta pronta per aggredire chi, come unidici anni fa, continua ad avere una ferma determinazione nel voler contrastare un modello di governance che fa dello spread e della spending review il suo cavallo di battaglia.

Non sarà certo la priezione di un film a costruire una nuova ondata, né a far chiarezza e costruire nuovi spazi di confronto ed attivazione. Ma può essere un buono strumento per ricordare, non solo i fatti, ma le motivazioni.
Può essere la tappa di un percorso di lotta che si intreccia con molti altri.
E che afferma con sicurezza Libere tutti!

Invitiamo tutte e tutti alla proiezione del film DIAZ con la partecipazione
di Elio Germano, Paolo Calabresi, Paolo Giovannucci perchè si possa chiaccherare con gli attori, perchè ci si possa confrontare e perchè si possa essere olio per quell’ingranaggio collettivo.

Dalle ore 19
apericena per la campagna 10X100

Alle ore 21
proiezione film

LOA ACROBAX
Via della vasca navale
[Ponte Marconi]

L’incubo di una notte di mezza estate

Cosa avviene in questo squarcio di crisi dove al si salvi chi può dell’annunciata e probabile caduta dell’Euro si è passati ad un’apparente salviamo il salvabile, onoriamo gli interessi sul debito, calmieriamo lo spread? E in questa fase, che faranno i movimenti? attenderanno messianicamente l’autunno caldo come se fosse predestinato ad esser-ci, guradando il calendario e pensando magari che l’inarrestabile scorrere del tempo definirà un futuro ineluttabile? No, al contrario il calendario indica un forte abbassamento delle temperature nel periodo dell’autunno. Figuriamoci poi con la crisi. Quindi forse, è meglio partire da alcune “basi” certe del ragionamento e dipanare quindi una bozza, una traccia di lavoro politico, che possa essere utile nella futura e imminente stagione: se nei prossimi mesi non ci si mette un solido e determinato innesto di variabile indipendente, di conflitto sociale, di potere costituente, un buona quota di moover sociale nella forma delle forme costituzionale dei diritti, l’autunno che verrà, lungi dal ribollire, sarà freddo o comunque freddino, con buona pace dell’attesa condita dalle belle parole.

A partire da questa posizione, più che convinzione potremmo definirla decisione, procediamo da un lato a descrivere intanto, per usare vecchie parole, un’analisi di fase e dall’altro ad immaginarsi anche con nuove parole – diciamo, vecchia tattica per una nuova strategia – un cammino, un’opzione, un varco possibile, che possa spingere la nostra umanità a ripensare da capo il modello-mondo che vogliamo costruire e immaginare, senza la paura di affermarla, la necessità quindi sognatrice e rivoluzionaria di un’utopia concreta e transazionale, tutte parole peraltro femmine. La critica non può stare che sul  piano internazionalizzato dell’impero e l’azione politica non può che immaginarsi e assumersi dentro i flussi di movimenti transazionali che in ogni dove affermano le istanze del comune.

Quindi cosa avviene intorno a noi?

Fondamentalmente stanno ricontrattando i compensi e i profitti nel nuovo processo di valorizzazione. Il sistema capitalistico si assume nella crisi come trasformazione continua dei rapporti di potere tra lavoro vivo e capitale. Si dispongono così, nella grande transizione, a chiusura del ciclo fordista ma anche sulle ceneri del sistema welfaristico del defunto patto sociale, una nuova (possibile?) mediazione asimettrica, per rafforzare il proprio ruolo di supremazia anche attraverso il ricatto “globale” del debito –  ma certamente anche con una subdola e altrettanto incisiva forma di biopotere. Questo per contrapporsi permanentemente alla forma irrisolvibile di produzione biopolitica indipendente delle soggettività creative, cooperanti, antagoniste.

La finanziarizzazione ormai è un processo immanente al sistema produttivo e la dinamica continua della valorizzazione capitalistica è nuovamente ri-articolata e ridislocata su frontiere dell’innovazione, della sussunzione, cattura, cooptazione delle soggettività messe al lavoro dalle diverse e striate forme della produzione immateriale, cognitiva, relazionale, affettiva. Il processo di riorganizzazione del mondo del lavoro e del non lavoro procede sul passo spedito della riorganizzazione produttiva della grande trasformazione che qui vediamo incardinarsi tra un millennio e l’altro. Grande trasformazione produttiva per mezzo dell’inesauribile e inarrestabile processo di precarizzazione del lavoro e della vita, delle relazioni sociali e produttive.

Il fallito golpe planetario che gli Usa hanno provato a mettere in campo nel 2001 è servito comunque e fondamentalmente a dispiegare la nuova pressione del controllo e del ricatto globale neoliberista come dispositivo di potere sull’umanità, niente di meno che con la guerra globale come paradigma delle nuove relazioni internazionali, una nuova diplomazia della guerra preventiva. Del resto non potendo fare del giusto il forte, si fece del forte il giusto e si passò al paradigma della paura.

Il debito quello che per esempio in Equador definiscono immorale, da non onorare, perché accumulato da governi precedenti corrotti e criminali, è l’altro volto del ricatto. L’insostenibilità della moneta unica e della pressione delle norme di politica economica per sostenerla sono il corollario per questa piccola parte di mondo in declino chiamata Europa.

Siamo nel pieno di una grande transizione che s’incarna nel trapasso dei modelli, produttivi, economici, sociali. La fase attuale è quella dell’accumulazione originaria nel nuovo ciclo capitalista che nascendo sulle ceneri di una complessità di elementi, ormai superati che segnano la fine di una lunga fase dove da una lato l’economia della grande industria fordista e taylorita e dall’altro il nuovo – cioè ormai vecchio – patto sociale (new deal) tra i corpi intermedi – Stato, partiti, sindacati, chiesa, imprese – avevano permesso un pieno scambio, benessere (do you remeber welfare state? stato di benessere). Equilibrio e patto ovviamente ottenuto e continuamente mobilitato dal potere costituente del conflitto sociale.

Il passaggio che nelle trasformazioni produttive e lavorative si è consumato negli ultimi 30/40 anni dall’operaio sociale al precariato diffuso e metropolitano, è oggi in termini di soggettività antagonista ancora un territorio aperto di indagine, inchiesta militante, è ancora uno spazio non definito completamente nella sua composizione tecnica e politica ma sicuramente ineludibile ed irreversibile nel suo determinarsi nella nuova composizione sociale tra sussunzione formale del lavoro e nuovi piani della cooptazione, cattura e sussunzione reale della soggettività produttiva. Il focus di ragionamento che ci appare a questa altezza delle contraddizioni il nodo fondamentale della crisi è propriamente la crisi nella crisi, ovvero la crisi del processo di valorizzazione, come crisi specifica della misura del valore dentro le nuove trasformazioni avvenute in seno al processo produttivo e lavorativo. Dove si estrae valore oggi? quali sono i reali spazi della produzione contemporanea? Domande necessarie anche per capire dove colpire, non solo per capire chi siamo e come ci chiamiamo.

Nel postfordismo digitale salta il piano-sequenza lineare della misura del valore, della capacità/possibilità da parte del capitale di misurare la produzione immateriale. Ovvero nel capitalismo contemporaneo cognitivo e immateriale, è’ ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione nel diritto del conflitto di classe. Su questo piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Ora più che mai il reddito garantito deve essere posto sempre di più come rivendicazione di esistenza e di cittadinanza, così come abbiamo visto nelle giornate estive della lotta di Taranto, deve posizionarsi dentro questa contraddizione, come potenza aperta dai nuovi processi della valorizzazione, svincolandosi dalle mediazioni politiche o sindacali realmente tutte al ribasso. Rimane ciò che la precarietà e la precarizzazione ci lasciano sul terreno, un precariato sociale che dobbiamo rendere insorgente, indipendente, potente.

Come dicevamo prima siamo nel pieno della grande trasformazione. In un passaggio epocale, paradigmatico. Così come in altre transizioni, i passaggi furono lenti, ma inesorabili. Ora con alle spalle un novecento poco utile anzi in taluni casi dannoso per i movimenti che vivono e incarnano la contemporaneità – lo vediamo con la retorica del lavoro come bene comune o del bene-comunismo delle amministrazioni locali – ma tenendo un occhio critico e se possibile materialista sulla storia, ci pare cogente nella comparazione con il passato per costruire il futuro e l’immaginario dell’indipendenza un gioco con la storia che ci porta al secolo “lungo”, dove rotolò la prima testa coronata d’Europa, nell’Inghilterra del ‘600. Quel secolo intenso del processo di transizione dall’immagine feudale, all’immagine borghese del mondo. Allora come oggi nel pieno delle trasformazioni produttive si andava determinando una nuova composizione sociale che emergeva dentro il nuovo processo produttivo industriale che si andava affermando nell’Inghilterra degli Indipendenti e dei Levellers. Ieri, come oggi si affermava l’accesso incondizionato alla cittadinanza saldando il rapporto tra proprietà della terra e libertà comune un po’ come avviene oggi nelle montagne della Val Susa, si difendeva il nuovo spazio politico dell’enclousure pubblica. Oggi il precariato si trova un pò come i freeholders inglesi ai tempi dei Levellers, tra inclusione ed esclusione, tra auto valorizzazione e comando. E c’è un di più, oggi, il precariato nell’economia della conoscenza possiede i mezzi di produzione. Le sue macchine affettive, linguistiche e relazionali sono effettivamente in suo possesso. Come i freeholders in army così il precariato se sarà insorgente dovrà affermare nell’indipendenza – ieri della terra oggi del suo prezioso mezzo di produzione – la propria libertà. Indipendenza dal dispositivo del comando, dell’irrigimentazione e della cattura della nuova valorizzazione capitalistica.

Nodo redazionale indipendente

Agosto 2012

Quando la rottura è costituente – Riflessioni per i movimenti

di @angelobrunetti1

Spesso la retorica della  politica – anche di movimento  – salta a piè  pari la realtà sociale  producendo scollamenti  e divaricazioni  verticali tra governi e governati. Veri  e propri abissi.   Alla base di ciò che genericamente definiamo crisi economica – che la realtà sociale vive di riflesso spesso nella disperazione – vi sono elementi fondamentali che vanno ancora profondamente indagati e sui quali non ci concentreremo qui per necessità di sintesi.

Per riassumerle a grandi linee. Facendo  tesoro dell’analisi di Marazzi, cioè che nell’odierno  sistema di accumulazione vi è un  rapporto consustanziale tra produzione  e finanza, possiamo affermare  con certezza che oggi la finanziarizzazione,  pervasiva a livello dell’intero  ciclo economico, è divenuta parte  integrante della nostra vita quotidiana,  che le sua fonte di alimento è  la produzione di beni e servizi, ma  anche welfare, beni comuni, linguaggi, stili di vita.  La finanza si riproduce nella costituzione materiale dei corpi in quella che Marazzi definisce come: “la mobilitazione permanente per il capitale”.

Dentro tale dinamica, appare sempre più evidente un nesso indicibile, occultato e mistificato dal potere, quello tra crisi finanziaria e crisi del processo di valorizzazione. La “crisi nella crisi”, ovvero la crisi di tutti i metodi di misurazione del valore del lavoro, che fa saltare il banco delle formali regole economiche. Questo punto è politicamente dirimente.

In futuro, occorrerà inevitabilmente elaborare forme di sperimentazione politica da posizioni più avanzate e con traiettorie di più lungo respiro rispetto a quelle assunte fin qui dal movimento.

Se intendiamo la politica anche come costruzione dal basso di una nuova forma di organizzazione sociale, se siamo consapevoli che la “rottura” è necessaria per rendere costituente l’alternativa, allora dobbiamo fare un discorso di verità. I movimenti potranno cominciare a incidere sulla realtà politica solo una volta che avranno deciso cosa fare da grandi. Ciò prendendo atto dell’irreversibilità della crisi della rappresentanza politica, così come della svolta autoritaria in corso, necessaria all’instaurazione della dittatura dei mercati, i quali dettano ogni giorno di più le agende dei governi.

Se vogliamo costruire un’alterità che vuole riprendersi il protagonismo sociale, la capacità di  ristabilire gli spazi dell’autogoverno e rimettere in discussione le scelte operate sulle nostre teste, dobbiamo dissolvere l’intero quadro politico esistente, superando quel senso di impotenza che segna i limiti di un sistema bloccato e incancrenito. Ciò non significa esercitare lo scontro inseguendo un’estetica della violenza, ma rompere su tutti i piani, effettuando nell’immaginario e attraverso il desiderio collettivo una trasformazione prima di tutto culturale, che non può leggere il lavoro come bene comune e che non può partire dalle mediazioni al ribasso come quella sul reddito legandolo alla sopravvivenza del lavoro precario.  Almeno, non lo devono fare i movimenti. Questo nella piena consapevolezza della complessità, della stratificazione del rapporto di forza che si misura sui mille piani inclinati della società complessa che viviamo.

Dare respiro e “programma” alla protesta, alla rabbia sociale, renderla potere costituente – perché si tratta di riscrivere da capo la carta costituzionale, basti pensare per un momento a quanto è datato il primo articolo – sottraendola al nichilismo, significa dare un possibile senso comune all’alternativa che viene attraverso sempre più solide alleanze sociali.   Questo avevamo in mente quando, durante tutto l’anno passato, abbiamo lanciato in giro per il paese l’ipotesi (ancora in cantiere) di uno sciopero precario quale forma diffusa di rottura e iniziativa politica. Come sabotaggio, blocco dei flussi materiali e immateriali, attacco all’immagine e al brand dei precarizzatori. Il tema oggi rimane ancora quello, al di là del nome che potrà assumere nella prossima stagione politica.

Attraverso la materialità della lotta, si deve e si dovrà poter passare dal puro sfogo individuale della propria indignazione al pieno e reciproco riconoscimento collettivo. Si tratta di dare respiro alla soggettività precaria, per sottrarla alla dimensione individuale e confusamente spontanea, e di saper tessere una tela ricompositiva che ponga rimedio all’atomizzazione e alla frammentazione strutturale – del mondo del lavoro e del non lavoro e quindi delle relazioni sociali e produttive – in cui essa immersa.

Ma occorre farlo proprio lì, in quella stessa situazione frammentata, non altrove, con buona pace di tutti i sindacati. Tutto questo affinché si possa definire ciò che si annuncia come l’ipotesi di nuova ricomposizione di classe. A unire oggi i precari è semplicemente la rabbia. E questo ovviamente non basta. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia, intelligenza generale, mente collettiva, sovversiva, creativa. Quando diciamo di voler organizzare la nostra rabbia, ci disponiamo all’interno di questa opportunità di lavoro politico. Non si può continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano, quasi meccanicamente, l’uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassintegrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore.

Dentro le forme della lotta precaria può crescere un movimento realmente indipendente che tracimi oltre le risacche della routine militante e si ponga l’obiettivo di trasformare ra- dicalmente i processi di sfruttamento, accumulazione e valorizzazione capitalistici. Valorizzazione oggi dislocata nella co-creazione di valore, nella messa al lavoro reale delle soggettività che supera la messa a lavoro formale e che, nell’ambito dell’economia immateriale, si riproduce attraverso i servizi forniti da importanti multinazionali come Google o Facebook – con buona pace della fiom, con la sua metà degli iscritti informatici impropriamente inquadrati nel contratto dei metalmeccanici. Luoghi in cui l’utenza è prod-utenza, mentre il flusso della valorizzazione delega al lavoro formale il solo ed esclusivo ruolo di controllo sociale, nel tentativo di governare un disordine globale che ormai si esprime sotto tutti i cieli del vecchio patto atlantico. Se volete, ecco un altro punto dirimente, non scontato, impensabile fino a pochi anni fa: il mondo è nuovamente in rivolta.

E qui, volgiamo richiamare il contesto nostrano mettendolo per un momento in relazione con ciò che avviene in Europa e nel resto del mondo. Ci riferiamo alla stagione segnata dal 15 ottobre, che, a distanza di quasi un anno dagli eventi, richiede che vadano fatte ulteriori considerazioni.

Il 15 ottobre è andato ben oltre la finzione o la testimonianza. Ha sorpreso e travolto tutti. Noi compresi. Ma per una volta il programma era cambiato nella realtà così come era già accaduto l’anno precedente, il 14 dicembre. La dissociazione rancorosa nei confronti dei ragazzi e dei compagni che quel giorno hanno sfidato per ore lo Stato in piazza regalando la cartolina di un’Italia in crisi, arrabbiata e con la voglia di reagire – che sicuramente ha contribuito ad accelerare la caduta del governo – non solo è stata dolorosa, ma indegna; insopportabile poi se dettata da esigenze di compatibilità e mantenimento degli accordi che non tutti conoscevano. Dietro quella rivolta, un accumulo di forze, di tendenze e di processi sociali non codificabili per padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Ma anche per la generazione che aveva “diretto” il movimento a Genova. Non processi meccanici ma dinamici, processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavano di governare. E questo ovviamente vale anche per chi, nei movimenti, credeva di portare l’avanzo del banchetto del potere come premio ai più allineati alla governance, (quella buona eh!), quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune: eccoli tutti a braccetto a fare la fila per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato pure per loro. Non a caso dal 15 ottobre in poi tutte le posizioni politiche di movimento hanno sterzato, effettuando in taluni casi vere e proprie inversioni a U, arrivando addirittura a cercare altrove ciò che avevamo tentato di portare fin sotto casa loro, inseguendo ovunque, anche a Francoforte, il presente pur di non affrontare qui e ora il nostro futuro. Le lotte riverberate dalle comunità indipendenti che nel mondo si riproducono – e per fortuna si moltiplicano ovunque, da Occupy Wall Street in giù – e di cui noi facciamo pienamente parte, o trovano una sedimentazione materiale nei nostri territori a partire dalle nostre generazioni, o altrimenti saranno cicli di movimento vissuti da altri e scimmiottati da noi.

La strada da percorrere ci è indicata dalla straordinaria esperienza dei comitati per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni, come nella Val Susa, fondamentalmente la nuova dorsale dei movimenti sociali anticapitalisti, che, nel volgere di pochi anni, ha imposto al dibattito pubblico ciò che sembrava essere andato perduto per sempre. La radicale messa in discussione della categoria di profitto – categoria fondativa del capitalismo. Un altro dato dirimente nella complessità. E lo è ancor di più per il punto di vista precario se vuole poi essere anche il baricentro, il grand’angolo di qualcosa di più ampio ancora, per costruire l’alternativa come utopia concreta, in quella prateria sociale di cui spesso parliamo, che non deve più attendere la rigenerazione del cambiamento dall’alto, ma individuare il varco giusto per insorgere dal basso. Deve farlo, senza la paura di dirlo.

Roma, luglio 2012

Non ci avrete mai come volete voi, dalla Repubblica Indipendente di Taranto

Vogliamo vivere e non lavorare, non lavorare per morire.

Era abbastanza evidente da tempo ciò che sia andava
accumulando nel profondo meridione del nostro piccolo paese in declino ed era
abbastanza prevedibile che una scintilla avrebbe cominciato o meglio continuato
a incendiare quella prateria sociale che dopo il movimento dei forconi e degli
autotrasportatori in Sicilia, le battaglie dei contadini e pastori sardi,
avrebbe proseguito dalla Val di Susa in giù sulla strada tracciata dalle tante
resistenze sociali. E che quindi la scintilla nella prateria avrebbe continuato
la sua inarrestabile espansione e sedimentazione arrivando proprio a Taranto
non sorprende affatto soprattutto se un po’ si conosce la decennale battaglia portata
avanti dai comitati popolari e di quartiere che da anni denunciano in città ciò
che oggi anche la magistratura – fin’ora scimmietta sordomuta – ha
(finalmente!) evidenziato con la sentenza di chiusura immediata dell’Ilva.

Dopo decenni di inquinamento in nome del profitto come
forma dello Stato con il nome di Italsider, oggi una città risvegliata e mobilitata
dal basso di prima mattina ha radunato la migliore Taranto

in lotta che ha raccolto un dato politico così’
evidentemente nazionale che non a caso contestava con consapevolezza, chiarezza
e tanta forza proprio il governo Monti che guarda un pò, nella figura dei suoi
ministri, voleva venire ad imporre la legge del potere esecutivo, schierando la
politica e tante guardie, contro il potere giudiziario, contro una magistratura
che per una volta tanto ha

voluto perseguire i corrotti e criminali capitani d’industria, in questo caso
la Family Riva. Tirando le somme con un sol colpo il rispettabilissimo governo
Monti ha abrogato l’equilibrio fondamentale tra i poteri istituzionali della
formale democrazia che tanto vanno sostenendo a piè sospinto e
contemporaneamente decretato che l’unico possibile spazio produttivo e sito
lavorativo per i Tarantini rappresenti anche la loro eterna tomba.

Il governo dei professori senza provare questa volta
nessun rammarico, senza versare nemmeno una lacrimuccia, senza nemmeno battersi
un po’ il petto – quando si parla di soldini, di tanti soldini, non si scherza
più e si sa a quel punto le narrazioni vuote di contenuto si sciolgono come
neve al sole – ha niente di meno che posto in stato emergenza una città intera
minacciando decreti d’urgenza mettendosi frontalmente contro la magistratura
pur di difendere i padroni e un sito produttivo illegale come l’Ilva che nessun
altro paese europeo, permetterebbe di costruire con quelle dimensioni e tali
costi sociali. E non contento ha pensato bene per mezzo del questore e prefetto
di

vietare ogni manifestazione per non turbare la quiete
mortifera che padroni, governo e sindacati avevano ormai accordato. Dopo aver
mappato una nuova geografia dei conflitti ormai sempre più

estesi da una parte all’altra della penisola oggi
abbiamo toccato con mano una città ribelle e consapevole, arrabbiata e
politicamente intelligente pronta ad una lotta lunga, consapevole quindi di
dover resistere alla tentazione di chiudere la partita proprio come vorrebbero
le controparti politiche e aziendali. Rompendo il divieto della questura, la
piazza radunata già dalle prime ore della mattina

ha cominciato a riempirsi fino a tracimare nella
strada principale e in corteo ovviamente non autorizzato ha scelto di
riprendersi le strade per cominciare a riprendersi il proprio futuro.
Irrappresentabilità ed indipendenza della lotta sono state le parole che si
ripetevano maggiormente

dall’affollato palco e si riferivano tanto al governo nazionale che ai governi locali,
come quello del governatore Vendola che ha tradito la cittadinanza di Taranto
riempendosi la bocca fino a pochi mesi fa’ con la sua nuova narrazione ecologista.

Una moltitudine di precariato sociale, che lavora
anche dentro l’Ilva ma soprattutto fuori (ma qui conta poco, la retorica pseudoperaista
la lasciano agli apportunisti) o magari è disoccupato e magari non lavora da anni,
oggi si è incontrato con pensionati, casalinghe, ragazze madri, tifosi, sindacalisti
di base, insegnanti, immigrati, turisti solidali della costa, in migliaia a
rompere il divieto e a dire chiaramente che la lotta a Tanto continuerà fino a
quando l’Ilva non chiuderà. Troppi morti causa questo lavoro. E ovviamente non
sono morti “bianche”, neutre senza responsabili.

A Taranto il tema del reddito garantito, sociale di
esistenza, si respirava per strada e se ne dovranno accorgere anche coloro che uniti-uniti contro
la crisi chiamavano lavoro bene comune la loro istanza fondamentale.

Qui la vicenda del reddito è anche contro il lavoro se
necessario dirlo. Ma sicuramente nella sua funzione principale, è contro il ricatto
che esercita la pressione del ciclo capitalista nocivo e infame che trasuda nelle nostre vite. A Taranto la
ferita aperta dalla nocività, dalla boria padronale, dagli scondinzolamenti
sindacali apre le strada alla ricchezza della vita contro il profitto, si
costituisce movimento per rompere la gabbia, per lottare contro la corruzione
del lavoro. Noi vogliamo vivere e non lavorare per morire,
questo rimbombava nelle strade di Taranto, negli slogan di migliaia di ragazzi che aprivano la
manifestazione senza bandiere e simboli di partito.

Diventa quindi paradigmatica questa lotta perché
diviene comune, nella chiave di volta delle contraddizioni che incarna, al
centro della crisi di sistema, dentro il nervo scoperto della follia
distruttrice del capitalismo.

Ci rivedremo molto presto nelle strade di Taranto

e aridatece le cozze fresche!

Nodo redazionale indipendente – alto Jonio

Il pettine, l’Apecar, la frattura e noi

Tutti i nodi prima o poi vengono al pettine. E a Taranto in questa caldissima estate un’ Apecar con un’andatura lenta e barcollante alla testa di un quarto stato contemporaneo ha messo a terra tutte le contraddizioni che in questi anni hanno attraversato i movimenti, facendo irruzione in una piazza mortifera e mandando all’area tutti i possibili copioni del “festival del lavoro” organizzato da CGIL, CISL e UIL il due agosto.

Quella che si è consumata a Taranto non è per noi solo la cristalizzazione del conflitto tra capitale e vita. Non è solo la denuncia e cacciata dei sindacati filopadronali dalla fabbrica. Quello che è accaduto a Taranto è molto di più. E’ la comunità del rione Tamburi, i precari, i disoccupati e in prima battuta gli operai della fabbrica stessa, che rifiutano di farsi schiacciare ancora una volta da un ricatto occupazionale e cercano di rovesciarlo. Ricatto che quando l’Ilva si chiamava Italsider e le morti che portava a Taranto avevano il marchio dello Stato, era ordito dal pubblico (lo stessa gestione pubblica che ha segnato i sogni, gli orizzonti, il colore del cielo e persino l’urbanistica di una Taranto che sembra uscita da una cartolina del socialismo reale) e ora invece, dopo la svendita della fabbrica, continua a essere attuato dal privato, una gestione comunque capace di speculare anche sugli aiuti dello Stato, grazie a finanziamenti di bonifiche più volte erogati ma mai realizzate.

E poco importa se, al dato di oggi, il tribunale conferma il sequestro degli impianti Ilva, vincolandolo però alla messa a norma e non alla chiusura degli stessi, perchè quello che è accaduto a Taranto rappresenta un vigoroso punto di inflessione. E’ la costruzione fuori e contro la fabbrica di nessi sociali, di una ricomposizione larga, è la saldatura di nuove e radicali alleanze. E’ la caduta, in ultima istanza, dell’elemento centrale che in Italia ha tenuto in piedi per decenni forza padronale e rappresentanza sindacale e che ha depotenziato i conflitti sociali e le battaglie per la costruzione di un welfare degno di questo nome: l’apologia del lavoro, l’ossessione salariale, la paranoia da piena occupazione. Una caduta pesante, simbolicamente ma anche praticamente. E’ una caduta che innervosisce e fa perdere lucidità alla controparte (in primis ovviamente la controparte più vicina alla linea di frattura) che inizia a dare patenti di parassitismo sociale (cfr. Landini su Repubblica il quale evidentemente non ha mai fino in fondo compreso cosa fosse il reddito garantito) e arriva ovviamente alla repressione (più di quaranta compagni denunciati dai sindacati stessi per aver spostato qualche transenna).

Per questo il messaggio è arrivato forte e chiaro: reddito e diritti contro il ricatto occupazionale, senza accettare fallimentari elargizioni caritatevoli (vedi qualche misera e becera legge regionale sperimentata in Campania o nel Lazio) o dispositivi mediati dai sindacati di cassintegrazione. Per non parlare di proposte di legge che rivendicano il diritto al reddito con cifre molto inferiori persino alla soglia di povertà. Reddito, invece come orizzonte di conflitto, attacco ai profitti e redistribuzione della ricchezza per i soggetti precarizzati dalla crisi nel contesto di austerity. Per questo quello che è accaduto a Taranto parla oltre i cancelli dell’Ilva, parla a tutta Italia ed all’Europa, e dimostra che il concetto di non rappresentanza politica e istituzionale si sta traducendo in una rotta indipendente di attivo protagonismo di trasformazione sociale.

Quello che è accaduto in questi giorni in Italia è una caduta che, oltretutto, avviene nell’agosto dello spread e che sbeffeggia persino la mitologia dell’ “economia reale (tutti in fabbrica!) contro l’economia finanziaria” che qualche furbetto voleva utilizzare per la propria campagna elettorale (che poi altro non è che un dispositivo retorico per ulteriormente muoversi dentro l’infausta tradizione del “lavoro bene comune” italiota). Insomma quello che è accaduto a Taranto è innanzitutto un punto di chiarezza. E’ un solco tra il secolo passato e questo secolo; è un solco profondissimo tra quelli che dicono “riaprite la fabbrica” (l’1% che potremmo rappresentare con un elenco lunghissimo dal Papa alla Fiom) e una comunità che supera anche l’ambientalismo civista che era stato in qualche modo persino funzionale alla reiterazione del dramma Ilva con il suo settario minoritarismo; è un solco che segna la differenza tra noi e loro. E’ un solco in cui da una parte c’è una comunità larga che si dispone, pratica e si organizza nel conflitto e dall’altra ci sono i pretoriani dello status quo, i crumiri, i poliziotti, i potentati economici.

Quello che è accaduto a Taranto per noi fa storia perchè sgombra il campo dall’ambiguità e costruisce l’unità dentro la crisi dal basso, fuori da ogni tentativo di sommatoria politicista di ceto politico. Sgombra il campo dalle ambiguità e sottolinea l’irrappresentabilità e l’indipendenza del comune nel momento in cui lotta per la propria esistenza. Taranto, in questo contesto, rappresenta una condizione globale dell’odierno conflitto: un’intera comunità schiava della logica del profitto che paga, in termini di vivibilità, salute e devastazione ambientale la necessità di riproduzione di un rapporto sociale arroccato sul bisogno unico di accumulare i frutti della ricchezza sociale prodotta, attraverso l’imposizione di rapporti di lavoro insostenibili, con il ricatto costante della componente del lavoro, in nome di una produttività spinta all’estremo senza alcuna tutela del territorio e dei lavoratori stessi; utilizzando, da un lato, tecnologie obsolete, negando e distruggendo, dall’altro, la vocazione territoriale verso forme produttive diverse e compatibili con i bisogni sociali ed ambientali della popolazione locale. Il conflitto tra il bisogno sociale e l’ordine che stabilisce la divisione internazionale della produzione, su scala globale, esprime oggi tutta l’ incompatibilità tra i poli di una contraddizione che non si risolve con mediazioni di maniera.

Oggi, la crisi si ritorce sul mondo del lavoro, della precarietà e del non lavoro, facendo pagare i suoi costi insostenibili su tutti segmenti di classe; oggi, la nostra risposta alla crisi del sistema non può che essere una richiesta di reddito incondizionato che, proprio a partire dalle situazioni simbolo, come quella di Taranto, supera la logica e la retorica lavorista per rivendicare un diritto all’esistenza fuori dai rapporti sociali di produzione capitalistici. Ora sarebbe quindi utile interrogarsi non su come “esportare” un modello che è evidentemente difficilmente riproducibile per specificità e numeri, ma su come fare di Taranto, della battaglia fuori e contro l’Ilva una battaglia comune. Una battaglia che parli al precariato diffuso, che parli ai disoccupati e alle disoccupate, che parli a tutta quella moltitudine che la crisi stà stritolando in un ricatto esistenziale del tutto simile al ricatto occupazionale che nel Mezzogiorno conosciamo bene e che è sovrapponibile al ricatto della precarietà.

Per questo crediamo innanzitutto fondamentale esprimere la nostra più completa, incondizionata solidarietà e complicità al Coordinamento cittadini e lavoratori pensanti di Taranto ed alle denunciate e denunciati. Ed è per noi importante discutere e rivedersi fuori dai cancelli dell’Ilva con la complicità di tutti quelli a cui questa battaglia parla, non solo a Taranto. Una prima occasione di confronto utile sarà Adunata Sediziosa a Napoli il 15 Settembre. Crediamo sia importantissimo in quel momento, insieme a tutti quei contesti che svilupperanno conflitti nell’autunno, dotarci del lessico comune dal profondo sud est al profondo nord ovest. Il lessico comune di tutte quei soggetti che difendono la vita contro il capitale, di tutte quelle comunità che rivendicano e si riappropriano di reddito fuori e contro il lavoro che oggi più di ieri è a tempo determinato, a nero, sottopagato, senza garanzie e nocivo. Un lavoro che non solo non è bene comune ma è evidentemente un’arma formidabile di ricatto sulle nostre vite.

Dovremo tornare tutte e tutti a Taranto.

Fuori e contro i cancelli dell’Ilva.

Villa Roth Bari – Comitati di quartiere Taranto: Città vecchia, Salinelle, Paolo VI – Area Antagonista: Lab. Okk. Ska – C.S.O.A. Officina 99 Napoli – C.S. O.A. Asilo 45 Terzigno – C.S.O.A. Rialzo Cosenza– L.O.A. Acrobax Roma

Senza margini. Appunti per l’autunno

di SANDRO MEZZADRA e FEDERICO RAHOLA

Attorno alla Spagna, in queste settimane, stiamo assistendo al dispiegarsi di un nuovo capitolo del tentativo di costruire, con immane violenza, una nuova costituzione materiale dell’Unione Europea. All’ortodossia ordoliberale di stampo tedesco si associa una perentoria gerarchizzazione degli spazi, immaginata come al solito con poca fantasia: i margini dell’Europa sono la linea del fronte, e dal presunto centro si irradiano le linee guida di una terapia shock che punta a determinare una vera e propria trasformazione “antropologica”, secondo retoriche che ormai si incontrano negli stessi organi di stampa “liberal” dell’Europa settentrionale. Il neo-liberalismo mostra oggi interamente – a partire dalla generalizzazione del debito come principale dispositivo di governo – il suo fondo autoritario, punitivo e lavorista: ogni interstizio della vita va messo al lavoro, in un vero e proprio paradossale revival della teoria del valore-lavoro (si aumenta l’età pensionabile, si aboliscono le festività, si punta a far entrare prima possibile i giovani nel mercato del lavoro). Ma di quale lavoro stiamo parlando? Le statistiche sulla disoccupazione, in particolare giovanile, raggiungono soglie fino a poco tempo fa impensabili, le politiche di austerity hanno un effetto moltiplicatore sulla depressione economica, e ormai nessuno crede più davvero alla favola continuamente procrastinata di una ripresa di là da venire.

Davvero, come ha affermato in questi giorni Mario Draghi, l’euro è “irreversibile”? Il fatto stesso che sia il governatore della Banca centrale europea a dichiararlo suona sospetto. L’impressione è che di irreversibile ci siano solo il carattere generale e pervasivo della crisi e l’incapacità delle politiche messe in campo a prefigurare una effettiva via d’uscita. Queste politiche stravolgono la costituzione materiale dell’Unione Europea (e dei singoli Paesi membri), generalizzano povertà, precarietà e sofferenza sociale, seminano terrore, ma lasciano intravedere all’orizzonte soltanto una prosecuzione della crisi in funzione della sua gestione. La stessa alternativa tra neo-liberali e neo-keynesiani, su cui indulge molta stampa, appare da questo punto di vista a dir poco fuorviante, considerata la genericità e l’assenza di esemplificazioni politiche delle posizioni che si riconducono al polo neo-keynesiano. La situazione europea, mentre non va dimenticato che la dinamica della crisi si approfondisce a livello globale (con il “rallentamento” di essenziali poli di sviluppo, dagli USA al Brasile alla Cina), presenta oggi caratteri paradossali, di blocco: le stesse geografie che vengono immaginate e imposte, con la ricostituzione di situazioni “periferiche” in Paesi come la Spagna e l’Italia, non sembrano avere alcuna possibilità di funzionare, nella misura in cui l’attacco ai consumi finisce per essere una minaccia per gli stesse Paesi che si pretendono “centrali”. Se la crisi non ha margini, non si capisce quali dovrebbero essere i nuovi “margini”: all’orizzonte si profila così una propagazione della stessa crisi all’interno del presunto “centro” dell’Unione Europea.

Crediamo che su questo punto si debba essere assolutamente chiari: la cura imposta non fa che riprodurre la malattia. La linearità catastrofica della crisi e della sua gestione non può quindi che essere interrotta dalla generalizzazione di un movimento di rifiuto e di rivolta, che coinvolga l’insieme delle figure sociali che ne stanno subendo la violenza. Tanto il febbraio greco quanto il luglio spagnolo hanno prefigurato questa generalizzazione, che si è innestata in entrambi i casi su una temporalità di medio periodo delle lotte dentro e contro la crisi che – pur con caratteristiche diverse (anni di sollevazione permanente in Grecia, le acampadas in Spagna) – avevano materialmente costruito un terreno nuovo. Altrove (in Italia, ma anche ad esempio in Portogallo e in Irlanda) le forme di resistenza si sono dispiegate in una dinamica maggiormente frammentata, con difficoltà a determinare momenti realmente ricompositivi. Superare questa frammentazione non può che essere il primo obiettivo per i prossimi mesi, attorno a cui costruire la più ampia convergenza di forze. E’ sull’assunzione della priorità di quest’obiettivo, solo in apparenza scontata, che andranno anzi verificati i comportamenti di tutti coloro che si pongono oggi in una prospettiva di costruzione di una radicale alternativa all’esistente. Alcuni elementi essenziali di programma politico – dalla costruzione di nuovi elementi di welfare attorno alle forme date della cooperazione sociale alla combinazione della lotta sul salario e sul reddito, dalla centralità dell’autogoverno dei commons alla lotta contro le privatizzazioni – sono ormai dati. Per approfondirli e per renderli immediatamente praticabili è necessario tuttavia aprire un nuovo spazio politico, e questo è possibile solo attraverso la generalizzazione del movimento di rifiuto e di rivolta di cui dicevamo. A noi pare che si possa da subito cominciare a lavorare a un progetto articolato su tre dimensioni, distinte analiticamente ma da gestire in modo combinato.

In primo luogo, si tratta di approfondire un movimento in senso proprio destituente, puntando ad affermare il dato dell’ingovernabilità dei margini, e cioè delle società europee maggiormente colpite dalla crisi, dell’impossibilità di determinare un’uscita neo-liberale da una crisi che è anche crisi del neoliberalismo. L’obiettivo delle mobilitazioni deve diventare immediatamente la caduta dei governi dell’austerity, entro un processo di combinazione e aggancio tra le mobilitazioni che continueranno a determinarsi in Paesi come la Spagna e la Grecia e di quelle che non possono non aprirsi in un Paese come l’Italia. I punti d’attacco di queste mobilitazioni possono essere i più diversi: indubbiamente le esperienze di lotta più significative degli ultimi anni in Italia (dalle mobilitazioni dei precari della cultura e dello spettacolo al movimento NOTAV) potranno giocare un ruolo importante, così come la riapertura di un fronte di lotta nella scuola e nell’università potrà funzionare da elemento moltiplicatore della mobilitazione. L’attacco generalizzato al pubblico impiego, del resto, determinerà movimenti di lotta che dovremo essere in grado di far uscire immediatamente da un terreno di mera resistenza (più o meno corporativa), ponendo il problema più generale di attribuire un nuovo significato comune alla istituzionalità complessivamente considerata. Ma il problema fondamentale, su questa prima dimensione, rimane quello di indirizzare complessivamente la mobilitazione verso l’obiettivo dell’ingovernabilità, ovvero di quella soluzione di continuità senza la quale non è possibile aprire un ragionamento e sperimentazioni pratiche su una diversa uscita dalla crisi.

In secondo luogo, si tratta di cominciare a costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova “mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi. L’esperienza argentina del 2001-2002 (le assemblee di quartiere, la sperimentazione della gestione diretta di servizi sociali, la generalizzazione dello scambio non monetario) continua a offrire esemplificazioni profondamente suggestive in questo senso, ma esperienze significative si sono diffuse anche in Spagna e in Grecia. Al di là dell’impatto immediato di queste pratiche nel fronteggiamento della crisi, non va sottovalutato l’effetto di medio periodo che possono avere, sotto il profilo della materiale costruzione di una nuova solidarietà, capace di sostenere processi di ricomposizione tra figure sociale diverse. Da questo punto di vista, ci sembra che un ruolo essenziale, in Italia, possa e debba essere giocato da due dei movimenti più importanti di questi anni: quello dei migranti e quello delle donne, o meglio più in generale sulle questioni della sessualità. Si tratta di movimenti che hanno profondamente inciso sul terreno della “vita quotidiana”, che hanno accumulato formidabili esperienze nell’affrontamento appunto quotidiano di razzismo e sessismo, e che hanno la potenzialità di garantire quell’apertura delle sperimentazioni attorno al tema dell’autogoverno che costituisce un elemento essenziale nel momento in cui riprendono terreno retoriche e pratiche di chiusura populistica, nazionalistica e xenofoba.

In terzo luogo (ma, lo ripetiamo: da subito), si tratta di associare a questo elemento di apertura che possiamo definire “intensiva” (rivolto cioè verso l’interno del tessuto sociale) un elemento di apertura “estensiva”. Già abbiamo detto che soltanto la concatenazione e l’aggancio tra le mobilitazioni in diversi Paesi europei, partendo da quelli più direttamente colpiti dalla crisi ma allargandosi ad altri, può determinare la soluzione di continuità oggi necessaria. Ma al tempo stesso, nel momento in cui ci si pone l’obiettivo immediato di far saltare l’architettura dell’Unione Europea così come si è andata radicalmente ristrutturando dentro la crisi, non si può che insistere sul fatto che non vi sono oggi soluzioni costruite attorno al “ritorno” alla sovranità nazionale. E’ dunque di vitale importanza moltiplicare immediatamente momenti di confronto e iniziativa politica a livello transnazionale (anche in questo caso: partendo dai Paesi più colpiti dalla crisi) per rendere praticabile l’obiettivo della riconquista di uno spazio europeo liberato dallo spettro del debito e dai dispositivi di comando che attorno al debito si sono organizzati rendendo intollerabili le nostre vite.

da www.uninomade.org

BCE, EURO, SCENARI: appunti di C. Marazzi

da www.uninomade.org

 

Il 2 agosto, la Banca Centrale Europea (BCE), malgrado le roboanti esternazioni
del suo presidente Mario Draghi sulla difesa ad oltranza dell’euro di pochi
giorni prima, ha in parte “deciso di non decidere”, almeno fino a metà
settembre, quando la Corte costituzionale di Karlsruhe emetterà la sentenza
sulla costituzione del Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS), che si sostituirà
all’attuale Fondo Salva-Stati, quest’ultimo dotato di 100 miliardi di euro, una
cifra irrisoria per poter intervenire efficacemente contro gli assalti ai
debiti sovrani dei paesi cosiddetti del Sud (ce ne vorrebbero 300 solo per
salvare la Spagna). Questo significa che nelle prossime settimane, in mancanza
di una autorità veramente in grado di “fare qualunque cosa per preservare
l’euro”, i mercati saranno probabilmente soggetti a forti oscillazioni
determinate dal “calcolo delle probabilità” sulla fuoriuscita o meno dall’euro
di Spagna e Italia. La questione di fondo è: quanta sovranità i paesi del Sud
sono di nuovo pronti a concedere per “tirare avanti” con i loro debiti
crescenti?

Prima
della riunione del board della BCE i paesi in sofferenza avevano chiesto che
l’istituto di Francoforte si mettesse ad acquistare direttamente e in modo
illimitato i titoli pubblici spagnoli e italiani in modo da favorire una
diminuzione dei tassi e evitare che il loro accesso al mercato fosse precluso.
Spagna e Italia non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di
solvibilità: l’intervento della BCE non dovrebbe essere solo quello di
calmierare i mercati  facendo scendere a
livelli sostenibili i tassi di interesse, ma anche quello di sostituirsi
eventualmente agli investitori che non vogliono più sottoscrivere questi stessi
titoli. Il che comporta un radicale cambiamento della natura della politica
monetaria della BCE. In sé, non si tratta di un fatto nuovo. Già nell’autunno
dell’anno scorso la BCE aveva acquistato direttamente sul mercato oltre 200
miliardi di euro di titoli dei paesi in difficoltà. All’inizio di quest’anno
aveva poi iniettato nel sistema bancario europeo oltre 1’000 miliardi di euro
che sono stati usati soprattutto nei paesi mediterranei per acquistare
obbligazioni dei loro Paesi. Pure, in seguito, seppure non sia stato ufficialmente
proclamato, gli interventi della BCE sono proseguiti soprattutto attraverso
cospicui finanziamenti delle banche spagnole e italiane. Col risultato di una
esplosione del bilancio della BCE, che sta diventando il principale detentore
di titoli statali dei Paesi in difficoltà o di obbligazioni in cui sono stati
cartolarizzati mutui ipotecari e altri crediti delle banche.

Ma l’appello al cambiamento della natura degli interventi della BCE – da
straordinari a ordinari – rappresenta una violazione dei suoi statuti, ciò che
provoca, come si è visto in questi giorni, l’opposizione della Bundesbank. Come
maggiore azionista della UE, per la Germania il salvataggio dell’Euro nella sua
forma attuale diventa sempre più proibitivo, al punto che l’agenzia di rating Moody’s
ha espresso un giudizio negativo sulle prospettive economiche della Germania.
Il salvataggio dell’euro a colpi di interventi disordinati e a costi crescenti
appare sempre più problematico. La prospettiva di una spaccatura dell’euro
comincia infatti ad essere esplicitamente evocata da molte personalità
tedesche. Essa appare come la soluzione più “ragionevole” ad una crisi che sta
distruggendo non solo l’economia della zona euro, ma soprattutto la credibilità
dell’ideale europeo. Come si dice in Germania, oggi è meglio un grande dolore
con una fine certa, che un dolore senza fine.

E’ alla luce di questo scenario (la spaccatura dell’euro) che va interpretato
quanto emerso il 2 agosto a Francoforte. E’ vero, come scrive il Financial
Times
(“Zen and the art of central banking”, 4 agosto), che sia Draghi che
Bernanke sono ormai entrambi impegnati nell’arte Zen della nientitudine:
“Strictly speaking, the Federal Reserve and the European Central Bank did
nothing. But their respective leaders, Ben Bernanke and Mario Draghi, showed how doing nothing is
far from being inactive”. Siamo, insomma, di fronte alle tipiche
virtù della performatività del linguaggio, il “fare cose con le parole”. Fare cosa? “The real message is that the peripheral
economies will not be given money for nothing. The pressure for meaningful
structural reform is to remain intense, and any short-term bailout will be
conditional and supervised by external agencies” (“Italy and Spain coy on
rescue fund move”, FT, 3 agosto). Ecco
la novità: la BCE è disposta ad agire solo se prima i paesi che chiedono un
intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni,
aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea. Le
parole della BCE, comunque, hanno disorientato i mercati, tanto che, dopo la
reazione catastrofista dei mercati del giorno seguente, c’è voluta una
spiegazione del Financial Times per ristabilire, in modo altrettanto
esagerato, la fiducia degli stessi mercati. Insomma, da un atto linguistico
all’altro. L’incertezza regna sovrana.

Ma procediamo con ordine: prima di tutto, con le “decisioni” della BCE di Draghi
siamo ancora lontani da quel cambiamento della politica monetaria auspicato da
molti prima del 2 agosto, ossia la trasformazione della BCE in una vera e
propria banca centrale che, intervenendo direttamente sui mercati con
l’acquisto di obbligazioni pubbliche (come fa la Fed o la banca centrale
giapponese, ecc.) si preoccupa non solo di combattere l’inflazione (ancora
l’unica vera priorità della BCE), ma anche di regolare in senso macro-economico
le variabili fondamentali della crescita economica (investimenti e occupazione,
in primo luogo). E’ vero che la BCE, oltre ad effettuare operazioni sul mercato
secondario di “importo adeguato”, potrebbe non sterilizzare gli acquisti di
titoli, lasciando in tal modo aperta la possibilità di un quantitative
easing
mirato, ossia la creazione di liquidità a mezzo di interventi sul
mercato dei titoli statali. Ma qui siamo ancora nell’ordine dei possibili. E’
stato invece deciso che la BCE interverrà solo dopo che sia stato concordato un
programma di assistenza tra il Paese che chiede aiuto e il
FondoSalva-Stati/Salva-Spread. E qui, apriti cielo! “Questa subordinazione ha
almeno due inconvenienti. Primo, la richiesta di aiuti all’Efsf è un’ammissione
di impotenza. Ciò ha ovvi costi politici, ma anche economici, perché rivela che
lo stesso Paese ritiene di non riuscire a farcela con le proprie forze.
L’esperienza (europea e internazionale) insegna che, quando un Paese chiede
prestiti a organismi sovranazionali, l’accesso ai mercati gli rimane poi
precluso a lungo. Secondo, la richiesta di aiuto è formulata prima di sapere
quali condizioni saranno imposte per ricevere assistenza. L’incertezza non è di
poco conto, perché l’intervento dei fondi europei deve essere approvato
dall’Eurogruppo. Le condizioni imposte sono quindi il frutto di un negoziato
politico e non solo tecnico. Un negoziato intergovernativo, condotto in
posizione di estrema debolezza contrattuale, potrebbe costringere il Paese a
subire condizioni fortemente pregiudizievoli dell’interesse generale dei propri
cittadini” (Guido Tabellini, “La BCE cerca scudi politici”, Il Sole 24 Ore,
4 agosto). Perché, allora, questa clausola della “sorveglianza speciale”, oltretutto
aggiuntiva a quelle già decise (e approvate dai Parlamenti)? Se lo
chiede addirittura Eugenio Scalfari: “Ho grandissima stima ed anche affettuosa
amicizia per Mario Draghi ma non mi impedisce di porgli la domanda: perché
l’acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev’essere autorizzato” (La
Repubblica, 5 agosto). Secondo Tabellini, “La vera ragione di questa pistola
puntata alla tempia è che la BCE ha bisogno di una copertura politica. Senza
l’accordo e la sorveglianza dei governi europei, non vi sarebbe una maggioranza
abbastanza ampia nel Consiglio della BCE per approvare gli acquisti di titoli
di Stato sul mercato secondario. Prendiamone atto, nella consapevolezza che i
governi delle banche centrali europee sono tutt’altro che indipendenti dal
potere politico”. E questa sarebbe la “vittoria” di Mario Draghi contro Jens
Weidmann, il presidente della Bundesbank “isolato” a causa della sua
testardaggine? Sembra di sognare! Di fatto, ha vinto l’ordoliberismo tedesco,
ha vinto cioè la politica del rigore e della disciplina politico-statale funzionale
al rafforzamento dell’economia di mercato. “Se, come probabile, saremo
costretti a chiedere lo scudo ‘anti-spread’, la campagna elettorale sarà un
inutile esercizio retorico: la politica economica italiana dei prossimi anni
verrà comunque decisa a Francoforte”. “Le varie road map elettorali dei partiti
rischiano di scomparire prima ancora di essere imboccate… Il ‘che fare’ sarà
l’agenda dell’Europa per salvare l’euro e l’Italia è il test più importante. Le
alleanze politiche dovrebbero seguire: pro o contro l’euro è la prima linea di
demarcazione. Una comoda terza via non esiste, fermo restando che si può essere
euro-ottimisti ma non euro-stupidi, ed euro-scettici ma non populisti
all’ultimo stadio” (Guido Gentili, “I compiti a casa, strada obbligata”, Il
Sole 24 Ore
, 4 agosto). Goodbye Mr. Socialism.

Siamo ormai in un “nuovo feudalesimo” basato sullo “Stato di eccezione” di Karl
Schmitt, come scrive Guido Rossi, “che comporta la rigida soggezione economica
della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o
burocrati, poco importa” (Il Sole 24 Ore, 5 agosto)? Sembrerebbe di sì,
con la (ovvia) differenza che nel feudalesimo criticato da Montesquieu il
comando gerarchico era basato sulla confusione tra ricchezza terriera e
autorità, mentre oggi la ricchezza finanziaria rimanda al comando sul comune,
al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine
attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso.
Privatizzazione dei beni comuni, smantellamento del Welfare State, dismissione
del patrimonio pubblico, costrizione al debito (in Italia, negli ultimi mesi,
il debito privato delle famiglie pare sia aumentato del 33%), sono le forme del
comando neo-feudale sulla moltitudine attiva, sul comune. Da soli, i mercati

finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di
feudalizzazione del comune. Per questo c’è bisogno delle istituzioni statali,
del sistema dei partiti, delle modifiche della costituzione (vedi, ad esempio,
il pareggio di bilancio o le varie spending reviews). La questione della
rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta
di classe “oltre la rappresentanza”.

Questo significa “lottare contro l’euro”, e a nulla serve l’illusione
(social-democratica) che, salvando l’euro, si salva la possibilità di aprire
spazi di resistenza sovra-nazionali. Questo euro sta di fatto de-europeizzando
l’Europa, la sta frammentando, balcanizzando, riproponendo concretamente un
sovranismo nazional-bancario destinato a restringere sempre di più gli spazi di
socializzazione-europeizzazione delle lotte sociali.

I dati sulla riduzione, a partire dal 2007, dei prestiti bancari cross-border di
Germania e Francia sono a questo proposito significatvi: una riduzione dei
prestiti alle banche dei paesi periferici e semi-periferici pari a oltre il
25%. Si tratta di una vera e propria “financial fragmentation and
nationalization”, conseguenza della paura che una spaccatura dell’Euro porti
all’introduzione dei controlli sui movimenti di capitale e all’aumento della
pressione per erogare crediti a partire dai depositi interni ai paesi deboli.
Ne consegue che al Nord le banche possono far crediti a costi ridotti, mentre
al Sud si assiste alla drastica riduzione della capacità creditizia (vedi
“German banks sound retreat. Net lending to
weaker eurozone nations falls. French groups also cut cross-border exposure”, FT,
30 luglio).

Non c’è quindi spazio per velleità sovraniste, di ritorno alla sovranità nazionale
per rompere la camicia di forza della moneta unica. Di fatto, il sovranismo
bancario è già in atto e non ci sembra che stia contribuendo a migliorare la
situazione. Una situazione, oltretutto, in cui la frammentazione è concretamente
all’opera all’interno degli stessi Stati nazionali, come sta accadendo in
Spagna, ma anche in Italia, con la crisi della Catalonia, di Valencia, ecc. (“Europe’s Brutual Game Of Dominos”, BloombergBusinessweek,
5 agosto). E, soprattutto, in una fase in cui “The stream of migrants is
the most eye-catching part of a larger trend – people from recession-hit
countries in the southern eurozone moving northwards to seek work”  (Gerrit Wiesmann, “Greek swap sun and
austerity for jobs in rainy Germany”, FT, 2 agosto). La
questione dei migranti torna ad essere fondamentale nella definizione degli
spazi di lotta.

C’è solo spazio per la costruzione di una moneta (del) comune che sappia dare
espressione materiale alla lotta di classe trans-nazionale. Una lotta che parta
da precise e concrete “soggettività migranti”, da forme di riappropriazione del
comune, del sapere (“Maybe it is easier to be European if you’re well
educated”, dice un emigrato greco), che su queste basi sappia ricomporre un
“sapere monetario condiviso”, in cui la moneta sia veicolo di ricomposizione di
senso, di autonomia sociale, non certo di esclusiva appropriazione di lavoro e
di vita altrui.

La tenuta sociale, interna ai vari paesi della zona euro, è il problema centrale
dei prossimi mesi. La moneta unica, con le riforme economiche che comporta, non
può reggere se cresce un movimento di rivolta contro il sistema dei partiti
chiamato ad implementare i Memorandum della troika. Di questo sono perfettamente consapevoli anche i
tedeschi. Hans-Werner Sinn e Friedrich Sell prongono sulle colonne del Financial
Times
la loro soluzione a questo problema politico-sociale: “The idea is to
allow countries leaving the euro to adopt their own currency temporarily with
an option to return later” (“Our opt-in opt-out solution to the eurozone
crisis”, FT, 1 agosto). Sinn è l’economista tedesco più
influente, colui che da tempo critica (ferocemente) i paesi periferici per il
loro lassismo, sostenendo l’insostenibilità economica per la Germania
dell’attuale sistema monetario europeo. L’idea di permettere ai paesi del Sud
di uscire “temporaneamente” dall’euro per riconquistare la loro competitività
(via svalutazione della loro moneta) e, soprattutto, il loro consenso
politico-sociale interno, la dice lunga su quel che i tedeschi hanno in mente,
e da tempo: la spaccatura dell’eurozona, né più né meno. Esiste già un accordo
(European Exchange Rate Mechanism) che permette ai paesi in attesa di entrare
nell’euro, come la Danimarca, la Lettonia e la Lituania, di “esercitarsi” per
un paio di anni (infatti, l’ERM II da loro proposto ai paesi deboli già
nell’euro dovrebbe essere una specie di “training space”) prima di entrare a
far parte dell’eurozona. Insomma, quel che Sinn e Sell propongono è una
spaccatura dell’euro in due aree monetarie (se poi la Grecia, la Spagna o
l’Italia ritorneranno nell’euro, dipenderà dalla loro capacità di sfruttare la
leva della svalutazione entro un margine di +/- 15%). Gli esempi storici di uno
scenario del genere non mancano: la separazione dal dollaro del D-Mark nel
1969, l’uscita della sterlina dallo SME all’inizio degli anni ’90, l’Argentina
e la rottura della parità col dollaro nel 2002.

E’, a suo modo, un’opzione sovranista (Jacques Sapir è ancora più radicale, ma la
direzione sembra la stessa) ma declinata su due aree monetarie. Si noti che
anche Michel Aglietta, che sostiene l’opzione federalista, non vede affatto
male l’uscita della Grecia dall’euro (Zone Euro. Eclatement ou fédération,
Michalon: Parigi, 2012). Chi, come noi, parte dalle lotte, dai movimenti, dalle
soggettività, non può sottrarsi dall’esprimersi politicamente su questi
scenari. Da una parte, è evidente che l’Eruopa monetaria sta sgretolandosi a
causa delle sue contraddizioni interne (monetarie e istituzionali). Personalmente
continuo a credere che la spaccatura dell’euro sia l’esito più probabile. Non
lo auspico, semplicemente mi sembra che sia “nelle cose”. Vedremo. Dall’altra,
il passaggio dalla moneta unica attuale alla moneta (del) comune è l’orizzonte
dei movimenti sociali, che sono apolidi (per definizione storica) e che quindi
devono sottrarsi a qualsiasi ripiegamento sovranista. La moneta (del) comune
sarà l’esito di questa tensione. E’ un processo materiale, costitutivo, aperto.

COMUNICATO STAMPA COMITATO DI LOTTA POPOLARE SULLE RESTRIZIONI AI 12 NO TAV

Oggi, 31 luglio, agenti della digos di Torino si sono
presentati presso le abitazioni di 12 No Tav e presso il campeggio No Tav di
Chiomonte per notificare altrettante denunce per resistenza aggravata e lesioni,
e alcune misure cautelari. I fatti contestati sono quelli dell’8 dicembre 2011,
quando, nel giorno dell’anniversario della cacciata delle truppe del 2005,
migliaia di persone si recarono in Val Clarea per ribadire la contrarietà più
ferma alla presenza in valle delle truppe d’occupazione presenti dal 27 giugno,
e alle recinzioni che delimitano l’area in cui dovrebbero svolgersi i lavori
preliminari per il tunnel geognostico di Chiomonte.

Fu una giornata di lotta, di sfida alle mafie Sì Tav e al loro apparato
militare, cui le FFOO risposero con violenza estrema, lanciando gas lacrimogeni
al CS non appena tentammo di avvicinarci alle reti, non senza cercare il ferito
e magari il morto tra i manifestanti (in particolare puntando ripetutamente alla
testa dei No Tav le granate lacrimogene). Un compagno perse un occhio per questo
motivo, mentre Yuri, 16 anni, del Komitato Giovani No Tav, oscillò tra la vita e
la morte per 24 lunghissime ore, per poi ristabilirsi soltanto parzialmente dopo
mesi di cure. Ha infine completamente perso l’udito da una delle orecchie.

Questa repressione fu brutale e premeditata, dimostrando ancora una volta
che, quando interessi troppo grandi sono in ballo, la democrazia dell’austerity
non esita a mettere a rischio la vita delle persone, pur di procedere nei suoi
intenti. Proprio in quei giorni, d’altra parte, si insediava il governo Monti
che, per voce del ministro Passera, ribadiva il carattere prioritario e
irrinunciabile del Tav: non ci stupimmo, visto che i tecnocrati che ci governano
hanno il compito preciso di scaricare i costi della crisi su tutti noi, per
massimizzare ancora una volta i profitti di una cricca di parassiti capitalisti.
Di una simile visione della società, e di simili interessi, il Tav è uno dei
costituenti esemplari.

Oggi, ancora una volta, la magistratura torinese si schiera contro la Val di
Susa, imponendo restrizioni ai movimenti di 12 compagni colpevoli soltanto, come
tutti noi, di avere difeso la nostra terra. Per l’ennesima volta, e a sette mesi
dall’operazione coordinata da Caselli il 26 gennaio, si mostra di credere che le
denunce e i processi possano fermare un movimento popolare di massa, un
movimento resistente, che non arretrerà di un metro dopo questa operazione, come
non ha arretrato dopo le precedenti. Operazione tanto più grave perché assume
carattere persecutorio nei confronti di un compagno del Comitato di Lotta
Popolare, Giorgio, che soltanto ieri aveva visto gli arresti domiciliari
commutati in divieto di dimora in alcuni comuni della valle; da oggi gli si
impone l’obbligo di dimora a Bussoleno e quello di permanenza presso la propria
abitazione tra le 21 e le 7. Provocazione tanto più evidente perché un altro
indagato, Max, è stato “prelevato” nella notte al campeggio di Chiomonte per la
notifica di un obbligo di dimora mentre Luca, giovane del Comitato, è stato
prelevato a casa sua, caricato in macchina e portato in Questura a Torino.

Nulla di tutto questo fermerà il movimento o incrinerà la sua convinzione
nelle proprie ragioni. Nulla di tutto questo cambierà la nostra opinione sul Tav
e sulla necessità di una resistenza aperta contro di esso. Nulla di tutto questo
cambierà la storia di vergognose violenze di polizia che ha contraddistinto la
giornata dell’8 dicembre 2011. Nessuna denuncia e nessun processo intaccherà la
fermezza del movimento nella lotta: ci vorranno tempo e sacrifici, ma infine una
per una le recinzioni del cantiere verranno giù.

Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno