da www.uninomade.org
Liberare il campo. Questo è il problema che abbiamo posto e ci poniamo dentro il movimento italiano (ma in una prospettiva che guarda immediatamente al Mediterraneo e all’Europa), di fronte all’interrogativo su cui con insistenza è necessario arrovellarsi: perché non c’è stato in Italia l’insorgere di una composizione che di Occupy, degli indignados o delle “primavere arabe” non ripeta pappagallescamente slogan e simboli, ma ne traduca e dunque crei in forma specifica la potenza politica e di generalizzazione? Sia chiaro, sarebbe sbagliato dire che non ci sono conflitti. Questi non mancano e ogni giorno le cronache, sui mezzi di comunicazione di movimento e mainstream, danno conto della loro diffusione. Il punto è che queste lotte faticano a parlarsi, a generalizzarsi, a comporsi su un piano comune. La domanda sul perché ciò avvenga e, soprattutto, su come rompere i dispositivi di frammentazione, non può che avere differenti livelli di risposta: e tutti interpellano urgentemente gli sforzi di inchiesta militante. Lo scorso 15 ottobre l’iniziativa di un insieme di forze politiche, unitamente al ricatto dell’anti-berlusconismo, ha costruito una cappa sotto cui si è cercato di soffocare, dunque di rappresentare, quello che c’era o poteva esserci. Così, mentre in diverse parti del mondo si esprimevano in modo forte potenza e nodi aperti delle lotte globali dentro la crisi, in Italia il dibattito arretrava drammaticamente sui temi della violenza e della caccia agli untori.
Sarebbe ingenuo e improduttivo pensare che la soluzione all’interrogativo risieda semplicemente in una sorta di katechon interno ai movimenti, ovvero una forza che trattiene l’altrimenti inevitabile affermarsi dei dispositivi di ricomposizione delle lotte. E del resto le insufficienze di proposta e organizzative con cui tutti dobbiamo misurarci vanno al di là delle scelte opportunistiche. I punti di blocco sono evidentemente molteplici e consistono fondamentalmente nella tenuta di istituzioni della mediazione sociale (dai partiti e sindacati, fino ad arrivare alla Chiesa e alla famiglia) che, pur in crisi, riescono ancora a tamponare la generalizzazione di comportamenti sovversivi. Queste linee di ingombro, tuttavia, allungano le proprie articolazioni fin dentro i movimenti, e molte delle strutture che rappresentano un pezzo importante della riproduzione antagonista degli ultimi vent’anni (molti centri sociali, ad esempio) oggi appaiono svuotati di capacità espansiva. Liberare il campo, allora, significa non risolvere ma porre sulle corrette basi il problema di costruire nuove forme di organizzazione all’altezza dei compiti epocali che la crisi del capitalismo offre. É, per dirla in altri termini, una condizione necessaria ma non sufficiente, da cui partire per confrontarsi su elementi di programma e prospettiva.
Costituzione e costituente
Mai come oggi è apparso chiaro che nessun tipo di compromesso istituzionale può permettere di indirizzare i movimenti, meglio, di creare all’interno dei movimenti dispositivi di trasformazione efficaci nell’affrontare la situazione politica presente. Negli anni scorsi alcuni compagni hanno pensato di poter trovare una linea intermedia sulla quale coalizzare forze istituzionali (rappresentanti settori della produzione, sottoposti ad una forte pressione di riforma neoliberale) e movimenti di trasformazione sociale. Era facilmente prevedibile che questo tipo di alleanza non avrebbe potuto stabilirsi che in maniera “diplomatica”, qualora non fosse stata esercitata una pressione di base all’interno e all’esterno di quelle stesse forze istituzionali. Alcuni gruppi di compagni hanno invece privilegiato il terreno istituzionale, sia quello sindacale che quello parlamentare, finendo per subire totalmente quel terreno e per risultare subalterni alla sua agenda. Cosa ancora più grave: si è arrivati ad accettare la discriminazione tra compagni sulla base del bieco refrain socialista: “chi è per la violenza è un nemico”. Per questi comportamenti, la critica è necessaria e l’autocritica deve essere imposta.
Il tentativo di alleanza con la Fiom è stato in proposito un esempio classico di fallimento politico: perché? Perché non si potevano accostare funzioni separate, come quella della mera difesa “lavorista” di una classe operaia di fabbrica investita da una profonda ristrutturazione e quella della proposta di un reddito garantito di cittadinanza che trasforma la concezione stessa del lavoro produttivo. Ogni tentativo svolto su questo terreno senza l’accompagnamento di una forte coscienza teorica del passaggio che si sta compiendo, è opportunista se non cialtrona. Il risultato è che oggi la Fiom è su posizioni più arretrate e conservatrici di tre anni fa. La parola d’ordine della costituente può invece diventare un punto unificante, come già sta avvenendo in Spagna. Il problema oggi è quello dunque di costruire, sul livello generale, forme di contropotere che contrastino l’avanzamento delle proposte costituzionali (sia sul terreno della pratica giuridica, sia sul terreno delle riforme strutturali) che le élite neoliberali impongono. È su questo terreno che tutte le forze e i movimenti della trasformazione, presenti sui territori, possono e debbono muoversi. Queste indicazioni prevedono un’apertura sociale massima degli organismi di base alla discussione di indicazioni costituenti ed alla definizione di strumenti adeguati. Negli anni ’90 si diceva “uscire dal ghetto” e si occupavano i centri sociali; ora, se non si vuole rimanere intrappolati nella gabbia dell’autoreferenzialità, bisogna aprirsi organizzativamente alle iniziative di nuova istituzionalità autonoma, dalle occupazioni dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo a quelle di intere porzioni di territorio, trasformate in luoghi di contropotere costituente. Infatti, anche nelle lotte territoriali o per i beni comuni, così come per Occupy o le acampadas, il problema non è ripeterne slogan e icone da spendere sul mercato della politica: se non si comprende questo punto, non ci possiamo spiegare perché il movimento No Tav riesce a generalizzarsi e falliscono esperienze almeno potenzialmente analoghe. Il tema del comune, gli obiettivi e i programmi legati alle lotte sul comune e alla proposta costituzionale del comune sono dunque centrali.
Dentro/contro l’unità europea
Lo abbiamo detto e ripetuto: ogni illusione di poter scegliere lo spazio nazionale per portare avanti le lotte anticapitaliste è del tutto illusorio. Sul terreno europeo il capitale ha anticipato con enorme forza le politiche del riformismo socialista, le ha decisamente estirpate. Riconoscere questo ritardo, di venti-trent’anni, significa anche attribuirne la responsabilità a tutti quelli che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, hanno pensato che la forza del movimento operaio internazionale (o addirittura la lotta di classe) fosse definitivamente scomparsa. Affermare che la lotta di classe si svolge sul terreno nazionale è sempre stata un’infamia (ed oggi è un errore moltiplicato per mille). C’è chi ancora si stupisce che il rifiuto dell’Europa finisca per essere populista e/o fascista: questa non è una deriva ma uno sviluppo coerente per ogni atteggiamento e/o comportamento identitario. Quello che è successo nell’ultimo anno in Ungheria ne è una dimostrazione lampante.
L’Europa rappresenta il nostro destino: può essere un inferno ma è anche il terreno adeguato alle lotte di emancipazione nel mondo globalizzato. Interiorizzare il senso europeo alla lotta di classe, ovunque essa si svolga, nelle fabbriche, nei servizi industriali e sociali, nell’università, ecc., è assolutamente fondamentale. È chiaro che le politiche dell’Unione europea vanno fin da ora radicalmente modificate e che la preminenza dei vecchi trattati va combattuta: ma questo non è un passaggio entro il quale lo spazio europeo venga dissolto (e le singole nazioni lasciate ancor più in preda alle operazioni delle grandi multinazionali e dei poteri finanziari) – questo passaggio è costruttivo di organizzazione, di contropoteri, di nuove strutture costituzionali. Programma del comune e programma europeo vanno completamente unificati. Per dirla chiaramente: non c’è programma del comune se non su base europea. Non è un caso che dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia – per citare i tre maggiori esempi di mobilitazioni, di massa e radicali, contro l’austerity – i compagni più avvertiti pongano con insistenza la necessità di uno spazio europeo, pur nella consapevolezza della difficoltà di questo compito. Senza questa capacità di iniziativa politica europea, che è oggi innanzitutto mediterranea, quindi in grado di allargarsi alle “primavere arabe” sull’altra sponda, le lotte contro l’austerity rischiano di essere consegnate al rancore localista. La costruzione di una “leva meridionale” con cui riaprire la questione europea, a partire dai paesi membri della UE maggiormente investiti dalla crisi, ma con una capacità di collegarsi a quanto si muove sulla sponda sud del Mediterraneo, può diventare un realistico progetto politico in questa fase.
Al contrario, l’arretramento sul piano della difesa della rappresentanza e della sovranità nazionale è il frutto velenoso della cosiddetta “dittatura della Bce”: da un lato si intende la finanziarizzazione non come un processo reale ma come l’invenzione di una cricca di malvagi (i discorsi sulla casta, fonte dei populismi degli ultimi anni, hanno qui il loro presupposto); dall’altro, si consegnano i movimenti alla peraltro illusoria alternativa tra corruzione del sistema politico e risentimento giustizialista. Nei prossimi mesi, c’è da scommetterci, non mancheranno neppure in Italia grandi esplosioni di conflitto contro le politiche di austerity: la loro caratteristica sarà inevitabilmente spuria e perfino ambigua. Il nostro compito è quello di starci dentro, perché è la stessa condizione della crisi a essere spuria e ambigua. Ma se non vogliamo essere risucchiati nel vortice della demagogia o rinchiuderci nella pura testimonianza, dobbiamo costruire collettivamente la capacità di conquistare l’egemonia programmatica del comune. Ed è solo qui, sul piano dell’iniziativa costituente europea, che la trappola populismo-rappresentanza va rotta e l’ambiguità può essere rovesciata.
La lotta per il comune è una lotta per la pace
In questi anni, dentro la miseria della vita politica interna al paese, alcune componenti dei movimenti antagonisti hanno dimenticato la vocazione alla lotta per la pace che altre volte ne ha costituito il nerbo. La situazione nella quale viviamo, i rivolgimenti sensazionali del mondo mediterraneo e mediorientale e i tentativi di controllo e di moderazione della loro potenza rivoluzionaria, le lotte attorno al possesso delle materie prime energetiche, ecc., – tutto ciò porta precipitosamente verso contraddizioni ed antagonismi difficilmente regolabili se non attraverso opzioni belliche. Il fatto che l’egemonia americana nel Mediterraneo fino agli estremi limiti del mondo arabo sia in grave declino non allontana il pericolo ma lo rende ancora più vicino. Bisogna quindi che i movimenti si impegnino immediatamente sul terreno della pace in quanto processo costituente. Le lotte sociali per il salario, per il welfare, per la trasformazione della produzione, per una struttura costituzionale rivolta alla costruzione del comune non possono non avere al proprio interno un’istanza di lotta per la pace e per la giustizia nei rapporti tra le moltitudini.
Dentro la lotta per il comune la pace si spoglia così dei residui idealisti che l’hanno spesso caratterizzata nell’ultimo e importante ciclo no war, quando la lotta contro la guerra faticava a territorializzarsi nella quotidianità del conflitto sociale, finendo per consumarsi nel semplice richiamo alla coscienza civile o, in Italia, all’articolo 11 della Costituzione. Nella storia lunga e recente dei movimenti americani, ad esempio, la guerra è sempre stata un tema centrale, rischiando però spesso di essere il coagulo morale di un ceto medio che reclamava gli ideali del “sogno americano”, gridava al tradimento delle elite e marcava la separatezza dalle lotte contro i rapporti di sfruttamento. Nel momento in cui quel ceto medio è definitivamente declassato e l’American dream sprofonda nell’incubo della crisi permanente, Occupy lascia apparentemente sottotraccia la questione della pace, proprio perché essa comincia a vivere nella materialità delle lotte per un nuovo welfare e contro la povertà e il debito. Non c’è più tradimento, perché quelle elite – a cominciare da Obama – non rappresentano nessuno. E il tema della pace vive nelle “primavere arabe”, il cui processo è stato parzialmente interrotto ma resta completamente aperto, a dispetto delle retoriche – mainstream e di movimento – su un’inevitabile egemonia islamista. I partiti islamisti al governo hanno definitivamente gettato la maschera: infranta qualsiasi illusione di una funzione destabilizzatrice che la stupidità di un consunto anti-imperialismo continua ad attribuir loro, si rivelano per quello che sono sempre stati, cioè i migliori garanti di una prospettiva di stabilizzazione conservatrice. E in questo ruolo utilizzano salafiti e gruppi religiosi che, alla prova dell’insorgenza, si dimostrano nemici innanzitutto dei processi rivoluzionari.
Contro ogni minoritarismo
Liberare il campo, dicevamo. Cioè uscire dal minoritarismo, che non consiste in un puro dato quantitativo, di opinione pubblica, oppure – come pensano tutte le “terze vie”, quelle tragiche e quelle farsesche – moderare i contenuti per allargare il numero dei simpatizzanti: pensare questo, nell’accelerazione della crisi, è stupidità o malafede. L’uscita dal minoritarismo è una prassi politica, la capacità di essere all’altezza della composizione del lavoro vivo, della sua potenza di espressione e radicalità. Quando diciamo politica della composizione contro politica delle alleanze, dunque, non ci gingilliamo con le parole a effetto. Molto concretamente il problema è: perché si riempiono le sale degli incontri tra le supposte rappresentanze dei movimenti, degli studenti e dei lavoratori, e in piazza gli operai dell’Alcoa sono lasciati soli? Perché si constata l’esaurimento della forma-sindacato a Taranto e si consegna al sindacato la (mancata) iniziativa contro la riforma Fornero o per i referendum sul lavoro? Sono domande che interrogano tutti, nessuno escluso. Così, mentre in Italia si implorava la Cgil di convocare uno sciopero generale, a Oakland e nella MayDay questo veniva indetto direttamente dai movimenti, costringendo i sindacati americani, nazionalisti e corrotti, a confrontarsi con l’autonomia di programma e di agenda politica di Occupy. Insomma, è chiaro che processi di organizzazione unitari vanno privilegiati. Ma solo se sono espansivi, dunque con una vocazione maggioritaria e di classe, e non frontisti, cioè minoritari.