Quando diciamo che la Costituzione del 1948 è esangue e non restaurabile, ci trattano da nemici della patria. Recitate un De Profundis non solo di quella Carta ma della democrazia, ci ripetono. Davvero? Non sarà invece che proprio attorno al ripetersi di quelle difese (ormai puramente ideologiche) si consuma quel po’ di democrazia che resta in Italia?
Queste domande non ce le poniamo di fronte a dei residui cantori delle glorie della prima e della seconda Repubblica. Lo strazio che continuano a fare della Costituzione del ’48 è sotto gli occhi di tutti. Ce le poniamo piuttosto a fronte di compagni che, negli ultimi anni, hanno sostenuto le lotte per il comune e che (non si capisce se è perché credono piattamente nella “fedeltà” alla lettera o perché ritengano piuttosto la pragmatica dello “sfondamento” costituzionale l’arma di rinnovamento più efficace) continuano a rimproverarci perché non ci muoviamo sul terreno della legittimità costituzionale e rifiutano di condividere la nostra riflessione sul fatto che l’appello all’esercizio del potere costituente sia oggi essenziale e dirimente. Quei compagni si fanno forti di aver promosso e vinto il referendum “acqua-bene comune” e, soprattutto, di aver positivamente difeso davanti alla Corte costituzionale quel risultato. Si è trattato, in effetti, in entrambi casi, di successi eccezionali. A questi si aggiungono altre importantissime iniziative, qua e là in tutta Italia – centri sociali e teatri occupati promossi ad istituzioni del comune, assessorati municipali che cercano di leggere le attività dei servizi pubblici nella prospettiva di una politica del comune e una giurisprudenza (che sta elaborandosi e che ritiene la categoria dei beni comuni di grande utilità nel tutelare e garantire – e probabilmente trasformare? – la proprietà pubblica, oggi minacciata pesantemente dalle politiche neoliberali).
Non dubitiamo che tutto ciò costituisca un passaggio fondamentale e siamo orgogliosi di aver partecipato a quelle battaglie, sia sul terreno teorico che su quello direttamente politico.
Ciò detto, non vediamo perché l’appello alla critica della Costituzione del ’48 ed al rinnovamento del tessuto costituzionale sia dannoso o inutile. A noi sembra invece centrale ed essenziale. Riteniamo infatti che, nella lotta che si è finalmente aperta in maniera forte contro il neoliberalismo, la Costituzione del ’48 che (volente o nolente) ha con il neoliberalismo – formalmente e materialmente – convissuto, sia incapace di proporci uno sviluppo della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà (intesa come terreno di costruzione di istituzioni del comune), adeguato ai nuovi bisogni della moltitudine.
A questo proposito, riguardando i difensori della Costituzione del ’48, non vogliamo certo aggiungere che non vediamo diversità fra i sostenitori dei “beni comuni” e, ad esempio, i grillini: vogliamo solo dire che finché la tematica del “comune” non assuma una potenza costituente, anche i temi dei beni comuni rischiano di essere appiattiti in un populismo (per così dire) di sinistra. Difficile immaginare che si possa estrapolare, nel disegno costituzionale, un’idea ancora “virtuosa” di sovranità popolare, e farsi forza di quella come scudo contro il neoliberalismo: e ciò non solo perché sovranità “del popolo” e proprietà sono nella Costituzione difficilmente separabili, ma perché comunque oggi le categorie di sovranità e di popolo non possono che portare la lotta contro il neoliberalismo sulla strada di una vuota retorica, priva di possibilità di aggancio con le soggettività vive che animano la cooperazione sociale. I beni comuni hanno saputo evocare, per quelle soggettività, la forza della riappropriazione della ricchezza prodotta in comune contro i dispositivi proprietari. Come potrebbe mai l’idea di “popolo sovrano” rendere conto della ricchezza di quelle soggettività, della composizione di differenze e di singolarità che muove quella cooperazione sociale, senza ancora una volta imprigionarla in una omogeneità tutta forzosa e ideologica? Comune e sovranità popolare stanno su sponde diverse: in mezzo, ci passano tutte le metamorfosi soggettive di questi anni, le trasformazioni del lavoro e della produzione, la forza emergente del lavoro vivo, dinamiche che – già dagli anni Sessanta e Settanta – hanno messo attivamente in crisi il nocciolo della mediazione costituzionale. La forza di questo comune, che ha animato lo stesso movimento dei beni comuni, non può essere colta da nessuna possibile riabilitazione della “sovranità popolare”, categoria che di nuovo chiuderebbe nel già costituito la tensione dinamica e aperta del costituente. A non calcolare adeguatamente la propria distanza critica dalla retorica della sovranità popolare, è inevitabile poi che anche chi, con le migliori intenzioni e ragioni, ha animato le lotte sui beni comuni, rischi di incagliarsi periodicamente nelle nebbie dei populismi, degli autoritarismi e dei personalismi, che nelle retoriche sovraniste hanno sempre trovato alimento per bloccare le lotte e impedirne la generalizzazione moltitudinaria.
Bastano pochi esempi per chiarire questa irriducibilità del comune alle mediazioni costituzionali, sia pure a quelle a tinte popolari e più o meno “socialiste”.
In primo luogo, parliamo di libertà. Un solo esempio, ma crediamo suggestivo: dov’è più – sulla base della Costituzione del ’48 – la libertà di espressione quando ci si confronti alla prepotenza del potere finanziario e della proprietà privata nei media? Possiamo invece immaginare che l’informazione sia restituita al comune? A fronte della Costituzione del ’48, che cosa significa “libera” informazione, sottratta all’alternativa (per quella Costituzione solo possibile) del privato e del pubblico? E siccome chez nous, “pubblico” (nazionalizzazione dell’informazione, sostegno amministrativo ai media, ecc.) significa fascismo e/o corruzione, come ci aiuta la Costituzione del ’48 ad evitare che l’informazione sia sottratta ai poteri dei privati o a quello statale? Cosa significa “comune” nella Costituzione del ’48? Com’è possibile costruire un “luogo comune” dell’informazione, che sia sostenuto e viva di forza democratica?
In secondo luogo, sempre a mo’ di esempio, parliamo di uguaglianza. Un solo caso: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito della moneta? E cioè del mezzo attraverso il quale lo Stato manovra la produzione delle merci e la distribuzione dei redditi? La moneta – è noto – è diventata lo strumento attraverso il quale il capitale riproduce a sua misura la società dello sfruttamento: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito del controllo dei “mercati” e dell’azione dei poteri finanziari globali, se non che lo Stato è sovrano in materia monetaria? Ma questo lo diceva anche lo Statuto Albertino! Se non ci scapasse da ridere, vorremmo chiedere ai nostri interlocutori, spesso su questo argomento prolissi, di declinare con noi “moneta-bene comune”: cosa concluderebbero? Che lo Stato-nazione va ricostruito oppure che la Costituzione del ’48 va trasformata? È evidente che se rispondessero nel primo modo, dovremmo chiamare il 118.
Ma, in terzo luogo, interroghiamoci su cosa possa più dire la Costituzione del ’48 a proposito di solidarietà (cioè del comune vero e proprio!). Sorge qui il sospetto che quando si pretende che il comune possa rappresentare una nuova forma di proprietà, si cerchi non di costruire ma di neutralizzare il concetto di comune. Recentemente (forse perché in periodo elettorale) abbiamo udito un autore come Ugo Mattei, solitamente molto determinato e preciso attorno al destino dei beni comuni e pragmatico difensore della Costituzione del ’48, sostenere che (dalle università – ma noi non pensiamo solo di lì) è partito un tentativo efficace di sminuire la portata “radicale” del tema “commons”. In quella prospettiva, essi sarebbero “scientificamente” sempre più limitati, circoncisi, privatizzati e sottoposti alla ristrutturazione istituzionale del neoliberalismo attraverso una critica che li costringe nel cognitivismo oppure nell’ideologia della sostenibilità, comunque ad un regime di enclosure, di restrizione. Si tratta di un vero e proprio détournement della forza costituente dei commons! Okay: ma allora perché non concludere che nella Costituzione del ’48 – come in tutte le costituzioni della modernità capitalista, come in tutte le riletture newdealistiche del costituzionalismo borghese e tanto più oggi nel regime globale del capitale finanziario – il comune non è giuridicamente pensabile? Perché pretendere la genuflessione dei “bene-comunisti” alla Costituzione del ’48? Per realismo politico? Ma che cos’è un realismo che non solo non riconosce la comune libertà di informarsi e di esprimersi ma neppure riesce a denunciare non tanto il “conflitto di interessi” di Berlusconi quanto quello del “Corriere della sera” e de “La Repubblica”, ecc., ecc.! E che non accetta di organizzare – fuori da ogni costituzione – una lotta per costruire una “moneta del comune” come unica forma nella quale l’uguaglianza può oggi proporsi (reddito di esistenza come nuova figura del salario relativo, welfare garantito, ecc.)? Fuori da ogni costituzione, dicevamo: perché organizzare istituzioni del comune, produrre le forme possibili di uguaglianza e libertà, non è un processo lineare, ma contiene in sé sempre elementi di rottura destituente e radicale con le forme istituzionali e costituzionali date – cosa che la tentazione sempre ricorrente di un ritorno all’istituzionalismo, anche quando è presentato, con qualche eccesso di retorica, come “diritto che nasce dalle lotte”, rischia di dimenticare.
Infine: il comune è comunismo più libertà. La Costituzione del ’48 è stata letta come un po’ di libertà e un po’ di socialismo: vivevamo in un mondo dove questa costituzione era forse la sola alternativa di pace alla guerra civile. Oggi la guerra, il capitale finanziario globalizzato ce la fa contro, ogni giorno. Perché non rispondergli, sottraendogli, attraverso la forza costituente del comune, questo potere?