Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria

Quando diciamo che la Costituzione del 1948 è esangue e non restaurabile, ci trattano da nemici della patria. Recitate un De Profundis non solo di quella Carta ma della democrazia, ci ripetono. Davvero? Non sarà invece che proprio attorno al ripetersi di quelle difese (ormai puramente ideologiche) si consuma quel po’ di democrazia che resta in Italia?

Queste domande non ce le poniamo di fronte a dei residui cantori delle glorie della prima e della seconda Repubblica. Lo strazio che continuano a fare della Costituzione del ’48 è sotto gli occhi di tutti. Ce le poniamo piuttosto a fronte di compagni che, negli ultimi anni, hanno sostenuto le lotte per il comune e che (non si capisce se è perché credono piattamente nella “fedeltà” alla lettera o perché ritengano piuttosto la pragmatica dello “sfondamento” costituzionale l’arma di rinnovamento più efficace) continuano a rimproverarci perché non ci muoviamo sul terreno della legittimità costituzionale e rifiutano di condividere la nostra riflessione sul fatto che l’appello all’esercizio del potere costituente sia oggi essenziale e dirimente. Quei compagni si fanno forti di aver promosso e vinto il referendum “acqua-bene comune” e, soprattutto, di aver positivamente difeso davanti alla Corte costituzionale quel risultato. Si è trattato, in effetti, in entrambi casi, di successi eccezionali. A questi si aggiungono altre importantissime iniziative, qua e là in tutta Italia – centri sociali e teatri occupati promossi ad istituzioni del comune, assessorati municipali che cercano di leggere le attività dei servizi pubblici nella prospettiva di una politica del comune e una giurisprudenza (che sta elaborandosi e che ritiene la categoria dei beni comuni di grande utilità nel tutelare e garantire – e probabilmente trasformare? – la proprietà pubblica, oggi minacciata pesantemente dalle politiche neoliberali).

Non dubitiamo che tutto ciò costituisca un passaggio fondamentale e siamo orgogliosi di aver partecipato a quelle battaglie, sia sul terreno teorico che su quello direttamente politico.

Ciò detto, non vediamo perché l’appello alla critica della Costituzione del ’48 ed al rinnovamento del tessuto costituzionale sia dannoso o inutile. A noi sembra invece centrale ed essenziale. Riteniamo infatti che, nella lotta che si è finalmente aperta in maniera forte contro il neoliberalismo, la Costituzione del ’48 che (volente o nolente) ha con il neoliberalismo – formalmente e materialmente – convissuto, sia incapace di proporci uno sviluppo della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà (intesa come terreno di costruzione di istituzioni del comune), adeguato ai nuovi bisogni della moltitudine.

A questo proposito, riguardando i difensori della Costituzione del ’48, non vogliamo certo aggiungere che non vediamo diversità fra i sostenitori dei “beni comuni” e, ad esempio, i grillini: vogliamo solo dire che finché la tematica del “comune” non assuma una potenza costituente, anche i temi dei beni comuni rischiano di essere appiattiti in un populismo (per così dire) di sinistra. Difficile immaginare che si possa estrapolare, nel disegno costituzionale, un’idea ancora “virtuosa” di sovranità popolare, e farsi forza di quella come scudo contro il neoliberalismo: e ciò non solo perché sovranità “del popolo” e proprietà sono nella Costituzione difficilmente separabili, ma perché comunque oggi le categorie di sovranità e di popolo non possono che portare la lotta contro il neoliberalismo sulla strada di una vuota retorica, priva di possibilità di aggancio con le soggettività vive che animano la cooperazione sociale. I beni comuni hanno saputo evocare, per quelle soggettività, la forza della riappropriazione della ricchezza prodotta in comune contro i dispositivi proprietari. Come potrebbe mai l’idea di “popolo sovrano” rendere conto della ricchezza di quelle soggettività, della composizione di differenze e di singolarità che muove quella cooperazione sociale, senza ancora una volta imprigionarla in una omogeneità tutta forzosa e ideologica? Comune e sovranità popolare stanno su sponde diverse: in mezzo, ci passano tutte le metamorfosi soggettive di questi anni, le trasformazioni del lavoro e della produzione, la forza emergente del lavoro vivo, dinamiche che – già dagli anni Sessanta e Settanta – hanno messo attivamente in crisi il nocciolo della mediazione costituzionale. La forza di questo comune, che ha animato lo stesso movimento dei beni comuni, non può essere colta da nessuna possibile riabilitazione della “sovranità popolare”, categoria che di nuovo chiuderebbe nel già costituito la tensione dinamica e aperta del costituente. A non calcolare adeguatamente la propria distanza critica dalla retorica della sovranità popolare, è inevitabile poi che anche chi, con le migliori intenzioni e ragioni, ha animato le lotte sui beni comuni, rischi di incagliarsi periodicamente nelle nebbie dei populismi, degli autoritarismi e dei personalismi, che nelle retoriche sovraniste hanno sempre trovato alimento per bloccare le lotte e impedirne la generalizzazione moltitudinaria.

Bastano pochi esempi per chiarire questa irriducibilità del comune alle mediazioni costituzionali, sia pure a quelle a tinte popolari e più o meno “socialiste”.

In primo luogo, parliamo di libertà. Un solo esempio, ma crediamo suggestivo: dov’è più – sulla base della Costituzione del ’48 – la libertà di espressione quando ci si confronti alla prepotenza del potere finanziario e della proprietà privata nei media? Possiamo invece immaginare che l’informazione sia restituita al comune? A fronte della Costituzione del ’48, che cosa significa “libera” informazione, sottratta all’alternativa (per quella Costituzione solo possibile) del privato e del pubblico? E siccome chez nous, “pubblico” (nazionalizzazione dell’informazione, sostegno amministrativo ai media, ecc.) significa fascismo e/o corruzione, come ci aiuta la Costituzione del ’48 ad evitare che l’informazione sia sottratta ai poteri dei privati o a quello statale? Cosa significa “comune” nella Costituzione del ’48? Com’è possibile costruire un “luogo comune” dell’informazione, che sia sostenuto e viva di forza democratica?

In secondo luogo, sempre a mo’ di esempio, parliamo di uguaglianza. Un solo caso: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito della moneta? E cioè del mezzo attraverso il quale lo Stato manovra la produzione delle merci e la distribuzione dei redditi? La moneta – è noto – è diventata lo strumento attraverso il quale il capitale riproduce a sua misura la società dello sfruttamento: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito del controllo dei “mercati” e dell’azione dei poteri finanziari globali, se non che lo Stato è sovrano in materia monetaria? Ma questo lo diceva anche lo Statuto Albertino! Se non ci scapasse da ridere, vorremmo chiedere ai nostri interlocutori, spesso su questo argomento prolissi, di declinare con noi “moneta-bene comune”: cosa concluderebbero? Che lo Stato-nazione va ricostruito oppure che la Costituzione del ’48 va trasformata? È evidente che se rispondessero nel primo modo, dovremmo chiamare il 118.

Ma, in terzo luogo, interroghiamoci su cosa possa più dire la Costituzione del ’48 a proposito di solidarietà (cioè del comune vero e proprio!). Sorge qui il sospetto che quando si pretende che il comune possa rappresentare una nuova forma di proprietà, si cerchi non di costruire ma di neutralizzare il concetto di comune. Recentemente (forse perché in periodo elettorale) abbiamo udito un autore come Ugo Mattei, solitamente molto determinato e preciso attorno al destino dei beni comuni e pragmatico difensore della Costituzione del ’48, sostenere che (dalle università – ma noi non pensiamo solo di lì) è partito un tentativo efficace di sminuire la portata “radicale” del tema “commons”. In quella prospettiva, essi sarebbero “scientificamente” sempre più limitati, circoncisi, privatizzati e sottoposti alla ristrutturazione istituzionale del neoliberalismo attraverso una critica che li costringe nel cognitivismo oppure nell’ideologia della sostenibilità, comunque ad un regime di enclosure, di restrizione. Si tratta di un vero e proprio détournement della forza costituente dei commons! Okay: ma allora perché non concludere che nella Costituzione del ’48 – come in tutte le costituzioni della modernità capitalista, come in tutte le riletture newdealistiche del costituzionalismo borghese e tanto più oggi nel regime globale del capitale finanziario – il comune non è giuridicamente pensabile? Perché pretendere la genuflessione dei “bene-comunisti” alla Costituzione del ’48? Per realismo politico? Ma che cos’è un realismo che non solo non riconosce la comune libertà di informarsi e di esprimersi ma neppure riesce a denunciare non tanto il “conflitto di interessi” di Berlusconi quanto quello del “Corriere della sera” e de “La Repubblica”, ecc., ecc.! E che non accetta di organizzare – fuori da ogni costituzione – una lotta per costruire una “moneta del comune” come unica forma nella quale l’uguaglianza può oggi proporsi (reddito di esistenza come nuova figura del salario relativo, welfare garantito, ecc.)? Fuori da ogni costituzione, dicevamo: perché organizzare istituzioni del comune, produrre le forme possibili di uguaglianza e libertà, non è un processo lineare, ma contiene in sé sempre elementi di rottura destituente e radicale con le forme istituzionali e costituzionali date – cosa che la tentazione sempre ricorrente di un ritorno all’istituzionalismo, anche quando è presentato, con qualche eccesso di retorica, come “diritto che nasce dalle lotte”, rischia di dimenticare.

Infine: il comune è comunismo più libertà. La Costituzione del ’48 è stata letta come un po’ di libertà e un po’ di socialismo: vivevamo in un mondo dove questa costituzione era forse la sola alternativa di pace alla guerra civile. Oggi la guerra, il capitale finanziario globalizzato ce la fa contro, ogni giorno. Perché non rispondergli, sottraendogli, attraverso la forza costituente del comune, questo potere?

da www.uninomade.org

 

Ciao Antò, oggi brindiamo alla vita!

 Ciao Antò, oggi brindiamo alla vita!

 

Antonio Salerno Piccinino è nato il 17 Dicembre 1977 all’ospedale
Fate Bene Fratelli di Napoli. Sua madre è Franca Salerno e suo padre è

Raffaele Piccinino. Dopo pochi giorni dalla nascita Antonio entra con
la madre a  Badu ’e Carros, il carcere speciale di Nuoro. Antonio i
primi tre anni di vita li passa in carcere, rompendo il silenzio
pneumatico e creando calore in quell’istituzione totale che si chiama
carcere speciale utilizzata dallo Stato per portare avanti la sua
guerra. Ma non è soltanto questa la sua storia. Antonio è forza viva,
energia sonora, lotta per la libertà. Oggi il 17 dicembre del 2012
avrebbe compiuto 35 anni, ma la sua vita è stata interrotta dalla
violenza della precarietà.
“Di lavoro si muore perché di precarietà si vive”  abbiamo scritto sui

muri di Roma quel maledetto 17 gennaio del 2006. Quel lavoro che ogni
giorno produce morte, malattie, ricatti, sfruttamento. Migliaia di

omicidi ogni anno vengo prodotti nella giungla del mercato del lavoro
in Italia, un lavoro che non è, non sarà mai un bene comune.
Sabato 15 dicembre una grande manifestazione ha percorso le strade di

Taranto contro il ricatto del lavoro che produce devastazione
ambientale e gravissimi danni alla salute. Al comitato cittadini
liberi e pensanti va il nostro più grande abbraccio e sostegno. Ci
accomuna il dolore e la rabbia che continuiamo a provare, ma soprattutto

la voglia di lottare per difendere la vita, la nostra nuda vita.
Antonio è un compagno del laboratorio Acrobax e nel nostro decimo
anniversario non smettiamo di credere che in ogni attimo di libertà
strappato lui è stato al nostro fianco.

Ciao Antonio, fratello e compagno!
Oggi brindiamo alla vita.

Con Antonio e Franca nel cuore!

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Ci riprendiamo tutto!

Il  giorno più freddo di questo inverno si è trasformato per i movimenti per il diritto all’abitare in una calda giornata di lotta e resistenza. Questa mattina davanti alle occupazioni di Ponte dei Nona, Torre vecchia, Anagnina, Viale delle Province abbiamo trovato un grande dispiegamento di forze dell’ordine  che annunciavano gli imminenti sgomberi. Anche davanti Alexis si sono presentate diverse volanti della polizia con la chiara intenzione di intimidire e bloccare quanti si stavano radunando, e di impedire lo spostamento a chi stava portando la propria solidarietà verso le occupazioni più a rischio.
In questo momento  alcune delle occupazioni di Ponte di Nona sono in corso di sgombero mentre altre si stanno barricando e preparando alla difesa degli spazi. La risposta della giunta in crisi ancora una volta è quella di affrontare con l’ordine pubblico il problema sempre più grave dell’emergenza abitativa di Roma. Esprimiamo il massimo del sostegno e solidarietà ai nuclei familiari sgomberati e continueremo la resistenza qui e per le strade della città.

Alexis resistente!
Studentato e casa dei precari

#6D a Roma: non ci bastano i palazzi del potere

Se il 14N aveva consegnato un punto di domanda: è possibile immaginare
obbiettivi diversi dai periferici palazzi del potere?, il 6D ci lascia una
parziale ma importante risposta.

Gli studenti medi, con l’occupazione simbolica di via Induno a Trastevere,
hanno dato importanza alla pratica della riappropriazione. Sperimentata nelle
scuole occupate e agita nei territori, come nel caso del Cinema America, la
riappropriazione degli spazi ha dato modo di comprendere la potenza della
relazione nel tempo della crisi. La stessa gioventù lidense di Ostia si è
nutrita in questa simile dimensione.

I movimenti romani per il diritto all’abitare hanno poi costruito un
ulteriore passaggio di qualità, dando un tetto a circa 3000 persone, colpendo
direttamente la rendita e chi vuole procedere con la svendita del patrimonio
pubblico. Da Ponte di Nona a Torrevecchia, da Prenestino ad Anagnina, fino al
quartiere San Paolo dove nasce lo studentato”Alexis Occupato”.

Nel #6D il rapporto centro-periferia è saltato nel migliore dei modi. Un
moltiplicarsi di luoghi dove pianificare nuove forme di attacco. Non
“assaltando” i palazzi del potere si è lasciato spazio alla possibilità di
costruire nuove istituzioni autonome che si contrappongano alla metropoli della
rendita. I germi della ribellione si piantano proprio in quelle disgregate
dimensioni di quartiere dove sono possibili nuove relazioni antagoniste.

Tornare nei territori quindi non vuol dire chiudersi nel mutismo per assenza
di prospettiva politica. Vuol dire piuttosto osservare meglio le contraddizioni
e le ambivalenze del rapporto centro-periferia, imparando ad agire in una
dimensione spaziale nuova che richiede maggiore capacità di radicamento.

Tornare nei territori vuol dire costruire nuove istituzioni autonome che
rendano obsolete le istituzioni che governano a colpi di austerity. Tornare nei
territori vuol dire evitare di essere ceto politico e sporcarsi le mani tra
l’autonomia possibile e la barbarie che avanza.

E’ possibile quindi immaginare obbiettivi diversi dai palazzi del potere
soltanto se, uscendo dalla dimensione centro-periferia, ci accorgiamo che
l’unico conflitto possibile è nella costruzione, nella relazione e nella
riappropriazione. L’attacco del capitale e dello stato sarà una conseguenza di
questo nostro lavoro, come ci insegna la Val di Susa.

E se per una giornata non si finisce sui giornali poco importa. Non sarà
certo qualche intervista in televisione a dare forma ad un movimento
generalizzato contro le misure di austerity.

da www.infoaut.org

 

“Strategie contro l’austerity: reddito di base e incondizionato per tutti” Video-intervista a Guy Standing

Pubblichiamo una video-intervista a Guy Standing membro fondatore e co-presidente del Basic Income Earth Network (Bien), autore del libro“The Precariat. The new Dangerous Class“. L’intervento  è stato realizzato nell’ambito dell’iniziativa organizzata dal C.s.o.a. Officina99 & dal Lab.Occ. SKa a Napoli presso l’Istituto Universitario Orientale.

 

 

 

 

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Dallo sciopero sociale al comune in rivolta >> Alexis occupato Ma chi ha detto che non c’è…..

Fa un certo effetto, va detto, scrivere da qui, da Alexis, lo spazio che abbiamo liberato il 6 dicembre, in una nuova giornata nazionale di mobilitazioni, dopo quella del 14 novembre, in cui si sono sperimentate importanti pratiche di sciopero sociale.

Difficile capire cosa succede quando si occupa e descrivere la magia delle soggettività che attraversano gli spazi autogestiti ed autorganizzati. Ci si chiede cosa si sta muovendo nella pancia e nella testa dei compagni che si ha al fianco, con cui si condividono i picchetti, le assemblee, le chiacchere, i lavori, i pasti, gli sbattimenti di ogni genere. Di sicuro qualcosa di stupendo, fuori dall’ordinario, altrimenti ci si chiederebbe “chi ve lo fa fare?”: il freddo, il poco sonno, la stanchezza, le paranoie e tutto il resto. L’alchimia che si sviluppa all’interno delle lotte è qualcosa che risveglia gli animi, costruisce alterità, cooperazione nel conflitto, scioglie la tensione, emoziona. Vedere chi dopo due ore di sonno va a lavorare e torna in tempo per fare i mille lavori, chi si porta il lavoro dietro o studia al freddo tra un picchetto e un altro. Ecco cosa si intende, per noi, quando si parla del comune in rivolta.

Si parla di un’energia che non si può distruggere per quanto da sola si riproduce all’interno di questi processi. Ed è proprio il calore collettivo che sta producendo il valore aggiunto in questi freddi giorni invernali, un’energia sociale che pratica nuove forme di solidarietà e mutuo soccorso tra i soggetti colpiti dalle politiche di austerity. In questi pochi giorni abbiamo visto portare solidarietà all’occupazione dai lavoratori dell’Acea, dagli abitanti del territorio, da chi ci lavora, gli operai dell’Italgas ci hanno regalato i loro buoni pasto promettendo di tornare il mese prossimo se saremo ancora qui, motorini che passando e urlano “non lo dovete lascià più sto posto!”. Da quando abbiamo occupato vediamo aumentare le persone che diventano occupanti, che si interessano, che vogliono far parte dell’esperienza. Siamo partiti un anno e mezzo fa con un’inchiesta sulla precarietà abitativa tra gli studenti di un’università “modello” come quella di Roma Tre, nata già riformata secondo i criteri del mercato. Con tanta determinazione e con la voglia di sperimentarsi, perché ci credevamo veramente, siamo arrivati ad occupare spinti anche dalla forza di una giornata in cui tanti e tante sarebbero scesi nelle piazze, si sarebbero riappropriati di pezzi importanti di reddito mettendo in campo diverse pratiche di sciopero sociale. Non sara’ forse ancora lo sciopero sociale capace di generalizzare le lotte contro l’austerity, in grado di mutare i rapporti di forza in questa giungla di precarietà, ma una tendenza la si può cominciare finalmente ad intravedere.

Sarà una strada lunga che parte dai bisogni e vuole arrivare a realizzare i sogni.

Sarà una strada lunga perché non ci sono scorciatoie, deleghe a partiti e sindacati o capipopolo, quando un processo sociale e’ vero, o diviene collettivo o semplicemente non sarà.

Siamo dunque partiti dall’inchiesta metropolitana perché il bisogno non è solo l’emergenza ma una complessità di desideri negati, l’impossibilità di autodeterminarsi. Attraverso il processo d’inchiesta abbiamo compreso che oggi i bisogni non si percepiscono più direttamente ma piuttosto in relazione ad una necessità di cambiamento e trasformazione radicale dell’esistente. E allora forse possiamo dire che Alexis occupato non parte esclusivamente dai bisogni ma anche dai desideri. Questa è l’utopia concreta da cui ripartire. Ma chi ha detto che non c’è Non si può forse dire lo stesso di quelle lotte di resistenza, che iniziano con un NO, e che poi cominciano a portare elementi di proposta, “dal no, all’alterità”, passando dalla resistenza ai percorsi di indipendenza, le necessarie lotte contro l’austerity?

Allo stesso tempo abbiamo visto in questi anni momenti di forte conflitto e radicalità che però evidentemente non hanno sedimentato cio’ che e’ necessario esprimere: eppure quelle piazze erano piene, quei corpi c’erano e molto spesso hanno deciso di resistere. Ora bisogna avere la capacita’ di passare dalla resistenza alla produzione dell’alterita’ politica.

Crediamo che la riappropriazione diretta del reddito che ci spetta (sotto forma di case, spazi di socialità e relazione, di saperi) possa rappresentare la chiave giusta per ricomporre precari e precarizzati, tenere insieme conflitto in cooperazione, rabbia e amore. Un reddito che vogliamo incondizionato e per tutti.

Dagli zapatisti abbiamo imparato todo para todos nada para nosotros. Da questa occupazione si aprirà un’ulteriore lista abitativa, una lista non dell’emergenza ma del desiderio, una lista della disponibilità a rendere riproducibile la pratica della riappropriazione. Vogliamo creare complicità con questo territorio ribelle e con chiunque nella metropoli e in Italia crede si sia aperto un processo costituente che tende al cambiamento radicale e dal riappropriarsi delle case passeremo a tutto quello che ci hanno sottratto. Siamo realisti, vogliamo tutto, vogliamo l’impossibile.

In questo senso vogliamo resistere ad un eventuale sgombero che altro non sarebbe che uno sgombero di ordine pubblico dovuto all’assenza di una qualsivoglia capacità di risposta politica. Non era mai successo a Roma che così tante occupazioni avvenissero in un solo giorno eppure i giornali e i media non ne parlano, nessuna dichiarazione del sindaco né della pseudo opposizione.

La politica abdica in favore delle forze del (dis)ordine. Dal silenzio trapela la preoccupazione degli organi istituzionali, dei dispositivi repressivi e dal potere rispetto ad una possibile generalizzazione del conflitto.

Di fronte a loro troveranno una generazione non più disposta a mediare, senza più ansia del futuro solo con il desiderio di resistere un minuto piu’ di loro. Quella dei precari di seconda generazione che vivono in un presente dilatato, tra lavori intermittenti, disoccupazione giovanile, nell’assenza totale di diritti. Di fronte a loro una rabbia diffusa e’ pronta ad esplodere ed un contesto sociale deteriorato e pieno di rancore. Di fronte a loro una crisi della rappresentanza che lascia spazio ad ambiguità e vuoti che se riempiti dai movimenti possono diventare qualcosa di potente. Ci si vede dalla parte giusta delle barricate.

Roma. Ondata di occupazioni. comunicato STUDENTATO/CASA DEI PRECARI –ALEXIS

Ieri abbiamo occupato lo stabile in via Ostiense 124 e lo abbiamo chiamato Alexis, perché quando diciamo che i compagni/e vivono nelle lotte, ci crediamo veramente.

Infatti la giornata di ieri è stata una grande giornata di lotta, una giornata di cortei, di occupazioni e di risposta reale .

Lo avevamo detto, scendere in piazza a consumare le strade non ci basta più, cominciamo a portare elementi di proposta, luoghi dove sperimentare il comune e le possibilità oltre l’esistente, oltre il capitalismo.

Alexis vuole essere uno spazio aperto alla città, vuole essere una risposta abitativa per gli studenti che non hanno alcuna agevolazione da parte delle università dal punto di vista di alloggi che vengono messi in affitto e nei quali l’accesso è sempre più limitato se non sconveniente, visto il decentramento degli alloggi che spostano il problema abitativo con quello della mobilità, oltretutto concepiti come mini-caserme (documenti all’entrata).

Ma Alexis vuole anche uscire dalla situazione prettamente studentesca in quanto poi parlare di soggettività studentesca oggi è qualcosa di molto difficile, preferiamo parlare di precari in formazione, essendo questo soggetto inserito da subito nella totale  precarietà, e quindi pensare ad una casa anche dei precari e delle precarie in un contesto sociale e con un mercato del lavoro non solo disastroso, ma sempre più portato verso il baratro da parte delle misure di austerity messe in campo per il mantenimento del sistema economico-politico.
Tutti noi siamo già da tempo nella giungla della precarietà e ci ritroviamo nel “gioco” delle 47 modalità contrattuali o a nero a dover accettare lavori sottopagati e prese in giro varie, qualcosa di sempre più diffuso, ma la necessita di non accettare questa condizione si fa
sempre più forte.

Alexis quindi si colloca in uno spazio cittadino, di una citta dove l’abuso edilizio e la speculazione sono altissimi, dove  sono più le case senza persone che le persone senza case, ma anche direttamente nello spazio territoriale dove a pochi metri si compie una grandissima speculazione su quello che era l’ex “quartier generale” acea tenuto in affitto al costo di un miliardo e mezzo l’anno da parte della regione , vuoto e frutto delle speculazione di più privati, aziende , costruttori noti e in un territorio che subisce fortemente in maniera
negativa la presenza di una grande fabbrica, la fabbrica del sapere di Roma3.

Allo stesso tempo Alexis vuole collocarsi in uno spazio transnazionale ed Europeo, perché sente forte il bisogno di una connessione e di generalizzare il conflitto in tutti gli ambiti sociali, sente il forte bisogno di cambiamento e di alterità, vuole darsi come tendenza lo
sciopero sociale.

Rivendichiamo reddito, perché non vogliamo piegarci al ricatto del lavoro sottopagato e dello sfruttamento e lo facciamo riprendendocene un pezzetto, smettendo di pagare l’affitto e le case, i soldi che buttano, con cui speculano, devono cominciare a darli alle persone.

Stamattina hanno sgomberato l’occupazione di Sette Camini e, mentre scriviamo, sappiamo essere in atto altri tentativi di sgombero, ma anche conseguenti mobilitazioni per rispondere subito ad ogni intimidazione; noi portiamo la nostra vicinanza e complicità e sappiamo tutti e tutte che anche se sgomberati, non finisce qui.

Oggi pomeriggio invitiamo tutte le realtà di movimento, tutti soggetti singoli, gli abitanti del quartiere, studenti e chiunque voglia, ad intervenire e a prendere parola con noi in un’ASSEMBLEA PUBBLICA CITTADINA e a sentirsi complici di un progetto ed una prospettiva, che tende al cambiamento non solo possibile ma necessario.

L’appuntamento è venerdì 7 dicembre ore 18 in via Ostiense 124, nel nuovo studentato/casa dei precari Alexis

Nuova Occupazione Abitativa di Studenti e Precari in ricordo di Alexis

6 dicembre 2012 >> Roma >> Sciopero sociale.

Contro la crisi che ci nega il presente, ci riprendiamo uno spazio abbandonato come nuova occupazione abitativa di studenti e precari… perché vivere non è sopravvivere.

 

E’ NATO…
Oggi nella giornata di sciopero sociale e mobilitazione studentesca é stato liberato ed occupato da un gruppo di studenti e precari lo spazio di via Ostiense 124, da anni consegnato al degrado per l’incuria delle amministrazioni interessate solo agli affari con le cricche.

… è uno studentato!

perché molti di noi sono studenti dell’università Roma Tre.

Abbiamo pagato anni di affitti alle stelle, senza contratto, tra un lavoro precario e l’altro senza mai trovare il tempo di affrontare gli studi al meglio. Abbiamo capito fin da subito che l’università, sempre più inaccessibile, ha perso il suo ruolo di ascensore sociale e ci offre solo bassa formazione. Ci hanno sbattuto in faccia la totale inefficienza dei servizi per il diritto allo studio di Laziodisu e la totale mancanza di una qualche politica abitativa.

… é la casa delle precarie e dei precari!

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sia perché l’università è già un’azienda e lo studente è già un precario. Sia perché tutti siamo precari*: chi finto lavoratore autonomo pagato con voucher o partita iva senza contributi né diritti, chi disoccupat* o sottoccupato perennemente in cerca e persino chi un lavoro ce l’ha ma ugualmente conosce il baratro di un sistema che non garantisce reddito sufficiente per vivere né tantomeno la possibilità di costruirsi un futuro.

… é molto di più!

Quella abitativa è la prima emergenza sociale a Roma: Student* costretti nella mancanza di garanzie dell’affitto in nero, lavorator* precar* strozzati da mutui e affitti, migranti discriminati e costretti a vivere ammassati in 20 in un appartamento o direttamente per strada. Nel contesto di crisi perenne in cui viviamo la mancanza di un tetto non è soltanto un problema delle fasce sociali più deboli ma un dramma per tutti. Eppure le risposte che riceviamo dai nostri amministratori e governanti sono gli sfratti, la svendita degli immobili pubblici, l’abbandono dell’edilizia residenziale popolare, la speculazione e le parentopoli diffuse.

 

Abbiamo smesso di credere alle chiacchiere, alle promesse, alle elezioni e oggi, con tutti i Movimenti per il Diritto all’Abitare di Roma,  ci riprendiamo una casa, un pezzo di reddito, un pezzo di vita! Perché è l’unica cosa che possiamo fare, perché è l’unica cosa che vogliamo fare.

Vogliamo dedicare questa occupazione ad Alexis Grigoropoulos, ragazzo di soli 16 anni ucciso dalla polizia in Grecia 4 anni fa, perché i nostri bisogni erano i suoi, perché i nostri desideri e le nostre lotte ci uniscono per sempre.

 

Invitiamo tutte e tutti a partecipare all’assemblea pubblica che si terrà oggi stesso, 6 dicembre, alle 16.30 ovviamente nel nuovo spazio riappropriato di via Ostiense 124.

Le Parole Sono Ancora Pietre: “Diserzione. Tapum – tapum – tapum” di Lanfranco Caminiti

Pubblichiamo il racconto Diserzione. Tapum – tapum – tapum di Lanfranco Caminiti per il decennale del LOA Acrobax, nell’ambito del progetto “Le parole sono ancora pietre“.

“Le parole sono ancora pietre” nasce come un laboratorio permanente e si propone di coinvolgere professionisti della narrazione – coloro che con le parole ci lavorano, che le usano ogni giorno per raccontarci un pezzo di realtà – allo scopo di riflettere con loro sulla possibilità di “smontare le narrazioni tossiche”, di inventare parole nuove, di riscrivere alfabeti, dizionari, grammatiche.

Ognuno scelga un termine e su quel termine scriva un testo, lungo massimo due cartelle. I testi verranno pubblicati su social network, blog, siti e riviste, letti, recitati, cantati pubblicamente e filmati per raggiungere più persone possibile e stimolare il dibattito”.


Diserzione. Tapum – tapum – tapum

di lanfranco caminiti

Ora che il papà era morto, quel filo sottile che ancora li legava alla loro terra,la Calabria, rischiava di spezzarsi per sempre. Finché c’era lui, anzi finché lui era ancora in grado di stare dietro alla campagna – quei pochi ettari dove aveva qualche piede d’olivo e la vigna che era tutto il suo orgoglio –, che gli ultimi anni li aveva passati quasi sempre a letto e intontito dal dolore e dalle medicine, con una badante che lo accudiva per tutto, loro ci tornavano quando potevano, il più grande viveva a Milano, in non so quale azienda farmaceutica, la femmina a Mestre a insegnare, il più piccolo a Roma, sempre precario, ma erano secoli che non si ritrovavano insieme, i tre fratelli. Ora che si erano riuniti anche solo momentaneamente – gli ultimi giorni del padre, il funerale, le formalità di rito –, fu un pensiero comune, un riflesso immediato quello di vendere la terra, chi l’avrebbe mai seguita? E la casa. Morto lui, non c’era nient’altro.

Invece, le cose presero un’altra piega. Toccò a Giovanni, quello piccolo cui non avevano rinnovato non so quale contratto e aspettava non so quale nuova chiamata, avanzare l’idea di mettere a posto la casa, magari lui poteva farsene carico, Francesco doveva rientrare all’azienda e Maria aveva la scuola e gli studenti a aspettarla. Avrebbero spuntato un prezzo maggiore, con la casa messa a posto, o potevano dare in affitto la terra – non erano ragionamenti sensati, però erano pensieri del cuore, nodi irrisolti e ci indugiarono e se ne convinsero. Francesco trovò un modo, in realtà fu Maria che aveva sensibilità per le cose, per i soldi: disse a Giovanni di tenersi il libretto delle poste di papà, quello della pensione, e usarlo intanto che sbrigava tutta la cosa, che poteva considerarlo un anticipo di quanto avrebbero poi diviso dal ricavato della vendita della terra. E semmai fossero serviti altri soldi, lui avrebbe provveduto. «Fa così, gli disse Maria, che ti prendi pure un po’ d’aria buona. Mettici il tempo che ci vuole, hai tutta la primavera davanti». Magari, la cosa vera era che doleva a tutti quella decisione – in quella campagna avevano trascorso la loro infanzia e adolescenza, vi erano cresciuti liberi e selvaggi, e i loro ricordi erano bellissimi, strazianti per essersene dovuti andare – e Giovanni, alla fine, era il più determinato. Se fosse rimasto, l’avrebbe fatto davvero. Giovanni restò.

E si mise subito di lena buona per sbrigare la faccenda. Sparse in paese la voce che voleva vendere la terra e che gli servivano un paio di braccia per faticarci un po’ intanto a sistemare la casa. Che lo guardarono come si guarda uno che dice cose strane, ma gli dissero di prendere Zibibbo, tonto come un pollo ma forte come un mulo. «È giusto per quello che vuoi farci, tu gli spieghi, lui non si ferma più». E che gli sarebbe tornato buono pure il polacco «quello sa fare tutto, e si prende poco». Con Zibibbo e il polacco si misero d’accordo e con un furgoncino rimediato – caricarono pale, picconi, martelli, trapani, tubi, i sacchi di cemento, la sabbia, una carriola, Giovanni era stato sempre bravo con le mani – andarono in campagna il giorno dopo.

Dovevano per prima cosa sgombrare l’area, restituire al fabbricato della casa la dimensione originaria. Partirono dal pollaio, che poi era tutto assi di legno ormai marcio e reti di ferro arrugginite e travi rimediate – vide quelle vecchie traversine delle ferrovie – e pezzi di amianto per tetto. Spostavano le cose lentamente, e c’era tanta fatica, lui poi si era disabituato a lavori così duri, per fortuna Zibibbo si rivelò davvero un caterpillar e il polacco un lavoratore sapiente. Avrebbero poi buttato giù la tettoia all’ingresso con ancora il vecchio forno dove una volta si faceva il pane e poi quello che papà chiamava “il magazzino”, dove un tempo teneva gli attrezzi e i concimi e le canne per i pomodori e la pompa con il verderame, e certe annate che gli girava ci metteva pure i conigli a figliare, quattro mura tirate su alla bell’è meglio. Poi avrebbero attaccato la casa, quattro stanze, con cucina e bagno, che invece aveva un aspetto solido, mura da ottanta-novanta centimetri. L’aveva tirata su il nonno Tommaso, con le sue mani, facendosi aiutare dagli altri contadini, e dai braccianti che venivano per la vendemmia, come si usava un tempo, quando era tornato dalla guerra,la Prima, quella che i morti erano stati come le mosche e che ogni paesuzzo c’aveva il suo monumento con la lapide che non finiva mai per quanti nomi c’erano e i cannoni – pure il suo ce l’aveva, che ci giocavano da bambini.

Giovanni se lo ricordava ancora bene nonno Tommaso, un uomo dritto come un fuso, sembrava fatto di legno duro, con due baffi ingialliti dal sigaro, e le mani torte dal lavoro in campagna e gli occhi azzurri e una tosse che non lo lasciava mai perché aveva respirato il gas della guerra. Un socialista, di quelli quando a battersi per la terra se ti andava bene rimediavi il calcio dei fucili sui denti e sulla testa e se ti andava male la scarica dei medesimi fucili dei carabinieri del regio esercito. Lui non aveva paura, andava avanti, di scariche di fucili ne aveva affrontate talmente tante in guerra che doveva averci fatto un contratto perché ne usciva indenne. C’era sempre stata la sua foto nella cristalliera di casa, tra i bicchierini del rosolio che ne erano rimasti tre e le tazzine del servizio che nessuno aveva mai usato.

Partirono dal tetto, togliendo e sostituendo le tegole che si erano sbreccate, e poi smerigliarono le travi e poi tolsero via l’incannucciato dove ancora era rimasto, qualche topo che aveva tana scappò via, e poi misero le assi nuove, si stupiva di trovare ancora le cose quasi integre, l’ossatura era sana. Dopo un mese, il lavoro anche se a rilento era a buon punto – molto tempo se ne andava anche portare tutti i detriti a una discarica comunale. D’altronde nessuna telefonata gli era ancora arrivata per proporgli un qualche progetto, un qualche contratto, un qualche lavoro a nero. E il tempo era splendido, tiepido e ventilato. Si sentiva in forma, e ogni giorno che passava, invece di stancarsi, gli sembrava di diventare più forte, più resistente. Aveva ragione Maria.

Decisero di cominciare a lavorare le mura dal lato nord, quello che dava verso la vigna – un geometra l’aveva aiutato a fare uno schema delle tracce per acqua, luce e gas, la pianta del fabbricato sarebbe rimasta la stessa – e bisognava darci di trapano per togliere tutto l’intonaco che poi avrebbero rifatto, per il pavimento aveva pensato di mettere quel nuovo finto parquet fotografato che costava poco e era facile a montarsi e il linoleum in bagno e cucina.

Fu mentre lavoravano alla prima parete che saltò fuori la nicchia, l’intonaco suonava a vuoto. Un tempo si costruiva così nelle case contadine, si lasciava sempre – le mura erano profonde e solide, di pietre e mattoni pieni – una nicchia che poteva servire da mobile, come una madia, con due ante a chiuderla. Solo che nello spazio trovarono uno zaino. Era uno zaino militare, di stoffa pesante, come non ne avevano visti mai, con la trama ormai logora e consunta, e che intuirono potesse essere stato di nonno Tommaso. Dentro trovarono lettere, giornali, cartoline postali, fogli giudiziari e un diario, che Giovanni iniziò a leggere avidamente. Era il diario dei giorni del processo cui nonno Tommaso, insieme a altri commilitoni, era stato sottoposto, accusati dal Tribunale militare di avere sparato contro il tenente Miceli, lì tra le trincee del Carso. Nel carcere militare, nonno Tommaso aveva pensato di affidare a quella forma di testimonianza la sua verità, convinto probabilmente che sarebbe stato fucilato da lì a poco.

Giovanni non riusciva a staccarsi da quelle pagine: vi si raccontavano gli orrori della guerra, della trincea, delle malattie, dei pidocchi che ti succhiavano il sangue, delle agonie dei compagni rimasti avviluppati tra i reticolati della terra di nessuno, colpiti di cecchini austriaci, e che nessuno andava a prendere, del rancio schifoso, del freddo. E della follia che progressivamente s’era impadronita della mente del loro tenente, che continuava a sfiancarli di sentinelle e veglie e li mandava all’assalto come carne da macello, e di quando aveva ucciso sul posto un soldato, il primo che gli era capitato vicino, perché un plotone s’era rifiutato a un ennesimo attacco. Dovevano ricevere il cambio e andarsene da lì, invece il tenente s’era speso presso il Comando perché da lì non si muovessero – restare o morire – e loro erano già morti. Non sapeva dire chi avesse sparato – davanti a Dio l’avrebbe giurato – e non avrebbe neppure saputo dire se il colpo fosse partito dalle linee austriache, forse una scheggia di rimbalzo su qualche roccia, su qualche lastra di ferro, o se invece fosse stato uno degli italiani a sparare. No, non aveva pianto per il tenente, ma ormai non si piangeva più per niente e nessuno, si era come morti, come avrebbero potuto piangere? Diserzione, era questa l’accusa, un morbo che prese i soldati intorno Caporetto – quando i generali mostravano la loro incapacità e la loro cialtroneria – e i carabinieri passavano giornate a fucilare quelli che acchiappavano, senza neppure processo. Diserzione era il grido che i socialisti austriaci e italiani avevano lanciato contro l’insensata guerra. Nonno Tommaso s’era salvato, e anche i suoi compagni. Evidentemente, persino il Tribunale militare, o fu proprio quel giudice, non se la sentì di passarli per le armi, e era meglio evitare che la cosa si trascinasse e per l’onore dell’esercito e per la tenuta dello spirito dei soldati. Al tenente avrebbero dato una medaglia alla memoria.

Giovanni si chiese perché mai nonno Tommaso avesse deciso di seppellire quella vicenda, di celarla nell’anfratto delle mura, nessuno in famiglia aveva mai sentito di quella storia. Il diario arrivava fino al giorno della sentenza e alla liberazione. Poi, nell’ultima pagina c’era scritto così: «Ho mentito davanti a Dio».

Decise di rimettere lo zaino al suo posto, avrebbero rifatto l’intonaco bene, e non ne avrebbe parlato neppure ai suoi fratelli. Zibibbo e il polacco non ci avevano capito nulla, e andava bene così. Sarebbe stato il suo segreto con nonno Tommaso. Il segreto di quella casa.

Stava proprio cominciando ad affezionarsi a quello scatafascio.

Nicotera, 28 novembre 2012

 

Per il decennale di LOA Acrobax

La libertà non cade dal cielo, si strappa giorno per giorno

Puntuali come un orologio svizzero, a soli tre giorni dall’imminente mobilitazione di sabato prossimo a Lione, arriva su tutto il territorio nazionale l’ennesima vile operazione repressivo-mediatica nei confronti di 19 attivisti No Tav.

I fatti contestati nell’operazione scattata all’alba di oggi riguardano l’occupazione simbolica degli uffici della GeoValsusa del 24 agosto 2012, impresa complice della devastazione e militarizzazione del territorio della Val Susa, nonchè i fatti avvenuti il 29 febbraio 2012 durante il blocco autostradale realizzato in quei giorni a Chianocco, quando giornalisti del Corriere della Sera presenti con tanto di furgone attrezzato, non solo per le riprese ma anche  per le intercettazioni, sono stati cacciati dagli attivisti che hanno smascherato il ruolo di una informazione embedded inviata come arma di propaganda di massa contro la verità di chi lotta in difesa del proprio territorio.

Per l’ennesima volta, e a dieci mesi dall’ignobile inchiesta firmata dal Procuratore-capo di Torino, Giancarlo Caselli, i poteri forti tentano la carta della criminalizzazione volta a intimidire chi ogni giorno si mobilita contro la becera retorica strumentale di un governo liberista che utilizza il tema della crisi economica per sostenere lo scempio ambientale ed economico del Tav. Per tutelare l’operazione si è ricorsi nuovamente alla pratica dell’occupazione militare: centinaia di uomini hanno letteralmente bloccato l’accesso al centro abitato di Chiomonte, violato e rimosso il presidio dei No Tav, sancendo che l’unico modo di colpire il movimento è l’imposizione di un vero e proprio stato d’eccezione.

A questo si aggiunge l’ignobile tentativo di pochi giorni fa di stigmatizzare i genitori che portano i propri figli alle manifestazioni NoTav, denunciandoli ai servizi sociali.

Come troppo spesso accade, non possiamo che constatare come i poteri dello stato e i suoi esecutori stiano sperimentando e sedimentando pratiche repressive per cui, in questo contesto di crisi gestito a colpi di austerity, la sistematica svolta autoritaria sta diventando prassi quotidiana. Il ministro Cancellieri solo pochi giorni fa ha nuovamente invocato uno strumento di repressione preventiva, una sorta di Daspo, che impedisca agli attivisti di partecipare ai cortei più significativi.

Le cariche selvagge, le identificazioni di massa e gli arresti scattatati il 14 novembre, nuova giornata di sperimentazione di uno sciopero sociale coordinato a livello europeo, si sommano al susseguirsi di misure cautelari per chi il 15 ottobre 2011 ha partecipato ad un corteo esprimendo legittimamente solo una minima parte della rabbia che ci portiamo dentro. Questi sono solo alcuni esempi di come la penalizzazione delle lotte sociali e la riduzione dell’agibilità politica dei movimenti indipendenti non siano nient’altro che dispositivi di controllo volti ad imporre un’analitica, capillare e strutturata prevenzione di ogni dissidenza sociale.

“Tutti insieme facciamo paura”: l’abbiamo gridato in migliaia nelle ultime manifestazioni e lo sanno bene i signori chiusi nei palazzi. Questa consapevolezza pone però la necessità di articolare un discorso politico ampio e comprensibile che rompa l’isolamento della repressione, che sappia trovare meccanismi e dispositivi di cooperazione dentro e fuori i movimenti in grado di mettere la solidarietà al centro delle nostre pratiche per spazzare via la delazione e il giustizialismo diffuso.

Nel governo dell’austerity e della paura, non solo gli/le attivist* ma tutt* dovremo aver ben chiara l’urgenza di guadagnare una piena agibilità, una vera libertà di movimento, oltre le continue limitazioni delle libertà personali e collettive che hanno reso l’Italia un enorme e insostenibile recinto.

Libere/i tutte/i

La nostra libertà non si paga. Si strappa!

Mentre scriviamo veniamo a conoscenza della riconquista del presidio di Gravella a Chiomonte: pensate davvero di poter vincere contro il popolo della montagna?