di Toni Negri
Era ora che Occupy arrivasse anche in Italia. Avevamo assistito nell’estate e in autunno all’agitazione dei “centro-socialisti” che avevano ripetuto i soliti riti, chiamandosi ora “indignati”. Il 15 ottobre la stampa indipendente, riconoscendo l’innocenza dei “centro-socialisti”, si era permessa di gettare accuse di illegalità e violenza su compagni che sarebbero scesi dalle montagne. Continuando nella medesima rappresentazione, Caselli (giudice peraltro cortese) era stato spinto a verificare quelle accuse con un rastrellamento nazionale. Ma Occupy è ancora lì. Potente, nella vallata e un po’ ovunque in Italia.
Quali sono le caratteristiche principali che questa nostra Occupy ha mostrato (senza dimenticare che ha costruito queste capacità – segno dell’universalità del movimento – già prima che l’Occupy americano o gli “indignados” spagnoli e tutti gli altri nascessero)? Al nostro interesse se ne presentano tre, di queste caratteristiche.
La prima è il radicamento democratico dell’iniziativa politica. Questo radicamento maggioritario nel territorio, l’orizzontalità e il pluralismo delle forze singolari che confluiscono nel movimento, la definizione consensuale di un interesse comune che sta alla base della durata del progetto di resistenza, un’apertura mai negata al confronto ed alla discussione – bene, questi comportamenti costituiscono una formidabile forza del movimento. Esso ci mostra che il comune è anche uno spazio, l’occupazione di un luogo non solo come fondamento per la partecipazione democratica ma anche come occasione di rapporto fra i corpi, di costruzione consensuale di esperienze e di obiettivi, di condivisione di valori e di verità.
La seconda caratteristica sta nel rifiuto della rappresentanza politica. Questo rifiuto discende direttamente da quanto detto qui sopra, meglio, dall’intensità e dalla qualità dei processi di partecipazione democratica. Vi sono rappresentanti eletti nella vallata che hanno riguadagnato legittimità attraverso la partecipazione. È la partecipazione al movimento il fondamento di legittimità di ogni istituzione del comune. Anche questo fa parte di quegli aspetti universali che Occupy propone. Ora, questo rifiuto è, evidentemente, innanzitutto destituente della rappresentanza politica in quanto detentrice di sapere (expertise), di potere (decisionale) e di sovranità (monopolio legittimo della violenza). Ma questo rifiuto è anche costituente, in quanto produttore di un nuovo sapere (nella fattispecie, l’equilibrio fra fattori di vita e di produzione nel territorio e i capisaldi della sua storia e della sua riproduzione), di un nuovo modello di decisione (non solo partecipato ma virtuosamente costruttivo, affettivo, solidale), di un nuovo esercizio della resistenza – un’attività adeguata/commisurata al fine da perseguire contro l’idiota, eccezionale armamentario della repressione. Il filosofo direbbe “immanenza contro trascendenza”; il politico, “democrazia contro potere reazionario”; il moralista, “autonomia contro totalitarismo”. E’ attraversando queste esperienze che il legame con l’Europa sarà costruito, in maniera molto più efficace, certo, che attraverso un nuovo buco alpino che puzza di amianto e di rendite finanziarie – perché in Europa, e non solo, ovunque il movimento Occupy sta costruendosi alla ricerca di nuovi modelli democratici di accesso al comune, di partecipazione democratica e di gestione politica autonoma. Il federalismo non è questo?
Terzo punto (ma ce ne sarebbero tanti altri sui quali poter intervenire e sui quali incitiamo la discussione): perché tanta ferocia poliziesca e repressiva, fin dalle prime fasi dello scontro; perché tanta perseveranza “tecnica” nel consolidare dispositivi speculativi e dissipativi del denaro pubblico; perché, ora, addirittura il tentativo di “monetizzare” la nocività dell’intrapresa e di nascondere con il denaro la mala parata? Forse in ballo c’è qualcosa di troppo importante, un elemento simbolico primario, la capacità di far passare come “tecnica” un’operazione nata come speculativa, per imporre come necessario al bene della nazione o addirittura alla costruzione dell’Europa (e chi più ne ha più ne metta) una decisione stolta capitalistica. Bisogna difendere un principio, il principio della detenzione capitalistica del sapere: la tecnica è capitalistica. Ebbene, no. Il sapere delle popolazioni della valle è più saggio del sapere dei tecnici e questa volta lo è davvero. Ma è questo che non deve apparire, anche in una situazione in cui tutto ormai lo dice. Se non passa questa grande opera, potrebbero non passarne altre. Dopo la politica prodiana, dopo quella berlusconiana, anche la “tecnica” dei tecnici si squaglierebbe. Per il governo, per il partito di Berlusconi e per quello di Repubblica (a proposito, a quando le dichiarazioni dei redditi della casta giornalistica?) e per tanti altri gazzettieri televisivi, vincere in Val di Susa è tanto importante quanto mettere nella testa di tutti che la tecnica (dei tecnici, cioè banchieri) è il vero sapere.
Qualsiasi persona calma e tranquilla che non viva nel ricordo ossessivo degli anni ’70 come certi nostri dirigenti sembrano vivere, sa che trattare è possibile ed evitare radicalizzazioni inopportune e pericolose è utile. Ma per farlo bisogna che la politica in Italia rinasca e non può rinascere che dalla presa di parola di coloro che, resistendo, aprono a tutti la speranza di una nuova partecipazione democratica. Riunificare tutte le resistenze, portare la Valle in Italia dopo che governi corrotti e governi tecnici hanno voluto invadere la Valle, è ora essenziale. Discutiamo, discutiamo, discutiamo… e il nostro amato presidente che per vizio antico non ama discutere ed infierisce sulla piaga, ricordi che Budapest e Praga sono lontane molti secoli, che chi vuole rinnovarne i fasti non è solo vecchio ma bacucco e che la democrazia vive oggi nei corpi dei giovani.