Luca Abbà ritorna in Clarea, la polizia usa idrante sui notav

da www.infoaut.org

Sotto una pioggia battente migliaia i notav che hanno accompagnato Luca Abbà
sotto quel traliccio dal quale cadde, per colpa della polizia, il 27 febbraio
scorso. Il ritorno di Luca in Clarea dimostra la sua tenacia, di chi da sempre
si oppone allo scempio di una valle, contro le lobby affaristiche del tav.

Una passeggiata pacifica ma determinata per dimostrare che il movimento notav
non si fa intimidire dai tentativi di criminalizzazione della magistratura, per
denunciare la militarizzazione della valle, contro un cantiere che ha devastato
un intero territorio.

Una volta giunti in Clarea, un primo momento fatto di interventi nei quali si
ribadivano l’importanza di continuare ad esserci, un momento per ribadire la
necessità di resistere e continuare a lottare; in un secondo momento i notav si
sono avvicinati alle reti del cantiere per l’ormai consueta battitura per
esprimere il dissenso verso un cantiere installato manu militare, contro la
militarizzazione della valle. Appena il movimento ha iniziato la battitura le
forze dell’ordine, in maniera gratuita, ha scaricato l’idrante addosso alla
gente rimasta ferma continuando, per quanto fosse possibile sotto i forti getti
d’acqua, la battitura alle reti del cantiere. Un’ azione quella delle forze
dell’ordine in linea con la loro vigliaccheria. Senza farsi turbare troppo da
questo gesto, il movimento notav è andato a posare, in prossimità delle zona
delle vasche, un menhir in pietra a perenne memoria di tutti i caduti della
resistenza partigiana nelle vallate alpine piemontesi.

Una giornata che seppur all’insegna del maltempo è stata molto partecipata,
un ritorno al futuro per Luca che in quel luogo a rischiato di non avere più, un
momento di rilancio per il movimento notav che si appresta ad affrontare un
altro inverno di lotta.

NO ALLA VENDITA DEL PATRIMONIO PUBBLICO 1.10.12 Manifestazione a Roma

NO ALLA
VENDITA DEL PATRIMONIO PUBBLICO

LUNEDì 1 OTTOBRE

ORE 13.30
CONFERENZA STAMPA
ORE 15.30 MANIFESTAZIONE IN
CAMPIDOGLIO

Il 1 ottobre sarà una giornata decisiva per il destino di Roma. In questa giornata,
infatti, il Campidoglio è chiamato a votare la delibera sulla vendita del
patrimonio pubblico: una lunga lista di beni comuni che rischiano di essere
sottratti alla collettività per essere (s)venduti al miglior offerente o a chi –
sull’onda lunga delle tante «parentopoli» romane – avrà meglio saputo
intrallazzare con i nostri amministratori.

manifestazione in campidoglioPurtroppo sia la maggioranza che l’opposizione sono convinte che
cedere il patrimonio comunale sia inevitabile per far fronte al disavanzo delle
casse romane, devastate dal malaffare e dal nepotismo. Invece si tratta di
un’idea inaccettabile, un insulto per tutti i cittadini e l’ennesimo regalo ai
«signori del mattone».

Con le
mille persone salite al Campidoglio giovedì 27 Settembre, i MOVIMENTI PER IL
DIRITTO ALL’ABITARE hanno già fatto sentire la loro voce, esprimendo il dissenso
nei confronti della giunta Alemanno e ottenendo un incontro con l’assessore al
Patrimonio e la maggioranza, fissato per LUNEDI 1 OTTOBRE alle 12, mentre alle
16, in aula, inizierà la discussione, con l’obbiettivo dichiarato di una veloce
approvazione di un provvedimento assolutamente antipopolare.

I
MOVIMENTI PER IL DIRITTO ALL’ABITARE si mobiliteranno ancora, sia per opporsi
con tutte le loro forze alla vendita incontrollata dei «gioielli di famiglia»,
sia perché – come confermato da un incontro con i rappresentanti
dell’opposizione, ottenuto giovedì scorso grazie alla pressione della piazza –
la novità di un fondo per l’edilizia residenziale pubblica da prevedere nel
bilancio deve assolutamente diventare realtà. Solo una simile voce, infatti,
potrebbe dare finalmente sostanza alle 6000 case popolari che, da marzo 2010,
esistono soltanto sulla carta di una delibera approvata dal consiglio comunale.
Perché non bisogna dimenticare che, con questi investimenti, si potrebbe tornare
a parlare di alloggi pubblici e di sostegno alle iniziative di autorecupero:
necessità vitali per una città sul quale aleggia minaccioso lo spettro della
perdita della casa per quote sempre più ampie della sua popolazione.

Siamo solo
all’inizio di un processo difficile, condizionato da una  campagna elettorale
alle porte. Dobbiamo strappare dentro il bilancio che sta per essere approvato
le risorse necessarie per finanziare politiche abitative degne di questo nome.
Per questa ragione i MOVIMENTI PER IL DIRITTO ALL’ABITARE torneranno in
Campidoglio LUNEDì 1 OTTOBRE ALLE
15.30 per manifestare i bisogni autentici di una Roma devastata dal cemento e
dalla precarietà.

Movimenti per il diritto all’abitare

Madrid 25S — La democrazia si apre il passo

di MADRILONIA.ORG

Ci hanno chiamati golpisti. Hanno detto che dietro questa manifestazione si nascondeva l’estrema destra. I mezzi di comunicazione hanno mentito per giorni e giorni. Hanno minacciato di mandarci in galera, hanno dispiegato oltre 1400 agenti di polizia, hanno identificato e denunciato molte persone solo perché esse si erano riunite in un parco pubblico a discutere sulla convocazione di questa manifestazione. Hanno provato a riempirci di paura, come mai era successo prima d’ora. Il risultato è che, nelle strade, eravamo in decine di migliaia, pronti a disobbedire allo stato di eccezione imposto dal governo. Ora tutti i media del pianeta stanno parlando di quanto successo a Madrid il 25S. E sappiamo bene che è solo l’inizio.

Il governo Rajoy è debole come mai era stato prima d’ora. E deve affrontare un problema di governamentalità politica su tre fronti, deve affrontare un problema di dimensioni totalmente nuove. In primo luogo, la forte crisi di legittimità presso la cittadinanza, non solo per le decine di migliaia di persone che si sono mobilitate durante il 25S, ma anche nei confronti del proprio elettorato. Il governo non ha in mente nessun piano di azione, a parte quello di continuare nella propria politica di tagli, accompagnati da una dinamica repressiva sempre più intensa, e sempre più inutile. La risposta al di là di ogni previsione alla mobilitazione lanciata ieri, la fuga clandestina degli “onorevoli”, le patetiche dichiarazioni della maggior parte dei deputati sono segni chiari di questo processo.

Vogliamo dirlo senza equivoci: un governo che si sostiene solo grazie al monopolio della violenza è un governo debole, moribondo e condannato.

Il secondo fronte aperto è quello di una grave crisi del modello territoriale dello Stato. Intrappolato tra il prostrarsi alla Troika (UE BCE FMI) – che si traduce nell’imposizione di politiche dettate dalle dinamiche finanziare – e lo smembrarsi del patto tra le élite – che ha permesso di sostenere la distribuzione della ricchezza tra le comunità autonome -, il governo centrale non è altro che uno spaventapasseri. Con grandi difficoltà è riuscito a mantenere una certa convergenza di azione con le varie élite territoriali, come ci dimostra la “minaccia” indipendentista del CIU (Convergenza e Unione, partito della destra catalanista al governo in Catalogna, ndt), capace di mobilitare una buona parte della società catalana nel nome di un progetto sfacciatamente neoliberale e oligarchico. In questo caso, la debolezza non è solo di questo governo. Siamo di fronte a una ristrutturazione generale delle istituzioni, ereditate dal processo della Transizione, che dimostra la necessità di costruire un nuovo modello di democrazia, tanto politica quanto economica.

Infine, il governo si è mostrato assolutamente incapace di imporsi di fronte alla Troika, di difendere gli interessi della propria popolazione e di allearsi con il resto dei paesi europei periferici. Detto in altro modo, il governo non ha smesso di obbedire agli ordini del potere finanziario che ci spinge verso un’intensificazione continua della crisi sociale. In questo quadro, non ci saranno altre via d’uscita se non la recessione e l’impoverimento. E su questo punto dobbiamo stare allerta perché venerdì o sabato sapremo quali sono le contropartite chieste dalla Troika per garantire il nuovo bailout: riduzione degli ammortizzatori sociali per la disoccupazione, aumento dell’età pensionabile, vendita di asset e beni comuni e nuovi tagli ai diritti dei lavoratori nel pubblico impiego.

Oggi, lo spread è tornato a salire rispetto agli ultimi giorni. Molto probabilmente è un avviso da parte della Troika – attraverso la sospensione dell’acquisto di buoni del tesoro – riguardo il fatto che il programma di contropartite imposto dalla finanza deve mantenersi inalterato, al di fuori da qualunque “concessione” alle richieste che provengano dalla cittadinanza.

Quello che abbiamo vissuto nelle strade di Madrid il 25S è stata la prima dimostrazione della potenza dell’organizzazione collettiva. Ci troviamo probabilmente all’inizio di un ciclo di mobilitazioni al quale tuttavia non si sono ancora uniti né i funzionari pubblici, né i pensionati. Dobbiamo riconoscerlo: la mobilitazione del 25S è stata segnata da un chiaro tratto generazionale. La generazione di chi non ha una casa, non ha un reddito, non ha un lavoro, la generazione di chi non ha votato la Costituzione del 1978 e non si sente garantito dai patti che negli anni Ottanta hanno dato corpo a questo modello di Stato.

Eppure, c’è da aspettarsi che le misure che il governo dovrà probabilmente approvare, spingeranno molte altre persone a unirsi all’assedio del Congresso. Il problema è politico e per questo il nostro compito continua a essere quello di riunire la potenza sociale necessaria a fermare il saccheggio del comune a cui stiamo assistendo. Il problema è politico e per questo dobbiamo riuscire a riprodurre quella alleanza che nelle giornate di Luglio aveva unito il 15M, i funzionari pubblici, i pensionati, i lavoratori dell’istruzione, della sanità e una moltitudine di persone che partecipavano senza altro nome che il proprio. Dobbiamo fare in modo che questa stessa alleanza torni a emergere e a mettere in evidenza la crisi dell’ordinamento costituzionale attuale, del bipartitismo imperante e delle istanze rappresentative. Per dire forte e chiaro che la democrazia è un’altra cosa e che questo paese, così come l’Europa, sono ancora da inventare.
La Delegación de Gobierno di Madrid può dire che c’erano seimila persone, parlare di golpismo e paragonarci al colonello Tejero e al suo golpe di Stato fallito nel 1981, però la “loro” realtà e la “nostra” camminano ormai lungo strade separate. L’intelligenza in rete possiede una capacità propria di auto-narrazione e non ha bisogno di meccanismi che la rappresentino. Si tratta di un esempio chiaro della crisi della forma Stato, uno Stato che assomiglia sempre più a una dittatura. Per questo dobbiamo gridare un’altra volta: non siamo spettatori, non ci rappresentate.

Il 25S è finito. Adesso viene il meglio. Il primo passo successivo al 25S è oggi [mercoledì scorso, 26 settembre, ndt] alle 19 a Nettuno, per dimostrare che seguimos adelante.

* Traduzione dallo spagnolo di Francesco Salvini.

Viva la costituente!

da www.uninomade.org

 

Liberare il campo. Questo è il problema che abbiamo posto e ci poniamo dentro il movimento italiano (ma in una prospettiva che guarda immediatamente al Mediterraneo e all’Europa), di fronte all’interrogativo su cui con insistenza è necessario arrovellarsi: perché non c’è stato in Italia l’insorgere di una composizione che di Occupy, degli indignados o delle “primavere arabe” non ripeta pappagallescamente slogan e simboli, ma ne traduca e dunque crei in forma specifica la potenza politica e di generalizzazione? Sia chiaro, sarebbe sbagliato dire che non ci sono conflitti. Questi non mancano e ogni giorno le cronache, sui mezzi di comunicazione di movimento e mainstream, danno conto della loro diffusione. Il punto è che queste lotte faticano a parlarsi, a generalizzarsi, a comporsi su un piano comune. La domanda sul perché ciò avvenga e, soprattutto, su come rompere i dispositivi di frammentazione, non può che avere differenti livelli di risposta: e tutti interpellano urgentemente gli sforzi di inchiesta militante. Lo scorso 15 ottobre l’iniziativa di un insieme di forze politiche, unitamente al ricatto dell’anti-berlusconismo, ha costruito una cappa sotto cui si è cercato di soffocare, dunque di rappresentare, quello che c’era o poteva esserci. Così, mentre in diverse parti del mondo si esprimevano in modo forte potenza e nodi aperti delle lotte globali dentro la crisi, in Italia il dibattito arretrava drammaticamente sui temi della violenza e della caccia agli untori.

Sarebbe ingenuo e improduttivo pensare che la soluzione all’interrogativo risieda semplicemente in una sorta di katechon interno ai movimenti, ovvero una forza che trattiene l’altrimenti inevitabile affermarsi dei dispositivi di ricomposizione delle lotte. E del resto le insufficienze di proposta e organizzative con cui tutti dobbiamo misurarci vanno al di là delle scelte opportunistiche. I punti di blocco sono evidentemente molteplici e consistono fondamentalmente nella tenuta di istituzioni della mediazione sociale (dai partiti e sindacati, fino ad arrivare alla Chiesa e alla famiglia) che, pur in crisi, riescono ancora a tamponare la generalizzazione di comportamenti sovversivi. Queste linee di ingombro, tuttavia, allungano le proprie articolazioni fin dentro i movimenti, e molte delle strutture che rappresentano un pezzo importante della riproduzione antagonista degli ultimi vent’anni (molti centri sociali, ad esempio) oggi appaiono svuotati di capacità espansiva. Liberare il campo, allora, significa non risolvere ma porre sulle corrette basi il problema di costruire nuove forme di organizzazione all’altezza dei compiti epocali che la crisi del capitalismo offre. É, per dirla in altri termini, una condizione necessaria ma non sufficiente, da cui partire per confrontarsi su elementi di programma e prospettiva.

Costituzione e costituente

Mai come oggi è apparso chiaro che nessun tipo di compromesso istituzionale può permettere di indirizzare i movimenti, meglio, di creare all’interno dei movimenti dispositivi di trasformazione efficaci nell’affrontare la situazione politica presente. Negli anni scorsi alcuni compagni hanno pensato di poter trovare una linea intermedia sulla quale coalizzare forze istituzionali (rappresentanti settori della produzione, sottoposti ad una forte pressione di riforma neoliberale) e movimenti di trasformazione sociale. Era facilmente prevedibile che questo tipo di alleanza non avrebbe potuto stabilirsi che in maniera “diplomatica”, qualora non fosse stata esercitata una pressione di base all’interno e all’esterno di quelle stesse forze istituzionali. Alcuni gruppi di compagni hanno invece privilegiato il terreno istituzionale, sia quello sindacale che quello parlamentare, finendo per subire totalmente quel terreno e per risultare subalterni alla sua agenda. Cosa ancora più grave: si è arrivati ad accettare la discriminazione tra compagni sulla base del bieco refrain socialista: “chi è per la violenza è un nemico”. Per questi comportamenti, la critica è necessaria e l’autocritica deve essere imposta.

Il tentativo di alleanza con la Fiom è stato in proposito un esempio classico di fallimento politico: perché? Perché non si potevano accostare funzioni separate, come quella della mera difesa “lavorista” di una classe operaia di fabbrica investita da una profonda ristrutturazione e quella della proposta di un reddito garantito di cittadinanza che trasforma la concezione stessa del lavoro produttivo. Ogni tentativo svolto su questo terreno senza l’accompagnamento di una forte coscienza teorica del passaggio che si sta compiendo, è opportunista se non cialtrona. Il risultato è che oggi la Fiom è su posizioni più arretrate e conservatrici di tre anni fa. La parola d’ordine della costituente può invece diventare un punto unificante, come già sta avvenendo in Spagna. Il problema oggi è quello dunque di costruire, sul livello generale, forme di contropotere che contrastino l’avanzamento delle proposte costituzionali (sia sul terreno della pratica giuridica, sia sul terreno delle riforme strutturali) che le élite neoliberali impongono. È su questo terreno che tutte le forze e i movimenti della trasformazione, presenti sui territori, possono e debbono muoversi. Queste indicazioni prevedono un’apertura sociale massima degli organismi di base alla discussione di indicazioni costituenti ed alla definizione di strumenti adeguati. Negli anni ’90 si diceva “uscire dal ghetto” e si occupavano i centri sociali; ora, se non si vuole rimanere intrappolati nella gabbia dell’autoreferenzialità, bisogna aprirsi organizzativamente alle iniziative di nuova istituzionalità autonoma, dalle occupazioni dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo a quelle di intere porzioni di territorio, trasformate in luoghi di contropotere costituente. Infatti, anche nelle lotte territoriali o per i beni comuni, così come per Occupy o le acampadas, il problema non è ripeterne slogan e icone da spendere sul mercato della politica: se non si comprende questo punto, non ci possiamo spiegare perché il movimento No Tav riesce a generalizzarsi e falliscono esperienze almeno potenzialmente analoghe. Il tema del comune, gli obiettivi e i programmi legati alle lotte sul comune e alla proposta costituzionale del comune sono dunque centrali.

Dentro/contro l’unità europea

Lo abbiamo detto e ripetuto: ogni illusione di poter scegliere lo spazio nazionale per portare avanti le lotte anticapitaliste è del tutto illusorio. Sul terreno europeo il capitale ha anticipato con enorme forza le politiche del riformismo socialista, le ha decisamente estirpate. Riconoscere questo ritardo, di venti-trent’anni, significa anche attribuirne la responsabilità a tutti quelli che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, hanno pensato che la forza del movimento operaio internazionale (o addirittura la lotta di classe) fosse definitivamente scomparsa. Affermare che la lotta di classe si svolge sul terreno nazionale è sempre stata un’infamia (ed oggi è un errore moltiplicato per mille). C’è chi ancora si stupisce che il rifiuto dell’Europa finisca per essere populista e/o fascista: questa non è una deriva ma uno sviluppo coerente per ogni atteggiamento e/o comportamento identitario. Quello che è successo nell’ultimo anno in Ungheria ne è una dimostrazione lampante.

L’Europa rappresenta il nostro destino: può essere un inferno ma è anche il terreno adeguato alle lotte di emancipazione nel mondo globalizzato. Interiorizzare il senso europeo alla lotta di classe, ovunque essa si svolga, nelle fabbriche, nei servizi industriali e sociali, nell’università, ecc., è assolutamente fondamentale. È chiaro che le politiche dell’Unione europea vanno fin da ora radicalmente modificate e che la preminenza dei vecchi trattati va combattuta: ma questo non è un passaggio entro il quale lo spazio europeo venga dissolto (e le singole nazioni lasciate ancor più in preda alle operazioni delle grandi multinazionali e dei poteri finanziari) – questo passaggio è costruttivo di organizzazione, di contropoteri, di nuove strutture costituzionali. Programma del comune e programma europeo vanno completamente unificati. Per dirla chiaramente: non c’è programma del comune se non su base europea. Non è un caso che dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia – per citare i tre maggiori esempi di mobilitazioni, di massa e radicali, contro l’austerity – i compagni più avvertiti pongano con insistenza la necessità di uno spazio europeo, pur nella consapevolezza della difficoltà di questo compito. Senza questa capacità di iniziativa politica europea, che è oggi innanzitutto mediterranea, quindi in grado di allargarsi alle “primavere arabe” sull’altra sponda, le lotte contro l’austerity rischiano di essere consegnate al rancore localista. La costruzione di una “leva meridionale” con cui riaprire la questione europea, a partire dai paesi membri della UE maggiormente investiti dalla crisi, ma con una capacità di collegarsi a quanto si muove sulla sponda sud del Mediterraneo, può diventare un realistico progetto politico in questa fase.

Al contrario, l’arretramento sul piano della difesa della rappresentanza e della sovranità nazionale è il frutto velenoso della cosiddetta “dittatura della Bce”: da un lato si intende la finanziarizzazione non come un processo reale ma come l’invenzione di una cricca di malvagi (i discorsi sulla casta, fonte dei populismi degli ultimi anni, hanno qui il loro presupposto); dall’altro, si consegnano i movimenti alla peraltro illusoria alternativa tra corruzione del sistema politico e risentimento giustizialista. Nei prossimi mesi, c’è da scommetterci, non mancheranno neppure in Italia grandi esplosioni di conflitto contro le politiche di austerity: la loro caratteristica sarà inevitabilmente spuria e perfino ambigua. Il nostro compito è quello di starci dentro, perché è la stessa condizione della crisi a essere spuria e ambigua. Ma se non vogliamo essere risucchiati nel vortice della demagogia o rinchiuderci nella pura testimonianza, dobbiamo costruire collettivamente la capacità di conquistare l’egemonia programmatica del comune. Ed è solo qui, sul piano dell’iniziativa costituente europea, che la trappola populismo-rappresentanza va rotta e l’ambiguità può essere rovesciata.

La lotta per il comune è una lotta per la pace

In questi anni, dentro la miseria della vita politica interna al paese, alcune componenti dei movimenti antagonisti hanno dimenticato la vocazione alla lotta per la pace che altre volte ne ha costituito il nerbo. La situazione nella quale viviamo, i rivolgimenti sensazionali del mondo mediterraneo e mediorientale e i tentativi di controllo e di moderazione della loro potenza rivoluzionaria, le lotte attorno al possesso delle materie prime energetiche, ecc., – tutto ciò porta precipitosamente verso contraddizioni ed antagonismi difficilmente regolabili se non attraverso opzioni belliche. Il fatto che l’egemonia americana nel Mediterraneo fino agli estremi limiti del mondo arabo sia in grave declino non allontana il pericolo ma lo rende ancora più vicino. Bisogna quindi che i movimenti si impegnino immediatamente sul terreno della pace in quanto processo costituente. Le lotte sociali per il salario, per il welfare, per la trasformazione della produzione, per una struttura costituzionale rivolta alla costruzione del comune non possono non avere al proprio interno un’istanza di lotta per la pace e per la giustizia nei rapporti tra le moltitudini.

Dentro la lotta per il comune la pace si spoglia così dei residui idealisti che l’hanno spesso caratterizzata nell’ultimo e importante ciclo no war, quando la lotta contro la guerra faticava a territorializzarsi nella quotidianità del conflitto sociale, finendo per consumarsi nel semplice richiamo alla coscienza civile o, in Italia, all’articolo 11 della Costituzione. Nella storia lunga e recente dei movimenti americani, ad esempio, la guerra è sempre stata un tema centrale, rischiando però spesso di essere il coagulo morale di un ceto medio che reclamava gli ideali del “sogno americano”, gridava al tradimento delle elite e marcava la separatezza dalle lotte contro i rapporti di sfruttamento. Nel momento in cui quel ceto medio è definitivamente declassato e l’American dream sprofonda nell’incubo della crisi permanente, Occupy lascia apparentemente sottotraccia la questione della pace, proprio perché essa comincia a vivere nella materialità delle lotte per un nuovo welfare e contro la povertà e il debito. Non c’è più tradimento, perché quelle elite – a cominciare da Obama – non rappresentano nessuno. E il tema della pace vive nelle “primavere arabe”, il cui processo è stato parzialmente interrotto ma resta completamente aperto, a dispetto delle retoriche – mainstream e di movimento – su un’inevitabile egemonia islamista. I partiti islamisti al governo hanno definitivamente gettato la maschera: infranta qualsiasi illusione di una funzione destabilizzatrice che la stupidità di un consunto anti-imperialismo continua ad attribuir loro, si rivelano per quello che sono sempre stati, cioè i migliori garanti di una prospettiva di stabilizzazione conservatrice. E in questo ruolo utilizzano salafiti e gruppi religiosi che, alla prova dell’insorgenza, si dimostrano nemici innanzitutto dei processi rivoluzionari.

Contro ogni minoritarismo

Liberare il campo, dicevamo. Cioè uscire dal minoritarismo, che non consiste in un puro dato quantitativo, di opinione pubblica, oppure – come pensano tutte le “terze vie”, quelle tragiche e quelle farsesche – moderare i contenuti per allargare il numero dei simpatizzanti: pensare questo, nell’accelerazione della crisi, è stupidità o malafede. L’uscita dal minoritarismo è una prassi politica, la capacità di essere all’altezza della composizione del lavoro vivo, della sua potenza di espressione e radicalità. Quando diciamo politica della composizione contro politica delle alleanze, dunque, non ci gingilliamo con le parole a effetto. Molto concretamente il problema è: perché si riempiono le sale degli incontri tra le supposte rappresentanze dei movimenti, degli studenti e dei lavoratori, e in piazza gli operai dell’Alcoa sono lasciati soli? Perché si constata l’esaurimento della forma-sindacato a Taranto e si consegna al sindacato la (mancata) iniziativa contro la riforma Fornero o per i referendum sul lavoro? Sono domande che interrogano tutti, nessuno escluso. Così, mentre in Italia si implorava la Cgil di convocare uno sciopero generale, a Oakland e nella MayDay questo veniva indetto direttamente dai movimenti, costringendo i sindacati americani, nazionalisti e corrotti, a confrontarsi con l’autonomia di programma e di agenda politica di Occupy. Insomma, è chiaro che processi di organizzazione unitari vanno privilegiati. Ma solo se sono espansivi, dunque con una vocazione maggioritaria e di classe, e non frontisti, cioè minoritari.

Contro crisi e austerità riprendiamoci scuole e città

Questi ultimi mesi sono stati caratterizzati dall’avvento del governo Monti e dei suoi tecnici, che di fatto si è posto su una linea di continuità nell’ottica di applicare le politiche di austerity dettate dalla finanza internazionale.
In un quadro di trasformazione politica, in cui nei fatti l’iniziale fiducia nei confronti del governo Monti è completamente svanita e la crisi si fa sempre più sentire sulle spalle della gente, la scuola ancora una volta resta luogo di costruzione e progettazione, di opposizione e conflitto, contro un sistema economico e sociale che tenta di riprodursi a scapito di chi già sta pagando questa crisi.

La scuola, infatti con il carattere di comunità che l’accompagna, spaventa chi come il ministro Profumo mira a mettere in atto l’ennesima riforma per garantire privilegi ai soliti.
Con la parola d’ordine “meritocrazia” si vuole nascondere di fatti un progetto che ha come obbiettivo quello di far accedere ad un’istruzione di qualità soltanto chi dispone di un certo livello di reddito, al fine di preservare una società giá soggiogata dalle logiche di mercato, nella quale non c’e spazio per la libera scelta.
Molti aspetti sono in continua evoluzione e nel corso dell’estate molti scenari politici si sono definiti, ma la nostra opposizione a questo governo e a questo sistema di sviluppo resta forte e determinata. In quest’ ottica lanciamo la prima data di mobilitazione studentesca nazionale venerdì 5 ottobre.★Studenti Medi in Mobilitazione ★

Il grado zero sul livello del mare, l’orizzonte del conflitto sociale

da www.uninomade.org

di RAFAEL DI MAIO

Nella crisi profonda si moltiplicano e si confondono un po’ ovunque figure di grigi funzionari della dialettica, da sempre schierati contro la liberazione dell’uomo dal lavoro. Avviene sovente anche nei sindacati e movimenti loro alleati quando s’improvvisano per i nuovi diritti, che peraltro la governance del bio-capitalismo tenta continuamente di catturare con riforme e sintesi normative – soprattutto nell’Europa lontana dagli interessi sul debito – per scandire la trasformazione continua del rapporto irriducibile tra lavoro vivo e capitale. Rovesciano e trasformano come un re Mida in un’alchimia negativa l’oro in merda, il reddito universale in sofisticati dispositivi di controllo sociale.

La finanziarizzazione definisce la sfera pubblica del capitale mettendoci davanti ad una crisi strutturale della governabilità, del valore e della sostenibilità stessa della moneta. Nella grande transizione dal fordismo al post-fordismo la crisi finanziaria diviene prima di tutto crisi sistemica del processo di valorizzazione. Nel bio capitalismo contemporaneo è ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione del lavoro nel diritto. Questa è ormai la tendenza costituente del profitto che diviene rendita. Sul piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Dentro le nuove striature del capitalismo digitale i colossi come Apple, Google e Facebook fungono come leve per la nuova misurazione del valore, come catalizzatori di informazioni sociali sui comportamenti della collettività che vengono continuamente ricombinate e analizzate  e che attraverso l’espropriazione del capitale sociale vengono monetizzate, senza nessun riconoscimento della effettiva ricchezza socialmente prodotta. Il lavoratore diviene una figura immersa nella produzione sociale. Gli utenti e il loro continuo interagire con i dispositivi  tecnologici in Rete operano sul campo immanente della produzione biopolitica che potremmo definire prod/utenza o co-creazione di valore.

Basti pensare ad esempio alle nuove sperimentazioni nel modello anglo-sassone di sostegno al reddito ai giovani tra i 15 e 24 anni. A questi viene erogato un sussidio minimo settimanale a fronte di prestazioni d’opera in lavori socialmente utili svolti in forma totalmente gratuita. Ragazzi giovani e giovanissimi che vivono tra la precarietà e la disoccupazione – del resto in Italia come sappiamo dalla pletora statistica è una condizione ancora più diffusa – che passano il proprio tempo su Internet e sui social network, dove lì si, lavorano permanentemente nella nuova accumulazione originaria che sulla rete poi si dispiega. Questo lato “estremo” del ragionamento sicuramente ancora tendenziale assume una centralità strategica se consideriamo le assurdità sulle quali misuriamo formalmente la composizione attiva e realmente occupata nel Mercato del lavoro. Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia viene considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il reale tasso di disoccupazione, che ovviamente viene calcolato solo sul bacino degli attivi e cosiddetti disponibili. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. Quale programma e quali “ricadute” possono misurarsi dentro tale contesto? A fronte della produzione sociale, dove il nesso si connette all’unica istanza possibile oggi, quella del reddito di cittadinanza – nel senso precipuo del reddito di esistenza, incondizionato, svincolato dal lavoro formalmente riconosciuto – quale dovrebbe essere se non il precariato metropolitano il referente, la soggettività produttiva emergente che rivendica i nuovi “claims”? E non dovremmo includere anche quella massa di operai precarizzati dalle crisi industriali, i lavoratori dei servizi e del pubblico impiego che in ogni dove moltiplicano le lotte e le forme di resistenza?

Le ricadute politiche divengono quindi macroscopiche e i nessi interni alla produzione sociale rompono anche il meccanicismo dell’organizzazione sindacale. Se nel capitalismo digitale il lavoratore diventa ibrido e doppio, da un lato costantemente attraversato dalle striature del comando centralizzato sulle infrastrutture informatiche e dall’altro, dall’auto-valorizzazione delle proprie attitudini, saperi, affetti e desideri, la forma della possibile organizzazione politica sposta completamente il suo asse dalla sottomissione formale del lavoro nel capitale, alla sussunzione reale del lavoro vivo nelle macchine e nelle maglie dell’irrigimentazione capitalistica. Dobbiamo quindi continuare ad approfondire la relazione tra i processi della nuova valorizzazione e la rivendicazione del reddito di esistenza, se su questo terreno ci si vuole effettivamente cimentare sul piano politico.

Dopo aver visto per mesi la rabbia trasformarsi in disperazione, salire sulle torri, sui tetti o scendere in fondo ad una miniera è tornato ora il momento – semmai si fosse perduta questa elementare bussola – di riportare il conflitto sociale sul livello del mare, dove i piedi tracciano il suolo e i corpi riemergono insieme per attraversare l’orizzonte “in pianura” li dove ti sfruttano, ti picchiano, ti deportano, lì dove si soffre e si gioisce, lì dove si può perdere tutto ma certamente si può tentare ancora di rimanere vivi. E’ lì e solo lì che si può costituire quella materialità della lotta, ben oltre la nuda sopravvivenza. E’ lì che la disperazione può trasformarsi nuovamente in rabbia, in conflitto sociale, sovversivo, creativo e decidere di non tornare più a casa. Così come è la disperazione che porta donne e uomini senza prospettive, futuro e garanzie a rivendicare il semplice lavoro, come se chiedessero ancora solo sfruttamento e sacrifici. Bel quadretto da presentare ai padroni grazie ai sindacati. Con loro mai la rabbia diventerà gioia e desiderio per la trasformazione del presente. La crisi picchia duro e la politica si nasconde, nega la realtà e allora anche quelle forze sociali, operaie, marginalizzate, rimangono politicamente confuse, senza legami, prospettive, senza rivoluzione. Rivendicano semplicemente il lavoro – sfruttato sottopagato, unica fonte di reddito e nella disperazione come non comprenderli – senza potersi spiegare, con le proprie parole, quando l’unica cosa che conta è la sopravvivenza. Dove anche un bambino leggerebbe reddito intero contro lo sfruttamento, in quel chiedere disperatamente lavoro, lavoro, lavoro. Gli opportunisti, sindacalisti senza arte e solo con la loro parte, possono oggi schiacciarsi su questa dimensione populista del lavoro. Del resto nella disperazione sociale avviene questo e molto altro. Si fa gioco forza poi a negare la cooperazione, la produzione sociale permanente,  le forme di vita costantemente a lavoro. Un lavoro sempre più invisibile, in nero, gratuito, non riconosciuto che però oggi costituisce quella condizione generalizzata della precarietà diffusa che è innegabile in quanto costituisce l’unica realtà materiale per un intera generazione di precari, studenti, disoccupati, lavoratori cognitivi e “nativi digitali”.  Così è possibile mistificare quella mobilitazione permanente continuamente appropriata dal capitale, imponendo ancora il paradigma del lavoro come traduzione dei diritti. E poi di quali? Quelli che puzzano di morte come a Taranto o nel Sulcis dove per il profitto dovremmo accettare supini le briciole in busta paga mentre il senato globale dei rentier del capitaliasmo finanziario globale se la ride, sapendo bene che è nel “comune immateriale”, nella “produzione sociale dell’uomo mediante l’uomo” che si crea oggi ricchezza e si estrae il reale profitto, quel plusvalore sociale appropriato dalla rendita finanziaria che da rendita privata deve essere riconvertita in rendita sociale per combattere le crisi e costruire il futuro estendendo le pratiche del comune. Vi è una costituzione biopolitica delle lotte da organizzare dentro la moltitudine, dentro la cooperazione sociale, dentro i flussi della nuova valorizzazione. Questa moltitudine precaria rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, sicuramente impoverito. Reddito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale (affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva) ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali della rete e della nuova organizzazione del lavoro. Reddito intero per far saltare i dispositivi del biopotere e della sua governance.

15 settembre in Portogallo: dichiarare vittoria?

da www.uninomade.org

di PASSA PALAVRA

Il contesto

Il 7 settembre, il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho tiene un discorso in diretta rivolto a tutto il paese, prima di una partita della nazionale di calcio. Durante il suo intervento, il primo ministro annuncia l’aumento del 7% del valore della tassa  sociale unica (TSU), che deve essere pagata dai lavoratori del settore privato, e la diminuzione del 5% della somma imposta alle imprese. Una misura che si va ad aggiungere al vasto pacchetto di austerità che si sta accumulando a partire dal primo intervento della Troika (FMI, Banca Centrale Europea, Commissione Europea) nel 2010.

Già al tempo del governo socialista (PS) l’applicazione della ricetta di austerità era stata caratterizzata dal congelamento delle entrate e degli avanzamenti di carriera negli uffici pubblici, dall’aumento delle imposte sui consumi, dai tagli agli stipendi dei funzionari pubblici superiori a 1 500 euro, dal congelamento delle pensioni e dall’aumento dei ticket negli ospedali.

A metà del 2011, di fronte ai costanti “avvisi alla navigazione” provenienti da autorità economico-finanziarie (dalla Troika alle agenzie di rating), la nuova coalizione governativa (Partito Socialdemocratico e Partito Popolare) rompe la promessa elettorale di non aumentare le imposte approvando un’imposta straordinaria sui rendimenti equivalente al 50% della tredicesima. Giorni dopo, è annunciato il taglio della tredicesima per i dipendenti statali. Parallelamente, si verificano aumenti dei prezzi dei trasporti pubblici nell’ordine del 15%, e si assiste all’aumento di gas ed elettricità.

Nel pieno di questa ondata di misure, il governo modifica le leggi sul lavoro facilitando i licenziamenti, in parte ampliando il principio di “non adattabilità” del lavoratore al suo posto di lavoro [condizione che si verifica quando il lavoratore non si adatta a cambiamenti introdotti nell’ambiente di lavoro Ndt], in parte diminuendo gli indennizzi per il licenziamento senza giusta causa. Questa ricetta, tuttavia, non ha dato risultati. Il fatto che l’austerità costituisca un paradigma di governo economico transnazionale ha fatto sì che la speranza nell’aumento delle esportazioni si fondasse soltanto su di essa. La crescita esponenziale dei prezzi e degli indici di disoccupazione ha finito per portare alla riduzione del potere d’acquisto, al fallimento delle piccole attività commerciali e, di conseguenza, a un aggravamento della disoccupazione. Un meccanismo che non accenna a fermarsi e che non ha risparmiato quella che, in teoria, dovrebbe essere la “pupilla” dei partiti di centro: la famigerata “classe media”.

Il caso portoghese rivela la natura ideologica del termine “classe media”. Il debole tessuto produttivo nazionale ha basato il proprio vantaggio competitivo sul prezzo e non sul prodotto, ottenendo lucri facili a partire da salari bassi e dai più svariati “contorsionismi” fiscali. L’iniezione di fondi strutturali a partire dal 1986, anno in cui il Portogallo entra nella Comunità Economica Europea (CEE), ha fatto sì, tuttavia, che un’importante fetta della popolazione portoghese si ritrovasse con case di proprietà, automobili e ferie una volta all’anno. Un insieme di benefit che hanno simboleggiato l’ascesa verso un nuovo status sociale.

Al contempo, e nonostante gli aiuti finanziari, le strutture produttive non hanno messo in questione i propri presupposti di funzionamento e le proprie aree di attività. Per loro la modernizzazione ha significato soltanto adottare nuove modalità contrattuali, più “flessibili”, continuando a scommettere sul fattore prezzo.

La fine del sogno della “classe media” iniziò precisamente alla fine degli anni 90, quando questa scoprì che gli investimenti fatti sui propri figli non avevano portato ai risultati sperati. Per quanto il Portogallo sia ancora distante dai livelli dell’Europa più “evoluta”, e seppur continui ad avere una percentuale di abbandono scolastico assai elevata, il paese ha assistito negli ultimi anni alla massificazione dell’insegnamento secondario superiore. Tuttavia, una volta usciti da scuola e dall’università, i giovani qualificati hanno trovato, nella migliore delle ipotesi, un lavoro precario in centri commerciali o in call-center, impieghi che vengono presentati come “un’alternativa migliore della disoccupazione”. La “classe media” si è così confrontata con la sua sterilità. Una frustrazione che, insieme al costante aumento dei prezzi, all’invenzione di nuove imposte, ai crediti da pagare e infine, alla perdita dell’impiego, l’ha costretta a fare i conti con la propria fragilità.

La manifestazione

L’annuncio dell’aumento della TSU ha suscitato fortissime critiche, anche da destra. Partendo da esponenti di punta del PSD, come Manuela Ferreira Leite, fino ad arrivare a presidenti di gruppi economici, come Belmiro de Azevedo, l’opposizione a questa misura è stata generalizzata, viste le conseguenze restrittive su un potere d’acquisto già di per sé indebolito. La manifestazione “Basta Troika! Vogliamo le Nostre Vite” ha finito quindi per assumere dimensioni fuori dal comune. Partendo da un discorso più ambizioso rispetto ai precedenti, la manifestazione ha preso le mosse da un gruppo di singoli firmatari, quasi tutti figure pubbliche di sinistra o leader di piccole organizzazioni. Svoltasi in concomitanza con le manifestazioni in Spagna, l’iniziativa si è diffusa in 40 città portoghesi e in alcuni consolati portoghesi all’estero, dando vita alla manifestazione forse più grande degli ultimi decenni. A Lisbona, centinaia di migliaia di persone sono partite da Praça José Fontana in direzione di Praça de Espanha, un percorso che voleva esprimere solidarietà alle manifestazioni in corso nel paese vicino. Circa due ore dopo, in Avenida da Repùblica, si sono verificati i primi momenti di tensione, durante i quali frutti, petardi e bottiglie sono stati lanciati contro la sede di rappresentanza della Troika. Una persona è stata fermata da alcuni poliziotti in borghese. Arrivate alla fine del percorso, migliaia di persone, soprattutto i più giovani, hanno deciso di continuare la manifestazione dirigendosi verso la sede del Parlamento. In poco tempo, la piazza di fronte all’edificio si è rivelata troppo piccola per quella moltitudine che, per più di un’ora, ha continuato ad aumentare. É qui che si sono registrati i momenti di maggiore scontro tra manifestanti e forze di polizia. Per circa due ore bottiglie, pietre e frutta sono state lanciate a mano a mano che la polizia aumentava i propri uomini sulla scalinata. La polizia, a sua volta, ha organizzato alcune piccole azioni, fermando, alla fine, quattro persone.

Il modo di agire della polizia è stato, tra l’altro, una delle novità di questa manifestazione. Al contrario di quanto avvenuto durante lo sciopero generale del 22 marzo, le forze di polizia hanno agito in modo più strategico: pur non abbandonando le dimostrazioni di forza, le loro azioni si sono rivelate tuttavia meno concentrate sulla violenza sproporzionata e piuttosto sull’identificazione delle minacce e sul ricorso ad agenti in borghese per procedere con i fermi.

E adesso?

Di fronte alla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, è facile cantare vittoria. Da spettatori passivi, i portoghesi si sono evoluti improvvisamente in grandi attori. Il ricorso all’essenzialismo, per convinzione o per scopi strategici, ci sembra tuttavia poco fruttuoso, dato il suo carattere astorico e dunque non strategico.

Una manifestazione che riesce a riempire le strade di svariate città del paese, dimostrando, a tratti, di potersi radicalizzare (a Porto alcune vetrine di banche e di società assicurative sono state danneggiate, ad Aveiro un giovane di 28 anni si è dato fuoco, riportando varie ustioni), costituirà sempre un dato importante. Tuttavia, esistono problemi strutturali difficilmente risolvibili in un solo giorno. In primo luogo, come si è potuto forse evincere da quanto detto fin qui, la manifestazione ha rivelato una mancanza di orizzonte politico. Una gran parte dei cartelloni e degli striscioni esposti dai manifestanti continua a essere riempita con sfoghi o con semplici negazioni: da “Sono stufo..” a “Basta” passando da “No a…”. Questi slogan segnalano l’inesistenza di un minimo progetto politico, senza il quale qualsiasi critica ai partiti politici e ai sindacati, per quanto precisa, corre il rischio di assumere una posizione meramente difensiva, facilmente manipolabile dai populismi e/o dai poteri carismatici. In secondo luogo, non solo Grandola Vila Morena (inno della rivoluzione dei Garofani) è stata meno cantata di A Portuguesa (inno nazionale), ma la bandiera nazionale è stata di gran lunga il simbolo più visto in tutta la manifestazione. Da questo punto di vista, sembra che venga dato più peso al fatto che le politiche di austerità risultino da un processo di ingerenza esterna, il cui scopo sarebbe la diminuzione del debito pubblico, piuttosto che all’aspetto internazionale di tale processo (realizzato con lo stesso tipo di diagnosi e di intervento in altri paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda).

Il 15 di settembre è stata, certamente, la prova che nessuno sta con le mani in mano. E tuttavia dimostra al contempo quanto lungo e tortuoso sarà il cammino da percorrere.

* Pubblicato su http://www.passapalavra.info Traduzione dal portoghese di Silvia Genovese.

Assemblea pubblica della Popolare – Palestra indipendente

Stiamo entrando nel terzo anno di attività della palestra indipendente La Popolare, un esperimento di organizzazione e condivisione della pratica sportiva, un quotidiano esercizio di riappropriazione di spazio e tempo dedicato alla cura di se stess* e alla sperimentazione collettiva di autogestione.

In questi due anni il lavoro svolto è stato enorme: l’avvio dei corsi all’interno della struttura dell’ex cinodromo, la costruzione di reti cittadine di sport alternativo e popolare, relazioni e incontri con realtà nazionali e internazionali che fanno dell’attività sportiva una pratica politica, come anche i primi piccoli traguardi agonistici raggiunti grazie agli e alle atlet* che hanno portato nei tornei i colori de La Popolare, o i tanti stages che abbiamo ospitato, aumentando il nostro bagaglio di conoscenze.

In questi due anni il progetto si è arricchito della relazione quotidiana tra istruttori, atlet* e attivisti del collettivo e del Laboratorio Acrobax, contribuendo alla realizzazione di un’esperienza che sentiamo sempre più radicata nel nostro territorio. Dagli allenamenti alle iniziative di piazza, dalla sperimentazione di una nuova socialità alla rivendicazione di un modo di intendere la pratica sportiva promuovendo inclusività, rispetto, lavorando per una crescita collettiva e ponendosi in maniera antagonista verso il principio del profitto che inquina il mondo dello sport.

Con la prospettiva di far crescere il progetto della palestra come pratica alternativa di forme di organizzazione e relazione, sentiamo sempre più forte l’esigenza di condividere quanti più aspetti di questo nostro fare comune: dalla ricchezza del dibattito intorno allo sport popolare, ai piccoli sforzi necessari per rendere lo spazio sempre più vivo e accessibile.

Pensare ad una  pratica dello sport in forma autogestita, affermando la propria indipendenza politica ed economica da istituzioni, partiti, sindacati e da piccoli o grandi gruppi d interesse privato e’ cosa assai complessa e difficile;  soprattutto in una fase come quella che stiamo vivendo in cui le  politiche della paura e dell’ austerity, rafforzando lo strapotere delle banche, promuovono un progetto neoliberista che si riconosce in disvalori come  individualismo e  profitto. Come esperienza che nasce e si riconosce come espressione di movimenti sociali indipendenti e radicati in basso a sinistra, crediamo sia importante riannodare insieme etica e politica attraverso pratiche sperimentali, orizzontali e condivise, e che lo sport sia un’ottima opportunità  per farlo.

Abbiamo aperto una riflessione sulle possibili forme di “associazionismo popolare” di cui una realtà’ come la nostra  potrebbe dotarsi ed essere promotrice, anche attraverso incontri con realtà come il Babelsberg di Potsdam e il St. Pauli di Amburgo. L’  espressione “azionariato popolare”,  più diffusa in ambito sportivo, non ci convince poichè la riteniamo quantomeno ambigua su un punto decisivo: l’anticapitalismo; questo è  per noi un valore etico e politico discriminante. Crediamo che lo sport sia un campo nel quale poter sperimentare forme di cooperazione e autorganizzazione anche inedite, radicate nella proprie storie e con prospettive tutte da tessere. La Popolare è  un’occasione per testare la nostra immaginazione sperimentale e il nostro pensiero critico nel tentarci in tale direzione.

Anche per questo apriremo questa nuova stagione sportiva con un’assemblea allargata a quanti sentono proprio questo progetto e condividono la volontà di portare avanti attraverso lo sport una pratica di liberazione.

 

Invitiamo istruttori, atlet*, amatori e amatrici

Domenica 7 Ottobre  alle ore 17:30, presso il LOA Acrobax a partecipare ed animare
la discussione.

http://lapopolare.noblogs.org/post/2012/09/15/stiamo-entrando-nel-terzo-anno-di-attivita-della-palestra-indipendente-la-popolare/

 

s/Montiamo l’Università!

Chi semina precarietà raccoglie rabbia e tempesta.

Noi vogliamo vivere

Veniamo a conoscenza in questi giorni che Mario Monti, Ignazio Visco (governatore della Banca d’Italia) insieme ad altri nomi, di secondo piano ma ugualmente allineati, arriveranno a Roma Tre, nella facoltà di scienze politiche, per partecipare al convegno di 5 giorni della Società italiana di scienze politiche.
Ma sono i contenuti che assomigliano a una sberleffo se non ad una provocazione.
Leggiamo infatti che Monti parteciperà come relatore sul tema: “ripensare la politica per governare l’economia” e nello stessa giornata insieme a Visco si discuterà di “crisi della politica: partiti, rappresentanza e democrazia”.
Proprio loro, che rappresentano la sospensione definitva della democrazia in Italia, a favore degli interessi unici dei mercati finanziari e delle lobby di potere che rappresentano.

Nell’attuale fase di commissariamento del nostro governo e nella crisi della rappresentanza politica il problema non è ristabilire il primato della politica (partiti)  sull’economia (mercati). Il problema è la messa in discussione radicale delle scelte di economia politica che vengono attuate in diversi paesi europei (Grecia, Spagna, Italia), dove al ripetersi di manovre finanziarie di austeruty, si realizzano misure di  precarizzazione ulteriore del  mercato del lavoro, si attuano licenziamenti di massa, si privatizzano i servizi pubblici, si taglia la spesa sociale e gli investimenti in istruzione,  universita e ricerca. Altro che governi di professori o  governi tecnici si tratta di tecniche di governo autoritarie che attentano quotidianamente alla vita di milioni di soggetti precarizzati e impoveriti dalle politiche di austerity.

Inutile dire quanto queste iniziative siano un continuo sprecare e riciclare soldi dove (come sempre) non ci sarà la partecipazione di alcuni se non dei diretti interessati, professori e professorini, baroni o baroncini, sempre pronti alla difesa corporativa dei propri interessi.
Ricordiamo, con l’occasione, a lor signori (e signore) quanto quella fabbrica postfordista del sapere di nome “Roma Tre” impone ai suoi studenti forgiandoli nella e per la precarietà; quanto sia simbolo di quella concezione privatistica del sapere, assumendo a pieno tutte le misure e le caratteristiche delle riforme degli ultimi vent’anni; sintetizza a pieno quell’università/azienda che, come una grande company della conoscenza, si misura anche con le speculazioni immobiliari, contribuendo alla distruzione del territorio, alla chiusura degli spazi e delle case occupate.
per chi è questa università?
per chi è possibile questo accesso al sapere?
per chi fanno questi convegni?

Da una lato abbiamo un modello di università e di gestione dei saperi sempre più preoccupante, dove la spending review sancisce una differenziazione di classe vera e propria su principi di merito, in una condizione sociale dove di tutto si può parlare, tranne che di pari opportunità.
Dove si dichiara guerra alla figura sempre più diffusa dello studente/lavoratore che, spesso fuori corso, pagherà dentro l’università i costi sociali della crisi e dei tagli annunciati.
Un’università in linea con la società, dove manca qualsiasi sistema di welfare che non sia la famiglia.
Del resto in Italia siamo rimasti i soli all’interno della comunità europea insieme alla Grecia a non avere nemmeno uno straccio di sostegno al reddito.
Il Presidente del consiglio e il suo governo, che si presenta come tecnico, non è che l’espressione politica raffinata del neoliberismo, che cerca di tener vivo il mostro capitalista quando, ormai, è evidente che la crisi economica sistemica, verticale ed epocale che stiamo attraversando è stata prodotta da quello stesso modello.

Siamo studenti precari, che devono accettare lo sfruttamento quotidiano per arrancare, provare ad andare avanti, anche solo per pagarsi gli studi. Siamo gli occupanti di casa, siamo disoccupati, precari e precarizzati, abitanti di questo territorio e non permetteremo che tutto ciò avvenga nel silenzio, che un affronto del genere passi inosservato
Siamo a volte indecifrabili agli occhi di governanti, sociologi e opinionisti. Ma sia chiaro che la fase dell’autocommiserazione è terminata, siamo sicuramente stanche e stanchi della precarietà, ma arrabbiati  e ovunque sfruttati, rivendichiamo di essere soprattutto vivi.

Lanciamo questo appello a tutte e a tutti perchè crediamo che questo convegno non sia un affronto solo a chi vive i nostri  territori (nello specifico San Paolo, quartiere resistente da sempre) ma tutta la metropoli di roma.
Non sappiamo questo autunno cosa accadrà e quali spazi di libertà riusciremo a strappare, ma sappiamo che sarà un anno difficile a Roma,come nel resto di Italia.
Come molti movimenti in giro per il mondo, che hanno già cominciato ad affermare le istanze del comune e del desiderio collettivo, vogliamo riprenderci le strade dell’alterità per costruire, qui ed ora, in questo mondo, l’alternativa come concreta e necessaria utopia, a partire da noi e dai nostri diritti, bi/sogni, desideri.

Il passato conoscilo, il presente vivilo, il futuro senza la lotta dimenticalo!

Giovedì 7    ore 19  assemblea cittadina! Facoltà di Sociologia della Sapienza
Martedì 11  ore 18  assemblea degli studenti, delle realtà cittadine e del territorio! Sc.politiche RM3
Giovedì 13  ore 9    s-Montiamo l’Università

s/Montiamo l’Università!

 

Se rimani neutrale nelle ingiustizie, hai scelto di stare dalla parte dell’oppressore. # Anonymous

Il nodo redazionale indipendenti.eu ritiene fondamentale l’op. #Italy e #OperationGreenRights (svolta ad Agosto 2012 e pubblicata sul sito: http://anon-news.blogspot.it/), perché ha prodotto un livello di trasparenza e controinformazione in merito alla devastazione e contaminazione ambientale realizzata dall’ILVA GROUP sulla vita di migliaia di persone nella città di Taranto.

Per continuare a dare il massimo sostegno e contributo alle lotte del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, pubblichiamo, diffondiamo e re-interpretiamo i risultati dei dati estratti dai database dell’ILVA.

 

 

#Italy e #OperationGreenRights hanno dimostrato che l’ILVA di Taranto supera i limiti permessi dalle leggi in materia di sostanze inquinanti emesse

Anonymous è penetrato nel server dell’Ilva di Taranto, ha estrapolato i valori degli inquinanti riportati nei database dell’ILVA e del Gruppo Riva  (www.ilvataranto.com e www.rivagroup.com) ed ha dimostrato che nel mese di Maggio i valori di furano (conosciuto chimicamente come furfurano o ossido di divinilene, un pericoloso contaminante ambientale) immesso nell’atmosfera siano usciti dai limiti di legge.

Il furano (C4H4O) e’ un composto organico inquinante che persiste nell’ambiente e che si trasforma in condizioni ambientali naturali (decade naturalmente) in policlorodibenzofurani (PCDF), un composto associato alle diossine (policlorodibenzodiossine, PCDD). Il furano e’ volatile a temperatura ambiente e le concentrazioni rilevate nelle prossimità dell’ILVA sono comparabili a quelle di un disastro ambientale. Tale composto non solo e’ cancerogeno, ma puo’ anche causare sindromi respiratorie croniche, disordini immunologici atipici e neoplasie. Il furano e’ inoltre anche un teratogeno ovvero può causare di malformazioni fetali.

I dati di Anonymous pubblicati su: http://pastebin.com/RrcF5RqW mostrano come questo composto sia prodotto al di sopra del limite. Tali dati sono suddivisi per valvola (di scarico). Ogni valvola è distinta con un codice, ad esempio, CK2SO2 giornaliero – il che dovrebbe indicare il tipo di furano monitorato (una a base SO2, biossido di zolfo) e la frequenza, sebbene i controlli in alcuni casi siano mensili. Anonymous ha presentato diversi valori che mostrano una generale tendenza in crescita di alcuni contaminanti.

Riportiamo una nostra elaborazione grafica (indipendenti.eu)di una delle tabelle pubblicate da Anonymous che corrisponde a quello della valvola CK2SO2. Il grafico mostra la prima rilevazione il giorno 15 Maggio 2012, con il limite massimo posto a 640 ng/m3. Il 31 Maggio il valore massimo degli inquinanti viene innalzato a 800 ng/m3.  Qui sorge la prima domanda: come è possibile che un valore limite  fissato per legge possa essere arbitrariamente cambiato? Poiché non ci sono prove che la legislazione al riguardo sia stata cambiata, l’aumento di produzione di questa sostanza e’ illegale. Si può altresì notare che il 31 Maggio 2012, quando il limite massimo di furano rilasciabile era già stato portato arbitrariamente a 800 ng/m3, il valore dell’inquinate supera i 640 ng/m3 dimostrando come L’llva, abbia manipolato i dati in modo da rendere l’emissioni di questa sostanza all’interno dei limiti previsti dalla legge.

I limiti di legge sono stabiliti dalla Legge Regionale della Puglia del19 Dicembre 2008 (firmata da Vendola) la quale riporta, per quanto ci  interessa, i limiti dei gas di scarico (somma di PCDD e PCDF 0,4 nanogrammi  TEQ su metro cubo (ng TEQ/Nm3), soglia limite in vigore dal 31 dicembre  2010). Per quanto riguarda i fattori di equivalenza per le dibenzodiossine e i dibenzofurani la concentrazione TEQ va calcolata mediante  i fattori di equivalenza tossica riportati al punto 4 dell’allegato 1  del decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133 (Diossine e furani (PCDD +  PCDF) 0,1 ng/m3, idrocarburi policiclici aromatici (IPA)  0,01 mg/m3)

Da qui è possibile scaricare in formato .pdf l’allegato n.1 del Decreto legislativo 11 Maggio 2005, n. 133 riguardante le emissioni:  http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/05133dl.pdf

(*) I valori limite di emissione si riferiscono alla concentrazione totale di diossine e furani, calcolata come concentrazione “tossica equivalente. Nel link riportato ci sono tutti i valori limite delle  singole sostanze prima della somma.

 

Di seguito i comunicati stampa di Anonymous pubblicati su:

http://pastebin.com/jzBzzpNV

 

COMUNICATO STAMPA UFFICIALE

A seguito delle nostre ricerche, emerge che i grafici dei valori delle polveri emesse dall’impianto dell’ILVA sono stati manipolati. Ancora una volta, gli interessi economici e l’avidità di padroni e istituzioni relegano in secondo piano i diritti umani e la questione ambientale. In nome del profitto, la menzogna e l’inganno diventano routine.
Nella maggioranza dei casi, i valori riportati rimangono molto al di sotto della soglia legale ma la variazione è minima. In altre parole, rilevazioni compiute a settimane di distanza l’una dall’altra e in condizioni atmosferiche differenti non presentano variazioni significative degli agenti inquinanti. Ciò chiaramente induce a pensare a una manipolazione dei rilevamenti effettuati.
Nel caso della valvola CK2NO2, invece, vediamo che la rilevazione della concentrazione ambientale di contaminanti sale di giorno in giorno fino ad arrivare a quota 561.3 il 31 di Maggio 2012. Il limite è fissato a 600. I dati estrapolati mostrano inoltre come l’Ilva abbia deliberatamente aumentato il valore della soglia di tolleranza iniziale, che passa da 640 a 800. L’andamento dei dati rende plausibile analoghi incrementi delle emissioni dell’inquinante anche nei mesi successivi (superando, in data attuale, i valori limite di molti punti).
A tal proposito segnaliamo che Ilva ha cancellato dal proprio database la cronologia dei rilasci di contaminanti (furfurani) rilevati dalla valvola CK2SO2 a giugno. Tutto ciò costituisce un indizio del fatto che Ilva ha deliberatamente cancellato dai database dati compromettenti. Possiamo quindi affermare non solo che l’Ilva ha avvelenato i lavoratori e i cittadini di Taranto ma persino che ha anche agito in modo tale da nascondere la verità a spese della salute pubblica e dell’ambiente. Le valvole in questione servono a misurare la concentrazione di diossine, in particolare del furano.
Il furano o furfurano (anche conosciuto come ossido di divinilene) è un contaminate organico ambientale persistente che decade naturalmente in benzofurani policlorurati, i quali sono associati alle diossine. Già allo stato naturale, il furano è volatile a temperatura ambiente e le concentrazioni rilevate sono comparabili a quelle rilevabili in caso di disastro ambientale. L’azione del furano non è solo cancerogena: la sola concentrazione del prodotto volatile basta ad incrementare di una percentuale considerevole il manifestarsi di malattie pneumologiche croniche, disordini immunologici atipici e persino malattie neoplastiche, ma è anche teratogena, ovvero causa problemi fetali.
Invitiamo i lavoratori dell’Ilva a riflettere sui rischi del furano che mette a rischio il futuro dei loro figli oltre che di loro stessi; l’alterazione del genoma può dare origine a deformità, malattie immunologicamente congenite e persino aumentare la probabilità di malattie neoplastiche nei nascituri.
Lottare per difendere non solo il posto di lavoro ma anche la propria salute è un diritto e un dovere allo stesso tempo. Chi ricatta i propri dipendenti obbligandoli a scegliere tra salario o malattia è solo un deplorevole profittatore accecato dal denaro. Continueremo a scagliarci contro i fautori dell’inganno e dell’estorsione e reclamiamo a gran voce, insieme ai lavoratori, il diritto di ogni persona a poter svolgere il proprio lavoro nel rispetto dei diritti.

 

COMUNICATO STAMPA PRECEDENTE 8/8/2012

Oggi, quando entrerete in fabbrica, saranno le 8 del mattino, ma quando ne uscirete sarà già buio. Per voi la luce del sole, oggi, non splenderà (dal film “La classe operaia va in paradiso”)
La spietata logica del profitto non ci lascia scelta, se vogliamo vivere dobbiamo lavorare. Questo non solo è inumano, ma nessuno può chiederci di morire per la nostra sopravvivenza. Nessuno può utilizzare una persona come pedina per far pressione sulla politica al fine di incrementare il profitto. Lo sappiamo, e lo sapete, acciaierie come l’Ilva provocano malattie terribili.
Guardiamoci attorno: le amministrazioni provinciali e regionali hanno abbandonato Taranto; stanno trasformando la città in una discarica a cielo aperto. In pochi anni sono stati costruiti 4 inceneratori. Che futuro possiamo avere in queste condizioni?
OPERAIO!
Nessuno è moralmente autorizzato a chiederti di sacrificare la tua vita, tantomeno tua moglie o i tuoi figli. Nessun ideale o bisogno materiale vale la tua esistenza. Opeai, occupiamo la fabbrica e sabotiamo ogni impianto.
L ‘Ilva di Taranto non è altro che un lager che devasta l’ambiente e laclede il diritto alla vita. Non abbiamo bisogno del loro acciaio!
Costringere un uomo a scegliere tra lo stipendio e la salute è non solo un deplorevole ricatto ma anche una gravissima infrazione del diritto di ogni persona a poter esercitare un mestiere nel rispetto delle normative vigenti (in materia di sicurezza sul lavoro e protezione ambientale). Ci sentiamo offesi innanzitutto come esseri umani perché numerosi lavoratori rischiano la vita ogni giorno, avvelenati dall’alta tossicità di quei luoghi, per portare a casa un misero salario. Siamo fortemente indignati anche come Cittadini: questa fabbrica non si preoccupa minimamente dei suoi dipendenti, trattandoli come merce di scambio facilmente sostituibile.
Come si evince dal cosiddetto ‘Codice Etico’ dell’azienda, la tutela sanitaria non solo è un diritto ma anche una priorità innegabile, un diritto inviolabile. Ecco alcuni passaggi tratti dal Codice Etico della fabbrica dell’Ilva (http://www.rivagroup.com/download/ita/ILVA_CodiceEtico.pdf):
2.1 DIGNITA’, SALUTE, SICUREZZA E PARI OPPORTUNITA’ SUL LAVORO: La Società tutela la dignità, salute e sicurezza sul lavoro, attraverso l’applicazione di tutte le normative vigenti in materia. La Società, essendosi sempre distinta nel campo della protezione della salute umana e della difesa dell’ambiente, promuove e protegge la salute dei propri collaboratori.
7.1.2 RAPPORTI CON GLI OPERATORI SANITARI: La Società si impegna, alo scopo di tutelare la salubrità dell’ambiente in cui svolge la propria attività, a conformare il proprio comportamento alla normativa sanitaria e/o ambientale vigente. A tal proposito, la Società conferma il proprio impegno nel rispetto delle direttive emanate dalle competenti autorità sanitarie locali e nazionali; un trasparente e collaborativo rapporto con le autorità in campo sanitario costituisce un criterio guida nello sviluppo dei propri programmi industriali e commerciali.
Come viene sopracitato, questi diritti di tutela verso i lavoratori dovrebbero essere rispettati poiché conformi alle norme imposte dall’azienda stessa. Invece, come numerose testimonianze e condanne subite dalla società confermano, niente di tutto ciò esiste: la storia dell’Ilva è la storia di una fabbrica perennemente manipolata dagli artigli di chi baratta salari col veleno per ingrassare le proprie tasche.
Già nel 1982, il direttore dell’allora Italsider (l’attuale Ilva) subì una condanna per “emissioni di polveri”; venti anni dopo, il magnate Emilio Riva viene condannato per i cosiddetti “parchi minerali” con l’accusa di getto pericoloso di materiali e violazione dell’articolo 13 del PDR 203-244 del maggio 1988; nel 2007 Emilio Riva viene condannato per estorsione (ricatto occupazionale) e truffa (incasso dei contributi Inps attraverso le assunzioni dalla mobilità); inoltre, sia lui che suo figlio Claudio vengono interdetti dall’esercizio di attività industriale.
Siamo davanti ad una vera mancanza di umanità e responsabilità da parte di questi datori di lavoro. Gli operai sono costretti ad interminabili turni, trattati quasi come bestie, condannati a rinunciare alla salute. Il rispetto e la tutela per la Persona devono essere una priorità, non un optional.
I colpevoli hanno avvelenato le coscienze e i corpi di chi è stato costretto a vivere per lavorare; hanno tarpato le ali a settori occupazionali che avrebbero altrimenti trovato una rigogliosa espansione; hanno obbligato gli abitanti di un’ intera città a respirare la tossicità dell’accumulazione del Capitale sprezzante dei Diritti Umani.
Siamo vicini alle famiglie di chi si è spento, avvelenato dalla sete incondizionata di vili profittatori.
Siamo vicini a chi ancora lotta per sopravvivere e trascina ogni giorno la sua malattia, messo spalle al muro da uno Stato che copre la sua sporca coscienza con miseri indennizzi, e dietro le quinte stringe loschi accordi con i padroni.
Disprezziamo l’operato di chi, con i propri tentacoli, ha elargito ricatti lavorativi e seminato menzogne cavalcando accordi e deroghe in barba alle leggi sulle emissioni: lucrare sulla pelle dei Cittadini, trincerandosi dietro protocolli d’intesa e burocrazia, è una forma di criminalità legalizzata.

We’re Anonymous.

We’re legion.

We don’t forgive.

We don’t forget.

Expect us!