Archivio mensile:Gennaio 2013
Ogni Giorno e ogni notte sono per Alexis! RECUPERIAMO L’EX ACEA OCCUPATO!
Per noi la giornata del 6 dicembre scorso è stata una tappa, un
tassello importante di quel processo di cambiamento e attacco alle
politiche di austerity prodotte dalla crisi, un processo che si è
scrostato di dosso l’illusione elettorale e parla di riappropriazione e
sperimentazione del comune. Lo stesso che ha visto nell’autunno uscire
dalle scuole occupate e scendere in piazza migliaia di studenti al grido
“non ci rappresenta nessuno”, lo stesso che ha dato vita all’esperimento
di Ri_pubblica (www.ripubblica.org [1]) e dell’occupazione dell’ Ex
Cinema America.
Abbiamo riscontrato fin da subito un largo consenso sociale: nei
confronti di chi occupa oggi si moltiplicano gli applausi degli abitanti
dei quartieri lasciati al degrado, la solidarietà dei lavoratori che
non arrivano alla fine del mese, la richiesta di partecipazione e
attivazione ai processi di lotta e riappropriazione del patrimonio
immobiliare inutilizzato. Questo è solo l’inizio, la strada da fare è
ancora lunga ma l’esperienza che stiamo vivendo ci restituisce la
consapevolezza che pascolare nei recinti della politica istituzionale
non è sufficiente, che la mediazione al ribasso non ci appartiene.
Noi partiamo da qui, dall’ex acea occupato di viale Ostiense 124!
L’abbandono e il degrado di edifici dismessi e di intere aree sono la
norma in una città che non ha alcuna pianificazione urbanistica se non
quella degli interessi dei costruttori, re di Roma e che nel frattempo
vede grandi opere come il progetto della bretella autostradale di Tor
de’ Cenci ed il G.R.A.bis (per citarne una).
Il quadrante di Via Ostiense, in cui si trova l’ex Acea occupato, ha
perso la sua precedente vocazione operaia legata ai mercati generali,
alle sedi Acea ed Italgas. Ormai in pieno centro metropolitano l’intero
quartiere è oggetto di radicali trasformazioni che puntano a sviluppare
un’economia di servizi. Le luci dei locali notturni riempiono la via di
Libetta, e i cartelli di appartamenti in affitto sono ormai solo per uso
ufficio dove il margine di guadagno è tre volte più alto. Il processo
di gentrificazione, ovvero di espulsione dei ceti popolari in favore
delle fasce più abbienti è ormai largamente avviato.
Servizi pubblici svuotati di senso si accavallano con speculazioni
private in una risignificazione che vede il territorio e chi lo abita
solo in termini di profitto. A partire da quel mostro di fabbrica del
sapere chiamata “Università degli Studi di Roma Tre” che mette in
produzione tutto il territorio intorno alla propria esistenza con taciti
accordi con costruttori, imprenditori e impicciaroli vari realizzando un
modello di università da intendersi come “laureificio”, privato di
spazi di aggregazione, critica e discussione; che svuota del suo
contenuto essenziale il diritto allo studio non concependo o eludendo
servizi essenziali per gli/le student@, quali mense e alloggi. Non sono
da meno i progetti sugli ex Mercati Generali che dietro l’illusione
della riqualificazione e della fruibilità culturale diventerà
l’ennesimo centro di consumo di merci e servizi. Valanghe di soldi
pubblici (do you remember Italia ’90?) diventano oggi la base per nuovi
lucrosi progetti imprenditoriali come quelli di Montezemolo che si è
preso la fatiscente struttura dell’Air Terminal per farne la stazione
dei suoi treni privati o il nuovo costosissimo Eataly di Farinetti.
Non dubitiamo che la stessa sorte toccherà ad altri eclatanti esempi di
sprechi come la piscina dei mondiali di nuoto di Valco San Paolo per la
quale sono stati spesi 20 milioni di euro senza che sia stata utilizzata
neppure un giorno. Intorno a noi ancora i costruttori pronti ad inondare
di nuovo cemento l’area dell’ex fiera di Roma, il deposito Atac di San
Paolo e così via: decine di delibere urbanistiche pronte ad essere
approvate come ultimo, ennesimo regalo di Alemanno a chi gli ha pagato
la campagna elettorale e verosimilmente gli pagherà la prossima.Nel
frattempo i servizi pubblici fondamentali chiudono: prima la biblioteca
comunale, ora a rischio è un intero ospedale come il CTO di Garbatella.
Tra gli interstizi di questo enorme cantiere che coinvolge un intero
quartiere, l’edificio di Via Ostiense 124 viene regalato da Acea al
Comune di Roma: Acea non ha infatti i soldi per la ristrutturazione che
si rende necessaria dopo l’abbattimento di un palazzo adiacente
sostituito da un moderno palazzetto di uffici e residenze di lusso. Il
destino di questo palazzo sembra già scritto: il Comune che a sua volta
non ha soldi da investire a causa della spending review e dei tagli agli
enti locali dovrà necessariamente cedere l’edificio a chi potrà
permettersi di abbatterlo avvantaggiandosi così del piano casa
Berlusconi (implementato dalla Polverini nel Lazio) che prevede ingenti
premi di cubature per chi trasforma in case vecchi palazzi fatiscenti.
Il guadagno di chi ha già guadagnato tanto rischia di essere enorme.
Ma ora l’ex Acea è diventato Alexis occupato e con tutte le nostre
forze vogliamo opporci a nuove speculazioni per proporre invece un piano
di recupero dal basso, che ci restituisca un diritto all’abitare negato,
una partecipazione alla città da cui vogliono escluderci. Dopo una
tavola rotonda con un team di ingegneri strutturisti, architetti e
geometri siamo giunti alla conclusione che la messa in sicurezza dello
spazio necessita di lavori importanti e con spese altrettnto importanti.
Per giorni abbiamo ragionato sulle possibilità di prosecuzione del
progetto socio-abitativo. Abbiamo infine deciso di rilanciare attivando
una campagna pubblica sul recupero dello spazio. Mettendo in gioco tutti
insieme le nostre competenze e la nostra manodopera possiamo resistere
alla devastazione della città e alla cacciata dei suoi abitanti
realizzando il nostro desiderio di reinventare l’abitare e ridare
dignità agli spazi maltrattati dalla speculazione. Siamo convinti che
solo dal basso, in modo indipendente da promesse elettorali e interessi
specultivi, si possa proficuamente contribuire a salvaguardare i
territori.
Vogliamo costruire e animare un presidio “resistente”, che sia
osservatorio di questa devastazione urbanistica e che abbia
l’aspirazione di essere laboratorio per la costruzione di un’alternativa
a questo modello basato su processi di gentrificazione, dalla
cartolarizzazione della città alla precarietà generalizzata delle
nostre vite. Per questi motivi crediamo che abbia senso rimanere
nell’ex-acea nonostante la denuncia di inagibilità, portare avanti un
progetto di autorecupero partecipato dello stabile. Vogliamo che sia una
casa per uscire dalla condizione di perenne precarietà abitativa ma
anche un luogo di scambio, dibattitto e autoformazione, costruendo
all’interno una sala studio, laboratori che mettano in condivisione
saperi ed attrezzature con chiunque voglia sentire un po’ sua questa
esperienza e voglia sperimentarsi e cospirare ovvero respirare insieme.
Per farlo daremo vita ad una serie di iniziative di informazione ed
autofinanziamento, invitiamo tutt@ a portare le loro proposte e a
condividere questo percorso in un’assemblea pubblica che si terrà ad
Alexis, via ostiense 124 sabato 2 febbraio alle 17:00!
Alexis! Ex Acea Occupato
La sanità non si vende. Si difende!
Se la salute e la sanità diventano terreno di speculazione e pareggio di bilancio, se le cure non sono organizzate in presidi territoriali ma gestite da aziende e se i cittadini divengono capri espiatori a cui addossare responsabilità e debiti, vuol dire che un cambiamento, profondo e radicale, si sta compiendo.
Oggi, a Roma e nel Lazio sono sotto attacco moltissimi ospedali: il commissariamento, ancora una volta tutt’altro che tecnico, si accanisce su un territorio già stato martorizzato dalla Presidente uscente con una serie di tagli che, in tutto il Lazio, hanno ridotto drasticamente la garanzia delle cure. Tutti i territori della metropoli romana sono alle prese con questa realtà; anche a Garbatella- San Paolo, l’ospedale CTO che è storicamente e visceralmente parte del tessuto sociale rischia la definitiva chiusura.
Per noi rappresenta qualcosa di più di una struttura sanitaria, con camici bianchi, lastre e odore di medicinali; per noi rappresenta il primo punto di riferimento per gli infortuni della squadra di rugby All Reds e i numerosi danni che si producono coscientemente per la scelta di uno sport bello con qualche controindicazione; rappresenta le visite fatte ad un nostro compagno accoltellato dai fascisti dopo un’iniziativa per Renato Biagetti; rappresenta le cure per le emergenze e i mali che nella vita ogni tanto si è costretti ad affrontare.
Ma c’è anche qualcos’altro tra le mura di quell’ospedale: c’è la definitiva scelta di calpestare diritti universali che, la nostra società, è riuscita a conquistare in una trasformazione lunga più di mezzo secolo fatta di grandi lotte piccole battaglie.
L’abbiamo detto tante volte: la precarietà non è una cosa che riguardi solo il lavoro, la precarietà è il sistema di attacco alle nostre vite per metterle in produzione, sfruttarle ed indebitarle ben oltre il lavoro. La nostra generazione sarà la prima ad essere più povera di quella dei nostri genitori, la prima e forse non l’ultima. E non solo perchè il lavoro, appunto, è completamente precarizzato, ma perchè stiamo assistendo alla privazione della ricchezza condivisa, quella rappresentata dai servizi pubblici e dai beni comuni. La ricchezza di stare male ed essere semplicemente curato.
Non c’è nessuna retorica in questo ma la lucida consapevolezza che si sta cucinando una ricetta in cui privatizzazione, speculazione e profitto sono ingredienti fondamentali. Da domani se non ci sarà più un ospedale, un presidio sanitario territoriale, non sarà questione da trattati di politica economica ma una ferita aperta nella vita di tutti/e noi.
Il CTO, e la battaglia per la sanità Ri-pubblica (nuovamente e diversamente pubblica), rappresenta una barricata da cui non scendere e si trasforma in un trampolino per saltare verso qualcosa di diverso e nuovo.
Alle diecimila persone che hanno firmato contro la chiusura, a quelli che si sono incontrati ieri nell’aula magna manifestando con musica e parole la propria degna rabbia, a tutti noi, spetta il piacere e la fatica di riconoscersi in una comunità resistente…
…perchè non abbiamo un presente di precarietà da difendere ma un mondo nuovo da conquistare.
La sanità non si vende. Si difende!
Se il diritto alla salute diventa terreno di speculazione e pareggio di bilancio, se le cure non sono organizzate in presidi territoriali ma gestite da aziende e se i cittadini divengono capri espiatori a cui addossare responsabilità e debiti, vuol dire che un cambiamento, profondo e radicale, si sta compiendo.
Oggi, a Roma sono sotto attacco moltissimi ospedali; oggi questo territorio è già stato martorizzato dalla Presidente uscente della Regione con una serie di tagli che, in tutto il Lazio, ha ridotto drasticamente le garazie delle cure.Tutti i territori della metropoli romana sono alle prese con questa realtà; anche nel nostro territorio, l’ospedale che storicamente è parte di un tessuto sociale, il CTO, rischia la chiusura.
Per noi rappresenta qualcosa di più di una struttura sanitaria, con camici bianchi, lastre e odore di medicinali; per noi rappresenta il primo punto di riferimento per gli infortuni della squadra di rugby e i numerosi danni che si producono coscientemente per la scelta di uno sport bello con qualche controindicazione; rappresenta le visite fatte ad un nostro compagno accoltellato dai fascisti dopo un’iniziativa per Renato Biagetti; rappresenta le cure per le emergenze che nella vita ogni tanto si è costretti ad affrontare.
Ma anche qualcos’altro viene rappresentato tra le mura di quell’ospedale: oggi infatti lì c’è un limite su cui vogliamo stare e proponiamo di difendere con un’alleanza sociale vasta. Oltre quello c’è la definitiva scelta di calpestare diritti che, la nostra società, è riuscita a garantire in una trasformazione lunga più di mezzo secolo.
C’è la povertà sociale che trasforma la nostra generazione nella prima in cui saremo più poveri dei nostri genitori. E non solo perchè il lavoro, le capacità di costruire garanzie e futuro sono totalmente precarizzate, ma perchè stiamo assistendo alla privazione delle ricchezze condivise, quelle rappresentate dai servizi pubblici e dai beni comuni.
Non c’è nessuna retorica in questo ma la lucida consapevolezza che si sta cucinando una ricetta in cui privatizzazione, speculazione e profitto sono ingredienti fondamentali. Da domani se non ci sarà più un ospedale non sarà un trattato di politica economica ma una ferita aperta nella vita di tutti/e noi.
Per questo il CTO, e la battaglia per la sanità pubblica, rappresenta una barricata da cui non scendere e si tarforma il un trampolino per saltare verso qualcosa di diverso e nuovo. Perchè la difesa prevede che ci sia un domani da difendere e noi vogliamo che sia profondamente diverso, capace di far vivere gli anticorpi di una deriva che specula sulle nostre vite e devasta il nostro presente.
La sanità non si vende. Si difende!
16 Gennaio | La sanità pubblica non si vende. Si difende
Piccolo Recital dalle ore 18 al CTO a Garbatella
La rete sociale dell’XI Municipio e l’Assemblea Permanente del CTO organizzano un’iniziativa pubblica presso l’auditorium dell’Ospedale CTO.
Lo facciamo perchè l’ospedale del nostro territorio è a rischio chiusura, come molti altri in tutta Roma
Infatti la devastazione della sanità pubblica, il saccheggio dei suoi fondi e la riduzione a terreno per fare soldi ha dato i suoi frutti: chiusura di uno degli ospedali storici e totalmente pubblici della nostra città.
Si preannuncia l’ennesima sottrazione di servizi, garanzie e diritti.
Per questo abbiamo pensato ad un’iniziativa pubblica che unisca interventi artistici al racconto di quello che accade.
Perchè riguarda tutti/e e perchè vorremo vedere invece tutelato questo ospedale, come gli altri, perchè rappresenta la tutela della nostra salute in questo territorio, perchè rappresenta il posto di lavoro di decine di operatori sanitari, perchè rappresenta un diritto che non si può o vogliamo comprare, ma che deve essere garantito.
Come altri beni e servizi vogliamo che siano cosa pubblica, con una gestione aperta all’intelligenze e alle relazioni del territorio, consapevoli di come siano una ricchezza sociale per tutti/e noi e, per questo, le vogliamo lontane dai tagli per pagare i debiti fatti per speculare e fare profitti.
Abbiamo chiesto di partecipare ad una serie di artisti che ci hanno dato la loro disponibilità.
E, quindi, saranno con noi:
– Erri De Luca
– Collettivo teatrale “pedigri”
– Michele Baronio
– Carmen Iovine
– Tamara Bartolini
– Emilio Stella
– Voci nel deserto
– Elio Germano
– Adriano Bono
– Ulderico Pesce
– Giulia Anania
E aspettiamo ancora altre risposte.
La nostra salute e la sanità pubblica non si vendono. Si difendono.!
>>> La Sanità Pubblica non si vende, si difende! Indipendenti.eu
Lotte, nell’indipendenza, per la libertà
E’ arrivata anche la sentenza del tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo a schiaffeggiare l’Italia davanti al mondo per la quotidiana vessazione in cui versano le decine di migliaia di prigionieri nelle carcere italiane piene di gente comune, spesso di esclusi, emarginati, immigrati, prigioni sovraffollate, dense di storie di vita, di ingiustizie, soprusi, pestaggi, quasi tutti detenuti in attesa di sentenza, vite vissute nell’inferno delle carceri italiane. Storie di precari nelle metropoli franate ai tempi della crisi economica.
E ultimamente, nuovamente almeno da quando era a regime lo stato di emergenza degli anni 70 e 80, le carceri italiane cominciano ad essere riempite anche con decine di compagne e compagni, giovani, rivoltosi, presi durante scontri con la polizia, per occupazioni di case o sgomberi di centri sociali, per iniziative di antifascismo militante, per manifestazioni di riappropriazione o di contestazione alle politiche economiche o alle grandi opere come il Tav nella Val di Susa. E’ da tempo che stiamo assistendo ad un evidente inasprimento delle misure repressive con un susseguirsi continuo di misure cautelari ogni qualvolta quel minimo di rabbia che portiamo dentro prova ad organizzarsi ed a scendere in piazza. Nella giornata dell’altro ieri pesantissime condanne sono state inflitte a 5 compagni (4 di Teramo ed 1 di Roma) per aver partecipato alla manifestazione dello scorso 15 ottobre 2011 a Roma contro le politiche di austerity. Sei anni di reclusione e trentamila euro di risarcimenti al comune di Roma che costituendosi come parte civile ha legittimato l’utilizzo del reato di devastazione e saccheggio come dispositivo di punizione contro ogni forma di dissidenza sociale in nome della sua essenza storicamente fascista.
Lo abbiamo detto più volte e lo ribadiamo con forza, come ricorda Davide Rosci nella lettera aperta scritta dopo la sentenza dell’altro ieri, non ci sentiamo dei perseguitati poiché da lunghe notti fatte di anni abbiamo scelto di configgere con lo stato di cose presenti e abbiamo messo in conto tutto nella nostra convinzione, anche quella della vendetta dello Stato che promuove impoverimento e tanta polizia come unico nuovo sistema di welfare ai tempi dell’austerity.
Uno su tre di noi è senza lavoro, senza casa e senza futuro, i due su tre che rimangono sono precari, spesso si trova il reddito nell’illegalità e in un paese di banditi in doppio petto, con 60 miliardi di euro persi nella corruzione della Pubblica amministrazione, con 120 miliardi persi nell’evasione dei grandi patrimoni, con il tasso di disoccupazione record e livelli di impoverimento della popolazione complessiva, mai vista dal dopoguerra ad oggi, ribellarsi è necessario, legittimo, per noi lecito. E a fianco di tutta la popolazione carceraria dobbiamo far vivere la denuncia della svolta autoritaria che aumenterà nei prossimi mesi come penalizzazione, delinquentizzazione, interdizione delle lotte sociali, che in questi anni hanno dato grandi prove di resistenza, dignità e determinazione.
Dobbiamo fare nostra senza bandiere di appartenenza dal basso la necessaria battaglia per il diritto di resistenza e coniugarla con la libertà di movimento che per essere affermata come diritto costituente deve necessariamente essere strappata. In tempi di elezioni e campagne elettorali, oggi più che mai dobbiamo tracciare una distanza necessaria con la rappresentanza politica per fare di ogni battaglia una sfida senza inganni e menzogne a partire dalla conquista di una piena e legittima agibilità politica. Se un’amnistia come chiedono tutte le associazioni di detenuti ed ex-detenuti sarà necessaria anche solo per cominciare ad immaginare un mondo diverso, sarà nostro compito farla vivere e sedimentare come una battaglia di principio non sindacabile, per la democrazia reale, per la libertà.
Nodo redazionale indipendente
15 ottobre: a ridere eravamo in tanti
La condanna a sei anni per devastazione, saccheggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravate di sei compagni imputati per l’assalto al blindato dei carabinieri in piazza San Giovanni, nel corso degli scontri del 15 ottobre 2011, segue ad analoghe condanne per gli stessi fatti, e merita alcune considerazioni. In primo luogo, è degno di nota che i compagni siano stati arrestati e sottoposti alla domiciliazione forzata non perché arrestati in flagranza di reato, ma perché
identificati dai video a disposizione delle forze dell’ordine. Vale a dire che per un reato di rilevante gravità quale “devastazione e saccheggio”, ma altresì per lesioni pluriaggravate, è sufficiente essere riconoscibile all’interno di una ripresa, non importa in quale posizione o ruolo: come nel caso di Davide Rosci, che non ha tirato una sola pietra o bottiglia, limitandosi ad osservare l’accaduto senza fuggire. E a ridere: …e l’infame sorrise, ci insegnavano un tempo alle elementari, è lo stigma dell’infame Franti, possibile alter ego di Gaetano Bresci. Ride mentre viene assaltato un blindato che, lanciatosi all’interno di piazza San Giovanni, si trova isolato e viene abbandonato dai suoi occupanti: in quel momento quel parallelepipedo di lamiere, usato per criminali caroselli contro una moltitudine di compagni che non accettavano di essere scacciati dalla piazza, diventa un simbolo dello Stato, e come tale meritevole di tutela giuridica ben maggiore di quei dimostranti che solo per la prontezza individuale e la capacità collettiva di improvvisare una resistenza comune non sono finiti sotto i pneumatici (come Carlo Giuliani, come Giannino Zibecchi).
Oltre allo sberleffo nei confronti del potere costituito, i sei condannati pagano la colpa di esserci. Quel pomeriggio la rappresentazione della rappresentazione di un movimento doveva consegnare a dirigenti politici e sindacali, a leader di partiti e di giornali-partito, la rassicurante parvenza di un movimento docilmente variegato, ironicamente innocuo, pronto ad avallare la rappresentazione di una radicalità in assenza di una reale, perturbante capacità antagonista: una rivoluzione dolce in diretta tv, introdotta da anchormen e anchorwomen, giornalisti d’inchiesta e politologi di fama. Com’è noto, non è andata così: e la spontanea, immediata resistenza, accresciutasi nel corso del pomeriggio, a piazza San Giovanni ha dimostrato l’impossibilità materiale di rinchiudere entro i limiti della rappresentanza la rabbia, l’indignazione, l’odio nei confronti del governo della finanza, dell’uso violento e disciplinare della crisi, dell’attacco alle condizioni minime di esistenza. Solo una lettura disincarnata del diritto e delle sue procedure, che ignora i corpi, le passioni e i desideri concreti che agivano quel pomeriggio può non vedere, dietro l’algido “fatto tecnico” dell’applicazione di un rodato articolo del codice penale – il 285, già sperimentato nelle condanne per gli scontri di Genova – non solo una risposta vendicativa, ma sopratutto un avvertimento nei confronti di quella resistenza collettiva che manifestava una pericolosa disponibilità a generalizzarsi. Che questa rabbia spontanea e irrappresentabile – dalla Val di Susa all’Ilva di Taranto, dai movimenti studenteschi ai lavoratori dell’Ikea – possa trovare un punto di coagulo è stata del resto l’ossessione degli yesmen e delle mosche cocchiere del “governo tecnico”: da cui la denuncia del rischio di “conflitto delegittimante”, o di un possibile “esito greco” della crisi.
In questa situazione i sei compagni colpiti da un reato da Codice Rocco sono, nella loro concreta esistenza, figure di soggettività della crisi: condividono, nelle personali biografie, l’essere precarizzati nei processi lavorativi e nelle esistenze, indebitati per effetto della crisi che utilizza la forma del debito come strumento di governance, mediatizzati perché ridotti a quei cliché e stereotipi – il “black bloc”, il “violento”, l’”ultras”, i “quattro stronzi” – con cui i media riconfigurano e ridefiniscono le identità, e infine securizzati nel loro essere usati come monito dai gestori delle politiche della paura e del panico sociale. Una sola figura di soggettività non si attaglia loro: quella del rappresentato. Ed è questa irrappresentabilità, questa indisponibilità a delegare ad altri la pratica attiva della cittadinanza e il desiderio collettivo della democrazia, ciò viene fatto loro pagare con sei anni di galera.
Lettera aperta di Davide Rosci, condannato per i fatti del 15 ottobre 2011
Quando sono stato arresto il 20 Aprile scorso dissi che ero sereno; ciò che mi portava ad esserlo era la fiducia che riponevo nella giustizia, la consapevolezza che gli inquirenti non avessero in mano niente di compromettente e la percezione che, nonostante il grande clamore creato ad hoc dai mass-media, il processo fosse equo ed imparziale, così come previsto dalla legge.
Mi sbagliavo! Ieri ho visto la vera faccia della giustizia italiana, quella manipolata dai poteri forti dello stato, quella che si potrebbe tranquillamente definire sommaria. Una giustizia che mi condanna a pene pesantissime, leggete bene, solo per esser stato fotografato nei pressi dei luoghi dove avvenivano gli scontri. Avete capito bene, ieri sono stato punito non perché immortalato nel compiere atti di violenza o per aver fatto qualcosa vietato dalla legge, ma per il semplice fatto che io fossi presente vicino al blindato che prende fuoco.
Non tiro una pietra, non rompo nulla, non mi scaglio contro niente di niente. Mi limito a guardare il mezzo in fiamme in alcune scene, e in un’altre ridere di spalle al suddetto.
Tali “pericolosi” atteggiamenti, mi hanno dapprima fatto guadagnare gli arresti domiciliari (8 mesi) ed ora anche una condanna (6 anni) che definirla sproporzionata sarebbe un eufemismo.
Permettetemi allora di dire che la giustizia fa schifo, così come fa schifo questo “sistema” che, a distanza di anni e anni, dopo una lotta di liberazione, concede ancora la possibilità ai giudici di condannare gente utilizzando leggi fasciste. Si, devastazione e saccheggio è una legge di matrice fascista introdotta dal codice Rocco nel 1930, che viene sempre più spesso riesumata per punire dissidenti e oppositori politici solo perché ritenuti scomodi e quindi da annientare.
Basta! Non chiedetemi di starmi zitto e accettare in silenzio tutto ciò, consentitemi di sfogarmi contro questo sistema marcio, che adotta la mano pesante contro noi poveri cristi e che invece chiude gli occhi dinanzi a fatti ben più gravi come il massacro della Diaz a Genova e i vari omicidi compiuti dalle forze dell’ordine nei confronti di persone inermi come Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri ancora.
Non posso accettarlo! Grido con tutta la voce che ho in corpo la mia rabbia a questo nuovo regime fascista che mi condanna ora a Roma per aver osservato un blindato andare in fiamme e che ora mi accusa di associazione a delinquere a Teramo, solo per non aver mai piegato la testa.
Non mi resta altro che percorrere la via più estrema per far sì che nessun’altro subisca quello che ho dovuto subire io e pertanto così come fece Antonio Gramsci, durante la prigionia fascista, anche io resisterò fino allo stremo per chiedere l’abolizione della legge di devastazione e saccheggio, la revisione del codice Rocco e che questo sistema repressivo venga arginato.
Comunico pertanto che da oggi intraprenderò lo sciopero della fame e della sete ad oltranza fino a quando non si scorgerà un po’ di luce in fondo a questo tunnel eretto e protetto dai soliti noti.
Concludo nel ringraziare i mie fratelli Antifascisti, i splendidi ragazzi della Est, i firmatari del Comitato Civile, i tantissimi che mi hanno dimostrato solidarietà in questi mesi e soprattutto quanti appoggeranno questa battaglia.
Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere!
Rosci Davide
A Davide e a tutte/i le/i compagne/i condannati la nostra sincera solidarietà e un abbraccio fraterno e affettuoso. LIBERI TUTTE/I
11 Gennaio | Visioni dal Mondo – Mexico en Rebeldia
Il 1 Gennaio 1994 la rivolta zapatista portava sotto gli occhi di tutti/e nuovo modo di intendere la ribellione; una scintilla che dalla resistenza ai trattati di libero commercio neoliberisti arrivava ad immaginare la costruzione di un altro mondo “desde abajo y a la isquierda” (dal basso a sinistra). Un immaginario che diventa pratica quotidiana sperimentando resistenza e autogestione nei territori “liberati” e contagiando nel resto del Messico, e non solo, tanti movimenti sociali attraverso la sesta dichiarazione della selva Lacandona e l’Altra Campagna del 2006 che farà da sfondo alle rivolte di Atenco e Oaxaca. Quasi vent’anni dopo simbolicamente nel giorno della “predetta fine del mondo” il movimento zapatista torna a invadere le piazze di tutto il Chiapas in una mobilitazione silenziosa ma assordante. Come nel loro comunicato: “Questo è il suono del vostro mondo distruggendosi, questo è il suono del nostro risorgimento…”
Dalle 19.00 – PROIEZIONI VIDEO “TESSENDO AUTONOMIE” a cura di PIATTAFORMA LA PIRATA – video della Marcia Zapatista del Silenzio
APERICENA MESSICANA
dalle 20.30 dibattito: MEXICO EN REBELDIA insieme a
-Vittorio Sergi autore di “Il vento dal basso, nel Messico della rivoluzione in corso”
– PIATTAFORMA PIRATA – lapirata.indivia.net (piattaforma internazionalista per la resistenza e l’autogestione tessendo autonomie)
– COLLETTIVO NODO SOLIDALE – autistici.org/nodosolidale
– COLLEGAMENTI DAL CHIAPAS
A SEGUIRE: selezioni musicali a cura di LA ESQUINA DEL SOL – ondarossa.org
Dopo la fine della rappresentanza – Disobbedienza e processi di soggettivazione
Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68.
Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.
Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?
In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?
Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva». Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.
La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.
D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla «riuscita» individuale del modello imprenditoriale.
Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli «finanziari» a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del «capitale».
Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra «produzione» e «produzione di soggettività» si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in «creditori» e in «debitori». Fallimento economico e fallimento nella produzione delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire «capitale umano», e nella crisi, rifiuto di divenire «uomo indebitato».
A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalista, i partiti e i sindacati di «sinistra» non forniscono alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.
Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?
Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del «rapporto con il sé» come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita dall’impasse in cui siamo impigliati.
Per Foucault partire dalla «cura di sé» non significa inseguire l’ideale «dandy» di una «vita bella», ma porre la questione di un intreccio tra «estetica dell’esistenza» e una politica che le corrisponda. I problemi di «una vita altra e un mondo altro» si pongono insieme, a partire da una vita militante, la cui premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.
I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione di rottura e di divisioni politiche tra «riformisti» e «rivoluzionari».
Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le «guerre di soggettività» (Guattari) a cui ha portato. «Il tipo di operaio della Comune di Parigi è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy». I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.
Interrogare i processi di soggettivazione politica partendo dal mettere in luce la dimensione della «micro-politica» (Guattari) e della «microfisica» del potere (Foucault) non esonera dalla necessità di attraversare e riconfigurare la dimensione macro-politica. «Di due cose l’una o l’altra: o qualcuno, chiunque, produrrà dei nuovi strumenti di produzione di soggettività che siano essi bolscevichi, maoisti o non importa chi; oppure la crisi continuerà ad accentuarsi».
Questo passaggio alla macro-politica che Guattari invoca in questa citazione, mi sembra tanto più necessario in quanto siamo in una situazione totalmente differente da quella degli anni Settanta. In quel periodo l’urgenza era piuttosto quella di uscire da una macro-politica pietrificata e sclerotizzata visibile nei programmi dei partiti comunisti e dei sindacati. Oggi, dato che queste forze sono o sparite o completamente integrate nella logica del capitalismo, quello che importa è inventare, sperimentare e affermare una macro-politica capace, da una parte, di farci uscire dalla democrazia rappresentativa (politica e sociale) e di collegarci a quella che Guattari definisce «rivoluzione molecolare». Dall’altra parte, bisognerebbe riattivare l’utilizzo della forza, di un potere di blocco e sospensione dell’assoggettamento e dell’asservimento, che possa giocare la stessa funzione dello sciopero nel capitalismo industriale. Senza questo la frangente neoliberale applicherà integralmente il suo programma: ridurre i salari al livello della sopravvivenza, ridurre i servizi dello Stato Sociale (Welfare Stare) al minimo, privatizzare tutto ciò che resta ancora nel dominio «pubblico», facendo scivolare la popolazione nel processo regressivo dell’uomo indebitato.
Guattari a suo modo, non è solamente rimasto fedele a Marx, ma anche a Lenin. Sicuramente, gli strumenti di produzione di soggettività che il leninismo ha creato (il partito, la concezione della classe operaia come avanguardia, il «militante di professione» ecc.) non sono più adatti alla composizione di classe attuale. Ma ciò che Guattari mantiene della sperimentazione leninista è la metodologia: la necessità di rottura con la «social-democrazia», la costruzione di strumenti di innovazione politica che si dispiegano sulle modalità di organizzazione della soggettività. Per Guattari l’affermazione di questa autonomia politica è stata, prima di tutto, espressa dalla rottura soggettiva praticata dalla Prima Internazionale che ha letteralmente inventato una classe operaia che ancora non esisteva (il comunismo ai tempi di Marx si appoggiava essenzialmente sugli artigiani e i «compagni»). Nel capitalismo, i processi di soggettivazione devono a loro volta articolarsi e liberarsi dai flussi economici, sociali, politici, macchinici. Le due operazioni sono indispensabili: partire dalla presa che l’asservimento e l’assoggettamento esercitano sulla soggettività e organizzarne la rottura, che è sempre un’invenzione e una costituzione del sé.
Le regole della produzione del sé sono quelle «facoltative» e processuali che inventiamo costruendo dei «territori sensibili» e una singolarizzazione della soggettività a livello micro-politico e delle disposizioni collettive di enunciazione a livello macro-politico. Da qui il ricorso, non tanto a degli strumenti e a dei paradigmi cognitivi, informazionali o linguistici, ma a degli strumenti e a dei paradigmi politici che sono etico-estetici, il «paradigma estetico» di Guattari e l’«estetica dell’esistenza» di Foucault.
Per produrre un nuovo discorso, una nuova conoscenza, una nuova politica, bisogna superare un punto innominabile, un punto di non-racconto assoluto, di non sapere, di non cultura, di non conoscenza. Da qui l’assurdità (tautologica) di pensare la produzione come produzione di conoscenza a mezzo di conoscenze. Le teorie del capitalismo cognitivo, della società dell’informazione, del capitalismo culturale, che si propongono come teorie dell’innovazione e della creazione, falliscono precisamente nel pensare il processo attraverso cui si fanno la «creazione» e l’«innovazione», poiché il linguaggio, la conoscenza, l’informazione e la cultura sono largamente insufficienti a questi fini.
La soggettivazione politica, per prodursi, deve passare necessariamente da questi momenti di sospensione dei significati dominanti e dalla neutralizzazione del meccanismo di asservimento macchinico. Lo sciopero, la rivolta, la sommossa, le lotte costituiscono dei momenti di rottura e sospensione del tempo cronologico, di neutralizzazione di assoggettamenti e di asservimenti, dove si manifestano, non tanto le soggettività vergini e immacolate, ma i focolai, le emergenze, le cariche di soggettivazione, la cui attualizzazione e proliferazione dipende da un processo di costruzione che deve articolare, senza passare per le tecniche di rappresentazione, il rapporto tra «produzione (desiderante)» e «soggettivazione».
Se la crisi non produce altro, d’ora in poi, che assoggettamenti e asservimenti negativi e regressivi (l’uomo indebitato), se il capitalismo è incapace di articolare produzione e produzione di soggettività in altro modo, se non riaffermando la salvaguardia dei titoli di proprietà del capitale, allora gli strumenti teorici devono essere capaci di pensare le condizioni di una soggettivazione politica che sia anche una mutazione esistenziale in rottura con il capitalismo, all’interno della sua crisi che è già divenuta storica.
* Pubblicato su “Alfabeta2″.