Il grado zero sul livello del mare, l’orizzonte del conflitto sociale

da www.uninomade.org

di RAFAEL DI MAIO

Nella crisi profonda si moltiplicano e si confondono un po’ ovunque figure di grigi funzionari della dialettica, da sempre schierati contro la liberazione dell’uomo dal lavoro. Avviene sovente anche nei sindacati e movimenti loro alleati quando s’improvvisano per i nuovi diritti, che peraltro la governance del bio-capitalismo tenta continuamente di catturare con riforme e sintesi normative – soprattutto nell’Europa lontana dagli interessi sul debito – per scandire la trasformazione continua del rapporto irriducibile tra lavoro vivo e capitale. Rovesciano e trasformano come un re Mida in un’alchimia negativa l’oro in merda, il reddito universale in sofisticati dispositivi di controllo sociale.

La finanziarizzazione definisce la sfera pubblica del capitale mettendoci davanti ad una crisi strutturale della governabilità, del valore e della sostenibilità stessa della moneta. Nella grande transizione dal fordismo al post-fordismo la crisi finanziaria diviene prima di tutto crisi sistemica del processo di valorizzazione. Nel bio capitalismo contemporaneo è ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione del lavoro nel diritto. Questa è ormai la tendenza costituente del profitto che diviene rendita. Sul piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Dentro le nuove striature del capitalismo digitale i colossi come Apple, Google e Facebook fungono come leve per la nuova misurazione del valore, come catalizzatori di informazioni sociali sui comportamenti della collettività che vengono continuamente ricombinate e analizzate  e che attraverso l’espropriazione del capitale sociale vengono monetizzate, senza nessun riconoscimento della effettiva ricchezza socialmente prodotta. Il lavoratore diviene una figura immersa nella produzione sociale. Gli utenti e il loro continuo interagire con i dispositivi  tecnologici in Rete operano sul campo immanente della produzione biopolitica che potremmo definire prod/utenza o co-creazione di valore.

Basti pensare ad esempio alle nuove sperimentazioni nel modello anglo-sassone di sostegno al reddito ai giovani tra i 15 e 24 anni. A questi viene erogato un sussidio minimo settimanale a fronte di prestazioni d’opera in lavori socialmente utili svolti in forma totalmente gratuita. Ragazzi giovani e giovanissimi che vivono tra la precarietà e la disoccupazione – del resto in Italia come sappiamo dalla pletora statistica è una condizione ancora più diffusa – che passano il proprio tempo su Internet e sui social network, dove lì si, lavorano permanentemente nella nuova accumulazione originaria che sulla rete poi si dispiega. Questo lato “estremo” del ragionamento sicuramente ancora tendenziale assume una centralità strategica se consideriamo le assurdità sulle quali misuriamo formalmente la composizione attiva e realmente occupata nel Mercato del lavoro. Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia viene considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il reale tasso di disoccupazione, che ovviamente viene calcolato solo sul bacino degli attivi e cosiddetti disponibili. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. Quale programma e quali “ricadute” possono misurarsi dentro tale contesto? A fronte della produzione sociale, dove il nesso si connette all’unica istanza possibile oggi, quella del reddito di cittadinanza – nel senso precipuo del reddito di esistenza, incondizionato, svincolato dal lavoro formalmente riconosciuto – quale dovrebbe essere se non il precariato metropolitano il referente, la soggettività produttiva emergente che rivendica i nuovi “claims”? E non dovremmo includere anche quella massa di operai precarizzati dalle crisi industriali, i lavoratori dei servizi e del pubblico impiego che in ogni dove moltiplicano le lotte e le forme di resistenza?

Le ricadute politiche divengono quindi macroscopiche e i nessi interni alla produzione sociale rompono anche il meccanicismo dell’organizzazione sindacale. Se nel capitalismo digitale il lavoratore diventa ibrido e doppio, da un lato costantemente attraversato dalle striature del comando centralizzato sulle infrastrutture informatiche e dall’altro, dall’auto-valorizzazione delle proprie attitudini, saperi, affetti e desideri, la forma della possibile organizzazione politica sposta completamente il suo asse dalla sottomissione formale del lavoro nel capitale, alla sussunzione reale del lavoro vivo nelle macchine e nelle maglie dell’irrigimentazione capitalistica. Dobbiamo quindi continuare ad approfondire la relazione tra i processi della nuova valorizzazione e la rivendicazione del reddito di esistenza, se su questo terreno ci si vuole effettivamente cimentare sul piano politico.

Dopo aver visto per mesi la rabbia trasformarsi in disperazione, salire sulle torri, sui tetti o scendere in fondo ad una miniera è tornato ora il momento – semmai si fosse perduta questa elementare bussola – di riportare il conflitto sociale sul livello del mare, dove i piedi tracciano il suolo e i corpi riemergono insieme per attraversare l’orizzonte “in pianura” li dove ti sfruttano, ti picchiano, ti deportano, lì dove si soffre e si gioisce, lì dove si può perdere tutto ma certamente si può tentare ancora di rimanere vivi. E’ lì e solo lì che si può costituire quella materialità della lotta, ben oltre la nuda sopravvivenza. E’ lì che la disperazione può trasformarsi nuovamente in rabbia, in conflitto sociale, sovversivo, creativo e decidere di non tornare più a casa. Così come è la disperazione che porta donne e uomini senza prospettive, futuro e garanzie a rivendicare il semplice lavoro, come se chiedessero ancora solo sfruttamento e sacrifici. Bel quadretto da presentare ai padroni grazie ai sindacati. Con loro mai la rabbia diventerà gioia e desiderio per la trasformazione del presente. La crisi picchia duro e la politica si nasconde, nega la realtà e allora anche quelle forze sociali, operaie, marginalizzate, rimangono politicamente confuse, senza legami, prospettive, senza rivoluzione. Rivendicano semplicemente il lavoro – sfruttato sottopagato, unica fonte di reddito e nella disperazione come non comprenderli – senza potersi spiegare, con le proprie parole, quando l’unica cosa che conta è la sopravvivenza. Dove anche un bambino leggerebbe reddito intero contro lo sfruttamento, in quel chiedere disperatamente lavoro, lavoro, lavoro. Gli opportunisti, sindacalisti senza arte e solo con la loro parte, possono oggi schiacciarsi su questa dimensione populista del lavoro. Del resto nella disperazione sociale avviene questo e molto altro. Si fa gioco forza poi a negare la cooperazione, la produzione sociale permanente,  le forme di vita costantemente a lavoro. Un lavoro sempre più invisibile, in nero, gratuito, non riconosciuto che però oggi costituisce quella condizione generalizzata della precarietà diffusa che è innegabile in quanto costituisce l’unica realtà materiale per un intera generazione di precari, studenti, disoccupati, lavoratori cognitivi e “nativi digitali”.  Così è possibile mistificare quella mobilitazione permanente continuamente appropriata dal capitale, imponendo ancora il paradigma del lavoro come traduzione dei diritti. E poi di quali? Quelli che puzzano di morte come a Taranto o nel Sulcis dove per il profitto dovremmo accettare supini le briciole in busta paga mentre il senato globale dei rentier del capitaliasmo finanziario globale se la ride, sapendo bene che è nel “comune immateriale”, nella “produzione sociale dell’uomo mediante l’uomo” che si crea oggi ricchezza e si estrae il reale profitto, quel plusvalore sociale appropriato dalla rendita finanziaria che da rendita privata deve essere riconvertita in rendita sociale per combattere le crisi e costruire il futuro estendendo le pratiche del comune. Vi è una costituzione biopolitica delle lotte da organizzare dentro la moltitudine, dentro la cooperazione sociale, dentro i flussi della nuova valorizzazione. Questa moltitudine precaria rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, sicuramente impoverito. Reddito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale (affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva) ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali della rete e della nuova organizzazione del lavoro. Reddito intero per far saltare i dispositivi del biopotere e della sua governance.

15 settembre in Portogallo: dichiarare vittoria?

da www.uninomade.org

di PASSA PALAVRA

Il contesto

Il 7 settembre, il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho tiene un discorso in diretta rivolto a tutto il paese, prima di una partita della nazionale di calcio. Durante il suo intervento, il primo ministro annuncia l’aumento del 7% del valore della tassa  sociale unica (TSU), che deve essere pagata dai lavoratori del settore privato, e la diminuzione del 5% della somma imposta alle imprese. Una misura che si va ad aggiungere al vasto pacchetto di austerità che si sta accumulando a partire dal primo intervento della Troika (FMI, Banca Centrale Europea, Commissione Europea) nel 2010.

Già al tempo del governo socialista (PS) l’applicazione della ricetta di austerità era stata caratterizzata dal congelamento delle entrate e degli avanzamenti di carriera negli uffici pubblici, dall’aumento delle imposte sui consumi, dai tagli agli stipendi dei funzionari pubblici superiori a 1 500 euro, dal congelamento delle pensioni e dall’aumento dei ticket negli ospedali.

A metà del 2011, di fronte ai costanti “avvisi alla navigazione” provenienti da autorità economico-finanziarie (dalla Troika alle agenzie di rating), la nuova coalizione governativa (Partito Socialdemocratico e Partito Popolare) rompe la promessa elettorale di non aumentare le imposte approvando un’imposta straordinaria sui rendimenti equivalente al 50% della tredicesima. Giorni dopo, è annunciato il taglio della tredicesima per i dipendenti statali. Parallelamente, si verificano aumenti dei prezzi dei trasporti pubblici nell’ordine del 15%, e si assiste all’aumento di gas ed elettricità.

Nel pieno di questa ondata di misure, il governo modifica le leggi sul lavoro facilitando i licenziamenti, in parte ampliando il principio di “non adattabilità” del lavoratore al suo posto di lavoro [condizione che si verifica quando il lavoratore non si adatta a cambiamenti introdotti nell’ambiente di lavoro Ndt], in parte diminuendo gli indennizzi per il licenziamento senza giusta causa. Questa ricetta, tuttavia, non ha dato risultati. Il fatto che l’austerità costituisca un paradigma di governo economico transnazionale ha fatto sì che la speranza nell’aumento delle esportazioni si fondasse soltanto su di essa. La crescita esponenziale dei prezzi e degli indici di disoccupazione ha finito per portare alla riduzione del potere d’acquisto, al fallimento delle piccole attività commerciali e, di conseguenza, a un aggravamento della disoccupazione. Un meccanismo che non accenna a fermarsi e che non ha risparmiato quella che, in teoria, dovrebbe essere la “pupilla” dei partiti di centro: la famigerata “classe media”.

Il caso portoghese rivela la natura ideologica del termine “classe media”. Il debole tessuto produttivo nazionale ha basato il proprio vantaggio competitivo sul prezzo e non sul prodotto, ottenendo lucri facili a partire da salari bassi e dai più svariati “contorsionismi” fiscali. L’iniezione di fondi strutturali a partire dal 1986, anno in cui il Portogallo entra nella Comunità Economica Europea (CEE), ha fatto sì, tuttavia, che un’importante fetta della popolazione portoghese si ritrovasse con case di proprietà, automobili e ferie una volta all’anno. Un insieme di benefit che hanno simboleggiato l’ascesa verso un nuovo status sociale.

Al contempo, e nonostante gli aiuti finanziari, le strutture produttive non hanno messo in questione i propri presupposti di funzionamento e le proprie aree di attività. Per loro la modernizzazione ha significato soltanto adottare nuove modalità contrattuali, più “flessibili”, continuando a scommettere sul fattore prezzo.

La fine del sogno della “classe media” iniziò precisamente alla fine degli anni 90, quando questa scoprì che gli investimenti fatti sui propri figli non avevano portato ai risultati sperati. Per quanto il Portogallo sia ancora distante dai livelli dell’Europa più “evoluta”, e seppur continui ad avere una percentuale di abbandono scolastico assai elevata, il paese ha assistito negli ultimi anni alla massificazione dell’insegnamento secondario superiore. Tuttavia, una volta usciti da scuola e dall’università, i giovani qualificati hanno trovato, nella migliore delle ipotesi, un lavoro precario in centri commerciali o in call-center, impieghi che vengono presentati come “un’alternativa migliore della disoccupazione”. La “classe media” si è così confrontata con la sua sterilità. Una frustrazione che, insieme al costante aumento dei prezzi, all’invenzione di nuove imposte, ai crediti da pagare e infine, alla perdita dell’impiego, l’ha costretta a fare i conti con la propria fragilità.

La manifestazione

L’annuncio dell’aumento della TSU ha suscitato fortissime critiche, anche da destra. Partendo da esponenti di punta del PSD, come Manuela Ferreira Leite, fino ad arrivare a presidenti di gruppi economici, come Belmiro de Azevedo, l’opposizione a questa misura è stata generalizzata, viste le conseguenze restrittive su un potere d’acquisto già di per sé indebolito. La manifestazione “Basta Troika! Vogliamo le Nostre Vite” ha finito quindi per assumere dimensioni fuori dal comune. Partendo da un discorso più ambizioso rispetto ai precedenti, la manifestazione ha preso le mosse da un gruppo di singoli firmatari, quasi tutti figure pubbliche di sinistra o leader di piccole organizzazioni. Svoltasi in concomitanza con le manifestazioni in Spagna, l’iniziativa si è diffusa in 40 città portoghesi e in alcuni consolati portoghesi all’estero, dando vita alla manifestazione forse più grande degli ultimi decenni. A Lisbona, centinaia di migliaia di persone sono partite da Praça José Fontana in direzione di Praça de Espanha, un percorso che voleva esprimere solidarietà alle manifestazioni in corso nel paese vicino. Circa due ore dopo, in Avenida da Repùblica, si sono verificati i primi momenti di tensione, durante i quali frutti, petardi e bottiglie sono stati lanciati contro la sede di rappresentanza della Troika. Una persona è stata fermata da alcuni poliziotti in borghese. Arrivate alla fine del percorso, migliaia di persone, soprattutto i più giovani, hanno deciso di continuare la manifestazione dirigendosi verso la sede del Parlamento. In poco tempo, la piazza di fronte all’edificio si è rivelata troppo piccola per quella moltitudine che, per più di un’ora, ha continuato ad aumentare. É qui che si sono registrati i momenti di maggiore scontro tra manifestanti e forze di polizia. Per circa due ore bottiglie, pietre e frutta sono state lanciate a mano a mano che la polizia aumentava i propri uomini sulla scalinata. La polizia, a sua volta, ha organizzato alcune piccole azioni, fermando, alla fine, quattro persone.

Il modo di agire della polizia è stato, tra l’altro, una delle novità di questa manifestazione. Al contrario di quanto avvenuto durante lo sciopero generale del 22 marzo, le forze di polizia hanno agito in modo più strategico: pur non abbandonando le dimostrazioni di forza, le loro azioni si sono rivelate tuttavia meno concentrate sulla violenza sproporzionata e piuttosto sull’identificazione delle minacce e sul ricorso ad agenti in borghese per procedere con i fermi.

E adesso?

Di fronte alla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, è facile cantare vittoria. Da spettatori passivi, i portoghesi si sono evoluti improvvisamente in grandi attori. Il ricorso all’essenzialismo, per convinzione o per scopi strategici, ci sembra tuttavia poco fruttuoso, dato il suo carattere astorico e dunque non strategico.

Una manifestazione che riesce a riempire le strade di svariate città del paese, dimostrando, a tratti, di potersi radicalizzare (a Porto alcune vetrine di banche e di società assicurative sono state danneggiate, ad Aveiro un giovane di 28 anni si è dato fuoco, riportando varie ustioni), costituirà sempre un dato importante. Tuttavia, esistono problemi strutturali difficilmente risolvibili in un solo giorno. In primo luogo, come si è potuto forse evincere da quanto detto fin qui, la manifestazione ha rivelato una mancanza di orizzonte politico. Una gran parte dei cartelloni e degli striscioni esposti dai manifestanti continua a essere riempita con sfoghi o con semplici negazioni: da “Sono stufo..” a “Basta” passando da “No a…”. Questi slogan segnalano l’inesistenza di un minimo progetto politico, senza il quale qualsiasi critica ai partiti politici e ai sindacati, per quanto precisa, corre il rischio di assumere una posizione meramente difensiva, facilmente manipolabile dai populismi e/o dai poteri carismatici. In secondo luogo, non solo Grandola Vila Morena (inno della rivoluzione dei Garofani) è stata meno cantata di A Portuguesa (inno nazionale), ma la bandiera nazionale è stata di gran lunga il simbolo più visto in tutta la manifestazione. Da questo punto di vista, sembra che venga dato più peso al fatto che le politiche di austerità risultino da un processo di ingerenza esterna, il cui scopo sarebbe la diminuzione del debito pubblico, piuttosto che all’aspetto internazionale di tale processo (realizzato con lo stesso tipo di diagnosi e di intervento in altri paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda).

Il 15 di settembre è stata, certamente, la prova che nessuno sta con le mani in mano. E tuttavia dimostra al contempo quanto lungo e tortuoso sarà il cammino da percorrere.

* Pubblicato su http://www.passapalavra.info Traduzione dal portoghese di Silvia Genovese.

Assemblea pubblica della Popolare – Palestra indipendente

Stiamo entrando nel terzo anno di attività della palestra indipendente La Popolare, un esperimento di organizzazione e condivisione della pratica sportiva, un quotidiano esercizio di riappropriazione di spazio e tempo dedicato alla cura di se stess* e alla sperimentazione collettiva di autogestione.

In questi due anni il lavoro svolto è stato enorme: l’avvio dei corsi all’interno della struttura dell’ex cinodromo, la costruzione di reti cittadine di sport alternativo e popolare, relazioni e incontri con realtà nazionali e internazionali che fanno dell’attività sportiva una pratica politica, come anche i primi piccoli traguardi agonistici raggiunti grazie agli e alle atlet* che hanno portato nei tornei i colori de La Popolare, o i tanti stages che abbiamo ospitato, aumentando il nostro bagaglio di conoscenze.

In questi due anni il progetto si è arricchito della relazione quotidiana tra istruttori, atlet* e attivisti del collettivo e del Laboratorio Acrobax, contribuendo alla realizzazione di un’esperienza che sentiamo sempre più radicata nel nostro territorio. Dagli allenamenti alle iniziative di piazza, dalla sperimentazione di una nuova socialità alla rivendicazione di un modo di intendere la pratica sportiva promuovendo inclusività, rispetto, lavorando per una crescita collettiva e ponendosi in maniera antagonista verso il principio del profitto che inquina il mondo dello sport.

Con la prospettiva di far crescere il progetto della palestra come pratica alternativa di forme di organizzazione e relazione, sentiamo sempre più forte l’esigenza di condividere quanti più aspetti di questo nostro fare comune: dalla ricchezza del dibattito intorno allo sport popolare, ai piccoli sforzi necessari per rendere lo spazio sempre più vivo e accessibile.

Pensare ad una  pratica dello sport in forma autogestita, affermando la propria indipendenza politica ed economica da istituzioni, partiti, sindacati e da piccoli o grandi gruppi d interesse privato e’ cosa assai complessa e difficile;  soprattutto in una fase come quella che stiamo vivendo in cui le  politiche della paura e dell’ austerity, rafforzando lo strapotere delle banche, promuovono un progetto neoliberista che si riconosce in disvalori come  individualismo e  profitto. Come esperienza che nasce e si riconosce come espressione di movimenti sociali indipendenti e radicati in basso a sinistra, crediamo sia importante riannodare insieme etica e politica attraverso pratiche sperimentali, orizzontali e condivise, e che lo sport sia un’ottima opportunità  per farlo.

Abbiamo aperto una riflessione sulle possibili forme di “associazionismo popolare” di cui una realtà’ come la nostra  potrebbe dotarsi ed essere promotrice, anche attraverso incontri con realtà come il Babelsberg di Potsdam e il St. Pauli di Amburgo. L’  espressione “azionariato popolare”,  più diffusa in ambito sportivo, non ci convince poichè la riteniamo quantomeno ambigua su un punto decisivo: l’anticapitalismo; questo è  per noi un valore etico e politico discriminante. Crediamo che lo sport sia un campo nel quale poter sperimentare forme di cooperazione e autorganizzazione anche inedite, radicate nella proprie storie e con prospettive tutte da tessere. La Popolare è  un’occasione per testare la nostra immaginazione sperimentale e il nostro pensiero critico nel tentarci in tale direzione.

Anche per questo apriremo questa nuova stagione sportiva con un’assemblea allargata a quanti sentono proprio questo progetto e condividono la volontà di portare avanti attraverso lo sport una pratica di liberazione.

 

Invitiamo istruttori, atlet*, amatori e amatrici

Domenica 7 Ottobre  alle ore 17:30, presso il LOA Acrobax a partecipare ed animare
la discussione.

http://lapopolare.noblogs.org/post/2012/09/15/stiamo-entrando-nel-terzo-anno-di-attivita-della-palestra-indipendente-la-popolare/

 

s/Montiamo l’Università!

Chi semina precarietà raccoglie rabbia e tempesta.

Noi vogliamo vivere

Veniamo a conoscenza in questi giorni che Mario Monti, Ignazio Visco (governatore della Banca d’Italia) insieme ad altri nomi, di secondo piano ma ugualmente allineati, arriveranno a Roma Tre, nella facoltà di scienze politiche, per partecipare al convegno di 5 giorni della Società italiana di scienze politiche.
Ma sono i contenuti che assomigliano a una sberleffo se non ad una provocazione.
Leggiamo infatti che Monti parteciperà come relatore sul tema: “ripensare la politica per governare l’economia” e nello stessa giornata insieme a Visco si discuterà di “crisi della politica: partiti, rappresentanza e democrazia”.
Proprio loro, che rappresentano la sospensione definitva della democrazia in Italia, a favore degli interessi unici dei mercati finanziari e delle lobby di potere che rappresentano.

Nell’attuale fase di commissariamento del nostro governo e nella crisi della rappresentanza politica il problema non è ristabilire il primato della politica (partiti)  sull’economia (mercati). Il problema è la messa in discussione radicale delle scelte di economia politica che vengono attuate in diversi paesi europei (Grecia, Spagna, Italia), dove al ripetersi di manovre finanziarie di austeruty, si realizzano misure di  precarizzazione ulteriore del  mercato del lavoro, si attuano licenziamenti di massa, si privatizzano i servizi pubblici, si taglia la spesa sociale e gli investimenti in istruzione,  universita e ricerca. Altro che governi di professori o  governi tecnici si tratta di tecniche di governo autoritarie che attentano quotidianamente alla vita di milioni di soggetti precarizzati e impoveriti dalle politiche di austerity.

Inutile dire quanto queste iniziative siano un continuo sprecare e riciclare soldi dove (come sempre) non ci sarà la partecipazione di alcuni se non dei diretti interessati, professori e professorini, baroni o baroncini, sempre pronti alla difesa corporativa dei propri interessi.
Ricordiamo, con l’occasione, a lor signori (e signore) quanto quella fabbrica postfordista del sapere di nome “Roma Tre” impone ai suoi studenti forgiandoli nella e per la precarietà; quanto sia simbolo di quella concezione privatistica del sapere, assumendo a pieno tutte le misure e le caratteristiche delle riforme degli ultimi vent’anni; sintetizza a pieno quell’università/azienda che, come una grande company della conoscenza, si misura anche con le speculazioni immobiliari, contribuendo alla distruzione del territorio, alla chiusura degli spazi e delle case occupate.
per chi è questa università?
per chi è possibile questo accesso al sapere?
per chi fanno questi convegni?

Da una lato abbiamo un modello di università e di gestione dei saperi sempre più preoccupante, dove la spending review sancisce una differenziazione di classe vera e propria su principi di merito, in una condizione sociale dove di tutto si può parlare, tranne che di pari opportunità.
Dove si dichiara guerra alla figura sempre più diffusa dello studente/lavoratore che, spesso fuori corso, pagherà dentro l’università i costi sociali della crisi e dei tagli annunciati.
Un’università in linea con la società, dove manca qualsiasi sistema di welfare che non sia la famiglia.
Del resto in Italia siamo rimasti i soli all’interno della comunità europea insieme alla Grecia a non avere nemmeno uno straccio di sostegno al reddito.
Il Presidente del consiglio e il suo governo, che si presenta come tecnico, non è che l’espressione politica raffinata del neoliberismo, che cerca di tener vivo il mostro capitalista quando, ormai, è evidente che la crisi economica sistemica, verticale ed epocale che stiamo attraversando è stata prodotta da quello stesso modello.

Siamo studenti precari, che devono accettare lo sfruttamento quotidiano per arrancare, provare ad andare avanti, anche solo per pagarsi gli studi. Siamo gli occupanti di casa, siamo disoccupati, precari e precarizzati, abitanti di questo territorio e non permetteremo che tutto ciò avvenga nel silenzio, che un affronto del genere passi inosservato
Siamo a volte indecifrabili agli occhi di governanti, sociologi e opinionisti. Ma sia chiaro che la fase dell’autocommiserazione è terminata, siamo sicuramente stanche e stanchi della precarietà, ma arrabbiati  e ovunque sfruttati, rivendichiamo di essere soprattutto vivi.

Lanciamo questo appello a tutte e a tutti perchè crediamo che questo convegno non sia un affronto solo a chi vive i nostri  territori (nello specifico San Paolo, quartiere resistente da sempre) ma tutta la metropoli di roma.
Non sappiamo questo autunno cosa accadrà e quali spazi di libertà riusciremo a strappare, ma sappiamo che sarà un anno difficile a Roma,come nel resto di Italia.
Come molti movimenti in giro per il mondo, che hanno già cominciato ad affermare le istanze del comune e del desiderio collettivo, vogliamo riprenderci le strade dell’alterità per costruire, qui ed ora, in questo mondo, l’alternativa come concreta e necessaria utopia, a partire da noi e dai nostri diritti, bi/sogni, desideri.

Il passato conoscilo, il presente vivilo, il futuro senza la lotta dimenticalo!

Giovedì 7    ore 19  assemblea cittadina! Facoltà di Sociologia della Sapienza
Martedì 11  ore 18  assemblea degli studenti, delle realtà cittadine e del territorio! Sc.politiche RM3
Giovedì 13  ore 9    s-Montiamo l’Università

s/Montiamo l’Università!

 

Scuola Estiva UniNomade: Conricerca e biocapitalismo

 

 

 

Presentiamo a Roma la summer school di uninomade scegliendo l’università come terreno sociale di cooperazione e di confronto anche a partire dalla centralità che incarna nelle trasformazioni della
metropoli, nei suoi flussi produttivi, all’interno del suo continuo e
dinamico processo di valorizzazione. Uninomade rappresenta oggi un
prezioso spazio di elaborazione teorica e politica dove i movimenti
possono trovare le sintonie giuste per tracciare nel lingiaggio comune
anche un possibile spazio di riflessione politica e ed elaborazione
teorica comune: una sorgente alla quale abbeverarsi e contaminarsi, un
necessario contributo alla soggettivazione politica dei movimenti.
Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare all’incontro che si
terrà a Sociologia lun 3 h 17:00

Il Collettivo UniNomade propone per settembre una ‘scuola estiva’ a Passignano sul Trasimeno in Umbria. Per registrarsi e richiedere ulteriori informazioni scrivere a: summerschool@uninomade.org. I materiali preparatori si trovano su questa pagina (continuamente aggiornata). Per le soluzioni di alloggio consultare questa pagina.

 

 

UniNomade Summer School
Conricerca e Biocapitalismo
6-9 Settembre 2012

Auditorium Urbani, Via Europa [mappa]
Passignano sul Trasimeno, 06065 Perugia

 

Viviamo oggi in una fase segnata da continuità e discontinuità: la crisi si approfondisce e assume il profilo di condizione permanente del capitalismo contemporaneo, anche se a ciò non corrisponde in modo meccanico e sincronico il “ricomporsi” dei processi di conflitto. E tuttavia, quasi quotidianamente assistiamo al moltiplicarsi – dalle fabbriche alla metropoli, in Italia e in giro per il mondo – di movimenti e lotte che ci parlano del concreto rovesciamento della crisi in uno spazio di possibilità.

É in questo passaggio storico che il Collettivo Uninomade 2.0 propone quattro giorni di confronto e approfondimento sulla costituzione ‘biopolitica’ del presente e sulle modalità di attivazione di processi di conricerca. Indagare la produzione di soggettività e la potenza costituente dentro la nuova composizione del lavoro vivo, le forme di lotta e le temporalità differenziate, i luoghi e le dinamiche di connessione: ecco la sfida che collettivamente  abbiamo di fronte.

Vogliamo esercitare una critica dell’economia politica all’altezza del presente, cogliere le relazioni tra rendita finanziaria e potere sulle vite, sviluppare pratiche biopolitiche capaci di aprire nuovi spazi di cooperazione tra singolarità, trasformare in antagonismo il conflitto messo a valore dal capitale — e sperimentare, dunque nella crisi, processi costituenti per la riappropriazione del comune.

La “scuola estiva” di UniNomade vuole perciò essere un momento di confronto e discussione tra esperienze, uno spazio di elaborazione di linguaggi comuni, di condivisione di metodi e processi di conricerca. Si propone di contribuire, innanzitutto, alla creazione collettiva di una maniera di vivere la politica dentro la crisi, cioè di uno stile di militanza. Invitiamo perciò alla partecipazione compagni e compagne, collettivi, gruppi di inchiesta, reti, tutte e tutti coloro che sono impegnati nelle lotte e nella costruzione di un pensiero e una pratica all’altezza della trasformazione dell’esistente.

*  *  * 

Programma provvisorio

6 settembre

  • 17:00-19:00.  Toni Negri: Biocapitalismo e costituzione politica del presente

7 settembre 
Critica marxiana dell’economia politica e suoi sviluppi in epoca di biocapitalismo cognitivo

  • 09:00-13:00. Adelino Zanini, Toni Negri, Carlo Vercellone, Matteo Pasquinelli.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare sui processi di valorizzazione nel biocapitalismo: coordinano Gigi Roggero e Salvatore Cominu.

8 settembre
Rendita e biopotere: socializzazione del reddito e rifiuto del debito

  • 09:00-13:00. Christian Marazzi, Stefano Lucarelli, Maurizio Lazzarato.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare relativi ai processi di socializzazione del reddito e di rifiuto del debito: coordinano Andrea Fumagalli e Sandro Chignola.

9 settembre
Biopolitica: la fabbrica della strategia ai tempi delle moltitudini

  • 09:00-13:00. Cristina Morini, Tiziana Terranova, Toni Negri, Giso Amendola.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca su corpi, queer e (ri)produzione: coordinano Anna Curcio e/o Roberta Pompili.

http://uninomade.org/uninomade-estiva-2012/

 

Perchè la memoria è un ingranaggio collettivo

E’ ormai da alcuni mesi che realtà sociali ed antagoniste propongono un dibattito dopo la proiezione del film “Diaz, don’t clean up this blood” di Daniele Vicari. E il perché risiede, probabilmente, non in una corsa sfrenata a ripetere meccanicamente iniziative su tutto il territorio nazionale ma, piuttosto, nella necessità di trovare dei momenti di approfondimento e discussione di una delle pagine più forti della storia italiana.
Perchè chi vuole vedere quel film sa di essere di fronte ad un episodio che è entrato ormai a far parte degli eventi che hanno segnato questo paese. Lo sono quei giorni, le ore, i giorni e le settimane che lo hanno preceduto.
Le aspettative e le energie di chi lo ha preparato e vissuto. Di chi lo ha subito, sulla propria coscienza e sulla propria pelle. Chi lo ha respirato nella sua portata di trasformazione e di disvelamento di una nuova fase del nostro paese e dei poteri che lo governano.
Perchè, come ogni evento di portata storica, tralasciando l’epica che questa affermazione porta con se, ha un coinvolgimento e un’influenza non solo per chi vi ha partecipato, dalla parte dei sommersi o dalla parte dei salvati, ma anche per chi si trova per sua superficilità, o per scelta o per età lontano da quegli eventi.

Perchè Genova è stato il racconto di un’ondata che ha portato prima, durante e dopo migliaia, centinaia di migliaia di persone in piazza. Genova non è stata, (perchè non lo è mai nella storia), un evento singolo, ma la parte più evidente di un iceberg.
E quello stesso movimento, non nelle sue strutture organizzate, nelle sue critiche e limiti, non nella sua sconfitta, ha sedimentato ed agitato potenza a livello globale.
Con le parole e i contenuti, con l’immaginario e le storie, con quello che è ne stata la sua ricchezza.
E’ stato il propellente per un’ondata di nuove lotte sociali che il potere ha temuto  e represso.

Per molti e molte di noi, Genova 2001 ha avuto un ruolo centrale nella crescita politica e di vita. Genova 2001 per molte e molti di noi ha rappresentato quel punto d’inflessione da cui non si torna indietro.
Molte e molti di noi erano a Via Tolemaide, a piazza Alimonda, e nei viali alberati davanti al porto. Eravamo presenti e volutamente coscienti di voler vivere quelle giornate, perché sapevamo che quelle giornate ci avrebbero fatto sentire vive e vivi. Perché in quelle giornate la ragione era dalla nostra parte. Perché in fondo e in maniera molto chiara, quelle giornate di contestazione andavano contro un modello di crescita neoliberista che 10 anni fa colpiva altre parti di mondo e che ora travolge in pieno la nostra piccola eurolandia.
E lo ha avuto per chi è stato a casa a vedere quelle immagini o semplicemente ha deciso da quel momento di mettersi in movimento.
Lo e’ stato per quelle decine di gruppi che sono sorti in tutta Italia all’indomani di quel Luglio.
E lo è stato per chi, in quelle giornate, aveva solo 10 anni.

E dire che la giustizia non fa parte di questo mondo ci sembra un’iniqua e sterile ovvietà. Ha invece più senso ribadire che, come sempre, lo stato assolve se stesso mentre per l’ennesima volta traduce un movimento politico di contestazione in un lento e sanguinoso processo a carico di pochi.

Il significato tutto politico della sentenza emessa dalla cassazione a luglio 2012 resta e rimane inequivocabile, una sentenza che è oggetto di una produzione discorsiva in strettissima relazione con i dispositivi del potere in atto. Una sentenza che decanta, afferma e sedimenta nuove pratiche del potere dichiarando che la vetrina di una banca vale di più di un corpo torturato, di una milza asportata o d’irreversibili lesioni all’apparato respiratorio. Questa è per noi l’unica verità politica che nessun tribunale di questa fantomatica democrazia potrà mai deliberare.
E meno male che in queste ultimi mesi una fortissima campagna sociale è riuscita in poche settimane a raccogliere l’indignazione di più di 10.000 persone. Una campagna che crede nella memoria come ingranaggio collettivo perché  solo partendo  dalla memoria collettiva è possibile tracciare quelle strategie e tattiche sociali per far si che le parole “devastazione” e “saccheggio” non diventino la ricetta pronta per aggredire chi, come unidici anni fa, continua ad avere una ferma determinazione nel voler contrastare un modello di governance che fa dello spread e della spending review il suo cavallo di battaglia.

Non sarà certo la priezione di un film a costruire una nuova ondata, né a far chiarezza e costruire nuovi spazi di confronto ed attivazione. Ma può essere un buono strumento per ricordare, non solo i fatti, ma le motivazioni.
Può essere la tappa di un percorso di lotta che si intreccia con molti altri.
E che afferma con sicurezza Libere tutti!

Invitiamo tutte e tutti alla proiezione del film DIAZ con la partecipazione
di Elio Germano, Paolo Calabresi, Paolo Giovannucci perchè si possa chiaccherare con gli attori, perchè ci si possa confrontare e perchè si possa essere olio per quell’ingranaggio collettivo.

Dalle ore 19
apericena per la campagna 10X100

Alle ore 21
proiezione film

LOA ACROBAX
Via della vasca navale
[Ponte Marconi]

L’incubo di una notte di mezza estate

Cosa avviene in questo squarcio di crisi dove al si salvi chi può dell’annunciata e probabile caduta dell’Euro si è passati ad un’apparente salviamo il salvabile, onoriamo gli interessi sul debito, calmieriamo lo spread? E in questa fase, che faranno i movimenti? attenderanno messianicamente l’autunno caldo come se fosse predestinato ad esser-ci, guradando il calendario e pensando magari che l’inarrestabile scorrere del tempo definirà un futuro ineluttabile? No, al contrario il calendario indica un forte abbassamento delle temperature nel periodo dell’autunno. Figuriamoci poi con la crisi. Quindi forse, è meglio partire da alcune “basi” certe del ragionamento e dipanare quindi una bozza, una traccia di lavoro politico, che possa essere utile nella futura e imminente stagione: se nei prossimi mesi non ci si mette un solido e determinato innesto di variabile indipendente, di conflitto sociale, di potere costituente, un buona quota di moover sociale nella forma delle forme costituzionale dei diritti, l’autunno che verrà, lungi dal ribollire, sarà freddo o comunque freddino, con buona pace dell’attesa condita dalle belle parole.

A partire da questa posizione, più che convinzione potremmo definirla decisione, procediamo da un lato a descrivere intanto, per usare vecchie parole, un’analisi di fase e dall’altro ad immaginarsi anche con nuove parole – diciamo, vecchia tattica per una nuova strategia – un cammino, un’opzione, un varco possibile, che possa spingere la nostra umanità a ripensare da capo il modello-mondo che vogliamo costruire e immaginare, senza la paura di affermarla, la necessità quindi sognatrice e rivoluzionaria di un’utopia concreta e transazionale, tutte parole peraltro femmine. La critica non può stare che sul  piano internazionalizzato dell’impero e l’azione politica non può che immaginarsi e assumersi dentro i flussi di movimenti transazionali che in ogni dove affermano le istanze del comune.

Quindi cosa avviene intorno a noi?

Fondamentalmente stanno ricontrattando i compensi e i profitti nel nuovo processo di valorizzazione. Il sistema capitalistico si assume nella crisi come trasformazione continua dei rapporti di potere tra lavoro vivo e capitale. Si dispongono così, nella grande transizione, a chiusura del ciclo fordista ma anche sulle ceneri del sistema welfaristico del defunto patto sociale, una nuova (possibile?) mediazione asimettrica, per rafforzare il proprio ruolo di supremazia anche attraverso il ricatto “globale” del debito –  ma certamente anche con una subdola e altrettanto incisiva forma di biopotere. Questo per contrapporsi permanentemente alla forma irrisolvibile di produzione biopolitica indipendente delle soggettività creative, cooperanti, antagoniste.

La finanziarizzazione ormai è un processo immanente al sistema produttivo e la dinamica continua della valorizzazione capitalistica è nuovamente ri-articolata e ridislocata su frontiere dell’innovazione, della sussunzione, cattura, cooptazione delle soggettività messe al lavoro dalle diverse e striate forme della produzione immateriale, cognitiva, relazionale, affettiva. Il processo di riorganizzazione del mondo del lavoro e del non lavoro procede sul passo spedito della riorganizzazione produttiva della grande trasformazione che qui vediamo incardinarsi tra un millennio e l’altro. Grande trasformazione produttiva per mezzo dell’inesauribile e inarrestabile processo di precarizzazione del lavoro e della vita, delle relazioni sociali e produttive.

Il fallito golpe planetario che gli Usa hanno provato a mettere in campo nel 2001 è servito comunque e fondamentalmente a dispiegare la nuova pressione del controllo e del ricatto globale neoliberista come dispositivo di potere sull’umanità, niente di meno che con la guerra globale come paradigma delle nuove relazioni internazionali, una nuova diplomazia della guerra preventiva. Del resto non potendo fare del giusto il forte, si fece del forte il giusto e si passò al paradigma della paura.

Il debito quello che per esempio in Equador definiscono immorale, da non onorare, perché accumulato da governi precedenti corrotti e criminali, è l’altro volto del ricatto. L’insostenibilità della moneta unica e della pressione delle norme di politica economica per sostenerla sono il corollario per questa piccola parte di mondo in declino chiamata Europa.

Siamo nel pieno di una grande transizione che s’incarna nel trapasso dei modelli, produttivi, economici, sociali. La fase attuale è quella dell’accumulazione originaria nel nuovo ciclo capitalista che nascendo sulle ceneri di una complessità di elementi, ormai superati che segnano la fine di una lunga fase dove da una lato l’economia della grande industria fordista e taylorita e dall’altro il nuovo – cioè ormai vecchio – patto sociale (new deal) tra i corpi intermedi – Stato, partiti, sindacati, chiesa, imprese – avevano permesso un pieno scambio, benessere (do you remeber welfare state? stato di benessere). Equilibrio e patto ovviamente ottenuto e continuamente mobilitato dal potere costituente del conflitto sociale.

Il passaggio che nelle trasformazioni produttive e lavorative si è consumato negli ultimi 30/40 anni dall’operaio sociale al precariato diffuso e metropolitano, è oggi in termini di soggettività antagonista ancora un territorio aperto di indagine, inchiesta militante, è ancora uno spazio non definito completamente nella sua composizione tecnica e politica ma sicuramente ineludibile ed irreversibile nel suo determinarsi nella nuova composizione sociale tra sussunzione formale del lavoro e nuovi piani della cooptazione, cattura e sussunzione reale della soggettività produttiva. Il focus di ragionamento che ci appare a questa altezza delle contraddizioni il nodo fondamentale della crisi è propriamente la crisi nella crisi, ovvero la crisi del processo di valorizzazione, come crisi specifica della misura del valore dentro le nuove trasformazioni avvenute in seno al processo produttivo e lavorativo. Dove si estrae valore oggi? quali sono i reali spazi della produzione contemporanea? Domande necessarie anche per capire dove colpire, non solo per capire chi siamo e come ci chiamiamo.

Nel postfordismo digitale salta il piano-sequenza lineare della misura del valore, della capacità/possibilità da parte del capitale di misurare la produzione immateriale. Ovvero nel capitalismo contemporaneo cognitivo e immateriale, è’ ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione nel diritto del conflitto di classe. Su questo piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Ora più che mai il reddito garantito deve essere posto sempre di più come rivendicazione di esistenza e di cittadinanza, così come abbiamo visto nelle giornate estive della lotta di Taranto, deve posizionarsi dentro questa contraddizione, come potenza aperta dai nuovi processi della valorizzazione, svincolandosi dalle mediazioni politiche o sindacali realmente tutte al ribasso. Rimane ciò che la precarietà e la precarizzazione ci lasciano sul terreno, un precariato sociale che dobbiamo rendere insorgente, indipendente, potente.

Come dicevamo prima siamo nel pieno della grande trasformazione. In un passaggio epocale, paradigmatico. Così come in altre transizioni, i passaggi furono lenti, ma inesorabili. Ora con alle spalle un novecento poco utile anzi in taluni casi dannoso per i movimenti che vivono e incarnano la contemporaneità – lo vediamo con la retorica del lavoro come bene comune o del bene-comunismo delle amministrazioni locali – ma tenendo un occhio critico e se possibile materialista sulla storia, ci pare cogente nella comparazione con il passato per costruire il futuro e l’immaginario dell’indipendenza un gioco con la storia che ci porta al secolo “lungo”, dove rotolò la prima testa coronata d’Europa, nell’Inghilterra del ‘600. Quel secolo intenso del processo di transizione dall’immagine feudale, all’immagine borghese del mondo. Allora come oggi nel pieno delle trasformazioni produttive si andava determinando una nuova composizione sociale che emergeva dentro il nuovo processo produttivo industriale che si andava affermando nell’Inghilterra degli Indipendenti e dei Levellers. Ieri, come oggi si affermava l’accesso incondizionato alla cittadinanza saldando il rapporto tra proprietà della terra e libertà comune un po’ come avviene oggi nelle montagne della Val Susa, si difendeva il nuovo spazio politico dell’enclousure pubblica. Oggi il precariato si trova un pò come i freeholders inglesi ai tempi dei Levellers, tra inclusione ed esclusione, tra auto valorizzazione e comando. E c’è un di più, oggi, il precariato nell’economia della conoscenza possiede i mezzi di produzione. Le sue macchine affettive, linguistiche e relazionali sono effettivamente in suo possesso. Come i freeholders in army così il precariato se sarà insorgente dovrà affermare nell’indipendenza – ieri della terra oggi del suo prezioso mezzo di produzione – la propria libertà. Indipendenza dal dispositivo del comando, dell’irrigimentazione e della cattura della nuova valorizzazione capitalistica.

Nodo redazionale indipendente

Agosto 2012

Quando la rottura è costituente – Riflessioni per i movimenti

di @angelobrunetti1

Spesso la retorica della  politica – anche di movimento  – salta a piè  pari la realtà sociale  producendo scollamenti  e divaricazioni  verticali tra governi e governati. Veri  e propri abissi.   Alla base di ciò che genericamente definiamo crisi economica – che la realtà sociale vive di riflesso spesso nella disperazione – vi sono elementi fondamentali che vanno ancora profondamente indagati e sui quali non ci concentreremo qui per necessità di sintesi.

Per riassumerle a grandi linee. Facendo  tesoro dell’analisi di Marazzi, cioè che nell’odierno  sistema di accumulazione vi è un  rapporto consustanziale tra produzione  e finanza, possiamo affermare  con certezza che oggi la finanziarizzazione,  pervasiva a livello dell’intero  ciclo economico, è divenuta parte  integrante della nostra vita quotidiana,  che le sua fonte di alimento è  la produzione di beni e servizi, ma  anche welfare, beni comuni, linguaggi, stili di vita.  La finanza si riproduce nella costituzione materiale dei corpi in quella che Marazzi definisce come: “la mobilitazione permanente per il capitale”.

Dentro tale dinamica, appare sempre più evidente un nesso indicibile, occultato e mistificato dal potere, quello tra crisi finanziaria e crisi del processo di valorizzazione. La “crisi nella crisi”, ovvero la crisi di tutti i metodi di misurazione del valore del lavoro, che fa saltare il banco delle formali regole economiche. Questo punto è politicamente dirimente.

In futuro, occorrerà inevitabilmente elaborare forme di sperimentazione politica da posizioni più avanzate e con traiettorie di più lungo respiro rispetto a quelle assunte fin qui dal movimento.

Se intendiamo la politica anche come costruzione dal basso di una nuova forma di organizzazione sociale, se siamo consapevoli che la “rottura” è necessaria per rendere costituente l’alternativa, allora dobbiamo fare un discorso di verità. I movimenti potranno cominciare a incidere sulla realtà politica solo una volta che avranno deciso cosa fare da grandi. Ciò prendendo atto dell’irreversibilità della crisi della rappresentanza politica, così come della svolta autoritaria in corso, necessaria all’instaurazione della dittatura dei mercati, i quali dettano ogni giorno di più le agende dei governi.

Se vogliamo costruire un’alterità che vuole riprendersi il protagonismo sociale, la capacità di  ristabilire gli spazi dell’autogoverno e rimettere in discussione le scelte operate sulle nostre teste, dobbiamo dissolvere l’intero quadro politico esistente, superando quel senso di impotenza che segna i limiti di un sistema bloccato e incancrenito. Ciò non significa esercitare lo scontro inseguendo un’estetica della violenza, ma rompere su tutti i piani, effettuando nell’immaginario e attraverso il desiderio collettivo una trasformazione prima di tutto culturale, che non può leggere il lavoro come bene comune e che non può partire dalle mediazioni al ribasso come quella sul reddito legandolo alla sopravvivenza del lavoro precario.  Almeno, non lo devono fare i movimenti. Questo nella piena consapevolezza della complessità, della stratificazione del rapporto di forza che si misura sui mille piani inclinati della società complessa che viviamo.

Dare respiro e “programma” alla protesta, alla rabbia sociale, renderla potere costituente – perché si tratta di riscrivere da capo la carta costituzionale, basti pensare per un momento a quanto è datato il primo articolo – sottraendola al nichilismo, significa dare un possibile senso comune all’alternativa che viene attraverso sempre più solide alleanze sociali.   Questo avevamo in mente quando, durante tutto l’anno passato, abbiamo lanciato in giro per il paese l’ipotesi (ancora in cantiere) di uno sciopero precario quale forma diffusa di rottura e iniziativa politica. Come sabotaggio, blocco dei flussi materiali e immateriali, attacco all’immagine e al brand dei precarizzatori. Il tema oggi rimane ancora quello, al di là del nome che potrà assumere nella prossima stagione politica.

Attraverso la materialità della lotta, si deve e si dovrà poter passare dal puro sfogo individuale della propria indignazione al pieno e reciproco riconoscimento collettivo. Si tratta di dare respiro alla soggettività precaria, per sottrarla alla dimensione individuale e confusamente spontanea, e di saper tessere una tela ricompositiva che ponga rimedio all’atomizzazione e alla frammentazione strutturale – del mondo del lavoro e del non lavoro e quindi delle relazioni sociali e produttive – in cui essa immersa.

Ma occorre farlo proprio lì, in quella stessa situazione frammentata, non altrove, con buona pace di tutti i sindacati. Tutto questo affinché si possa definire ciò che si annuncia come l’ipotesi di nuova ricomposizione di classe. A unire oggi i precari è semplicemente la rabbia. E questo ovviamente non basta. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia, intelligenza generale, mente collettiva, sovversiva, creativa. Quando diciamo di voler organizzare la nostra rabbia, ci disponiamo all’interno di questa opportunità di lavoro politico. Non si può continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano, quasi meccanicamente, l’uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassintegrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore.

Dentro le forme della lotta precaria può crescere un movimento realmente indipendente che tracimi oltre le risacche della routine militante e si ponga l’obiettivo di trasformare ra- dicalmente i processi di sfruttamento, accumulazione e valorizzazione capitalistici. Valorizzazione oggi dislocata nella co-creazione di valore, nella messa al lavoro reale delle soggettività che supera la messa a lavoro formale e che, nell’ambito dell’economia immateriale, si riproduce attraverso i servizi forniti da importanti multinazionali come Google o Facebook – con buona pace della fiom, con la sua metà degli iscritti informatici impropriamente inquadrati nel contratto dei metalmeccanici. Luoghi in cui l’utenza è prod-utenza, mentre il flusso della valorizzazione delega al lavoro formale il solo ed esclusivo ruolo di controllo sociale, nel tentativo di governare un disordine globale che ormai si esprime sotto tutti i cieli del vecchio patto atlantico. Se volete, ecco un altro punto dirimente, non scontato, impensabile fino a pochi anni fa: il mondo è nuovamente in rivolta.

E qui, volgiamo richiamare il contesto nostrano mettendolo per un momento in relazione con ciò che avviene in Europa e nel resto del mondo. Ci riferiamo alla stagione segnata dal 15 ottobre, che, a distanza di quasi un anno dagli eventi, richiede che vadano fatte ulteriori considerazioni.

Il 15 ottobre è andato ben oltre la finzione o la testimonianza. Ha sorpreso e travolto tutti. Noi compresi. Ma per una volta il programma era cambiato nella realtà così come era già accaduto l’anno precedente, il 14 dicembre. La dissociazione rancorosa nei confronti dei ragazzi e dei compagni che quel giorno hanno sfidato per ore lo Stato in piazza regalando la cartolina di un’Italia in crisi, arrabbiata e con la voglia di reagire – che sicuramente ha contribuito ad accelerare la caduta del governo – non solo è stata dolorosa, ma indegna; insopportabile poi se dettata da esigenze di compatibilità e mantenimento degli accordi che non tutti conoscevano. Dietro quella rivolta, un accumulo di forze, di tendenze e di processi sociali non codificabili per padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Ma anche per la generazione che aveva “diretto” il movimento a Genova. Non processi meccanici ma dinamici, processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavano di governare. E questo ovviamente vale anche per chi, nei movimenti, credeva di portare l’avanzo del banchetto del potere come premio ai più allineati alla governance, (quella buona eh!), quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune: eccoli tutti a braccetto a fare la fila per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato pure per loro. Non a caso dal 15 ottobre in poi tutte le posizioni politiche di movimento hanno sterzato, effettuando in taluni casi vere e proprie inversioni a U, arrivando addirittura a cercare altrove ciò che avevamo tentato di portare fin sotto casa loro, inseguendo ovunque, anche a Francoforte, il presente pur di non affrontare qui e ora il nostro futuro. Le lotte riverberate dalle comunità indipendenti che nel mondo si riproducono – e per fortuna si moltiplicano ovunque, da Occupy Wall Street in giù – e di cui noi facciamo pienamente parte, o trovano una sedimentazione materiale nei nostri territori a partire dalle nostre generazioni, o altrimenti saranno cicli di movimento vissuti da altri e scimmiottati da noi.

La strada da percorrere ci è indicata dalla straordinaria esperienza dei comitati per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni, come nella Val Susa, fondamentalmente la nuova dorsale dei movimenti sociali anticapitalisti, che, nel volgere di pochi anni, ha imposto al dibattito pubblico ciò che sembrava essere andato perduto per sempre. La radicale messa in discussione della categoria di profitto – categoria fondativa del capitalismo. Un altro dato dirimente nella complessità. E lo è ancor di più per il punto di vista precario se vuole poi essere anche il baricentro, il grand’angolo di qualcosa di più ampio ancora, per costruire l’alternativa come utopia concreta, in quella prateria sociale di cui spesso parliamo, che non deve più attendere la rigenerazione del cambiamento dall’alto, ma individuare il varco giusto per insorgere dal basso. Deve farlo, senza la paura di dirlo.

Roma, luglio 2012

Non ci avrete mai come volete voi, dalla Repubblica Indipendente di Taranto

Vogliamo vivere e non lavorare, non lavorare per morire.

Era abbastanza evidente da tempo ciò che sia andava
accumulando nel profondo meridione del nostro piccolo paese in declino ed era
abbastanza prevedibile che una scintilla avrebbe cominciato o meglio continuato
a incendiare quella prateria sociale che dopo il movimento dei forconi e degli
autotrasportatori in Sicilia, le battaglie dei contadini e pastori sardi,
avrebbe proseguito dalla Val di Susa in giù sulla strada tracciata dalle tante
resistenze sociali. E che quindi la scintilla nella prateria avrebbe continuato
la sua inarrestabile espansione e sedimentazione arrivando proprio a Taranto
non sorprende affatto soprattutto se un po’ si conosce la decennale battaglia portata
avanti dai comitati popolari e di quartiere che da anni denunciano in città ciò
che oggi anche la magistratura – fin’ora scimmietta sordomuta – ha
(finalmente!) evidenziato con la sentenza di chiusura immediata dell’Ilva.

Dopo decenni di inquinamento in nome del profitto come
forma dello Stato con il nome di Italsider, oggi una città risvegliata e mobilitata
dal basso di prima mattina ha radunato la migliore Taranto

in lotta che ha raccolto un dato politico così’
evidentemente nazionale che non a caso contestava con consapevolezza, chiarezza
e tanta forza proprio il governo Monti che guarda un pò, nella figura dei suoi
ministri, voleva venire ad imporre la legge del potere esecutivo, schierando la
politica e tante guardie, contro il potere giudiziario, contro una magistratura
che per una volta tanto ha

voluto perseguire i corrotti e criminali capitani d’industria, in questo caso
la Family Riva. Tirando le somme con un sol colpo il rispettabilissimo governo
Monti ha abrogato l’equilibrio fondamentale tra i poteri istituzionali della
formale democrazia che tanto vanno sostenendo a piè sospinto e
contemporaneamente decretato che l’unico possibile spazio produttivo e sito
lavorativo per i Tarantini rappresenti anche la loro eterna tomba.

Il governo dei professori senza provare questa volta
nessun rammarico, senza versare nemmeno una lacrimuccia, senza nemmeno battersi
un po’ il petto – quando si parla di soldini, di tanti soldini, non si scherza
più e si sa a quel punto le narrazioni vuote di contenuto si sciolgono come
neve al sole – ha niente di meno che posto in stato emergenza una città intera
minacciando decreti d’urgenza mettendosi frontalmente contro la magistratura
pur di difendere i padroni e un sito produttivo illegale come l’Ilva che nessun
altro paese europeo, permetterebbe di costruire con quelle dimensioni e tali
costi sociali. E non contento ha pensato bene per mezzo del questore e prefetto
di

vietare ogni manifestazione per non turbare la quiete
mortifera che padroni, governo e sindacati avevano ormai accordato. Dopo aver
mappato una nuova geografia dei conflitti ormai sempre più

estesi da una parte all’altra della penisola oggi
abbiamo toccato con mano una città ribelle e consapevole, arrabbiata e
politicamente intelligente pronta ad una lotta lunga, consapevole quindi di
dover resistere alla tentazione di chiudere la partita proprio come vorrebbero
le controparti politiche e aziendali. Rompendo il divieto della questura, la
piazza radunata già dalle prime ore della mattina

ha cominciato a riempirsi fino a tracimare nella
strada principale e in corteo ovviamente non autorizzato ha scelto di
riprendersi le strade per cominciare a riprendersi il proprio futuro.
Irrappresentabilità ed indipendenza della lotta sono state le parole che si
ripetevano maggiormente

dall’affollato palco e si riferivano tanto al governo nazionale che ai governi locali,
come quello del governatore Vendola che ha tradito la cittadinanza di Taranto
riempendosi la bocca fino a pochi mesi fa’ con la sua nuova narrazione ecologista.

Una moltitudine di precariato sociale, che lavora
anche dentro l’Ilva ma soprattutto fuori (ma qui conta poco, la retorica pseudoperaista
la lasciano agli apportunisti) o magari è disoccupato e magari non lavora da anni,
oggi si è incontrato con pensionati, casalinghe, ragazze madri, tifosi, sindacalisti
di base, insegnanti, immigrati, turisti solidali della costa, in migliaia a
rompere il divieto e a dire chiaramente che la lotta a Tanto continuerà fino a
quando l’Ilva non chiuderà. Troppi morti causa questo lavoro. E ovviamente non
sono morti “bianche”, neutre senza responsabili.

A Taranto il tema del reddito garantito, sociale di
esistenza, si respirava per strada e se ne dovranno accorgere anche coloro che uniti-uniti contro
la crisi chiamavano lavoro bene comune la loro istanza fondamentale.

Qui la vicenda del reddito è anche contro il lavoro se
necessario dirlo. Ma sicuramente nella sua funzione principale, è contro il ricatto
che esercita la pressione del ciclo capitalista nocivo e infame che trasuda nelle nostre vite. A Taranto la
ferita aperta dalla nocività, dalla boria padronale, dagli scondinzolamenti
sindacali apre le strada alla ricchezza della vita contro il profitto, si
costituisce movimento per rompere la gabbia, per lottare contro la corruzione
del lavoro. Noi vogliamo vivere e non lavorare per morire,
questo rimbombava nelle strade di Taranto, negli slogan di migliaia di ragazzi che aprivano la
manifestazione senza bandiere e simboli di partito.

Diventa quindi paradigmatica questa lotta perché
diviene comune, nella chiave di volta delle contraddizioni che incarna, al
centro della crisi di sistema, dentro il nervo scoperto della follia
distruttrice del capitalismo.

Ci rivedremo molto presto nelle strade di Taranto

e aridatece le cozze fresche!

Nodo redazionale indipendente – alto Jonio

Il pettine, l’Apecar, la frattura e noi

Tutti i nodi prima o poi vengono al pettine. E a Taranto in questa caldissima estate un’ Apecar con un’andatura lenta e barcollante alla testa di un quarto stato contemporaneo ha messo a terra tutte le contraddizioni che in questi anni hanno attraversato i movimenti, facendo irruzione in una piazza mortifera e mandando all’area tutti i possibili copioni del “festival del lavoro” organizzato da CGIL, CISL e UIL il due agosto.

Quella che si è consumata a Taranto non è per noi solo la cristalizzazione del conflitto tra capitale e vita. Non è solo la denuncia e cacciata dei sindacati filopadronali dalla fabbrica. Quello che è accaduto a Taranto è molto di più. E’ la comunità del rione Tamburi, i precari, i disoccupati e in prima battuta gli operai della fabbrica stessa, che rifiutano di farsi schiacciare ancora una volta da un ricatto occupazionale e cercano di rovesciarlo. Ricatto che quando l’Ilva si chiamava Italsider e le morti che portava a Taranto avevano il marchio dello Stato, era ordito dal pubblico (lo stessa gestione pubblica che ha segnato i sogni, gli orizzonti, il colore del cielo e persino l’urbanistica di una Taranto che sembra uscita da una cartolina del socialismo reale) e ora invece, dopo la svendita della fabbrica, continua a essere attuato dal privato, una gestione comunque capace di speculare anche sugli aiuti dello Stato, grazie a finanziamenti di bonifiche più volte erogati ma mai realizzate.

E poco importa se, al dato di oggi, il tribunale conferma il sequestro degli impianti Ilva, vincolandolo però alla messa a norma e non alla chiusura degli stessi, perchè quello che è accaduto a Taranto rappresenta un vigoroso punto di inflessione. E’ la costruzione fuori e contro la fabbrica di nessi sociali, di una ricomposizione larga, è la saldatura di nuove e radicali alleanze. E’ la caduta, in ultima istanza, dell’elemento centrale che in Italia ha tenuto in piedi per decenni forza padronale e rappresentanza sindacale e che ha depotenziato i conflitti sociali e le battaglie per la costruzione di un welfare degno di questo nome: l’apologia del lavoro, l’ossessione salariale, la paranoia da piena occupazione. Una caduta pesante, simbolicamente ma anche praticamente. E’ una caduta che innervosisce e fa perdere lucidità alla controparte (in primis ovviamente la controparte più vicina alla linea di frattura) che inizia a dare patenti di parassitismo sociale (cfr. Landini su Repubblica il quale evidentemente non ha mai fino in fondo compreso cosa fosse il reddito garantito) e arriva ovviamente alla repressione (più di quaranta compagni denunciati dai sindacati stessi per aver spostato qualche transenna).

Per questo il messaggio è arrivato forte e chiaro: reddito e diritti contro il ricatto occupazionale, senza accettare fallimentari elargizioni caritatevoli (vedi qualche misera e becera legge regionale sperimentata in Campania o nel Lazio) o dispositivi mediati dai sindacati di cassintegrazione. Per non parlare di proposte di legge che rivendicano il diritto al reddito con cifre molto inferiori persino alla soglia di povertà. Reddito, invece come orizzonte di conflitto, attacco ai profitti e redistribuzione della ricchezza per i soggetti precarizzati dalla crisi nel contesto di austerity. Per questo quello che è accaduto a Taranto parla oltre i cancelli dell’Ilva, parla a tutta Italia ed all’Europa, e dimostra che il concetto di non rappresentanza politica e istituzionale si sta traducendo in una rotta indipendente di attivo protagonismo di trasformazione sociale.

Quello che è accaduto in questi giorni in Italia è una caduta che, oltretutto, avviene nell’agosto dello spread e che sbeffeggia persino la mitologia dell’ “economia reale (tutti in fabbrica!) contro l’economia finanziaria” che qualche furbetto voleva utilizzare per la propria campagna elettorale (che poi altro non è che un dispositivo retorico per ulteriormente muoversi dentro l’infausta tradizione del “lavoro bene comune” italiota). Insomma quello che è accaduto a Taranto è innanzitutto un punto di chiarezza. E’ un solco tra il secolo passato e questo secolo; è un solco profondissimo tra quelli che dicono “riaprite la fabbrica” (l’1% che potremmo rappresentare con un elenco lunghissimo dal Papa alla Fiom) e una comunità che supera anche l’ambientalismo civista che era stato in qualche modo persino funzionale alla reiterazione del dramma Ilva con il suo settario minoritarismo; è un solco che segna la differenza tra noi e loro. E’ un solco in cui da una parte c’è una comunità larga che si dispone, pratica e si organizza nel conflitto e dall’altra ci sono i pretoriani dello status quo, i crumiri, i poliziotti, i potentati economici.

Quello che è accaduto a Taranto per noi fa storia perchè sgombra il campo dall’ambiguità e costruisce l’unità dentro la crisi dal basso, fuori da ogni tentativo di sommatoria politicista di ceto politico. Sgombra il campo dalle ambiguità e sottolinea l’irrappresentabilità e l’indipendenza del comune nel momento in cui lotta per la propria esistenza. Taranto, in questo contesto, rappresenta una condizione globale dell’odierno conflitto: un’intera comunità schiava della logica del profitto che paga, in termini di vivibilità, salute e devastazione ambientale la necessità di riproduzione di un rapporto sociale arroccato sul bisogno unico di accumulare i frutti della ricchezza sociale prodotta, attraverso l’imposizione di rapporti di lavoro insostenibili, con il ricatto costante della componente del lavoro, in nome di una produttività spinta all’estremo senza alcuna tutela del territorio e dei lavoratori stessi; utilizzando, da un lato, tecnologie obsolete, negando e distruggendo, dall’altro, la vocazione territoriale verso forme produttive diverse e compatibili con i bisogni sociali ed ambientali della popolazione locale. Il conflitto tra il bisogno sociale e l’ordine che stabilisce la divisione internazionale della produzione, su scala globale, esprime oggi tutta l’ incompatibilità tra i poli di una contraddizione che non si risolve con mediazioni di maniera.

Oggi, la crisi si ritorce sul mondo del lavoro, della precarietà e del non lavoro, facendo pagare i suoi costi insostenibili su tutti segmenti di classe; oggi, la nostra risposta alla crisi del sistema non può che essere una richiesta di reddito incondizionato che, proprio a partire dalle situazioni simbolo, come quella di Taranto, supera la logica e la retorica lavorista per rivendicare un diritto all’esistenza fuori dai rapporti sociali di produzione capitalistici. Ora sarebbe quindi utile interrogarsi non su come “esportare” un modello che è evidentemente difficilmente riproducibile per specificità e numeri, ma su come fare di Taranto, della battaglia fuori e contro l’Ilva una battaglia comune. Una battaglia che parli al precariato diffuso, che parli ai disoccupati e alle disoccupate, che parli a tutta quella moltitudine che la crisi stà stritolando in un ricatto esistenziale del tutto simile al ricatto occupazionale che nel Mezzogiorno conosciamo bene e che è sovrapponibile al ricatto della precarietà.

Per questo crediamo innanzitutto fondamentale esprimere la nostra più completa, incondizionata solidarietà e complicità al Coordinamento cittadini e lavoratori pensanti di Taranto ed alle denunciate e denunciati. Ed è per noi importante discutere e rivedersi fuori dai cancelli dell’Ilva con la complicità di tutti quelli a cui questa battaglia parla, non solo a Taranto. Una prima occasione di confronto utile sarà Adunata Sediziosa a Napoli il 15 Settembre. Crediamo sia importantissimo in quel momento, insieme a tutti quei contesti che svilupperanno conflitti nell’autunno, dotarci del lessico comune dal profondo sud est al profondo nord ovest. Il lessico comune di tutte quei soggetti che difendono la vita contro il capitale, di tutte quelle comunità che rivendicano e si riappropriano di reddito fuori e contro il lavoro che oggi più di ieri è a tempo determinato, a nero, sottopagato, senza garanzie e nocivo. Un lavoro che non solo non è bene comune ma è evidentemente un’arma formidabile di ricatto sulle nostre vite.

Dovremo tornare tutte e tutti a Taranto.

Fuori e contro i cancelli dell’Ilva.

Villa Roth Bari – Comitati di quartiere Taranto: Città vecchia, Salinelle, Paolo VI – Area Antagonista: Lab. Okk. Ska – C.S.O.A. Officina 99 Napoli – C.S. O.A. Asilo 45 Terzigno – C.S.O.A. Rialzo Cosenza– L.O.A. Acrobax Roma