Scusate se la prendo da lontano. Vorrei infatti chiedermi prima di tutto che cosa vuol dire “far politica oggi” e risalire poi al tema Europa. Far politica sul terreno dell’autonomia, vale a dire assumendo il punto di vista del soggetto sovversivo e di conseguenza analizzando le figure e i modi di agire del proletariato precario-cognitivo. Ritrovo infatti i bisogni e i desideri di questo soggetto come dispositivo centrale, virtualmente egemonico, nell’analisi dei movimenti della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine capitalista.
Ci sono due argomenti, meglio, due topoi che vanno assunti affrontando questo tema. Il primo è oggettivo, bisogna cioè chiedersi che cosa significa porsi dentro lo sviluppo capitalistico nella fase critica dell’egemonia neoliberale. Potremmo anche, probabilmente, cominciare ad interrogarci sui “limiti del capitalismo”, togliendo tuttavia di mezzo preventivamente ogni previsione catastrofica comunque questa si presenti ed ogni nostalgia di una tradizione attestata da troppo tempo su questa illusione. Il contesto capitalistico è oggi caratterizzato dal dominio del capitale finanziario che sta consolidando la sua azione dopo una lunga transizione, che risale almeno alla seconda metà degli anni ’70. L’abbiamo ampiamente seguita, questa evoluzione, e spesso anticipata nel nostro lavoro collettivo: vediamone dunque semplicemente le conclusioni. Il capitale finanziario è egemone, non lo si può più definire come facevano Marx e Hilferding, poiché esso si è fatto capitale direttamente produttivo: cerca oggi la sua stabilizzazione esercitando attività estrattive sia nei confronti della natura e delle sue ricchezze, sia nei confronti del biopolitico-sociale (cioè del welfare). Quando parliamo di consolidamento del potere del capitale finanziario ne parliamo ipotizzando (ed è una ipotesi che si avvicina ormai ad una verifica conclusiva) che la trasformazione del capitalismo abbia comportato (tra l’altro – ma l’osservazione è tanto limitativa dell’analisi, quanto importante per concentrare quest’ultima su quanto ci interessa) – abbia dunque comportato una assai profonda trasformazione delle forme territoriali e delle strutture istituzionali nell’assetto globale degli Stati e delle nazioni nel “secolo breve”. Questa trasformazione comincia all’interno dei singoli mercati nazionali dove, in ciascuno di essi, la struttura produttiva capitalistica è riorganizzata dopo la prima Grande Guerra (rispondendo al trionfo della rivoluzione bolscevica), secondo moduli contrattuali keynesiani. Nel secondo dopoguerra e dopo le “ricostruzioni”, questo modulo di organizzazione sociale e di comando capitalista comincia ad essere fragilizzato e talora a saltare sotto la pressione operaia: è allora che comincia la rivoluzione neoliberale a partire dalla fine degli anni ’70 con una straordinaria accelerazione all’inizio del XXI secolo. Essa riorganizza innanzitutto lo Stato secondo modalità fiscali nella gestione della crisi e nella governance del debito pubblico. Il procedere della mondializzazione che interviene in quel periodo e l’affermazione globale dei “mercati finanziari” spostano il controllo delle possibilità debitorie dello Stato dal potere pubblico alle strutture che organizzano il privato, dall’equilibrio dell’amministrazione interna dello Stato all’equilibrio costruito sotto il dominio dei “mercati” globali.
È a questo punto che si dà una definitiva frattura fra il nuovo ordine capitalistico globale e i soggetti che vivevano nel precedente ordinamento capitalistico dei singoli Stati-nazione – in quell’ordinamento “riformista” del capitale, cioè, che avendo introdotto keynesianamente il movimento operaio nel contratto sociale, ne disciplinava i comportamenti secondo regole cosiddette “democratiche”. Se nello Stato fiscale, presto pervenuto alla crisi, il debito statale aveva assunto quel ruolo di anticipazione della spesa che prima aveva avuto l’inflazione (in senso opposto, come strumento di devalorizzazione della spesa) e se presto la fiscalità non è più sufficiente a sostenere il debito promosso dallo Stato – se dunque la struttura del debito muta e il neoliberalismo, facendo del mercato la regola dello sviluppo e dei “mercati” la giustizia del pianeta, impone la privatizzazione globale del debito…. dato tutto questo, la crisi capitalistica si presenta oggi come impossibilità di far agire all’interno dello sviluppo stesso qualsiasi elemento di mediazione, qualunque struttura contrattuale, insomma il keynesismo in tutte le diverse accezioni riformiste che esso possa eventualmente assumere. D’altra parte, questo sviluppo (se riguardato dal punto di vista delle lotte del soggetto sovversivo) ci restituisce un modulo assai consistente di lotta di classe. Da un lato tutti coloro che possono partecipare all’”interesse” (cioè al profitto monetario – alla partecipazione alla pratica globale dell’usura dei mercati privati e/o semipubblici) costruito sul mercato finanziario; dall’altro lato tutti coloro che considerano l’esercizio della loro forza-lavoro reso socialmente utile dal loro “stare insieme” e quindi dall’esigenza (bisogno e desiderio) di essere garantiti nel corso della loro vita non dal perdurare della barbarie del privato possesso ma dal possibile godimento dell’accesso al comune. E non c’è “nessuna classe media” fra queste due realtà etiche.
Il secondo presupposto è soggettivo, ne abbiamo accennato le caratteristiche etiche – ora si tratta di studiarne (anche in questo caso riassumendo un lavoro collettivamente compiuto) l’ontologia della produzione. In essa si ricompongono dunque le modificazioni intervenute nella composizione della classe lavoratrice. Essa non è più (come da molto tempo si sa) “operaia” in senso esclusivo, tanto meno può essere qualificata come centrale nei processi di valorizzazione – la dimensione immateriale, intellettuale, cooperativa e la rete (come tessuto di ogni attività produttiva) sono diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. La forza-lavoro si è dunque radicalmente modificata. Nessuna nostalgia della vecchia classe operaia. Impegno, invece, a ritrovarne le stigmate nel continuum della “disindustrializzazione”, determinata (non tanto dal capitale finanziario quanto) dall’automazione industriale e dalla sua espansione a tutto il sistema dei servizi produttivi (sicché anche l’operaio industriale è oggi lavoratore immateriale). La radicalità di questa modificazione è estrema. Altrove abbiamo definito l’insieme della forza-lavoro nella sua dimensione di soggetto sfruttato nello sviluppo del capitale finanziario come un composto da individui “indebitati, mediatizzati, securizzati, rappresentati”. In questo quadro lo sfruttamento avviene assumendo la società come totalità, investe e sussume l’intera società. È uno sfruttamento estrattivo. La qualità estrattiva dello sfruttamento significa che l’analitica “temporale” (quella marxiana, per esempio) delle figure e delle quantità di pluslavoro e di plusvalore, dev’essere rivista e analizzata secondo nuovi criteri. È qui infatti che il capitale finanziario si segnala come potente agente di un’”estorsione” compatta e massificata di plusvalore, come mistificatore di ogni assemblaggio di lavoro cooperativo e infine – in tal modo – come forza estrattiva del comune. Nel concetto di “estrazione” si modifica quindi quello di “sfruttamento”. “Estrazione” significa appropriazione di plusvalore attraverso una continua scrematura dell’attività sociale, la riduzione delle singolarità che cooperano nella produzione sociale (e che così esprimono comune) ad una massa che ha perduto ogni controllo di se stessa ed ogni autodeterminazione, la trasformazione dell’imprenditorialità capitalista in una funzione ormai incapace di organizzare il lavoro, immersa nel gioco finanziario e solo attenta alle cedole azionarie. Il concetto marxiano di sfruttamento sembra così pateticamente lontano – nella sua insistenza sulla temporalità della giornata lavorativa e dello sfruttamento individuale che in essa si misura. Se non fosse che la massa esiste solo nella logica del capitale finanziario (come il popolo in quella dei sovrani). Mentre la vita sfruttata è singolare. Da questo punto di vista, dunque, le soggettività implicate in questo sviluppo del capitalismo, espropriate come massa, sfruttate come singolarità, avvertono che la frattura sociale, meglio, la scissione del concetto di capitale si è data in maniera ormai piena. Al punto in cui lo sviluppo capitalistico è stato spinto dall’azione neoliberale, una qualsiasi mediazione interna allo sviluppo capitalistico (anche se imposta dalla moltitudine dei lavoratori bisognosi, insomma comunque essa si presenti, qualsiasi sia la forma in cui le singolarità sono rinchiuse nella massa espropriata) – ogni mediazione, dunque, è stata rotta. Assistiamo all’azzeramento del politico, meglio, del valore della composizione politica del soggetto antagonista: in questa prospettiva “la politica” è solo considerata una mediazione – e questa non potrà certo darsi con gli “esclusi”.
Dobbiamo dunque concludere che la dialettica operaista che sempre teneva presente un rapporto antagonista tra sviluppo capitalistico e lotta di classe operaia e ad essa imputava ogni sviluppo, è terminata? È possibile, con tutta probabilità è avvenuto. Infatti la relazione delle singolarità che costituiscono moltitudine è divenuta del tutto intransitiva nel rapporto di capitale. Il neoliberalismo ci impone questa verità. La valorizzazione capitalista nasce infatti dal fatto che la moltitudine di singolarità è ridotta a massa – è resa “transitiva” in quanto capitale variabile ma non può più esprimersi come classe – neppure all’interno del capitale, come la dialettica “socialista” esigeva. Affermare questo non significa che la concezione marxiana dello sviluppo sia obsoleta o la metodologia operaista ormai desueta; significa solo che il metodo va innovato, che le “armi della critica” vanno adeguate alla nuova situazione complessiva e che “far politica oggi” è concetto che non può esser legittimato, per esempio, semplicemente dal ricorso all’inchiesta operaia – modulata sul couplet composizione tecnica e composizione politica – ma che i temi del potere e del contropotere, della guerra e della pace, del potere costituente e dell’insurrezione, insomma, del programma comunista, vanno riproposti – in prima linea.
Mi ripeto. Già da tempo è stato teorizzato che l’”uno si è diviso in due”. Questo significa che non c’è più misura fra capitale e soggetto sfruttato, antagonista, che non vi è più mediazione possibile. Vi può essere mediazione solo forzosa. Questo comporta crisi, inefficienze, limiti della forma politica del capitalismo oggi dominante, di quella “democratica” in particolare, sempre più evidenti. Se l’azione politica del primissimo e primo movimento operaio (tra l’’8-‘900) ha cercato alternativamente per la sua azione un modello riformista e/o uno insurrezionale; se la seconda grande epoca del movimento operaio – quella dell’operaio fordista – ha consolidato nella forma contrattuale (e riformista) il suo progetto, oggi non vi è più nulla di questo che possa essere nuovamente percorso. Alcuni autori hanno con grande intelligenza sottolineato che il capitalismo neoliberale ha perduto ogni caratteristica democratica da quando le istituzioni della democrazia non son più riuscite a trattare, ad incidere sulle questioni economiche – hanno cioè permesso al neoliberalismo di estrarle dalle regole della democrazia. È un altro modo di dire che l’”uno si è diviso in due”. La sovranità è stata allora tolta agli Stati-nazione per essere trasferita verso il potere globale dei “mercati”. Ma questa conclusione non conclude nulla, è essa stessa implicata nel processo della crisi e la estremizza piuttosto che risolverla. È ormai banalmente ripetuta dai più e finisce per mistificare l’impotenza dei soggetti e per vanificare le lotte contro il capitale finanziario.
Finora abbiamo visto come il concetto di composizione politica di classe operaia sia venuto meno, come sia stato azzerato dalla nuova figura dei movimenti finanziari e politici del capitale – e in ogni caso come esso non possa funzionare (la diciamo grossa) “ontologicamente”, e cioè nella realtà storica determinata: perché ormai privato di ogni transitività. “Come fare politica, oggi”, non significa dunque giocherellare fra composizione politica e tecnica ma ridefinire radicalmente che cos’è “politica”. Tra poco vedremo quale sia la fragilità dello stesso concetto di composizione tecnica. La metodologia classica dell’operaismo non funziona dunque più. Bisogna modificarla. E farlo tenendo presente che la nostra autocritica non significa che non ci possiamo più chiamare marxisti; forse significa che non ci chiameremo più post-operaisti; probabilmente ci diremo solo comunisti – alla nostra maniera, facendo del marxismo un dispositivo vivente per adeguarlo alla critica del nostro mondo. Per cominciare cioè ad uscire da quella condizione di azzeramento della politica.
Sulla questione del presupposto soggettivo dobbiamo quindi ora ritornare, armandoci di una nuova metodologia che lavori essenzialmente sulle maniere di far crescere, indipendentemente dal rapporto di capitale (non-transitivamente dunque), la nuova soggettività sociale sfruttata. In essa non saranno più riconoscibili composizione tecnica o composizione politica, conseguenti l’una dall’altra, ma piuttosto una composizione semplificata ed una consistenza reale che cercheremo ora qui di definire, descrivendo l’azione che è possibile, a questa soggettività, di produrre.
In primo luogo dobbiamo tener presente che quel soggetto separato, azzerato dal punto di vista politico, è comunque un soggetto che si è riappropriato di capitale fisso, in tutta la fase di trasformazione del capitalismo fra crisi dello Stato fiscale e consolidamento dello Stato del capitale finanziario. In che cosa consiste precisamente questa riappropriazione? Consiste specificatamente nel far proprie, nell’afferrare, nel rendere protesi corporee e mentali, linguistiche e/o affettive, cioè nel ricondurre alla propria singolarità alcune capacità che prima erano solo riconosciute proprie delle macchine con le quali si lavorava, e nell’incorporare queste caratteristiche macchiniche, farne attitudini e comportamenti primari dell’attività dei soggetti lavorativi. Nel distacco storico che si era affermato tra oggettività del comando (e del capitale costante) e soggettività della forza-lavoro (soggetta al capitale variabile) – si dà, da parte delle singolarità, una riconquista di capitale fisso, un’acquisizione irreversibile di elementi macchinici sottratti alla capacità valorizzante del capitale – per dirlo brutalmente, un furto continuato di elementi macchinici che arricchisce di capacità tecnica il soggetto, meglio, come si è detto che il soggetto lavorativo incorpora. Con ciò si mostra quanto il lavoro immateriale sia corporeo, della sua capacità di assorbire con rapidità e virtuosità stimoli e potenze macchiniche.
Ora, ogni riappropriazione è destituzione del comando capitalistico. Questo processo di appropriazione da parte dei lavoratori immateriali è infatti molto forte, efficace nel suo svilupparsi – esso determina crisi. Ma non si darebbe crisi se considerassimo che essa nasce spontaneamente dai processi di riappropriazione e di destituzione. Non è così. La crisi ha bisogno di uno scontro, di una realtà politica che si muova per la distruzione non più semplicemente del rapporto di sfruttamento ma della condizione forzosa che lo sostiene. In effetti quando si parla di riappropriazione da parte del soggetto antagonista, non si parla semplicemente della modificazione della qualità della forza-lavoro (che deriva dall’assorbimento di porzioni di capitale fisso), si parla essenzialmente della riappropriazione di quella cooperazione che nella ristrutturazione capitalista della produzione era stata incentivata e poi espropriata – e che rappresenta il dramma essenziale di questa fase critica. Quando si dice recupero di capitale fisso, riappropriazione – lungi dall’esprimersi in termini macchiati di economicismo – l’analisi entra piuttosto su quel terreno della cooperazione che è oggi regolato in termini biopolitici dal capitale: destituire il capitale di questa funzione significa recuperare alla forza-lavoro autonoma capacità di cooperazione. Ma poiché la società civile e la cooperazione produttiva sono oggi dominate dalle funzioni monetarie – e le funzioni monetarie fanno capo direttamente al capitale finanziario – riappropriazione di capitale fisso e destituzione del comando capitalistico sulla cooperazione ci portano immediatamente all’interno di quanto è oggi più decisivo nella struttura del comando capitalista: la sfera monetaria. Se qui si dessero significanti, sarebbero significanti che rivelano il comune. La moneta si incontra e si scontra con le caratteristiche comuni della cooperazione. E allora la resistenza, la lotta e l’autodeterminazione del soggetto lavorativo qui assumono immediatamente caratteristiche politiche, poiché si scontrano con le dimensioni finanziarie (monetarie) del controllo sociale. Il welfare è il terreno privilegiato di questo scontro.
In secondo luogo, oltre a destituire il comando sulla cooperazione e a incorporarsi parti di capitale fisso, la nuova forza-lavoro, ovvero quella classe politica antagonista, socialmente ricomposta nella cooperazione, si trova a costruire luoghi comuni. Forse li desidera, comunque vuole costruirli. Luogo comune: che cosa significa? Immediatamente, un senso di orientamento nel contesto proprio della mobilità e della flessibilità incorporate alla forza-lavoro (cooperante). E, in seconda battuta, che cosa sono dunque i luoghi comuni, meglio, gli insiemi istituzionali dentro ai quali il soggetto antagonista vuole riconoscersi? Si tratta essenzialmente di livelli strutturali dell’organizzazione dello stare insieme, spesso il contesto sociale della città, meglio della metropoli – come luogo di incontro e di costruzione comune di linguaggi e di affetti, come piena virtualità di associazioni produttive. La metropoli sta infatti diventando, sempre di più, il luogo dove la resistenza all’estrazione capitalista del plusvalore dall’attività comune ed allo sfruttamento delle singolarità moltitudinarie, è divenuta possibile – forse un luogo di desiderio. La metropoli è certo divenuta centrale nell’accumulazione capitalista perché lì, nella metropoli, l’intransitività del rapporto capitalista ha raggiunto il più alto livello di realizzazione e di espressione, e come tale va governato dal capitale. Ma d’altra parte la metropoli si è fatta eminentemente luogo di incontro e di riappropriazione proletarie. Ogni istanza di contro-potere non può prescindere da luoghi, da spazi nei quali svilupparsi, affermarsi, sostenersi. Se nel primo momento che abbiamo considerato (quello della riappropriazione di capitale fisso) la singolarità veniva nel medesimo tempo riconoscendosi nel comune – ed il comune (nel caso, l’insieme dei servizi di welfare) diveniva l’oggetto delle sue istanze di riappropriazione – se questo avviene nella metropoli, cioè a partire da moltitudini che vengono ricomponendosi e prendendo forma in luoghi comuni – lo scontro allora si definisce immediatamente come lotta di un proletariato moltitudinario contro il capitale finanziario. Qui l’azione moltitudinaria, volta a difendere, a ricostruire, ad appropriarsi del welfare, si incardina sulla riscoperta di soggettività attive, di quelle singolarità che costituiscono la moltitudine – perciò si esprime nella richiesta del diritto di cittadinanza – che è politicamente “diritto alla città”. Diritto cioè garanzia di godimento della città, di cooperazione nella città, di governo della città, di lavoro nella città. La questione del reddito garantito di ogni cittadino diviene quindi un elemento che integra questa costruzione del politico. E se la richiesta di reddito riconosce la funzione produttiva di ogni cittadino, non è tuttavia questa la cosa fondamentale: fondamentale è piuttosto che ogni singolarità (cioè ogni lavoratore ed ogni cittadino) trovi e fissi nella sua pretesa soggettiva al reddito, una domanda di potere politico adeguata alla costruzione della moltitudine. Reddito garantito e diritto alla città sono un solo obiettivo politico. Se nel primo luogo comune che abbiamo costruito, la singolarità moltitudinaria si realizzava nel comune (nel governo del welfare), qui il comune è moltitudinario e si esprime attraverso le singolarità (nel diritto soggettivo alla città, all’accesso al comune) – così si afferma la nuova maniera di far politica oggi.
Nel neoliberalismo, nello Stato consolidato della trasformazione del comando di capitale, il tessuto del comune è organizzato dalla moneta ed espropriato dalla Banca. È così che, procedendo dal basso, si propone per noi, per le nostre lotte di emancipazione sociale e di libertà, il tema Europa. Ricostruire l’orizzonte europeo significa dunque battersi per la riappropriazione del welfare e per l’ottenimento di un reddito di cittadinanza, eguale per tutti e più che decente, riconoscendo nella BCE il nemico da battere, il potere da spossessare. È qui che si da, a fronte degli attacchi dei “mercati” (quanto avvenuto nella crisi ce lo ha mostrato) un’occasione unica di spostare il discorso politico dalle condizioni asfissianti del dibattito all’interno dei singoli Paesi-nazione ad una prospettiva rivoluzionaria. Ma di più – proprio se non si può tornare indietro (e la crisi lo ha dimostrato, e la sua soluzione lo affermerà ancora più duramente) l’Europa è un’occasione rivoluzionaria. Se non si può tornare indietro, occorre andare avanti – e per andare avanti c’è una sola strada: lottare, insistendo su welfare e reddito di cittadinanza, per rifondare quell’istanza democratica del comune che ci è stata strappata via dall’attuale governance europea, egemonizzata dal neoliberalismo. Il tema Europa si pone dunque direttamente contro la Banca, riconoscendo che la lotta moltitudinaria, la lotta del proletariato sociale contro la Banca non rinnega il processo di unificazione europea ed i risultati raggiunti (fra i quali la moneta unica) ma si pone piuttosto l’obiettivo del governo della moneta, della costruzione della moneta del comune. Questa è però solo una premessa, quasi un anticipo ideologico di un’azione comunista da riprogrammare.
Di nuovo chiediamoci dunque: perché l’Europa? Perché siamo “europeisti” anche dopo che del neoliberalismo abbiamo direttamente subito la repressione feroce, l’austerità orribile e ne abbiamo fatto l’oggetto del nostro odio? E dopo aver implicitamente riconosciuto che l’Europa rappresenta nel quadro istituzionale presente, il più completo esempio di consolidamento dello Stato neoliberale? All’interno della “sinistra” molti, la maggior parte di quelli che non aderiscono alla socialdemocrazia, ora (dopo aver a lungo lottato contro il processo di unificazione europea, duramente ammaestrati dalla crisi economica e avendo appreso che indietro non si torna) – ora, dunque pensano che la sola maniera di ricostruire l’Europa preveda la riformulazione del contratto costitutivo, da parte degli Stati-nazione europei, esigono dunque che questi si ricostruiscano come soggetti sovrani della contrattazione. Si tratterebbe di ritornare (temporaneamente?) agli Stati-nazione, di restaurare una sovranità nazionale (protetta dall’Europa dentro e contro la globalizzazione?) e così di riconquistare potere sulla moneta. E poi… poi si vedrà. Il sovranismo è duro a morire e ci sono ancora socialisti disponibili, fin dal 1914, a ripetersi nel difendere la sovranità nazionale oltre ogni vergognoso limite! Subordinatamente, in maniera più pacata, si sostiene la possibilità di riaprire un rapporto – quasi contrattuale – fra i vari Stati europei, quasi sovrani, dopo che essi abbiano riconquistato una maggiore autonomia sovrana – quelli che il fiscal compact e gli altri diabolici accordi monetari hanno eliminato: insomma, di ricostruire l’Europa in due tempi. Uno, cancellazione degli accordi sulla BCE; due, ricomposizione attorno ad un accordo tipo Bretton Woods, dove a comandare sia un indipendente “Bancor” – moneta convenzionale che flessibilmente accompagni le diversità delle situazioni europee e guidi i movimenti di aggiustamento delle bilance e dei budget all’interno dei singoli paesi e fra tutti. Patetici progetti. Comunque ci riguardano solo parzialmente, come per definire uno sfondo. Per noi il problema non si risolve ritornando indietro: pensiamo infatti che l’Europa sia il contenente minimo per un’azione politica rivoluzionaria che si collochi nella globalizzazione. Lo spazio (proprio in seguito alla globalizzazione) è ritornato ad essere una dimensione politica essenziale, primaria. È solo costruendo e consolidando la forza di un ordinamento in uno spazio determinato fra soggetti che cooperano, che la legittimità (quella sovrana, certo, ma anche quella) rivoluzionaria, si afferma. Non c’è alternativa. L’Europa è questo spazio – dove il proletariato moltitudinario nel quale ci riconosciamo può insorgere, trasformando non lo spazio (anche quello, forse: ne parleranno altri) ma la struttura di potere che lo ordina. L’Europa e la moneta europea costituiscono un ambito di virtuale autonomia all’interno della mondializzazione. Senza l’Europa non vi è possibilità di governare, limitando la pressione immane dei mercati globali e dei poteri multinazionali. Europa è quella dimensione spaziale che rappresenta una possibilità di sopravvivenza politica e di azione autonoma delle moltitudini europee, a fronte della pressione delle forze sovrane, già assestate su dimensioni globali – configurantesi ormai come sezioni continentali del potere globale.
Quanto è avvenuto sulla scacchiera globale in quest’ultimo trentennio, dalla fine della guerra fredda, va fortemente sottolineato per chiarire che la proposta di una lotta che si proponga un progetto di democrazia radicale in Europa, è tutto tranne che un sogno. Se è vero, infatti, che la potenza dei mercati è immane, è altrettanto vero che il peso e i condizionamenti dell’alleanza e della subordinazione atlantica è divenuto, nella continuità, sempre più fragile e in prospettiva instabile. È dal declino della potenza americana che l’inizio del XXI secolo è stato caratterizzato – con due conseguenze maggiori. La prima è il conflitto latente fra USA e Cina – esso sta maturando ed ha una prima conseguenza che ci interessa: avere estraniato il potere americano dall’Europa e fatto registrare il forte indebolimento (da non sottovalutare) del potere americano, non solo in Europa ma sull’intera dimensione mediterranea. Gli USA non hanno mai voluto un’Europa unita, tranne come alleato durante la guerra fredda. Dopo la “caduta del muro” di Berlino hanno continuamente osteggiato l’unificazione e la Gran Bretagna ha sempre rappresentato il cavallo di Troia di questo sabotaggio. Ora la situazione è profondamente mutata e, all’indebolimento della leadership, si aggiunge per la Casa Bianca la necessità di sostenere più efficacemente gli interessi americani nel Pacifico e di costruire laggiù un fronte strategico per l’egemonia asiatica. Come si vede, la “provincializzazione di Europa” non porta solo guai! La seconda conseguenza è ben più importante: si lega allo sviluppo delle primavere arabe lungo il Mediterraneo e nel Medio Oriente (un vero 1848). Per ora sembra impossibile identificare una soluzione politica al conflitto fra moltitudini arabe e le strutture autoritarie (militari e/o plutocratiche) che le controllano e le stringono in una gabbia di miseria e ignoranza medievali. In quella situazione, la lotta di classe sta riprendendo i suoi diritti – naturalmente se di lotta di classe si parla nei termini in cui noi ne abbiamo fin qui parlato, come lotte di moltitudini di singolarità, come lotte che sono insieme di emancipazione dalla povertà e di liberazione dei soggetti. Il tema di un’Europa unita da un progetto di democrazia radicale-comunista trova nel movimento d’oltre Mediterraneo una sua base d’appoggio – anche il viceversa è da costruire.
In terzo luogo – o meglio, è questo il terzo presupposto che sta alla base del ragionamento sulla soggettività che abbiamo cominciato a sviluppare all’inizio di questo intervento (tanto tempo fa!) – si tratta di consolidare, anche noi, in istituzioni i movimenti fin qui descritti. Si tratta non solo di costruire contropoteri diffusi ma di coalizzarli per produrre potere costituente. Si tratta di ricomporre l’insieme delle forze plurali che lottano per il reddito e per la difesa/espansione del welfare, attorno ad un telos, ad una finalità comune. A noi sembra che quando si sia assistito alla lunga vicenda delle primavere arabe e delle insorgenze occupy (ed alle tragedie che stanno contrassegnando la pur indomabile – talora aperta, talora sotterranea – continuità delle prime ed al ristagno – sia pur talora potentemente riflessivo – che tocca le seconde) – bene, non si può allora non pensare – se ancora si possiede un minimo di responsabilità teorica, prima ancora che politica – alla necessità di un lavoro di costituzione di una forza che sappia – tutti insieme – affrontare il nemico. La consapevolezza di un passaggio strategico è stata probabilmente acquisita: sarà necessario costruire piattaforme che organizzino la continuità delle lotte e il loro progresso. Far divenire istituzione le lotte significa imprimere loro un telos, incorporato ad ogni momento organizzativo. Sia chiaro che dicendo questo non si intende parlare di “rifondazione” della “sinistra” (“rifondare” e “sinistra” sono state ridotte a parole di merda) né si allude a possibili rapporti con forze parlamentari della vecchia sinistra. Siamo comunisti, non abbiamo nulla a che fare con la socialdemocrazia nella quale riconosciamo una variante ideologica del dominio capitalista. Noi siamo un’altra cosa, e ci definiamo al di là del socialismo. Cominciamo dunque per ora a sviluppare in Europa coalizioni di forze in lotta, dentro l’Europa, contro la sua Costituzione e le politiche della Banca Centrale e cerchiamo di dare loro forma istituzionale. Come una volta dicevamo, nel costruire organizzazione: “chi non ha fatto inchiesta, non parla”, cominciamo a dire: “chi non ha costruito coalizione, in Europa non parli”. Questo è probabilmente un modo per far diventare tendenza, in Europa quelle forme nuove che la moltitudine insegna, di costruire ed occupare spazi liberati – perché moltitudine è moltitudine di soggettività che si ritrovano in uno spazio comune. Credo comunque che per qualificare la costruzione di coalizioni, in questa fase, sia sufficiente affermare un punto: la volontà di distruggere la proprietà privata, di dissolvere nel comune la proprietà pubblica e la sovranità che la colora, e di costruire e di gestire democraticamente il governo del comune.
Lo spazio europeo è allora, forse, un territorio privilegiato di sperimentazione moltitudinaria nella costruzione di istituzioni del comune. Lo dico con molta prudenza ma anche con molta speranza: perché è ben vero che l’Europa è stata provincializzata e che il proletariato europeo ha perduto la sua battaglia di emancipazione che per alcuni secoli aveva condotto contro l’impero neoliberale dal capitale…. e però gliene abbiamo dato tante ed abbiamo ancora la forza di dargliene.
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