LA LIBERTA’ NON CADE DAL CIELO – presidio sotto il Tribunale di Roma 11/4

Il 15 Ottobre 2011, come a Genova nel 2001, eravamo 300.000 a gridare per le strade di Roma la nostra rabbia contro le politiche di austerità, un grido che voleva risvegliare le coscienze di una Italia ancora assopita di fronte alla crisi economica provocata dalle grandi lobby del capitalismo globale e fatta pagare in maniera pesantissima,per intero, alle classi subalterne. Questo mentre in tutta Europa e nei Paesi arabi si sviluppavano mobilitazioni e rivoluzioni.

Una manifestazione che non poteva essere incastonata nelle logiche del corteo – parata  più affini alla rappresentanza politica sindacale. Le tante iniziative prodotte sin dalla partenza del corteo, infatti, hanno voluto segnalare simboli e responsabili della crisi, indicando nella riappropriazione diretta l’unica possibilità di porre le nostre vite “contro e  fuori” dalle politiche di saccheggio ed austerità che stiamo subendo.

Come tutti e tutte sappiamo, non si è fatto attendere l’intervento dei tutori dell’ordine, che hanno tentato di stroncare sul nascere la combattività di una manifestazione e di un possibile movimento attraverso una gestione di piazza letteralmente criminale, con caroselli di blindati lanciati a tutta velocità, utilizzo di lacrimogeni e idranti, cariche che hanno tentato di sgomberare piazza San Giovanni.
La resistenza della piazza, però,  è stata forte, partecipata e determinata, nutrita da una rabbia covata nella quotidianità per le condizioni di ingiustizia, sfruttamento, saccheggio dei territori che ci vengono consegnate ed imposte. Una resistenza ed una rabbia che rivendichiamo non solo come giuste, ma anche come necessarie  allo sviluppo di un processo di trasformazione radicale dell’esistente che ci porti a liberare le nostre vite dallo sfruttamento e dalle gabbie del capitalismo.
In quella giornata e nei mesi successivi si sono susseguiti arresti e processi, con condanne pesantissime. Oggi è arrivata a chiusura l’indagine che coinvolge 25 compagne e compagni accusati del reato di devastazione e saccheggio. Un nuovo processo sta così per cominciare. Si, perché ancora una volta proprio come a Genova 2001 lo Stato e i suoi magistrati hanno “tirato fuori dal cilindro” questo reato per affibbiare condanne pesantissime,un monito a chiunque pensi e provi a mettere il proprio corpo e le propria esistenza in gioco, partecipando a un processo di conflitto e di cambiamento. Una drammatica beffa visto che quel giorno, come altre mille e mille volte eravamo scesi in piazza proprio contro chi devasta e saccheggia quotidianamente le nostre vite!
Al di là della narrazione e delle valutazioni su quella giornata e delle sue conseguenze legali, sentiamo con forza la necessità di aprire, dentro ed oltre i recinti delle realtà di movimento, un confronto ed una discussione che non eluda il tema della repressione, ma che ci porti al contrario collettivamente a farcene carico e ad affrontarlo. L’utilizzo della fattispecie di reato di “devastazione e saccheggio” viene sempre più di frequente utilizzata per colpire ogni forma di espressione di rabbia e conflittualità. Le lotte sociali sono ridotte così a mero problema di ordine pubblico, additate come fatto delinquenziale.
Su questa base, vorremmo iniziare un ragionamento concreto, partendo da un confronto tra chi agisce le lotte sociali qui a Roma, città grande, difficile, complessa, ricca di storia, di esperienze e pratiche concrete dell’alternativa allo stato di cose presenti. Un confronto che sia in grado di superare i disperati ed isolati urli contro la repressione, che abbia la capacità di costruire un filo rosso che a partire della rivendicazione di una “libertà di movimento e di conflitto” riesca, quindi, a proiettarsi ben oltre la miseria del presente.
E’ in atto, infatti, un ampio processo di criminalizzazione sociale e di controllo sociale preventivo che colpisce chiunque non si piega alle leggi del mercato, marcando in forme diverse la propria alterità e/o incompatibilità. Pensiamo, ad esempio, a quei particolari laboratori della repressione che si sperimentano negli stadi, sui migranti, sul precariato delle periferie.
Non solo, va posta la giusta attenzione al tentativo di interdizione delle lotte sociali attraverso l’uso di dispositivi di controllo e repressione, il bavaglio mediatico imposto alle opposizioni, il controllo poliziesco sugli attivisti, l’uso della legislazione speciale antiterrorismo. Tasselli che, se considerati nel contesto politico e sociale nel quale si ascrivono,  contribuiscono a delineare uno scenario  a dir poco preoccupante ed allarmante, una vera e propria svolta autoritaria e liberticida degli apparati dello stato.
La proposta che lanciamo è quella di confrontarsi e  ragionareinsieme attorno a questi temi per costruire una campagna politica comune: perché se è vero che la migliore risposta alla repressione la si dà continuando a portare avanti e a sviluppare i propri percorsi di lotta giorno dopo giorno; è altrettanto vero che, per dare spazio allo sviluppo dei conflitti stessi, è necessario denunciare con forza che problemi sociali come la casa, il lavoro, la scuola, non possano essere trattati come questioni di ordine pubblico. Che si criminalizzano studenti, lavoratori, sfrattati, disoccupati che legittimamente protestano contro i tagli a scuola, sanità, la reforma pensionistica, lo smantellamento dei residui di welfare, la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro, le privatizzazioni, i licenziamenti, la devastazione dei territori in nome del profitto.
Questo, come abbiamo detto, in una fase in cui le condizioni di vita di larghe fasce di popolazione sono letteralmente in caduta libera,rappresenta un segnale chiaro e preoccupante rispetto al presente ed al futuro che la governance capitalistica vorrebbe cucirci addosso. Appare necessario e urgente, di contro, trasformare l’ingovernabilitàe la rabbia crescente, indicare la direzione di marcia collettivaverso un’altra idea di società, verso una nuova utopia possibile da immaginare e conquistare insieme.
Lanciamo già da ora un presidio per il 4 aprile prossimo, di fronte al Tribunale di Roma, per sostenetere i compagni e compagni che vedranno iniziare il processo contro di loro e proponiamo un’assemblea pubblica per il 12 aprile prossimo che, a partire dalla ineludibile solidarietà e complicità con gli/le compagni/e sotto processo, abbia la volontà diiniziare a tessere un ragionamento collettivo ed un percorso comune.
Inoltre in solidarietà con le/i compagn* di Teramo ed in particolar modo con Davide Rosci, attualmente detenuto nel carcere di Viterbo, invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio sotto al Tribunale di Roma l’11 aprile, giorno in cui si esprimerà il Tribunale del riesame.
Libere Tutte – Liberi Tutti


Compagni e Compagne di Roma

Il day-block della logistica

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

É iniziato prima dello scoccare della mezzanotte lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: depositi e magazzini della Tnt, della Bartolini, dell’Sda, della Dhl e delle altre imprese nelle principali città protagoniste delle lotte degli ultimi anni (Verona, Bologna, Milano, Piacenza) sono stati bloccati a partire dalla sera di giovedì. Al passare delle ore hanno iniziato a prendere corpo i numeri dell’adesione allo sciopero: si arriva al 100% o quasi, i principali poli della logistica per oltre 24 ore sono svuotati del lavoro vivo. Il dato di grande rilievo è che la giornata di mobilitazione è andata ben oltre gli ormai consolidati centri della mobilitazione, arrivando al centro-sud: a Roma, ad esempio, i livelli di partecipazione allo sciopero alla Sda e in altre imprese della logistica sono stati pressoché totali. Ciò permette il rafforzamento dei conflitti dove già c’erano e il loro esordio nei posti in cui finora erano assenti. Lo sciopero del 22 marzo segna quindi un fondamentale salto di qualità nel processo di accumulo di forza ed estensione di questo ciclo di lotte.

Ma il 22M non si è esaurito negli straordinari numeri di adesione allo sciopero. Prima che l’alba facesse capolino, sono cominciati i picchetti e i blocchi dei principali snodi della circolazione delle merci. A Bologna l’interporto viene completamente paralizzato, le file di camion fermi in entrata e in uscita vanno avanti per chilometri. La composizione è quella vista nella vittoriosa lotta all’Ikea e in altre occasioni: al fianco dei facchini ci sono studenti, precari e militanti. Poco prima delle 10 arriva la notizia di una prima violenta carica della polizia ad Anzola, tra Bologna e Modena, per provare a sgomberare i cancelli della Coop Adriatica (sì, non è un caso, il fiore all’occhiello della sinistra e ganglio nevralgico del blocco di potere politico-economico del modello di governo socialista emiliano-romagnolo). Anche qui tutti i lavoratori delle cooperative avevano incrociato le braccia. Il picchetto resiste con determinazione e occupa la via Emilia, arteria centrale della circolazione: intorno a mezzogiorno viene rimpolpato dai partecipanti al blocco dell’interporto, che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo. Nel frattempo, a Verona e a Padova vengono bloccate le tangenziali e le strade della zona industriale, a Roma è presidiata la sede dell’Sda, a Torino e Genova ci sono iniziative in imprese specifiche. Nell’area metropolitana di Milano sono tre i concentramenti principali: all’interporto di Carpiano, dove vengono bloccate l’Sda e la Dhl, nella zona strategica di Linate, infine a Settala, dove i lavoratori picchettano due grossi centri della Dhl. Qui il delegato della Cgil prova a sfondare i picchetti per portare dentro i crumiri, l’uno e gli altri vengono cacciati via dai lavoratori. I confederali sono complici dei padroni non solo in senso figurato. A Piacenza, dopo aver nuovamente bloccato il deposito Ikea a partire dalle 6 del mattino, nel pomeriggio si forma un corteo che invade le strade del centro cittadino.

Ma la giornata è lunga. Poco dopo le 14 poliziotti e carabinieri indossano nuovamente caschi, scudi e manganelli per sgomberare il picchetto davanti alla Coop Adriatica e Unilog. Le cariche sono ripetute e violente, lavoratori, studenti e precari resistono e occupano la via Emilia. Cercando di sfuggire alla brutalità poliziesca tre lavoratori vengono investiti da un camion, le loro condizioni sembrano critiche: arriva l’ambulanza, uno viene portato in ospedale, gli altri due vengono soccorsi e restano sdraiati a terra. La strada rimane bloccata. I manganelli tornano a inseguire i corpi dei manifestanti, che mantengono compatto il corteo, raggiungono un parco ai lati della via Emilia e si riuniscono in assemblea.

Le immagini dei poliziotti che scortano i camion carichi di merci sembra una fotografia del capitalismo contemporaneo e della violenza dei processi di accumulazione. Ma queste lotte, innanzitutto, ne indicano i livelli di fragilità e di possibile rottura. La ritualità dello sciopero è definitivamente infranta, questo viene reinventato e torna così a essere un’arma per fare male ai padroni. Anche il simbolico non è più finalmente quello dei media mainstream, ma appartiene alla comunicazione autonoma che – attraverso siti, twitter e social network di movimento – ha creato il tessuto connettivo della giornata di sciopero (l’hashtag #logistica è stato tra i principali “trending topic” in Italia). In molti luoghi lo sciopero va avanti fino al sabato mattina, alcuni lavoratori discutono della possibilità di protrarlo ulteriormente. Dunque, finita con un bilancio eccellente la prova di forza e generalizzazione del 22, il processo continua su nuove basi: oltre la logistica, ripetono tutti, qui vanno trovati i circuiti della ricomposizione. Qualcuno cita gli Iww: forse è solo una suggestione, o semplicemente serve per descrivere alcune caratteristiche (mobilità, eterogeneità, irrappresentabilità) che oggi, nel cuore del capitalismo cognitivo, descrivono la forza lavoro precaria. In ogni caso, le forme organizzative della nuova composizione di classe ora sembrano un po’ meno indecifrabili: un passo in avanti comune lo stiamo facendo, magari proprio verso i wobblies del XXI secolo.

* Pubblicato su “il manifesto”, 23 marzo 2013.

Non abbiamo bisogno di un governo, ma dei soldi che ci spettano #anzituttoredditopertutti

15 marzo si insediano le nuove camere. Non abbiamo bisogno di un governo, vogliamo un reddito per tutti

Tra i 27 Paesi attualmente membri dell’Unione europea la mancanza di un reddito di base è localizzata soltanto in Italia, Grecia ed Ungheria. L’Italia resta al di fuori dei parametri europei continuando a disporre di un lacunoso ed iniquo sistema di ammortizzatori sociali che esclude il variegato universo dei precari e dei soggetti non coperti da nessun sistema di protezione sociale. La crisi e le politiche di austerity adottate dietro il ricatto del debito hanno agito come un dispositivo di “livellamento verso il basso” – facendo regredire garanzie sociali e i diritti acquisiti – seppur con un
intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. Le riforme Monti-Fornero hanno ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro e tagliato i fondi del nostro sistema previdenziale e welferistico. Siamo da poco entrati nel sesto anno consecutivo di crisi e dal punto di vista delle condizioni materiali, stiamo assistendo a forme inedite di povertà. Il costante e drammatico peggioramento degli indicatori sull’occupazionee sulle condizioni economiche (e di indebitamento) dei soggetti e delle famiglie (erogatrici di cassintegrazione di ultima istanza) è inserito in un quadro di recessione globale che non tende ad arrestarsi. Il tasso di disoccupazione reale – non quello delle statistiche ufficiali – è schizzato alle stelle come mai era accaduto negli ultimi decenni. Durante la campagna elettorale la riforma del welfare e la garanzia del reddito sono state al centro della scena mediatica. Il reddito e i variopinti aggettivi per descriverlo sono
diventati mainstream, argomenti portanti utilizzati in maniera trasversale. Le classificazioni riempiono quotidianamente le pagine dei giornali: “minimo”, di “cittadinanza”, di “solidarietà”, di “ultima istanza” fino ad arrivare ad un non ben definito “salario sociale”. Ognuno di questi progetti ha il suo calcolo di spesa più o meno veritiero. Il dato fondamentale emerso è che l’erogazione di un reddito per tutti non è un problema di sostenibilità economica ma di volontà politica. Il susseguirsi di prese di posizione ha circoscritto l’importanza di una legge nazionale per il reddito ad una misura di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Lo spettro che si aggira dietro le solidaristiche intenzioni di equità sociale sono le nuove politiche di welfare to work (ovvero workfare, welfare condizionale, labourfare) che il nostro Paese sta predisponendo, importandole da altri stati europei. Partiti, sindacati e burocrazie di servizio stanno prestando il fianco a questa operazione.

L’obiettivo non dichiarato è la subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario. Ma il workfare non ha neppure una ricaduta positiva sulla spesa pubblica. Anzi, è piuttosto costoso, sia sul piano amministrativo sia in generale, dal momento che i posti di lavoro in offerta sono a bassa produttività. Le esigenze principali a cui assolve sono due: il controllo sociale sulla vita dei soggetti e la falsificazione delle statistiche sulla disoccupazione operando una riduzione fittizia, senza creare quindi dei posti di lavoro, ma con il solo risultato di scoraggiare i disoccupati dal richiedere gli assegni assistenziali. Ma non si tratta esclusivamente di redistribuire la ricchezza – il che non sarebbe poco in questo momento, se avvenisse senza il ricatto dell’impiego precario da accettare – ma si tratta di riconoscere – e quindi retribuire – la produzione sociale che avviene ogni giorno. Gli attori protagonisti di questa mobilitazione permanente per il capitale sono i milioni di precari che quotidianamente producono ricchezza. Il reddito di base e incondizionato è il riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione.

 Operazione chiarezza! Il decalogo ovvero i 10 punti del reddito che vogliamo:

1.      Per reddito intendiamo un intervento economico universale ed incondizionato, ovvero l’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perenne in grado di garantire la riproduzione delle vite singolari. Oltre al reddito diretto si devono garantire i bisogni comuni (formazione, comunicazione, mobilità, socialità, abitare) attraverso forme di reddito indiretto.

2.      Il reddito non è discriminante nei confronti di nessuno, quindi viene erogato a nativi e migranti a prescindere dalla cittadinanza perché concorre a definire la piena cittadinanza sociale e il pieno godimento delle libertà civili.

3.      Il reddito deve essere erogato a tutti i soggetti dal compimento della maggiore età fino al raggiungimento della pensione (che non avranno mai, quindi fino alla conclusione della vita terrena).

4.      Il reddito è un diritto fondamentale della persona (quindi soggettivo) che tutela il diritto ad un’esistenza autonoma, libera e dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata.

5.      Il reddito è il riconoscimento della produzione sociale permanente. Il reddito indipendente dalla prestazione lavorativa riconosce il concetto di produttività della vita sociale, dà valore al tempo di vita che è oltre il tempo di lavoro.

6.       L’istituzione di un reddito rappresenta un mezzo per lottare contro la precarietà (sociale e) lavorativa e il basso livello di remunerazione (in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa),
evitando che una parte crescente della popolazione – come è avvenuto nei 6 anni di crisi – cada nella “trappola della povertà”. Il reddito fornirebbe ai precari e ai precarizzati il potere di non accettare qualsiasi lavoro e di opporsi alla precarizzazione. Quindi il reddito è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro.

7.      Il reddito non è un sussidio di povertà, quindi non è una forma di salarizzazione della miseria e dell’esclusione sociale.

8.      Il reddito non è un sussidio di disoccupazione.

9.      Il reddito non è vincolato all’accettazione di nessuna offerta formativa e/o lavorativa, di conseguenza non ha un regime sanzionatorio. Ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito Minimo Garantito proposta da una rete di associazioni e partiti di sinistra, ispirata alla legge regionale del Lazio n.4 del 2009 (“Istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito in favore di disoccupati, inoccupati e precariamente occupati) prevede tra le cause di sospensione, esclusione e decadenza della prestazione, il rifiuto di una proposta di lavoro avanzata dal Centro per l’impiego comporta la decadenza del
beneficio, fatta eccezione per l’ipotesi della non congruità della proposta di impiego (art.6 legge regione Lazio n 4/2009). Una sorta di regime sanzionatorio che dovrebbe inserire degli elementi di condizionalità del beneficio o delle indennità godute dal soggetto inserito nei programmi di orientamento, formazione e attivazione, lasciando però in uno stato di indeterminatezza la questione dei doveri in capo alle amministrazioni deputate all’inserimento. Di conseguenza, un’ulteriore perplessità deriva dall’erogazione ancorata alla disponibilità al lavoro, la cosiddetta “congrua offerta” (meccanismo sanzionatorio predisposto dalla Strategia Europa per l’Occupazione) e quindi alla condizionatezza al lavoro precario e intermittente proposto dai centri per l’impiego che, oltre ad essere inadeguati nel realizzare le politiche formative/di orientamento e di inserimento lavorativo, ricevono esclusivamente offerte di lavoro con basse qualifiche professionali. Noi pensiamo che si possano coniugare strumenti universalisti di protezione sociale con politiche di attivazione, senza regime sanzionatorio.

10.     Il reddito non può essere “minimo”, perché è la configurazione di un nuovo diritto ed i diritti non sono né minimi né massimi. Per quanto riguarda l’importo della misura, per noi dovrebbero essere almeno 1000 euro al mese. Occorre riflettere, infatti, sull’evenienza che una prestazione modesta possa comportare un effetto perverso a carico dei lavoratori precariamente occupati: in casi di contrattazione diretta della loro condizione lavorativa un rinvio al reddito come risorsa complementare potrebbe diventare l’escamotage per prospettare un mantenimento dell’occupazione precaria con livelli di retribuzione ridotti. La conseguenza sarebbe l’istituzionalizzazione del ”sotto-occupato” working poor (lavoratore povero) che non riuscirà a vivere con 600 euro al mese e dovrà accettare lavori al nero pur di non perdere il sussidio. Sappiamo bene quanto il lavoro sommerso in Italia sia necessario in quanto camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso.

#anzituttoredditopertutti

Incontro con Maurizio Lazzarato

Per una rottura politica contro la governance neoliberista

Con il risultato elettorale abbiamo sicuramente un deposito di elementi contradditori, una dimensione politica complessa su cui ragionare e dispiegare una riflessione ad ampio spettro.

Innanzitutto sulla crisi irreversibile e verticale della rappresentanza dei partiti, praticamente tutti  in special modo di quelli per il governo autoritario dell’austerity, 9 ML i voti persi complessivamente da PD, PDL e Lega. Il partito del non voto (astensione, schede bianche, nulle o invalidate) si è affermato come il vero primo partito, l’affluenza rispetto al 2008 ha subito nei fatti un calo del 7% nonostante il tentativo di recupero sulla così detta antipolitica.

Poi l’ingovernabilità parlamentare secondo coalizioni di schieramento opposte e speculari in linea con la trojka e l’affermazione istituzionale, formalizzata, come già detto da più parti, rappresentata e contestualmente addomesticata attraverso il movimento 5 stelle di quelle istanze che i movimenti sociali hanno imposto in questi anni con il loro protagonismo, le rivendicazioni costituenti delle lotte: dai notav, ai comitati referendari contro la privatizzazione dell’acqua pubblica, dalla redistribuzione dei fondi e delle risorse – la semplificazione operata nella vulgata giustizialista contro la corruzione è stata nei fatti fin qui destituente – fino ai nuovi diritti per i precari come quella sul reddito di cittadinanza, sociale o garantito che dir si voglia. Temi sui quali dovremo concentrare le nostre riflessioni e strategie di conflitto se vogliamo poi imporre all’agenda di governo – qualunque esso sia – una mobilitazione di massa, una capacità d’urto, necessaria per qualsiasi ridefinizione dei nuovi diritti, figuriamoci poi per una trasformazione della carta costituzionale.

Una premessa politica è d’obbligo. Non intendiamo affatto il 5 stelle come la nuova rappresentanza dei movimenti. Al contrario l’ipotesi che si è aperta con l’affermazione dei cosi detti grillini rimanda all’incapacità da parte dei movimenti di farsi – almeno in questo frangente – conflitto non risolvibile e non addomesticabile, rottura costituente. Almeno per ora pare riuscita l’operazione di cattura e sussunzione della conflittualità e della stessa materialità dei movimenti proprio in questo farsi stato che il 5 stelle ha inteso avviare con il forte scossone di incursione parlamentare e di consenso elettorale.
In ogni caso anche solo temporaneamente – la finestra si chiuderà molto presto – si rompe il meccanismo della coazione a ripetere di un sistema bloccato di cui evidentemente la stessa governance comincia ad essere stanca e a sentirsi legata. C’è un blocco della valorizzazione capitalistica al centro della crisi che da anni sta segnando le politiche economiche e di governance, dove l’unico paradigma di governo si articola intorno alla misura del debito e dell’austerity come vero e proprio dispositivo di comando, di sottomissione di assoggettamento del lavoro vivo.

E sappiamo bene quanto possa tornare utile alla logica dei mercati e della speculazione l’instabilità che si è venuta determinando in questo difficile tornante nella storia del nostro paese. Ma, e lo affermiamo con forza, anche di quale grande opportunità si apre al cospetto dei movimenti, soprattutto su quei temi dove i movimenti stessi sono chiamati in causa dentro l’ingovernabilità formale che si è aperta con l’ultima tornata elettorale.
Le così dette riforme delle politiche del lavoro e del welfare, ciò che la tecnicalità di una certa dottrina dello stato chiama welfare per la protezione sociale o diviene un campo di forze, un terreno di scontro e di sperimentazione delle pratiche del conflitto oppure rimarrà semplicemente la cooptazione e la sottomissione, il controllo e disciplinamento sociale. Un movimento che spinge il reddito garantito come istanza minima di esclusivo contrasto della povertà assoluta e non come orizzonte del conflitto sociale nella densità delle sue pratiche riappropriative, si ridurrà alle già annunciate spirali di cattura e assistenza sociale così come si manifestano i progetti di workfare e di reddito minimo fin’ora conosciuti.

Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia è considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il formale tasso di disoccupazione. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale
del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. La tanto decantata riforma sul MdL dell’ultimo governo tecno-autoritario ha aumentato il lavoro sommerso e paradossalmente ridotto gli AA. SS. esistenti, come sappiamo già largamente insufficienti ed iniqui. Così come sono anni che andiamo chiarendo le distinte prospettive tra la flexicurity come politica di workfare, dalla proposta di un reddito universale e di esistenza.

Si diceva di reddito quindi e negli ultimi anni le moltitudini precarie si sono mobilitate con le tante iniziative promosse su tutto il territorio nazionale almeno nel biennio 2003/2004 fino ad arrivare ad imporre all’agenda politica il tema del caro vita, della precarietà, del sacrificio imposto e del ricatto sociale. Abbiamo organizzato insieme a tanti manifestazioni nazionali per il reddito garantito di decine di migliaia di persone, siamo entrati nei supermercati e nelle
librerie pur nei tanti limiti delle soggettività politiche coinvolte e l’impatto sociale della riappropriazione messa in atto con la campagna dello shop surfing servì indubbiamente a porre il reddito come istanza non più rinviabile in una paese dove solo insieme alla Grecia all’interno del quadro europeo non è presente a tutt’oggi alcun minimo elemento di protezione sociale, neppure di welfare to work. Poi seguirono tra gli appuntamenti del mayday milanese che negli anni cresceva nella densità della partecipazione, le tante lotte e vertenze, alcune anche vinte significativamente dalla cospirazione precaria che sotto la protezione di San precario ha difeso i devoti, sfruttati, ma disponibili a rovesciare il tavolo del padrone. Ci siamo messi contro Ministri, Pubbliche amministrazioni, Enti locali, perché la lotta di classe non permette giravolte e politicismi, quando rompi la compatibilità e il compromesso, saltano le mediazioni e la manifestazione autoritaria dell’austerity la tocchi con mano. Così siam giunti al biennio caldo delle lotte transnazionali 2010/2011 dove le moltitudini precarie hanno aperto e liberato il campo, hanno travolto gli accordicchi, subissato i politicanti, hanno sedimentato rivolta riprendendosi la piazza, del Popolo prima, di San Giovanni poi. E così è la lotta di classe, terribilmente oscena, a volte non proprio ordinata ma certamente densa della rottura costituente di cui abbiamo bisogno.

Dopo gli scontri di Genova, dopo la rabbia non solo per un compagno caduto, ma anche per l’insufficienza e totale incapacità di quei compagni che diressero quell’appuntamento, c’è stato tutto questo e molto altro: basti ricordare le battaglie campane contro gli inceneritori, quelle per il referendum vinto – cosa non da poco – contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e ovviamente non in ultimo la lotta NoTav. Oggi abbiamo un patrimonio sociale un’eredità di
conflitto e di trasformazione da incarnare, oggi se possibile più di ieri il disordine è tanto, molto, denso sotto il cielo e come qualcuno ricorda per noi è un’ottima prospettiva.
Non solo non veniamo dal nulla ma abbiamo un futuro da conquistare.
Dobbiamo quindi essere all’altezza della fase e sapere come orientarsi nella prateria per prendere posizione. Dobbiamo definire quindi con molta chiarezza per cosa ci mobilitiamo e come intendiamo oggi porre la questione del reddito.
La moltitudine precaria che vogliamo organizzare da dentro e dal basso rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, certamente impoverito, ridotto a mero strumento di controllo sociale.

Reddito garantito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Lo intendiamo come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale, affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva, ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali nella nuova organizzazione del lavoro.
Di questo e molto altro vogliamo parlare con Maurizio Lazzarato. Non ha bisogno certo di presentazioni, è prima di tutto un compagno oltre che un lucidissimo pensatore – magari l’etichetta di ricercatore o sociologo gli può stare stretta, vista la sua esperienza politica e di militanza nell’autonomia operaia – è tradotto ormai in molte lingue e apprezzato in diversi continenti. Possiamo ripercorrere alcune tendenze del suo pensiero come costituenti di tutto un dibattito politico e teorico che nell’ultimo ventennio ha caratterizzato non solo le trasformazioni del lavoro e della produzione – ricordiamo che già nei primi anni 90’ aveva rintracciato il contenuto immateriale del lavoro come egemone nei nuovi processi produttivi dispiegati nell’economica postfordista e nelle sue trasformazioni che hanno risignificato lo stesso processo di valorizzazione e che tuttora rimangono un terreno aperto d’inchiesta in continuo divenire. Ancor di più lo seguiamo fino ad oggi per la perfetta e calzante attualità della dimensione teorica di alcune ipotesi che vorremmo qui ricondividere.

Venerdì 5 Aprile h 17 Laboratorio Acrobax – Roma

intervista a Maurizio Lazzarato per www.indipendenti.eu con

*Gianluca Pittavino – Askatasuna Torino

*Francesco Festa – 081 Napoli

*Benedetto Vecchi – Il Manifesto

*Federico Primosig – attivista Stoccolma

*Sergio Bianchi – Deriveapprodi

*Dario Lovaglio – attivista 15M Barcellona

sono invitati ad intervenire: Laboratorio Alexis, America occupato, Degagè, Laboratorio Acrobax, collettivi e reti studentesche

Giovedi 14 Marzo | Territori Ingovernabili: le lotte per i beni comuni e la difesa dei territori

Arrivati in Sicilia bisogna attraversare chilometri di basi militari, bunker, rotatorie e antenne per arrivare sul promontorio di Niscemi da cui si lanciano colorati parapendii su pascoli e campi coltivati.

“Da Chiomonte a Niscemi: ora basta coi veleni!” si legge sui muri.

Gli Stati Uniti vogliono installare proprio qui, sulla Riserva naturale dell’insughereta, una delle quattro antenne satellitari di ultima generazione, MUOS, che permetteranno copertura globale alle guerre ultratecnologiche condotte attraverso droni radiocomandati.

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Nel decennale dell’assassinio di Dax

16 MARZO 2013: CORTEO NAZIONALE ANTIFASCISTA E ANTICAPITALISTA

 

16 MARZO 2003: LA NOTTE NERA DI MILANO. I fascisti accoltellano a morte Davide Cesare, detto Dax. Subito dopo la polizia ed i carabinieri picchiano a sangue gli amici ed i compagni accorsi all’ospedale San Paolo per avere sue notizie. Squadrismo fascista e brutalità poliziesca.
Lame e manganelli.

MARZO 2013: nel decimo anniversario dell’assassinio di Dax, ucciso perché militante antifascista, Milano si prepara a ricordare i fatti della notte nera e a opporsi ad ogni tentativo di rigurgito fascista, con una tre giorni di controinformazione, lotta, musica e sport popolare.

15 MARZO, GIORNATA INTERNAZIONALE: dibattito e confronto fra esperienze di diversi paesi, perchè la solidarietà è un’arma contro chi ci governa e reprime. Interverranno Antifascist Network of South Athens, Jabalia Youth Activity Center Gaza, Marcha Patriottica Colombia, Antifascisti
Russi.

16 MARZO, CORTEO NAZIONALE: le lotte sociali attraverseranno Milano per ricordare Dax, contro la repressione, e per affermare il valore dell’antifascismo e dell’anticapitalismo come filo conduttore contro un modello di sviluppo economico neoliberista . Per questo si darà visibilità alla lotta per la casa, alla lotta studentesca, allo sport popolare.

17 MARZO, SPORT POPOLARE: giornata di attività sportive, interamente promosse, gestite e praticate dal basso. Perché è importate riappropriarsi e concepire lo sport come pratica sociale sempre aperta e percorribile da chiunque ne abbia la volontà.

Contro il fascismo, da sempre schierato a difesa degli interessi delle classi dominanti. Contro il capitalismo, responsabile dello sfruttamento e dell’oppressione che attanaglia il pianeta. Un modello in crisi endemica da abbattere dalla fondamenta, per costruire un’alternativa basata su giustizia sociale, solidarietà e rispetto di tutti gli esseri viventi.

16 MARZO 2013: DAX VIVE NELLE LOTTE DEL PRESENTE.

NELLA MILITANZA ANTIFASCISTA E ANTICAPITALISTA.

UNITI SI VINCE!

INFOPULLMAN SOLO PER GIORNATA CORTEO:  3333666713 – COSTO 30€ DA ROMA

Manifesto delle iniziative a sostegno delle spese per i pullmann: http://www.facebook.com/events/475632285819330/# [1]
www.daxvive.info [2]

I compagni e le compagne di Dax

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[1] http://www.facebook.com/events/475632285819330/
[2] http://www.daxvive.info/