Nuovi arresti in Val Susa!

Ieri 24 agosto, durante l’ennesima giornata di lotta e resistenza in cui il
movimento NO TAV ha ribadito la sua ferma opposizione ai tentativi di
repressione e scempio dei territori, è stato arrestato Giorgio, un nostro compagno, che come molti/e da tutta Italia, sta partecipando alle mobilitazioni in sostegno alla popolazione della Val Susa.

Le modalità di repressione da parte delle forze di occupazione sono state le
stesse a cui ci hanno abituato in questi ultimi mesi, e cioè, il lancio di
lacrimogeni ad altezza uomo, idranti, fermi e fogli di via agli attivisti
che continuano a ribadire il proprio diritto alla resistenza.
In questo scenario è per noi palese l’ultimo stadio di una governance che
ribadisce il proprio potere nelle sole modalità repressive, scontrandosi con una realtà sociale che ormai non è più disposta a fare passi indietro. Esprimiamo in questo comunicato la totale vicinanza e partecipazione alla lotta no tav e in particolare al nostro compagno Giorgio.
 Giorgione LIBERO!

le compagne e i compagni del Laboratorio ACROBAX – Roma

www.indipendenti.eu

Renoize_05 *3 settembre 2011

5 anni. Questo il numero che sigla la distanza temporale e formale dall’assassinio di Renato. La morte di Renato è un frutto avvelenato, un germoglio cresciuto nelle strade della nostra città e raccolto da due ragazzi, oggi grandicelli, che con colpevole stupidità e con dieci coltellate hanno colpito la vita di renato. Ma il seme da cui tutto questo è stato generato è stato piantato da una cultura ben precisa che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, si chiama fascismo. E chi ha annaffiato tutto questo sono state, e sono tutt’ora, le organizzazioni neofasciste che della sopraffazione, della violenza e dell’odio per le diversità fanno il baricentro della loro politica. I due assassini hanno una responsabilità personale, le organizzazioni neofasciste e le istituzioni che le tollerano e le supportano hanno una responsabilità politica. Ma 5 anni sono stati anche colmi di iniziative, di azioni e di relazioni; noi, compagni/e ed amici e amiche di Renato, in tutta Roma e anche nel resto di Italia, abbiamo provato a coltivare i sogni di Renato, le sue passioni e le sue idee. Per questo, anche quest’anno, vogliamo organizzare un appuntamento pubblico, Renoize 2011, per il 3 Settembre, dove far suonare musica, dove poter pronunciare parole e guardare immagini e video. Tutto per poter raccontare la verità sull’aggressione di Renato che, come altre, troppe, negli ultimi anni raccontano un paese fatto di ingiustizie e soprusi. Ma vogliamo anche raccontare la giustizia e la libertà che Renato, insieme a noi, costruisce quotidianamente. Per noi 5 anni sono nulla, sono un soffio, perchè nella nostra mano stringiamo forte quella di Renato che continua ad essere con noi giorno dopo giorno.

Con rabbia e con amore.

Una mattina, cinque anni fa: comunicati e articoli di giornale

————————- PROGRAMMA DELLA SERATA ————————–

– NIRJA

– ROCK MCS
(http://www.myspace.com/rmcs)

– MANDRILLOS
(http://www.myspace.com/mandrillos)

– READING RESISTENTE

– VIA DELLE FATE 22
(http://www.myspace.com/viadellefate22)

– RANCORE
(http://www.myspace.com/rancoreband)

– SIGNOR K
(http://www.myspace.com/ilsignork)

– ADRIANO BONO (http://www.myspace.com/adrianobono)
& TORPEDO SOUND MACHINE (http://www.myspace.com/torpedoweb)

featuring

GINKO (http://www.myspace.com/ginkovap)

MANLIO (http://www.myspace.com/manlio1987)

KONTRAMINA (http://www.myspace.com/lakontramina)

BARACCA CREW (http://www.myspace.com/baraccasound)

Parco Schuster (Metro B – San Paolo) INGRESSO GRATUITO

 

L’anno scorso… Renoize 2010

Al Parco Schuster Renoize 2010 per ricordare Renato Biagetti (guarda il video)

Le scimmie combattenti per una Roma meticcia

«Daje forte Renato, spezza le lame», il grande murales su via Ostiense ci accoglie mentre arriviamo a Parco Schuster per ricordare Renato Biagetti, nel quarto anno dal suo assassinio. Siamo in più di duemila al Renoize 2010, insieme a Dario, il fratello e Stefania, la mamma, che sale sul palco per aprire la serata e ci commuove dicendo: «Non bisogna indietreggiare, bisogna credere e andare vanti. Io vi guardo in faccia e vado avanti e vi amo moltissimo». Sono passati 4 anni da quella notte a Focene. Era l’ultimo week end di agosto. Renato usciva da una dance hall reggae sulla spiaggia insieme alla sua fidanzata e a un amico. Da una macchina scendono due ragazzi con le lame in mano urlando: «Ve ne dovete andare a casa vostra». Renato prende 10 coltellate e passa dalla festa alla morte all’età di ventisei anni. L’assassino ha diciannove anni. Si chiama Vittorio Emiliani. Figlio di un carabiniere della stazione di Ostia. Una celtica tatuata sul braccio. Uccide un ragazzo che neanche conosce perché nella sua testa, immigrati, rom, gay, gente di sinistra, diversi, sono tutta una razza inferiore e per cui dare un pugno o una coltellata è lo stesso. Al processo patteggia l’accusa per omicidio volontario e prende 15 anni di galera. Confermati in cassazione. «Dobbiamo continuare a credere», dice la mamma, e Renato credeva nella vita, nella musica, nella lotta per la difesa dei più deboli. Un video con le sue foto viene proiettato a fianco del palco. A mezzanotte è il momento del concerto degli Assalti Frontali, mi metto la maglietta della serata: «Renoize – combat ape». Scimmia combattente. «Quello di chiamarci scimmie era il nostro gioco mentre costruivamo la sala prove dedicata a Renato che oggi sarebbe qui con noi», mi dice Valerio di Acrobax, «nell’anno successivo all’omicidio abbiamo raccolto soldi grazie a tutti i gruppi che ci hanno aiutato, e ora siamo Combat ape – Naturally against fascism». Dal palco cantiamo « Giù le lame e Roma meticcia e lanciamo un messaggio di solidarietà ai rom, che sono l’anello più debole in tutte le società. Anche Stefania, la mamma di Renato, oggi dal suo facebook, invita a partecipare alla manifestazione di sabato a piazza Farnese alle 14.30 sotto l’ambasciata francese. Contro la politica di Sarkozy e contro il piano nomadi di Alemanno che non ha salvato la vita di Marius, morto bruciato a 3 anni nella sua baracca alla periferia di Roma. Con rabbia e con amore, ciao Renà.

di Militant A, voce di Assalti Frontali, per il Manifesto

Guarda i video:

Ill nano e Willy Valanga

http://www.youtube.com/watch?v=-j84HYqtRFg

Assalti Frontali – Mappe della libertà

http://www.youtube.com/watch?v=w7Ts7kkViZc

 

Taxi de brousse

http://www.youtube.com/watch?v=1_NaTmMBCdU

Il Danno

http://www.youtube.com/watch?v=TASaP-cqb-o

 

Con i Riots la storia volta pagina!

Causati anche dall’esproprio di ricchezza verso banche e enti sovranazionali, i riots inglesi segnano il limite delle democrazie liberali, qualcosa di simile al passaggio storico dal Medioevo alla modernità: che cosa resterà in piedi?

Non si sottrae alle domande. Precisa più volte il suo pensiero. Anche se vive divisa tra New York e Londra, legge attentamente i giornali per capire cosa sta accadendo nella vecchia Europa, dove ha avuto la sua educazione sentimentale alle scienze sociali, prima di spostarsi in America Latina e successivamente negli Stati Uniti. Saskia Sassen è nota per il suo libro sulle Città globali (Utet), anche se i suoi ultimi libri su Territori, autorità, diritti (Bruno Mondatori) e Sociologia della globalizzazione (Einaudi) ne hanno fatto una delle più acute studiose su come stia cambiando i rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giuridico sotto l’incalzare di una globalizzazione economica che sta mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Per Saskia Sassen, il capitalismo non può che essere globale. E per questo ha bisogno di istituzioni politiche e organismi internazionali che garantiscono la libera circolazione dei capitali e le condizioni del suo regime di accumulazione della ricchezza. Per questo ha sempre guardato con sospetto le posizioni di chi considerava finito lo stato-nazione. Come ha più volte sottolineato, lo stato-nazione non scompare, ma cambia le sue forme istituzionali affinché la globalizzazione prosegua, industriata, il suo corso. E allo stesso tempo ha sempre sottolineato come le disuguaglianze sociali siano immanenti al capitalismo contemporaneo. Ma l’intervista prende avvio dalle rivolte inglesi, a cui ha dedicato un articolo, scritto con Richard Sennet, e apparso sul New York Times. Articolo nel quale, fatto abbastanza inusuale per gli Stati Uniti, i due studiosi pongono la centralità della «questione sociale» per comprendere cosa stia accadendo nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.
La rivolta come reazione violenta alla disoccupazione; oppure come effetto del perverso fascino che esercitano le merci. Sono le due spiegazioni dominanti sulle sommosse che hanno investito Londra e altre città inglese. Qual è, invece, il suo punto di vista?
In ogni sommossa c’è uno specifico insieme di elementi che consentono allo scontento generale di convergere e prendere forma nelle azioni di strada. In Gran Bretagna ci sono tre grandi componenti che hanno provocato la rivolta a Londra, Birmingham, Liverpool, Manchester e altra città del Regno unito.
La prima componente è la strada, cioè lo spazio privilegiato da chi non ha accesso ai consolidati e codificati strumenti politici per la propria azione politica. Nelle rivolte inglesi è emersa una forte ostilità verso la polizia, incendi, distruzione della proprietà privata. Ad essere colpiti sono stati negozi o edifici gestiti, abitati da persone che vivono la stessa condizione sociale dei rivoltosi.
Il secondo elemento che ha funzionato come detonatore è la situazione economica, che vede la perdita del lavoro, di reddito, la riduzione dei servizi sociali per una parte rilevante della popolazione. Per me questo aspetto ha influito molto di più nello scatenare la rivolta più che l’uccisione di un giovane uomo di colore da parte della polizia. La disoccupazione giovanile è, nel Regno Unito, al 19 per cento. Una percentuale che raddoppia in alcune aree urbane, come quella del quartiere dove viveva il giovane ucciso..
Il terzo fattore sono i social media, che possono diventare uno strumento davvero efficace per far crescere una mobilitazione. E in Inghilterra c’è stata una successione davvero interessante nell’uso dei social media. Inizialmente Twitter e Facebook sono stati usati per informare su ciò che stava accadendo e per invitare la popolazione a scendere nelle strade. Ma la seconda notte, la parte del leone l’hanno fatta gli smartphone Blackberry, perché usano un servizio di messaggistica che non può essere intercettato dalle forze di polizia. La grande capacità dei social media di funzionare come strumento di coordinamento della rivolta è data dal fatto che la successione degli scontri appare come scandita da un preciso piano. I focolai della rivolta sono stati più di trenta, quasi che tutto sia stato pianificato e coordinato, appunto, con i social media..
Uno solo di questi fattori non spiegherebbe quattro notti di scontri, incendi, saccheggi. Presi insieme, ogni fattore ha alimentato l’altro. Inoltre, sono convinta che se usciamo da una espressione asettica come disagio sociale il disagio sociale ci troviamo di fronte a storie dove il dolore, la collera delle proprio condizioni di vita non cancellano la speranza per un futuro diverso. Queste sommosse rendono evidente una questione sociale che non può essere affrontata, come ha fatto David Cameron, come un fatto criminale.
Londra è una delle città globali da lei studiata. Una metropoli che vede una stratificazione sociale molto articolata. Città globale vuol dire povertà, precarietà nei rapporti di lavoro. Inoltre la crisi economica sta provando un impoverimento che non risparmia nessuno dei gruppi e classi sociali della popolazione, eccetto solo per quei top professional che non sanno bene cosa significa la parola crisi. Non potremmo dire che le rivolte inglese sono figlie del neoliberismo?
In tutte le città globali la povertà è una costante. Inoltre, ho spesso scritto che le dinamiche economiche, sociali e politiche insite nella globalizzazione hanno come esito una crescita di lavori sottopagati e dei cosiddetti working poors, i lavoratori poveri. Ci troviamo di fronte a una situazione dove il passaggio dalla disoccupazione a lavori sottopagati e dequalificati è continuo. Uno degli aspetti, invece, meno indagati delle global cities, e su cui sto lavorando all’interno del progetto di ricerca The Global Street, Beyond the Piazza, è il ruolo sempre più rilevante assunto dalla cosiddetta cultura di strada nel condizionare le forme di azione politica tanto a Nord che a Sud del pianeta.
I conflitti di strada sono parte integrante della storia moderna, ma erano sempre complementari alle forme politiche consolidate. Recentemente, invece, hanno assunto un ruolo più rilevante, perché l’occupazione dello spazio è espressione del potere dei movimenti sociali. Le sollevazioni dei popoli arabi, le proteste nella maggiori città cinesi, le manifestazioni in America Latina, le mobilitazioni dei poveri in altri paesi, le lotte urbane negli Stati Uniti contro la gentrification o le rivolte americane contro la brutalità della polizia sono tutti esempi di come la strada sia il veicolo del cambiamento sociale e politico.. Ma se questo appartiene al recente passato, possiamo citare anche le recenti mobilitazioni a Tel Aviv. In Europa parlate degli indignados, riferendovi alla Spagna. Ma tanto a Madrid che Tel Aviv abbiamo assistito a vere e proprie occupazioni delle piazze che sono durate giorni, settimane, sperimentando forme di organizzazioni e di decisione politica distanti da quelle dominanti nelle società. Quello che voglio sottolineare è che ci troviamo di fronte a forme di protesta che coinvolgono una composizione sociale eterogenea, dove ci sono disoccupati, ma anche lavoratori manuali di imprese che hanno conosciuto processi di downsizing e delocalizzazione, colletti bianchi, ceto medio impoverito. E sono forme di protesta che nascono e si consolidano al di fuori degli attori politici tradizionali (partiti, sindacati). Gli indignados di Madrid chiedono certo lavoro, servizi sociali, ma anche una profonda trasformazione del rapporto tra governo e governati. La piazza, la strada non sono dunque solo il luogo dove si avanzano rivendicazioni, ma anche lo spazio per rendere manifesto il potere dei movimenti sociali.
La crisi del neoliberismo ha caratteristiche drammatiche. Alcuni paesi hanno dichiarato bancarotta, altri sono arrivati sul punto di fallire (la Grecia); altri sono diventati sorvegliati speciali della Banca centrale europea che di fatto ha sospeso la loro sovranità nazionale. E le proposte per uscire alla crisi è un insieme di misure di politica economica e sociale che potremmo definire di liberismo radicale. Lei che ne pensa?
Nel mio lavoro di ricercatrice ho difficoltà ad usare il concetto di crisi per spiegare cosa sta accadendo in molti paesi, dagli Stati Uniti all’Europa. Ci troviamo in una situazione inedita, sotto molto aspetti. Ci sono certo paesi in forte difficoltà economica; altri però hanno tassi di crescita e di sviluppo impressionanti. Detto più semplicemente, stiamo assistendo a un imponente spostamento della ricchezza da una parte della società verso un’altra. E questo coinvolge le risorse finanziarie dello stato, del piccolo risparmio, delle piccole attività imprenditoriali. Una sorta di concentrazione della ricchezza nelle mani di una esiga e tuttavia ricchissima minoranza. E tutto ciò senza che tale concentrazione della ricchezza possa essere recuperata attraverso il sistema della tassazione. È questo il dramma che stanno vivendo alcuni paesi.
Non ci troviamo cioè di fronte a una realtà oscura, difficile da comprendere o ala risultato di una cospirazione o di un fenomeno che per interpretare serve la cabala. La tragedia che ci troviamo a fronteggiare è che questa situazione è l’esito non di un evento naturale, ma di un processo politico dove il potere esecutivo, anche quando composto da persone oneste e integerrime, ha favorito, con leggi e decisioni, la concentrazione e l’espropriazione della ricchezza da parte di una minoranza. La Citibank negli Stati Uniti è stata salvata dal fallimento dal governo con 7 miliardi di dollari. Soldi provenienti dal prelievo fiscale, che negli Usa è molto generoso verso i ricchi. Dunque è stata salvato con i soldi della working class e del ceto medio. Se ci spostiamo in Europa, la pemier tedesca Angela Merkel ha deciso di spostare una parte delle finanza statale per salvare alcune banche. In altri termini è lo stato, o alcuni organismi sopranazionali, che hanno favorito questo spostamento della ricchezza nelle mani di banche, imprese finanziarie. L’Unione europea è sì intervenuta per salvare la Grecia, ma solo perché il suo fallimento avrebbe messo in ginocchio banche e imprese finanziarie, che hanno fatto profitti attraverso il meccanismo del cosiddetto «debito sovrano». Non so se per queste imprese sia corretto parlare di crisi. Godono, tutto sommato, buona salute, visto che il potere esecutivo corre sempre in loro soccorso. Il risultato è l’impoverimento di buona parte della popolazione, che vede tagliati i servizi sociali e le pensioni.
Tutto ciò mostra i profondi limiti delle democrazie liberali. Siamo cioè di fronte a un profondo cambiamento nei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E tra questi e l’economia. Qualcosa di simile, nella sua profondità, è accaduto nel passaggio dal Medioevo alla modernità, quando si formarono gli stati nazionali e furono gettate le basi dello stato moderno. Quello che serve è una adeguata prospettiva storica per analizzare la realtà contemporanea. Nel libro Territori, autorità, diritti sottolineo le analogie tra quel passaggio d’epoca e la situazione attuale. Oggi, come allora, è la forma stato che viene investita da un terremoto. Capire cosa resterà in piedi, e cosa diverrà macerie serve anche a intervenire politicamente affinché tale espropriazione di ricchezza possa essere fermata.

da Il Manifesto del 17 agosto 2011
Intervista di Benedetto Vecchi a Saskia Sassen

Il comune in rivolta!

 

di JUDITH REVEL e TONI NEGRI

Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.

Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:

1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche. La dittatura politica dei vari Ben Ali e quella politico-economica delle nostre democrazie di facciata non saranno certo equivalenti – anche se le seconde hanno per decenni accuratamente costruito, appoggiato e protetto le prime – ma ormai la voglia di democrazia radicale è ovunque e traccia un comune di lotta a partire da fronti diversi, permette intrecci e mescolanze, ibrida le rivendicazioni dagli uni con quelle degli altri;

2) dove le medesime forze sociali, che soffrono della crisi in società con rapporti di classe ormai decisamente controllati da regimi finanziari in economie miste, manifatturiere e/o cognitive, si muovono su terreni diversi con pari determinazione (i movimenti degli operai, degli studenti, e dei precari in genere, prima; ed ora movimento sociali complessi del tipo “acampados”);

3) dove la ripresa di movimenti di puro rifiuto, attraversati da composizioni sociali quanto mai complesse, stratificate sia verticalmente (classi medie che precipitano verso il proletariato dell’esclusione), sia orizzontalmente (nelle diverse sezioni della metropoli, fra gentrificazione e zone ormai “brasilianizzate” – come ricorda la Sassen –, dove cioè i rapporti fra gang cominciano a lasciare segni di kalashnikov sulle pareti dei quartieri, perché l’unica – drammatica, entropica – alternativa all’organizzazione delle lotte è quella della criminalità organizzata).

Le attuali rivolte inglesi appartengono a questa terza specie ed assomigliano molto a quelle che hanno attraversato qualche tempo fa le banlieues francesi: misto di rabbia e di disperazione, di frammenti di auto-organizzazione e di spezzoni di sedimentazione di altro tipo (gruppi di quartiere, solidarietà di rete, tifoserie ecc.), esprimono ormai l’insopportabilità di una vita ridotta a macerie. Le macerie che le rivolte lasciano dietro a se stesse, senz’altro inquietanti, non sono alla fine così diverse da quelle che costituiscono il quotidiano di molti uomini e donne oggi: brandelli di vita ad ogni modo.

Come aprire la discussione su questo complesso di fenomeni dal punto di vista di un pensiero del comune? Quanto verremo qui di seguito formulando, ha la sola intenzione di aprire uno spazio di dibattito.

Innanzitutto, ci sembra si tratti di respingere alcune interpretazioni che i mezzi di comunicazione delle classi dominanti veicolano.

Si sostiene in primo luogo, che si tratta di movimenti (questi di cui parlavamo) da considerare, dal punto di vista politico, nella loro “radicale” diversità. Ora, che questi movimenti siano politicamente diversi è ovvio. Ma che lo siano “radicalmente” è semplicemente idiota. Tutti questi movimenti sono, infatti, radicalmente qualificati non semplicemente – a secondo dei casi – dall’opposizione a Ben Ali o ad altri dittatori, non dalla denuncia del tradimento politico di Zapatero o di Papandreou, non dall’odio nei confronti di Cameron o dal rifiuti dei diktat della BCE – ma piuttosto, tutti insieme, dal rifiuto di pagare le conseguenze dell’economia e della crisi (niente sarebbe più errato che considerare la crisi come catastrofe accaduta all’interno di un sistema economico sano; niente di più terribile del rimpianto per l’economia capitalistica prima della crisi), cioè dell’enorme spostamento di ricchezza che queste stanno provocando a favore dei potenti, organizzati nelle forme politiche dei regimi occidentali (democratici o dittatoriali, conservatori o riformisti…).

Queste sono rivolte che nascono in Egitto o in Spagna o in Inghilterra, dal rifiuto allo stesso tempo, dell’assoggettamento, dello sfruttamento e del saccheggio che l’economia ha predisposto sua vita di intere popolazioni del mondo, e delle forme politiche nelle quali la crisi di questa appropriazione biopolitica è stata gestita. E questo vale anche per tutti i regimi cosiddetti “democratici”. Questa forma di governo non sembra preferibile, se non per l’apparente “civiltà” con la quale maschera l’attacco sferrato alla dignità e all’umanità delle esistenze che frantuma: la dissoluzione dei rapporti di rappresentanza ha raggiunto misure rovinose. Quando si afferma che esistono – secondo i criteri della democrazia occidentale – differenze radicali fra la rappresentanza nella Tunisia di Ben Ali o nella Tottenham, o nella Brixton di Cameron, si finge semplicemente di non vedere l’evidenza: la vita è stata troppo compressa e saccheggiata per non esplodere in un moto di rivolta. Per non parlare dei dispositivi di repressione, che riportano l’Inghilterra ai tempi dell’accumulazione originaria, alle prigioni di Moll Flanders o alle fabbriche di Oliver Twist. All’affissione delle foto dei ragazzi rivoltosi sui muri e sugli schermi delle città inglesi, andrebbe davvero opposta la stampa grand format delle facce da maiali (altra variante dei PIGS?) dei padroni delle banche e delle finanziarie che hanno condotto interi quartieri a quella condizione, e che continuano a fare della crisi occasione di profitto.

Torniamo alla vulgata dei giornali. Diverse sarebbero queste rivolte, poi, dal punto di vista etico-politico. Alcune legittime, come nei paesi del Maghreb, perché la corruzione dei regimi dittatoriali avrebbe condotto a condizioni di miseria; comprensibili quelle degli studenti italiani o degli “indignados” perché “precarietà è brutto”; criminali quelle dei proletari inglesi o francesi, semplici movimenti di appropriazione di quello che non è loro, di vandalismo, e di odio razziale.

Tutto ciò è in gran parte falso, perché queste rivolte tendono – fra le diversità, che non si tratta qui di negare – ad avere natura comune. Non sono rivolte “giovanili”, ma rivolte che interpretano condizioni sociali e politiche considerate del tutto insopportabili da strati di popolazione sempre più maggioritari. La degradazione del salario lavorativo e di quello sociale è andata oltre quel limite che gli economisti classici e Marx identificavano nel livello di riproduzione dei lavoratori e chiamavano “salario necessario”. Ed ora, che i giornalisti dichiarino che queste lotte sono prodotte da derive del consumismo, se osano!

Ne viene una prima conclusione. Questi movimenti possono essere “ricompositivi”. Essi penetrano in effetti le popolazioni – che si tratti di lavoratori finora garantiti o di precari, di disoccupati o di chi non ha mai conosciuto altro che “attività”, arte di arrangiarsi, lavoretti sommersi – e ne esaltano i momenti di solidarietà nella lotta contro la miseria. Nella povertà e nella lotta per reagirvi si ricongiungono ceti medi declassati e proletariato migrante e non, lavoratori manuali e cognitivi, pensionati, casalinghe e giovani. Qui si ritrovano condizioni di lotta unitaria.

In secondo luogo, salta immediatamente agli occhi (ed è questo che soprattutto inorridisce gli interlocutori che pretendono vedere caratteristiche consumistiche in questi movimenti) che questi non sono movimenti caotico-nichilisti, che non si tratta di bruciare per bruciare,  che non si vuole decretare la potenza distruttiva di un no future inedito. Quarant’anni ormai dopo il movimento punk (che fu peraltro, alla faccia degli stereotipi, appassionatamente produttivo), non sono movimenti che decretano, avendola registrata e introiettata, la fine di ogni futuro ma che al contrario vogliono costruirlo. Essi sanno che la crisi che li tocca non è dovuta al fatto che i proletari non producono (sotto padrone o nelle condizioni generali della cooperazione sociale che ormai innerva i processi di captazione del valore), o non producono abbastanza, ma al fatto che sono derubati del frutto della loro produttività; che cioè essi devono pagare una crisi che non è la loro; che i sistemi di sanità, di pensionamento, di ordine pubblico, se li sono già pagati mentre la borghesia accumulava per le guerre ed espropriava per il suo proprio profitto. Ma soprattutto sanno che dalla crisi non si uscirà se loro, i rivoltosi, non mettono le mani nei meccanismi di potere e nei rapporti sociali che quei meccanismi regolano. Ma, si obbietterà, quei movimenti non sono politici. Quand’anche esprimessero posizioni politicamente corrette (come spesso è avvenuto per gli insorti nord-africani o per gli indignados spagnoli) – aggiungono i critici – quei movimenti si pongono pregiudizialmente fuori o in posizione critica dell’ordine democratico.

Per forza, ci sembra di poter aggiungere: nell’ordine politico attuale, è difficile, se non impossibile, trovare fori, passaggi, percorsi attraverso i quali un progetto che attacchi le attuali politiche di superamento della crisi, possa darsi. Destra e sinistra, quasi sempre, si equivalgono. La patrimoniale riguarda i redditi da 40/50 mila euro per gli uni, quella di 60/70 mila euro per gli altri: sarebbe quella la differenza? La difesa della proprietà privata, l’estensione delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni sono all’ordine del giorno di ciascuna parte. Il sistema elettorale è ormai puramente e semplicemente ridotto a sistema di selezione di delegati dei ceti privilegiati. Ecc, ecc. I movimenti attaccano tutto questo: sono politici o no quando lo fanno? I movimenti sono politici perché si pongono su un terreno non rivendicativo ma costituente. Attaccano la proprietà privata perché la conoscono come forma della loro oppressione ed insistono piuttosto sulla costituzione e la gestione della solidarietà, del Welfare, dell’educazione – insomma, del comune, perché ormai è questo l’orizzonte di vita dei vecchi e dei nuovi poveri.

Naturalmente nessuno è tanto stupido da pensare che queste rivolte producano immediatamente nuove forme di governo. Ciò che tuttavia queste rivolte insegnano è che “ l’uno si è diviso in due”, che la compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo è ormai solo una vecchia fantasmagoria – che non c’è modo di riunificarla, che il capitale è definitivamente schizofrenico, e che la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente dentro questa rottura.

Noi speriamo che i compagni che ritenevano le insurrezioni un vecchio arnese delle politiche dell’autonomia sappiano riflettere su quanto sta avvenendo. Non è sfiancandosi nell’attesa di scadenze parlamentari, ma inventando nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, che tutti insieme potremo comprendere l’a-venire.

da www.uninomade.org

 

Appunti per un’utopia concreta!

di Rafael Di Maio

L’indipendenza, tra sovranità politica, emergenza sociale e stato di eccezione.

La vita politica in Italia scorre nella crisi di sistema, insieme globale e locale, economica e culturale. Si moltiplicano e si addensano le contraddizioni sociali mentre le disuguaglianze e le nuove precarietà si riproducono in seno alle vite di milioni di persone, tra vecchi e giovani senza futuro, in una latente e dormiente guerra civile non dichiarata. In questo complesso tornante della storia, in questa fase di permanente eccezionalità, le decisioni e le scelte politiche che si producono non possono e non devono essere dettate esclusivamente dal freddo calcolo della tattica, distorcendo a proprio comodo il tempo e lo spazio.

Lo scenario politico che attraversiamo si ricombina su tutti i piani, quello economico, sociale e culturale. La crisi verticale del sistema finanziario, pubblico e privato, rappresenta la cornice di trasformazione epocale e strutturale e il nuovo paradigma di costituzione – narrazione – del potere. Una crisi che travolge il modello neoliberista che decade inesorabilmente verso il baratro, insieme ai suoi principi di sviluppo e di progresso. Siamo di fronte all’ultima crisi del fordismo e dell’industrialismo e alla prima grande crisi dell’economia della conoscenza. E’ una crisi di transizione – come nel 600’ agli albori della modernità dove la transizione si dava dal feudalesimo dei locali ed arbitrari centri di potere, alla statuale e moderna forma del potere governamentale, alla reductio ad unum della forma moderna dello Stato.

Oggi viviamo nella nuova transizione, quella dall’immagine del mondo moderno ed industriale alla forma contemporanea dell’economia immateriale e della conoscenza. Viviamo come il resto del pianeta in questa lunga fase di declino e crisi sistemica dell’opzione neoliberista, ma politicamente in una condizione particolare, specifica, locale. Quello italiano rappresenta il quadro politico d’insieme più inquietante nel territorio europeo: prevalentemente dominato dalle destre populiste, dal crollo delle sinistre istituzionali e da un governo conservatore e autoritario. Del resto è una consuetudine di alcuni paesi europei quella di istituire in risposta alla crisi economica un’opzione politica e di governo prevalentemente conservatrice e reazionaria, così fu in Italia, Spagna e Germania, negli anni trenta durante la grande depressione. Sovrano fu, chi decise sullo stato di eccezione. Ieri come oggi, eccezione e sovranità determinano lo spazio politico, irrigimentano con la paura lo spazio comune, la città e la sua vita sociale. Ieri come oggi, eccezione e sovranità costituiscono lo spazio urbano e metropolitano, ne compenetrano la sintesi istituzionale. Non a caso la poleis deriva dalla stessa radice etimologica dei due termini, politica e polizia, qui leggi, sovranità ed eccezione. La politica si afferma come polizia della città, nel controllo dei corpi e delle relazioni produttive che nella polis nascono e si riproducono. Il governo sull’eccezione è la forma pura del potere politico e nel contempo è l’esaltazione della beffa alla democrazia, maschera scomposta del sovrano e dei suoi sudditi. Sarebbe legittimo ora domandarsi, cosa ci sorprende ancora nella politica? Se il problema fosse solo il governo Berlusconi, saremmo dei pazzi a non aver ancora tentato di buttarlo giù in ogni modo! Ma appunto, per sostituirlo con chi? Con quali rapporti di forza e dentro quali assetti costituzionali? Se questa è una crisi di sistema, perché lo è? E’ una crisi che nasce solo da qualche speculazione finanziaria? O è forse l’intero sistema capitalistico ad essere ormai insostenibile e sempre più parassitario, intossicato, nocivo?

Nelle più “prestigiose” università, dove in passato si è studiato e ricercato molto per sostenere e poi esportare l’ideologia “mercatista” e neoliberista, oggi addirittura  sono attivi corsi, dottorandi e lectures  in nome del post-capitalismo. Cioè lo stesso sistema capitalistico occidentale si assume ormai come frontiera degli assetti di potere, decadenti, da ripensare, da reinventare. uello italiano infaqueE’ finita la mediazione politica insieme al modello sociale europeo e il suo processo welfaristico. Il patto, quello che era il “new deal” è diventata una vecchia mutanda. E’ terminata l’intima relazione tra conflitto sociale, relazioni sindacali e sintesi politica, insieme, alla rete di protezione sociale dello Stato moderno. E’ finita la stagione dove la stessa produzione industriale necessitava della politica come contrattazione: degli alti salari, della piena occupazione e della rete di welfare. Finisce anche l’idea stessa della mediazione e del dialogo sociale. Semplicemente, la coesione non è più necessaria. E ce ne stiamo accorgendo risalendo la mappa della crisi o meglio delle crisi industriali, delle vertenze e delle sofferenze del mondo del lavoro, l’unica vera controparte sono i reparti celere. L’unico nuovo welfare previsto dalla governance è la polizia. Lungi dall’essere stata una fase pre-rivoluzionaria, in ogni modo, la stagione del welfare state viene archiviata dai guardiani della globalizzazione in nome della stessa crisi di cui ci stiamo preoccupando.

Dobbiamo necessariamente ridefinire lo spazio politico, saper andare oltre, gettare lo sguardo verso un orizzonte comune. Bisogna lavorare con l’immaginazione. Un po’ come si fa con la musica e la letteratura, con il freestyle nell’hip hop o con il montaggio nel cinema. Per costruire l’alternativa politica e perseguire un cambio materiale, economico e sociale, non è sufficiente volare alto. Dobbiamo intervenire sulla sfera pre-politica o se si preferisce post-politica della trasformazione culturale, incidere lì dove sappiamo che si gioca la vera libertà, incidere sulla frontiera della conoscenza. Sul punto alto della contraddizione, dove si determina l’emancipazione e la libertà. Come sempre la fabbrica del consenso è prima di tutto fabbrica di ignoranza, a maggior ragione in una società dove sul piano culturale si sfiorano ormai livelli indecenti di istruzione – teniamo presente che un terzo degli italiani è pressoche analfabeta, a cui si somma un altro terzo, considerato analfabeta di ritorno. E non a caso sul crinale della libera condivisione del sapere, oggi, si nega l’espressione artistica e creativa dell’attività umana, troppo spesso compressa dalla precarietà, dai brevetti della proprietà intellettuale, dall’organizzazione gerarchica del lavoro, in una società dove la precarizzazione del lavoro e le filiere del consumo rappresentano le maglie dispiegate del controllo sociale. Nella complessità del ragionamento e nella sfiducia dilagante nei confronti della politica e dei partiti, dobbiamo avere dalla nostra parte quella lungimiranza visionaria del potere costituente, della politica come trasformazione della realtà.

Dentro la stessa oscura realtà che attraversiamo è necessario ricostruire quei legami sociali spezzati. Nella costituzione materiale  delle donne e degli uomini che la rendono attiva e propulsiva è possibile cambiare la politica. Difficilmente la si potrà trasformare nella svuotata rappresentanza formale o nella messianica speranza di un salvatore. Dobbiamo ri-significare la realtà, avendo consapevolezza dei centri di potere che siamo chiamati ad affrontare dentro l’attuale modello di società complessa, terziarizzata, separata ed individualizzata, finora prevalentemente sedotta dalla corruzione e dall’autoritarismo, ipnotizzata dal consumo. Ma nella strada obbligata di dover difendere con i denti il diritto di resistenza, dobbiamo poter coltivare una politica visionaria e costituente, a partire dai nostri territori dove è progressivamente cresciuto negli ultimi anni l’elemento della ribellione in nome della sovranità e della decisionalità dal basso. Un elenco sarebbe qui sminuente. Basti fare mente locale alle tante battaglie di resistenza in difesa dei beni comuni, contro le grandi opere e le speculazioni immobiliari, contro i grandi eventi e le speculazioni finanziarie, che dal nord al sud della penisola negli ultimi tempi si sono moltiplicate e rafforzate.

La potenza di fermare una decisione stabilita dai grandi tavoli e consessi del potere locale e transnazionale, è una delle forme del potere costituente di cui parliamo. Un potere che determina non solo nuova partecipazione popolare ma che irradia, con una logica rovesciata e sovversiva della sovranità, la decisione nello spazio politico. Chi decide su cosa? E’ un quesito che rappresenta la prima forma d’indipendenza delle comunità locali dalle nuove oligarchie e dai nuovi centri del potere. E’ la forma di vita che costruisce potere costituente. E’ l’alterità che sul territorio sedimenta indipendenza, che si fa potenza, nuova res-pubblica. 

In primo luogo indipendenza dal sovrano. E immediatamente dopo dal sistema capitalistico. Partendo da qui possiamo ripensare l’indipendenza anche sotto un profilo culturale, facendo crescere la prospettiva ideale e la praticabilità politica, necessariamente dentro e insieme, se lo si desidera ancora, a quella radicale visione alternativa della realtà sociale ed economica che vogliamo poter autogestire, immaginare, praticare. A partire dai grandi e piccoli NO che saremo in grado di far crescere, potremo immaginare le forme dei SI e delle alternative possibili. Anche a costo di rievocare fuori dalle mode, l’esercito di quei sognatori, di zapatista memoria, che hanno a metà degli anni 90’ umilmente riaperto alla nostra generazione la possibilità dell’autogoverno, il simbolo del conflitto e della degna alterità, per il cambiamento di un’opzione politica ancora possibile. Tutto sommato, a distanza di dieci anni, anche se “giocato” malissimo sul piano della politica, il movimento (quello giornalisticamente definito no-global) aveva ragione, ce lo riconoscono un po’ tutti! Oggi più che mai, quello che sostenevamo sulle barricate di Seattle, di Praga o di Genova nel biennio anticapitalista della transizione (1999/2001) si sta materializzando in un’imbarazzante crisi sistemica per il potere globale, insieme economica e politica. Quello che noi abbiamo continuato a dire anche negli anni recenti, purtroppo sempre più divisi, tribalizzati e in taluni casi anche banalmente regalati al politicismo nella “saga no-global alla italiana”, era corretto. Era ed è tutto vero. Il capitalismo neoliberista sta depredando il pianeta e la sua umanità, in un’ossessiva e compulsiva ideologia del profitto, fino a rendere il mare nero, fino a far dire a alla BCE e al FMI che la crisi appunto è sistemica e che il modello attuale, per l’appunto, non è più sostenibile. Alla crisi economica corrisponde il tracollo della politica e della sua rappresentanza formale.

Questo è un passaggio importante sul quale vale la pena di ragionare politicamente sotto il profilo dei movimenti indipendenti anche a partire da cosa, dentro, intorno e a sinistra, sta nascendo con le “Fabbriche di Nichi”. Sorvolando la prima critica, quasi scontata, che riguarda quello che si sente spesso da più parti, ovvero il tema dell’accentramento personalistico e del lìderismo – che indubbiamente rappresenta un limite del processo in corso, che ha un po’ il sapore amaro dei tempi odierni – la scelta messianica della figura religiosa del salvatore – fa emergere in realtà con grande semplicità i limiti evidenti per affrontare la difficile sfida in corso. Se a Niki malauguratamente gli casca un vaso in testa, che fa tutta la nuova sinistra mobilitata, aspetta che cresca da qualche parte un altro carismatico poeta? Invero per la sinistra radicale istituzionale così come per quella per l’autorganizzazione sociale, il temi reali rimangono sempre gli stessi: come si sostengono le lotte, come ci si radica sul territorio, come si condividono i saperi, come si coniuga alterità, immaginario e presenza reale, come si accumula credibilità politica all’interno delle alleanze sociali che si costruiscono nelle città, come si fa vivere il controllo democratico dal basso sul territorio contro le speculazioni, come si anima e si organizza la resistenza alle scorribande neofasciste. In sostanza come si accumula potenza per il cambiamento al di là di questa o quell’opportunità politica?

Osservando da vicino la fase post-ideologica dentro quello svuotamento dei corpi intermedi, rappresentati dai partiti di massa o dalle organizzazioni sindacali, c’è un punto dirimente, che vuole essere un invito alla riflessione intorno all’opzione che prende piede con l’imminente candidatura di Vendola al governo del Paese. Un’osservazione che non può sfuggire alla consapevolezza di chi da anni anima i movimenti sociali, radicali, indipendenti e alternativi che dir si voglia e di chi – suo malgrado – ha imparato a conoscere il sistema politico italiano, il Paese del Gattopardo, dove realmente tutto cambia, affinché nulla muti.

Con la crisi della rappresentanza politica nella crisi sistemica del capitalismo globale, si evidenzia un aspetto centrale del processo in corso che rafforza il seguente ragionamento. Vi è una macrofisica che potremmo sintetizzare con la fine della partecipazione di massa alla politica, la fine della fiducia nelle istituzioni corrotte, la fine della governabilità dall’alto, dell’azione governamentale top down. Ma scopriremo poi un successivo livello che è quello relativo al sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica, ovvero di quella crisi nella crisi: la fine del bipolarismo, il riemergere, contro le false credenze del partito liquido, della soggettività organizzata ed identitaria – la Lega Nord sta lì a dimostrarlo – una legge elettore antidemocratica definita “porcata” da chi l’ha redatta, dove in realtà considerando le astensioni prende la formale maggioranza in Parlamento,  quella che è una reale minoranza nel Paese.

E ancora, la forma bloccata della democrazia incompiuta degli ultimi quindici anni dove ogni spazio riformatore, ogni iniziativa di avanzamento e modernizzazione dei diritti ha dovuto fare i conti con i veti incrociati, i ricatti, i giochi di potere, le continue mediazioni al ribasso. Tutto ciò non accade per caso. Vi è una radicata e profonda strumentalità dietro questo schema. In Italia (e non solo!) vi sono gruppi di potere, lobby trasversali, corporazioni nel mercato e nello Stato che non hanno nessun interesse affinché muti la struttura sociale consolidata o l’iniqua divisione della ricchezza socialmente prodotta. Le oligarchie economiche al potere non hanno nessuna intenzione di mediare con i precari che crescono esponenzialmente, con i pensionati al minimo, con i cassaintegrati senza futuro, con i disoccupati di lunga durata. Non solo, le caste al potere sguazzano nella crisi, si rigenerano, mentre si appellano alle politiche dimagranti della Unione Europea, della BCE e dell’FMI. E non hanno nessun interesse a cedere le porzioni di privilegio accumulato, non hanno nessuna intenzione di pagare le tasse e di investire sulla conoscenza o sull’avanzamento culturale.

In definitiva alcuni gruppi di potere in Italia governano sempre, a prescindere dalle sfumature, determinando pesantemente qualsiasi esecutivo e azione di governo. Fino a quando non muteranno radicalmente i rapporti di forza economici e sociali nella costituzione materiale, taluni assetti di potere, incideranno più di qualsiasi scommessa ideale e finiranno per condizionare anche una “radicale sorpresa” come quella rappresentata per esempio dalle Fabbriche di Nichi. La governance locale e globale da un lato e le tecnostrutture dall’altro, occupate ad interim dalle figure apparentemente solo tecniche, bastano di per sé a rendere anche una maggioranza elettoralmente qualificata, incapace ed impossibilitata a dare seguito all’azione di governo preannunciata nella campagna elettorale. Basta un direttore generale non allineato a bloccare o ritardare le attività di un assessorato o di un ministero, con la burocrazia pilotata, i veti incrociati, i ricorsi e i piccoli cabotaggi. Anche laddove si è Presidente di Regione (e Vendola ne sa qualcosa) basta un ministro economico, come l’attuale, per essere imbavagliati e commissariati. E anche se il nuovo leader divenisse Premier, laddove volesse attuare una radicale riforma sociale dovrebbe stare dentro il patto di stabilità, all’interno dei parametri di Maastricht (o i nuovi vincoli che verranno), dentro la soglia del 3% sul rapporto deficit/pil, dovrebbe attenersi al rigoroso contenimento della spesa pubblica, alle direttive della Commissione europea e via discorrendo.

In definitiva la governance politica della globalizzazione economica ha determinato una stratificazione così articolata della complessità, che ai cittadini sfugge non solo il controllo della macchina, ma anche la conoscenza di come si accende il motore o si cambiano le marce. Per quello diciamo da anni che la rivolta o è globale o non è. Che il cambiamento o sarà radicale, o semplicemente non potrà essere. Ovviamente una spinta riformatrice coraggiosa, un ascolto disinteressato delle istanze sociali o una sensibilità istituzionale diversa dagli ultimi governi, non potrà che essere un passo di avanzamento complessivo, anche per i movimenti. Sotto questo aspetto non si possono avere dubbi. All’aumentare del peso della sinistra istituzionale, per esempio negli anni ’60/’70 – in cui il conflitto sociale rappresentava il motore della democrazia – aumentava anche il peso e il protagonismo politico dei movimenti rivoluzionari ed extraparlamentari – si pensi anche ad esperienze di governo molto avanzate in altre parti del mondo, come nel Cile di Allende. Tra l’altro anche lì c’era un poeta che fu candidato alle primarie del 1969, dal partito comunista cileno, si chiamava Pablo Neruda. Ma in Italia di quell’esperienza si fece una “confusione” tanto grande addirittura da chiamarla “sindrome cilena”. La questione rimane per come è stata fin qui descritta. Dal solo piano alto del governo, la trasformazione mediata, graduale e dall’interno del sistema-Italia, rappresenta una meta irraggiungibile, “un’utopia irrealizzabile”. Al contrario, ciò che sembra irrompere dai piani bassi, ciò che sembra uscire dal cassetto dei sogni, dal desiderio dell’assalto al cielo, apre la strada per “un’utopia concreta”, necessaria. Disvela un cammino di riscatto e di emancipazione, una via per la libertà e l’indipendenza da intraprendere umilmente, fino alla vittoria!

Bibliografia sragionata:

G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003

F. Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Il mulino, Bologna 1984

C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè editore, Milano 1998

A. Negri, Il potere costituente, Sugarco edizioni, Varese 1992

C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2003

I libri vanno letti per essere dimenticati” M. Montaigne, Essais

 *articolo uscito sul  X° numero di Loop (settembre/ottobre 2010)

Sciopero migrante: contro lo sfruttamento, con i lavoratori di Nardò

Nella fabbrica verde di Nardò lo sciopero del lavoro migrante va avanti da sabato 30 luglio. I lavoratori migranti si rifiutano di continuare la raccolta per arricchire chi, attraverso i caporali, gioca in continuazione al ribasso sui loro salari e sulle loro vite. I caporali, infatti, sono solo l’ultimo gradino di un sistema di comando sul lavoro migrante che vede poche aziende agricole fare profitti, mentre i migranti devono accettare, nel migliore dei casi, 6 € per un cassone da 100 chili di pomodori. Il salario però può anche essere di soli 2€ per cassone ora che il ricatto
si fa più forte, ora che la concorrenza scatenata dalla chiusura della raccolta delle angurie comincia a pesare. Sono centinaia i migranti che trovano appoggio nella masseria Boncuri, il luogo da cui è nata la protesta. Provengono dall’Africa del nord e da quella sub-sahariana, alcuni sono arrivati dalla Libia dopo le grandi rivolte del Maghreb. Molti si sono riversati nella raccolta perché espulsi dalle fabbriche del nord d’Italia, altri sono lavoratori stagionali che conoscono bene la realtà del caporalato, l’hanno già vista nel foggiano, la vedranno a Rosarno quando ricomincerà la raccolta delle arance. E quest’esperienza va ben oltre la differenza di lingua e di provenienza. Quello che conta è la convinzione che questo sfruttamento deve avere fine e che lo sciopero è l’unico modo per affermare la propria forza.
Questa è la lotta degli operai della fabbrica verde di Nardò, che hanno avuto la capacità di organizzarsi autonomamente, nonostante la radicale precarietà delle loro condizioni di lavoro e di vita. Questa è la lotta di tutti i migranti sotto il regno della legge Bossi-Fini. Questa è la lotta di tutti i lavoratori, che conoscono bene quel sistema di sfruttamento che si gioca al ribasso sulla loro pelle, attraverso le lunghe catene di appalto che sono la norma non solo nei campi, dove hanno la faccia del caporale, ma anche all’interno delle fabbriche e dei servizi.
La posta in gioco nella lotta di Nardò è molto alta: si tratta di spezzare un sistema violento che ogni anno ritorna uguale a se stesso anche nella democratica Puglia. Non si tratta solo di eliminare gli odiati caporali, ma di riconoscere la forza del lavoro migrante al sud come al nord, per l’abolizione della legge Bossi-Fini, per una regolarizzazione slegata dal lavoro e dal salario, contro la precarietà. Per questo siamo al fianco dei lavoratori della masseria Boncuri, sostenendo il loro sciopero così come tutte le forme di lotta che loro decideranno, e partecipando all’assemblea che terranno sabato sei agosto.
 
Coordinamento Migranti Bologna e Provincia
www.coordinamentomigranti.splinder.com
coo.migra.bo@gmail.com
 

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La Valle Ribelle, un’alternativa per l’utopia concreta!

Bilancio sulle due settimane di campeggio resistente appena terminato alle porte del (non-)cantiere militarizzato… guardando avanti!

La giornata di mobilitazione del 30 luglio ha rimesso sotto gli occhi di tutti la forza e la maturità del movimento no tav, unico soggetto politico del nostro paese capace di rivendicare collettivamente  l’uso della forza (quando serve) senza farsi ad esso ridurre, forte di una approccio dialettico e flessibile nei tempi e nelle forme del suo manifestarsi. E così, scribacchini e politicanti hanno provato sincero stupore nel constatare che davvero quegli ottusi nemici del progresso avrebbero mantenuto la parola data. Ancora convinti che possa realmente esistere una qualche corrente di “teste calde” in grado di alterare le scelte decise dal movimento in tutta autonomia – perché di questo si tratta: della capacità di scegliere obiettivi e modi della lotta, al di fuori di qualunque influenza della politica istituzionale, qui da tempo individuata per quello che è.Chiunque avesse partecipato, anche solo visitato, il campeggio resistente tenutosi dirimpetto al fortino militarizzato avrebbe subito capito come sarebbe andata domenica,  non solo perché da queste parti le parole hanno ancora un peso (non si fanno “dichiarazioni di guerra” né si annunciano “vittorie” che non si possono ottenere) ma molto più banalmente perché avrebbe avuto il privilegio di assistere ad un raro esempio di laboratorio sociale e politico autentico in cui le classificazioni e le categorie (black bloc, pacifista, estremista, moderato) perdono progressivamente di senso di fronte ad un processo di soggettivazione reale in cui le differenze e le reciproche antipatie delle persone che lo compongono passano in secondo piano  di fronte all’urgenza pratica di combattere un nemico molto più forte . E questo non certo per angelica bontà ma per la buona consuetudine sorta dal lungo lavorio interno di un movimento che non si rifugia nella delega e nell’ideologismo viziato (ci auguriamo abbiano potuto farne tesoro anche molti cultori del bel gesto individuale!). Le assemblee riuscivano a dirimere tutti i contrasti e rendere praticabile le decisioni più delicate.
Il campeggio appena conclusosi è stato un’esperienza politica ed umana ricchissima, qualcosa di unico e senza precedenti per i compagni e le compagne più giovani che vi hanno partecipato. Ogni giorno presentava un caleidoscopio di iniziative e di discussione animato e sempre diverso. L’autorganizzazione della cucina e dei differenti lavori necessari alla riproduzione del quotidiano vivere la lotta, la scelta delle iniziative da compiere (tra un’uscita in valle e un assedio al cantiere) e le discussioni animate che vi avevano luogo si intrecciavano senza soluzione di continuità in un unicum spazio-temporale in cui l’assemblea tra tutti i partecipanti veniva interrotta da una cena a tutti accessibile, seguita magari da un dibattito partecipato e magari ancora da un assedio notturno al cantiere-fortino. Non di rado i momenti ludici, la bevuta di una birra o il relax in tenda venivano interrotti da lacrimogeni che catapultavano fin dentro il campeggio, lanciati a parabola dalle truppe mercenarie stanche delle libere battiture dei guard-rail in segno di protesta. Come ha detto bene qualcuno, si mangiava e discuteva “col passamontagna in tasca e la maschera anti-gas nello zaino”. I benpensanti potranno inorridire… ma ricordi così non hanno prezzo.
Ora, questo esperimento unico è stato possibile perché prima del campeggio avevamo già vissuto il capitolo altrettanto forte e fertile della Libera Repubblica della Maddalena (sepolto dai cingolati e le ruspe delle truppe di occupazione “democratiche”). Prima, nel tempo lungo di questo movimento che affonda indietro negli anni, il ciclo veloce delle trivellazioni abortite e quello mitico (tinto di leggenda) della Libera Repubblica di Venaus, dell’8 dicembre che l’ha seguito e della prima feconda resistenza di tutti sulle pendici del Seghino, dove “non passò il celerino”.
Da allora la lotta no tav ha guadagnato in popolarità e simpatia. Le sue ragioni iniziano ad essere comprese da quote sempre più ampie di popolazione, nazionale ed europea. La partecipazione a questi ultimi due mesi di lotta danno regione dell’estensione e penetrazione del discorso notav ben oltre i recinti in cui lo si vorrebbe rinchiudere. Il paragoni dei costi dell’opera con il parallelo e sempre più intensivo taglio della spesa sociale nazionale, dentro un orizzonte di crisi permanente senza soluzione  a portata di mano, è un esercizio che molti uomini e donne imparano a fare nel nostro paese. Quando diciamo “un metro di Tav è un letto in meno in un ospedale, un kilometro è una scuola in meno” intendiamo proprio questo. La gente inizia a fare i propri conti in tasca e anche ad uno Stato capace solo di ripetere un mantra abusato di due sole parole: austherity e sacrifici.
Con un passato simile alle spalle e un futuro tanto gravido di future battaglie, il movimento non può certo permettersi di prendere fiato troppo a lungo. La fine del campeggio non implica lo smantellamento delle sue strutture che anzi persisteranno in forma ridotta come presidio permanente per tutto il mese di agosto. Il calendario settembrino e dell’autunno che seguirà è già ricco di proposte in preparazione o definite, dal forum europeo sulle grandi opere all’organizzazione di una giornata torinese nelle piazze della città per far conoscere ai metropolitani il costo, sociale e politico, della grande opera. Un buon pretesto per rincontrare quella fiumana di torinesi che hanno riempito la fiaccolata dell’8 luglio e provare a costruire insieme percorsi comuni contro la crisi e la manovra di lacrime e sangue che vorrebbero farci pagare a noi che stiamo in basso. Anche su questo crediamo che il movimento no tav abbia ancora molto da raccogliere e da insegnare. Noi, in ogni caso, ci scommettiamo.

da www.infoaut.org

Riconquistato il Volturno!

VOLTURNO OCCUPATO: RESPINTO UN TENTATIVO DI SGOMBERO “PRIVATO”.

Questa mattina il teatro Volturno Occupato ha subito un tentativo di sgombero anomalo: una persona che si spacciava per il proprietario si è presentata accompagnata da guardie private della ditta Italpol con tanto di cani, e una squadra di operai per prendere possesso dell’immobile. Peccato che l’immobile sia sottoposto a sequestro giudiziario per il fallimento di Cecchi Gori, e quindi non esiste nessun proprietario.
I veri proprietari, semmai, sono gli uomini e le donne che da tre anni hanno occupato lo stabile e ne hanno fatto uno spazio vivo e di utilità comune. Un vero e proprio punto di riferimento per chi, in questa città, lotta quotidianamente contro chi vuole continuare a speculare sulle nostre vite e sulla nostra città.
In questi anni il Volturno ha ospitato e continua ad ospitare assemblee, sportelli di consulenza e di lotta sulla casa, sull’immigrazione e sui problemi delle donne, spettacoli teatrali ed altre iniziative della cultura libera.

Stamattina abbiamo assistito ad un tentativo, vile e maldestro, di spazzare via tutto questo in nome del profitto privato, addirittura scavalcando ogni procedura legale, visto che persino la polizia di stato, sopraggiunta, ha dichiarato di non essere a conoscenza dello sgombero “privato”, che ci ricorda quello della sede dell’Eutelia occupata da lavoratori e lavoratrici, avvenuta qualche anno fa.

Per fortuna la prontissima mobilitazione degli occupanti del volturno, coadiuvati da occupanti dei movimenti per il diritto all’abitare, compagni  e compagne da tutta la città, ha di fatto sgomberato gli sgomberatori, costringendoli a fuggire rompendo le grate che loro stessi avevano montato sulle uscite di sicurezza.
Poco dopo il Volturno è rientrato nel possesso della ROMA BENE COMUNE, continuando ad essere a disposizione della città e di chi vuole organizzarsi e lottare perché il diritto all’abitare sia una realtà per tutti e tutte, per costruire iniziative culturali libere dal mercato, e perché la qualità della nostra vita conti di più del profitto di pochi.

VENERDI’ 5 AGOSTO ASSEMBLEA PUBBLICA ORE 19
VOLTURNO OCCUPATO
Via Volturno 37 (Termini)

COORDINAMENTO CITTADINO DI LOTTA PER LA CASA

La forza del movimento notav!

da www.notav.info

Noi non avevamo dubbi. La manifestazione di oggi è andata come avevamo deciso andasse, ed ancora una volta il movimento ha espresso la sua forza commisurata agli obbiettivi. Nessuna frangia estremista messa in un angolo, nessun falco e nessuan colomba, solo il popolo notav che ancora una volta non si è fatto dettare il copione. Non ci hanno fatto paura i diktat di Maroni o di Ferrentino, e nemmeno la defezione dei sindaci che non vi hanno partecipato.

Al contrario, senza troppi giri di parole, la Valle di Susa ha gridato presente, e come per una sceneggiatura di un fantastico film, ha dato vita ad una marcia nei nostri boschi di migliaia di uomini, donne, bambini, giovani e anziani, che ad ogni scalata salutavano con ironia tutti i “gufi” della giornata, che evidentemente non hanno gufato bene perchè diversi sindaci erano in corteo con noi.

Non abbiamo usato la forza, ma quella di oggi è una grande prova di forza, perchè abbiamo dimostrato ancora una volta, la capacità di saper scegliere cosa fare, come farlo e quando farlo. Se è il caso di dare l’assedio diamo l’assedio, se è il momento dell’assalto diamo l’assalto, se è il momento della marcia che che circunnaviga il non cantiere senza che voli una pietra, diamo vita a una giornata come oggi. Questo perchè lo abbiamo deciso noi, tutti insieme, come tutte le altre volte.

Siamo partiti tutti insieme, torniamo tutti insieme, noi ragioniamo così.

Ancora una volta la Val Susa non si tocca!

Cronoca della marcia Giaglione – Chiomonte del 30/7 

Dalla Valle ribelle che resiste e non si arrende! 

*Mentre la coda della marcia No Tav raggiunge anch’essa il campeggio di Chiomonte, che si sta riempiendo del fiume in piena che ha attraversato i boschi della Val Susa, dalla cronaca di Twitter – che è stata ancora una volta un’altra dei megafoni nella battaglia contro l’alta velocità – inizia a girare un primo commento a caldo sulla “giornata da bollino rosso in Val Susa! visto il traffico No Tav lungo i sentieri stile esodo estivo!”.

Una battuta che restituisce la statura di una marcia convocata come conclusione del campeggio di Chiomonte e trasformatasi in un ennesimo importante appuntamento per il movimento. Numeri alti, importanti: migliaia e migliaia di persone hanno voluto esserci, rispondendo quindi non solo all’aggressione militare che da oramai un mese è in stanza alla Maddalena, ma anche a tutti coloro che si sono prodigati per tentare di mettere i bastoni in mezzo alle ruote attraverso i mezzucci dell’allarmismo mediatico (dal leghista Maroni che grida all’eversione e minaccia sgomberi al vendoliano Ferrentino che invita a disertare il No Tav…).

Diverse le delegazioni arrivate da fuori che oggi ed in queste settimane hanno voluto mettere piede in Val Susa, per respirare un pò di sana aria No Tav, per dare una mano al movimento che nella marcia odierna ha ancora una volta aggiunto un tassello dentro una lotta di medio-lungo corso. Nella spendida eterogeneità composita del movimento No Tav, nella forza determinata e irriducibile anche dinnanzi alla violenza poliziesca e mediatica, la Val Susa ha riempito l’onda della marcia partita da Giaglione e conclusasi a Chiomonte.

Appuntamento che ha quindi anche rotto l’assedio mediatico contro il movimento, mandando in tilt le rappresentazioni fittizie e minoritarie che stampa e politica vorrebbero sciroppare alla cosidetta opinione pubblica. Balle alle quali solamente gli ipocriti e gli stupidi possono pensare di continuare a ritenere veritiere.

La Val Susa, il suo popolo contro l’altra velocità, ha gridato un ‘presente/NoTav’, marciando lungo i sentieri della Valle che resiste e non si arrende, costeggiando le recinzioni di un cantiere inesistente ma protetto da un’orda di poliziotti e carabinieri, preparandosi per la riconquista della Maddalena. Il movimento No Tav insegna che le promesse devono essere mantenute, l’abbiamo sempre fatto e continueremo a fare.

da www.infaut.org

Sabato 30 Luglio torneremo in Val Susa a fianco della comunità ribelle NoTav per continuare l’assedio sociale intorno al cantiere – peralto fantasma e nn più pervenuto – dello scempio politico, economico ed ambientale chiamato Alta Velocità, difesa dagli eserciti di polizia e carabinieri che in assetto da guerra stanno da settimane occupando militarmente tutta la valle.

www.notav.info

La potenza della Valle ribelle

 – contributo delle e degli Indipendenti dopo la straordinaria giornata di mobilitazione del 3/7 –

Quello che è avvenuto il 3 Luglio nella Val Susa è un fatto importante che come altri frammenti che si sono susseguiti e sedimentati temporalmente nel lungo corso dei conflitti sociali di questo paese, francamente scrive la storia. Una giornata per i movimenti correttamente definita epica. Certo giù nella Valle, per chi l’ha frequentata negli anni lo sa bene, una certa eroicità diffusa e soggettivizzata, la troviamo quotidianamente in quella umanità aperta della comunità NoTav. Una forza che si respira, si mastica, che c’è ed esiste nella vita quotidiana della Valle, nelle tante e diverse forme di vita di quei paesi i cui nomi si susseguono tra l’italiano e il francese in quello spaccato di profondo nord.

Tre generazioni in lotta, unite e cooperanti, ognuno con le sue possibilità soggettive. Tre generazioni nella lotta partigiana del popolo NoTav che in una domenica estiva hanno praticato con forme diverse un unico, solido, obiettivo: assediare il presidio poliziesco a difesa degli interessi sporchi delle lobby trasversali del potere politico ed economico. E hai voglia te a ricercare come facevano spesso provocatoriamente i giornalisti presenti lì a caldo intorno agli scontri, dissociazioni e distinguo tra buoni e cattivi e non trovandone reagire nervosamente, così come successo il giorno seguente alla conferenza stampa indetta dai Comitati. Ma si sa, a servire e proteggere strumentalmente i potenti ci si guadagna sempre nella conquista delle piccole posizioni.

E così mentre da Giaglione e dal bosco di Ramatz, migliaia di attivisti praticavano l’assedio cercando di forzare in ogni modo il dispositivo militare a difesa del cantiere Tav, tutto ciò avveniva e risultava possibile proprio perché il corteo pacifico e determinato che a sua volta era partito ore prima da Exilles, aveva consapevolmente scelto di costruire un vero e proprio tappo nei confronti della polizia, coprendo letteralmente le spalle ai rivoltosi che dalla montagna assediavano il presidio militare. Un corteo che pur di garantire il deflusso ai cosidetti cattivi black blok dai quali si sarebbe dovuto dissociare, ha invece resistito per ore alla gasazione che i guardiani del Tav somministravano dalle loro mitragliette.

E allora, se un intero paese si mobilita in difesa dei Valligiani e del movimento NoTav qualcosa vorrà pur dire. La si può definire una minoranza di pochi facinorosi? E come fanno “poche centinaia di violenti infiltrati” a tenere sotto scacco 2000 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri, armati di tutto punto, con blindati, idranti, elicotteri e centinaia di lacrimogeni al gas CS vietati peraltro dalla convenzione di Ginevra? E come avrebbero fatto in un numero così ristretto, senza la cooperazione e complicità con tutto il resto della manifestazione, ad assediare un esercito professionista della repressione come l’antisommossa italiana? E chi sono questi black blok? superdotati marziani della guerriglia? La verità al contrario sta emergendo con sempre più forza da quel canale web che così come nella primavera araba funge ormai come vero e proprio spazio di garanzia della cittadinanza rispetto ai poteri forti e la loro dis-informazione di regime. E cioè che si è trattato di una vera sollevazione popolare, di prove tecniche di insubordinazione sociale, di rabbia degna esplosa contro l’arroganza e la violenza della cricca al governo e delle sue lobby.

Sta di fatto che migliaia di persone sono andate li e altre migliaia, anche di più, hanno seguito tutta la giornata e fatto decine di telefonate oltre che attivato un tam tam informativo sulla rete. E’ sempre più evidente come dallo scorso autunno una moltitudine precaria stia dicendo delle cose molto chiare. Lo ha fatto il 14 dicembre a Roma, nelle battaglie contro il business della mondezza, nelle battaglie dei precari e delle precarie, lo ha fatto con il referendum vinto in difesa dei beni comuni praticando l’indipendenza dai partiti e dai sindacati. E l’ha detto una volta di più con la Val Susa e la sua ventennale battaglia.

Allora vogliamo riflettere su un nodo cruciale, problematico, ma denso di potenza: una composizione di popolo molto larga, possiamo dire maggioritaria, afferma ormai in questo paese la propria indisponibilità a proseguire su determinate strade e traiettorie del “cosiddetto” sviluppo, assume la critica al neoliberismo e alle poliche di austerity, sceglie la strada della sovranità popolare esercitandone dal basso la materialità costituente. La stessa composizione sociale larga ed eterogenea che sta pagando la crisi, comincia a pretendere che si smetta di investire nei profitti di pochi e che si cominci a pensare al bene della collettività puntando alla redistribuzione della ricchezza e mobilitandosi contro la devastazione sociale ed ambientale. A questa parte del paese il partito trasversale dell’ordine risponde con arroganza e durezza mobilitando non solo il governo, ma anche e soprattutto, il Pd e la cosi detta opposizione politica, che con un suo pesante portavoce prestato al Quirinale dichiara a poche ore dalla battaglia che si tratta non di resistenza popolare ma invero di azioni eversive. Essendo anche il presedente del CSM, onestamente l’inquietudine aumenta, ma di certo non ci spaventa.

Se questo è il messaggio che viene ignorato e si fa di tutto per continuare ad imporre la propria volontà, compreso l’utilizzo massiccio di forze dell’ordine come vere e proprie truppe di occupazione, vuol dire che si sta imponendo con la violenza e con lo stato di eccezione permanente, il governo del territorio e la conflittualità sociale che vi può esplodere.

A questo punto crediamo con ancora più forza che sia stato non solo un nostro diritto praticare la resistenza nei boschi ma che sia stato soprattutto un dovere nei confronti della futura umanità.

E allora la vediamo anche noi così: Sarà dura, sempre più dura, sicuramente per voi!

Laboratorio Acrobax – Coordinamento cittadino di lotta x la casa

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