Reddito garantito e contropotere nella crisi – Dibattito nel movimento

 

Il 2013 è giunto al suo autunno, il sesto anno da quando formalmente è dato l’inizio della crisi economica che attraversa il sistema finanziario e le politiche economiche dell’occidente euro-atlantico, che ha travolto regimi trentennali e ridefinito le geografie della ricchezza globale. In Italia questa crisi, nella sua materializzazione come crisi di produttività e dei consumi si è sovrapposta, radicalizzandolo, ad un processo di frammentazione del mercato del lavoro che ha assunto ormai caratteristiche strutturali. La traduzione, ormai sotto gli occhi di tutti è dequalificazione, disoccupazione generalizzata, marginalizzazione, impoverimento. Il ruolo storico del sindacato viene sfibrato dalla progressiva scomparsa di un soggetto stabile non solo contrattualmente, ma nella sua disponibilità alla conflittualità a tutto tondo nell’ambito dei diritti sociali: da parte loro, le organizzazioni sindacali hanno ratificato questa condizione candidandosi a gestire le briciole del sistema degli ammortizzatori sociali con insostenibile arrendevolezza.

I movimenti sociali sono dunque chiamati a riprendere l’iniziativa dentro il quadro di una  rappresentanza svuotata di valore formale al di là del basso compito di gestire poche e maldistribuite risorse secondo le indicazioni della Troijka e del mercato. A noi spetta far emergere rivendicazioni e strumenti per l’esplosione di quelle soggettività ancora in divenire, apparentemente ancora in bilico tra tensione conflittuale e regressione conservatrice. Partiamo da un’articolazione di lungo periodo, per quanto discontinua, della rivendicazione di reddito garantito come leva di energie liberatrici verso un nuovo modo di intendere i rapporti tra le persone e il loro tempo di vita, nel pieno riconoscimento della loro capacità di autodeterminazione contro il ricatto della precarietà e l’apologia restauratrice del lavoro, anche quando nocivo, dequalificato, malpagato.

Ripartiamo da qui:

 

Conflitti metropolitani contro la precarietà. Reddito, riappropriazione, futuro!

Verso ed oltre l’autunno>Venerdì 11 Ottobre Roma ore 17,30

 

L’egemonia del biopotere finanziario non ha perimetri formali, né spaziali né temporali è dentro ogni sfera produttiva e riproduttiva della vita, dei territori del welfare dei beni comuni, ormai è strutturalmente legata a doppio filo alle forme dell’odierna valorizzazione capitalistica. Accumulazione e valorizzazione che possiedono come solido prerequisito quello della precarizzazione della forza lavoro e del controllo politico sulla nuova composizione sociale, controllo sui corpi, sulle aspettative, affetti, sui bisogni e sulla loro autodeterminazione. Controllo politico sulla produzione e riproduzione di soggettività, delle forme di vita incarnate nella precarietà in un processo strutturale di impoverimento complessivo del paese e delle condizione reali di milioni di persone, nel loro progressivo indebitamento.

Qui comincia lo scollamento, la divaricazione tra la crisi economica e la crisi della rappresentanza politica, tra la costituzione formale e quella materiale, dentro il controllo politico della moneta, della sua emissione e circolazione e nel controllo sociale delle soggettività precarie e indebitate sulla cui produzione di ricchezza comune si basa il fondamento dell’espropriazione sistematicamente orchestrata dalla rendita finanziaria.

Le decennali trasformazioni nella produzione e nel lavoro, l’impatto epocale delle tecnologie sul processo di accumulazione, l’aumento esponenziale del lavoro autonomo escluso da qualsiasi protezione sociale sono evidenti e sotto gli occhi di tutti. La crisi ha accentuato le dinamiche di “frammentazione del lavoro”, della sua forma giuridica come individualizzazione dei  rapporti di lavoro – si pensi alla “balcanizzazione contrattuale” presente nella normativa italiana – ma anche delle conseguenti e molteplici narrazioni soggettive, la cui linearità risulta infatti frantumata, apparentemente non ricomponibile. Ma la crisi ha agito anche come un dispositivo di “livellamento verso il basso”, (facendo regredire le garanzie sociali e i diritti acquisiti nel novecento), seppur con un intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. I processi di precarizzazione coinvolgono anche chi vive una situazione lavorativa stabile e garantita, comunque incerta in quanto potenzialmente instabile a seguito di un processo di ristrutturazione, delocalizzazione o anche chiusura delle attività produttive. Indicativi in questo senso sono i dati che indicano la durata media dei contratti a tempi indeterminato (2 anni) e l’aumento dei working poor, lavoratori che seppur in condizioni stabili a livello contrattuale, vivono intrappolati nella povertà ed in situazioni di vulnerabilità economica a causa dei bassi salari, scarsa qualità del lavoro e frequenti discontinuità.

In un mercato del lavoro completamente precarizzato il governo dei comportamenti si esercita attraverso la costante insicurezza. Le forme della frammentazione e della scomposizione del lavoro producono conseguenze sulle soggettività precarizzate nella capacità di riconquistare tempo di vita, tempo liberato. Il tempo diviene la vera moneta della contemporaneità. Intrappolati in un eterno presente in questo orizzonte temporale compresso, bisogna ri-significare e ri-modulare continuamente i progetti di vita.

Lo andiamo sostenendo da anni e solo la peggior retorica della sinistra politica e sindacale continua a difendere l’incondizionato e generico sussulto per il lavoro, l’occupazione ad ogni costo con conseguenze ambientali e sociali devastanti, invocazioni retoriche e senza strategia di fantomatici piani industriali, vecchi e datati, dando sempre più forza al ricatto che lega il diritto al reddito, al lavoro precario, al suo salario impoverito, e alle sue molteplici nocività, alle inutili grandi opere come il TAV.

Nella crisi delle forme della rappresentanza sociale e politica il nuovo ruolo che si è dato il  sindacato, esaurita consapevolmente da decenni la mission della difesa dei diritti, si caratterizza sempre più esclusivamente nella concertazione e co-gestione degli ammortizzatori sociali ordinari ed in deroga (ormai diventati la norma), una vera e propria filiera di burocrazie di servizio (sindacati, agenzie tecniche della PA, enti formativi) utilizzate dalla governance per organizzare e gestire le politiche di welfare to work nel nostro paese. Un welfare condizionale iniquo ed arretrato che crea sperequazione, clientelismo e riguarda solo una parte dei lavori dove dietro la retorica dell’attivazione si nascondono tecniche di controllo, monitoring individuale e gestione dei conflitti, non sono altro che parcheggi temporali in cicli formativi inutili che danno a loro volta lavoro a migliaia di precari della pubblica amministrazione. In questo quadro di concertazione e dipendenza alle imprese si inserisce la recente sigla de  Patto per il lavoro sottoscritto da Confindustria e sindacati confederali all’interno della festa nazionale del PD di Genova. Un segnale chiaro di appoggio incondizionato al governo delle “basse intese”, una risposta forte e chiara che si inerisce nella traccia dell’autunno di ri-conciliazione.

Questo poi a sostegno dell’altrettanto generica e strabica difesa della costituzione. Una “narrazione tossica”  che prova a distogliere l’attenzione sui reali problemi che stiamo attraversando e sulla necessità della rottura che dovremmo costruire. L’operazione politica riesce a mettere insieme tutto ciò che caratterizza la peggiore sinistra, quella che rivendica insieme il primo articolo costituzionale svuotato ormai di ogni suo significato del retorico diritto al lavoro, a quello del pareggio in bilancio appunto ormai costituzionalmente sancito sotto il dettame della commissione europea, nella piena dittatura dei mercati e della Troijka. Il lavoro non è un bene comune e le generazioni precarie lo hanno capito da tempo vivendo in uno stato di ricatto permanente da alcuni decenni, ma esemplare in questo quadro è la recente sentenza della Consulta sul caso dell’Ilva di Taranto. La Corte Costituzionale ha stabilito l’equivalenza tra diritto al lavoro e diritto alla salute esaminando le questioni di legittimità costituzionale sollevate dagli uffici giudiziari di Taranto, in riferimento alla legge 231/2012, per intendersi quella volgarmente definita come “salva Ilva. Sull’altare della retorica del diritto al lavoro ad ogni costo e con ogni mezzo necessario sono stai sacrificati l’ambiente, il territorio, la salute. E noi dovremmo difendere  principi costituzionali vuoti e arretrati che vengano utilizzati strumentalmente per imporre delle scelte economiche che attentano alla nostra vita? 

La condizione precaria in prima istanza è legata ai diversi dispositivi di assoggettamento e controllo sociale della società neoliberista contemporanea. Questo è il punto. Non solamente una questione di costi e risorse finanziarie quanto invece la precarizzazione e l’indebitamento divengono dispositivi politici di controllo sociale sul lavoro vivo – è sufficiente dare un veloce sguardo ad alcune statistiche come quella sulle tipologie contrattuali utilizzate: il tempo determinato (il più usato tra quelli a termine) ha costi effettivi equivalenti a quelli del tempo indeterminato. La precarizzazione sociale è sostanzialmente un dispositivo di comando, di esercizio predatorio nei confronti di coloro che vivono il lavoro precario ma ovviamente anche ai suoi margini come il lavoro nero non proprio un dettaglio, il 40% della forza lavoro “disponibile” ma così detta inattiva, una cosetta come quindici milioni di persone. Così come l’Italia detiene il primato mondiale del sommerso sul PIL questo secondo autorevoli stime della misura neoliberista come l’Economist o rilevazioni campionarie (peraltro fatte dai precari) dell’Istat e non certo di sovversivi centri studi. Cosa che ovviamente incrociando le variabili fa raddoppiare i formali tassi di disoccupazione. Più che di mercato del lavoro dovremmo parlare di mercati del lavoro. E’ il caso di dire che dentro lo spazio politico europeo esiste una peculiarità tutta italiana che assume contorni effettivamente specifici e rilevanti. Questo avviene al cospetto di una progressiva mutazione del quadro politico formale al netto dell’ultima tornata elettorale e della nuova pelle che si è data la classe politica nel quadro dell’instabilità e di ingovernabilità formalmente gestita con l’opzione disperata che l’oligarchia nostrana ha trovato come sintesi e dittatura soft del governo targato larghe intese.

A fronte di un ciclo di crisi economica ultima dirompente, al sesto anno della sua evoluzione e dentro questo inedito quadro politico si dovrebbe fare un’approfondita riflessione sullo stato dell’arte delle lotte ma anche sulle relative occasioni di superamento e generalizzazione fallite, delle recenti reti metropolitane a carattere nazionale ed europeo. Andrebbe fatto un bilancio anche al netto dei percorsi intrapresi dai movimenti, reti e collettivi di precar*, lotte spesso settoriali e resistenziali eppure certamente legittime nella difesa alle estremità del diritto formale del lavoro di quel minimo “sindacale” che spesso nella giungla della precarietà rappresenta in ogni caso resistenza, rottura, delle volte anche solamente un sussulto di dignità, capacità anche sottili e parziali di rivalsa, vendetta precaria, come la pratica sempre attuale del cash & crash, vertenza e riappropriazione. Abbiamo alle spalle più di un decennio di esperienze, di lotte, mayday, azioni di riappropriazione, ma anche di autogestione di fabbriche occupate, organizzazione metropolitana di sportelli di lotta, punti di informazione e cospirazione precaria, reti sociali contro la precarietà che sotto la potenza immaginifica di san precario e santa insolvenza hanno affermato negli anni nell’evocazione e nelle lotte nuove ricombinazioni sociali, nuovi spazi mentali e materiali di ricomposizione, immaginari, allusioni e simbolismi potenti di virale diffusione tra le moltitudini precarie.

Abbiamo affermato e organizzato la rabbia precaria, non solo come estemporanea azione antagonista, ma come processo di soggettivazione autonoma ed indipendente dentro questa dimensione e protagonismo in alcune vertenze, nelle piazze e negli spazi politici di insorgenza dei movimenti sociali, nelle piazze degli studenti, del precariato metropolitano. Abbiamo animato rotture e barricate per affermare la condizione precaria nella sua egemonica centralità all’interno della nuova composizione sociale.

Di pari passo dentro la condizione precaria l’unica rivendicazione unificante che progressivamente ha assunto un’egemonia ricompositiva è stata la richiesta di reddito di autonomia, garantito, sociale, di esistenza.

Oggi in questo senso è cambiata la fase: dopo l’affermazione della condizione precaria nell’immaginario collettivo con l’aumentare della stretta sociale delle politiche di austerity, con il divenire mainstream della stessa rivendicazione di reddito, l’orizzonte si sposta necessariamente, cambiano le priorità. Certamente fin’ora non è stata sufficiente la densità, la capacità auto-riproduttiva, la continuità di movimento e di sedimentazione necessaria e l’esercizio di autocritica collettiva è sempre un sano e rigenerante meccanismo per i militanti e gli attivisti che si vogliono cimentare in campagne e battaglie adeguate. Quindi bisogna ripartire anche da alcuni fallimenti collettivi di reti e coalizioni sociali come ad esempio gli Stati generali della precarietà o la Rete dello sciopero precario, anche per cogliere comunque alcuni spunti di azione e intuizioni ancora validi per la contemporaneità dei movimenti e della loro agenda futura.
Crediamo oggi che il nostro compito sia quello di spostare l’asticella, l’orizzonte del conflitto, immaginare un processo di generalizzazione biopolitica delle lotte contro la precarietà e la disoccupazione di massa, di dare corpo alla potenza della soggettività precaria metropolitana anonima, queer e moltitudinaria, sprigionare energia e conflitto, nuova organizzazione e sedimentazione sui territori. Spazio e tempo della lotta, afferrare la possibilità, l’evento possibile che può rompere l’accerchiamento. E’ necessario costruire dal basso spazi di soggettivazione che mettano in discussione insieme e dentro reti sociali eterogenee, il modello di accumulazione e governo dei territori, la decisione politica basata sul ricatto del debito, pubblico e privato, nella torsione autoritaria della governance europea e del FMI che si dispiega dentro l’esercizio di comando della società indebitata, sulle nostre vite precarie. Dobbiamo costruire gli spazi politici necessari per rimettere in radicale e complessiva discussione le politiche economiche, energetiche, digitali per una diversa, altra cittadinanza e affermazione di diritti comuni e salvaguardia dei beni comuni come la difesa dell’acqua e del suolo contro la devastazione dei territori, contro tutte le nocività del sistema capitalista marcio e intriso di contraddizioni e disuguaglianze sociali ormai insopportabili. Ci dobbiamo interrogare dunque quale via di fuga sia possibile. Qual’ è il tempo delle lotte per aprire un varco, una breccia di generalizzazione del conflitto per una rottura complessiva all’altezza della dimensione e altitudine politica che stiamo incarnando, nel nuovo scontro di classe che stiamo vivendo.

Il tema oggi è come far vivere la leva del reddito garantito come proposta e tensione centrale, sempre aperta alla dimensione del conflitto e delle pratiche della riappropriazione eppur immaginata dentro un possibile nuovo architrave istituente che rovesci l’alchimia negativa di quel fantasma che oggi è il diritto al lavoro formalmente e costituzionalmente riconosciuto. Reddito garantito e di esistenza incondizionato dal ricatto del lavoro, come riconoscimento diretto della produzione sociale e della ricchezza permanentemente prodotta. Reddito di esistenza come spazio di autodeterminazione del tempo di vita come riappropriazione del bottino di quella rendita finanziaria, per una reale redistribuzione del plusvalore socialmente prodotto. Reddito di esistenza per conquistare indipendenza. Su questo chiamiamo a dibattito le realtà sociali che hanno animato le lotte in questi anni, le esperienze, collettivi e soggettività che possono anche in vista delle mobilitazioni prossime dell’ottobrata romana riprendere un cammino comune e definire un percorso di lotta autonoma e indipendente del precariato metropolitano con la tensione necessaria verso la costruzione dal basso delle giornate del 15 Ottobre, con l’indizione di sciopero sociale europeo e transnazionale e del 19 Ottobre, con la manifestazione nazionale a Roma indicazione già assunta anche dall’agenda europea, a partire dalla Spagna. Per costruire una settimana di lotta per la riappropriazione e rivendicazione  di  reddito garantito e del diritto all’abitare contro le politiche di austerity promosse e sostenute dalla tecnocrazia, difesa dagli eserciti polizieschi della governance neoliberista che dobbiamo al più presto destituire, contro la quale dobbiamo al più presto insorgere per le nostre vite e l’auto-determinazione del nostro futuro.




Sono invitati a partecipare:

Frenchi, San Precario Milano – Raffaele Sciortino, Infoaut– Gianluca Pittavino, csoa Askatasuna Torino – Fulvio Massa, Lab. Crash Bologna– Francesco Festa, Zero81 Napoli – Renato Busarello, Lab. Smaschieramenti Bologna – Mario Avoletto, Area antagonista campana – Degage Roma  – Luca Fagiano, Coordinamento cittadino lotta x la casa Roma  – Alexis occupato Roma – Bartleby Bologna – Vag 61 Bologna – Lab. Bios Padova – Villa Roth occupata Bari – Comitato cittadini liberi e pensanti Taranto

promuove Laboratorio Acrobax

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Dalla valle alle metropoli, per un autunno di conflitto

Movimenti di lotta per la casa e per il diritto all’abitare, centri sociali e spazi occupati, collettivi studenteschi e precari, militanti del movimento no tav  e di altre lotte a difesa del territorio, ci siamo incontrati al campeggio di lotta di Venaus – tra cariche nei boschi e momenti di lotta e condivisione – per costruire un percorso comune che guardi avanti, verso un autunno di conflitto di cui tutt* condividiamo l’urgenza.

Abbiamo individuato nella data del 19 ottobre (già indicata dalla 2 giorni sull’abitare a Porto Fluviale) un’occasione utile per mettere a verifica un percorso e intrecciarne molti altri. Una giornata in cui assediare i Ministeri che traducono le direttive della troika in leggi e decreti che distruggono le nostre vite. Un punto di partenza dunque e non di arrivo. Non una scadenza ma un processo in costruzione, da articolare  nei differenti territori da cui proveniamo.

 

Raccogliamo la proposta uscita dagli incontri avvenuti al campeggio del Monte Amiata di una mobilitazione diffusa sul territorio in occasione del 12 ottobre sul tema del colonialismo sui territori, attendiamo la conferma di una giornata di mobilitazione transnazionale dall’Hub Meeting di Barcellona per il prossimo 15 ottobre e c’impegnamo nella costruzione di iniziative territoriali di avvicinamento, sostenendo lo sciopero del sindacalismo conflittuale e di base del 18 ottobre. Non una data ma una settimana di mobilitazione.

 

Una riflessione comune ha registrato una necessità che è anche un auspicio: c’è bisogno di un salto di qualità nell’agire dei movimenti; non si può continuare a condurre battaglie divise che si consumano nel proprio ciclo fisiologico o nella separatezza della propria specificità, quando il comando che ci governa dall’alto impone ogni giorno nuove misure di austerità che decidono le finanziarie di interi paesi. Lottare contro il Tav non è diverso dall’occupare una palazzina per dare un tetto a chi non ce l’ha, difendere uno sfratto, lottare per l’erogazione di un reddito dignitoso per tutt*, difendere servizi essenziali alla persona o sostenere attivamente le lotte che si producono nel mondo del lavoro.

 

Il tema della riappropriazione è emerso con forza come necessario corollario alla difesa dei territori dalla valorizzazione capitalistica. La parole d’ordine del “Non pago!” e dell’“Occupiamo tutto!” le poniamo come metodo e programma, da agire nella quotidianità dei nostri percorsi. Battaglie concrete da iniziare a proporre e attivare dentro quella composizione sociale fluida di nuovi poveri che vede sempre più simili nelle condizioni di vita e nei bisogni precari, migranti, studenti fuori sede, operai e ceti medi. Riprendendoci le case di cui abbiamo bisogno per vivere, auto-riducendoci le bollette del gas, dell’acqua e della luce, per iniziare a ridurre il ricatto di un lavoro salariato sempre più esiguo e costretto in una competizione al ribasso.

 

Su tutti questi temi, nella costruzione di questa settimana di mobilitazioni, verso e oltre il 19 ottobre, invitiamo tutti quei soggetti, quei collettivi e quelle singolarità che non abbiamo ancora avuto modo o occasione di incontrare a raggiungerci e confrontarsi con noi, aperti nella discussione e nel confonto, con la discriminante precisa di mantenere il profilo di indipendenza e autonomia di un percorso che si vuole sganciato da interessi partitici e di rappresentanza istituzionale. C’impegnamo quindi fin da ora a costruire momenti assembleari e di organizzazione nei singoli territori di provenienza e una giornata di assemblea generale da costruire a Roma nella seconda metà di settembre.

 

 

Assemblea “Dalla valle alle metropoli”

Venaus, campeggio di lotta notav, 20-21 luglio 2013

Costruiamo l’assedio all’austerity e alla precarietà

_Verso la sollevazione generale del 19 ottobre_

Assemblea di movimento – sabato 28 settembre h 10 @ Università La Sapienza, Roma

Ogni giorno, migliaia di persone lottano in questo paese: per arrivare a fine mese, difendere il diritto ad un tetto, affermare la propria dignità, difendere territori e beni comuni da devastazioni e saccheggi. Si tratta, il più delle volte, di percorsi separati che non riescono a tradursi in un discorso generale. Intendiamo rovesciare l’isolamento delle singole lotte e la precarietà delle nostre esistenze, per dare vita a una giornata di lotta che rilanci un autunno di conflitto nel nostro paese, contro l’austerity e la precarietà impostaci dall’alto da una governance europea e mondiale sempre più asservita agli interessi feroci della finanza, delle banche, dei potenti.

Il 19 ottobre vogliamo dare vita ad una sollevazione generale.

Una giornata di lotta aperta, che si generalizzi incrociando i percorsi, mettendo fianco a fianco giovani precari ed esodati, sfrattati, occupanti, senza casa, migranti, studenti e rifugiati, no tav e cassintegrati, chiunque si batte per affermare i propri diritti e per la difesa dei territori. Uniti contro le prospettive di impoverimento e sfruttamento imbastite dalla troika e dall’obbedienza di un governo che, tra decreti del “Fare” e “Service Tax”, favorisce i ricchi per togliere ancora di più ai poveri: barattando l’Imu con nuovi tagli alla spesa ed una nuova aggressione al diritto alla casa e all’abitare; favorendo la speculazione edilizia, il consumo di suolo e i processi di valorizzazione utili alla rendita, mentre vi sono centinaia di migliaia di case sfitte; delegando i servizi e il welfare ad una governance locale che, per far quadrare i conti aumenterà le tasse e produrrà ancora tagli e privatizzazioni. Tutto questo mentre preparano una nuova guerra “umanitaria” dalle conseguenze incalcolabili.

Contro questo orizzonte di miseria, intendiamo costruire una grande manifestazione che ponga con forza la questione del reddito e del diritto all’abitare, per questo vogliamo l’immediato blocco degli sfratti, il recupero del patrimonio pubblico e la tutela della ricchezza collettiva e comune, anche per combattere la precarietà e la precarizzazione generale delle condizioni di vita e del lavoro che ci stanno sempre più imponendo.

La manifestazione del 19 ottobre giungerà al culmine di una settimana di mobilitazioni, dentro e fuori il paese: il 12 ottobre, con  una giornata di lotta a difesa dei territori, contro le privatizzazione dei servizi pubblici e la distruzione dei beni comuni e mobilitazioni diffuse per il diritto all’abitare; il 15, con azione dislocate nelle città per uno sciopero sociale indetto dall’agenda dei movimenti trans-nazionali; il 18 con una manifestazione congiunta dei sindacati di base  e conflittuali.

Vogliamo rovesciare il ricatto della precarietà e dell’austerity in processo di riappropriazione collettiva. Per rilanciare un movimento che affermi l’unica grande opera che ci interessa: casa, reddito e dignità per tutt*!

 

Assemblea “Dalla valle alle metropoli”

Venaus, campeggio di lotta no tav, 1 settembre  2013

Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa – Toni Negri

Scusate se la prendo da lontano. Vorrei infatti chiedermi prima di tutto che cosa vuol dire “far politica oggi” e risalire poi al tema Europa. Far politica sul terreno dell’autonomia, vale a dire assumendo il punto di vista del soggetto sovversivo e di conseguenza analizzando le figure e i modi di agire del proletariato precario-cognitivo. Ritrovo infatti i bisogni e i desideri di questo soggetto come dispositivo centrale, virtualmente egemonico, nell’analisi dei movimenti della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine capitalista.

 

Ci sono due argomenti, meglio, due topoi che vanno assunti affrontando questo tema. Il primo è oggettivo, bisogna cioè chiedersi che cosa significa porsi dentro lo sviluppo capitalistico nella fase critica dell’egemonia neoliberale. Potremmo anche, probabilmente, cominciare ad interrogarci sui “limiti del capitalismo”, togliendo tuttavia di mezzo preventivamente ogni previsione catastrofica comunque questa si presenti ed ogni nostalgia di una tradizione attestata da troppo tempo su questa illusione. Il contesto capitalistico è oggi caratterizzato dal dominio del capitale finanziario che sta consolidando la sua azione dopo una lunga transizione, che risale almeno alla seconda metà degli anni ’70. L’abbiamo ampiamente seguita, questa evoluzione, e spesso anticipata nel nostro lavoro collettivo: vediamone dunque semplicemente le conclusioni. Il capitale finanziario è egemone, non lo si può più definire come facevano Marx e Hilferding, poiché esso si è fatto capitale direttamente produttivo: cerca oggi la sua stabilizzazione esercitando attività estrattive sia nei confronti della natura e delle sue ricchezze, sia nei confronti del biopolitico-sociale (cioè del welfare). Quando parliamo di consolidamento del potere del capitale finanziario ne parliamo ipotizzando (ed è una ipotesi che si avvicina ormai ad una verifica conclusiva) che la trasformazione del capitalismo abbia comportato (tra l’altro – ma l’osservazione è tanto limitativa dell’analisi, quanto importante per concentrare quest’ultima su quanto ci interessa) – abbia dunque comportato una assai profonda trasformazione delle forme territoriali e delle strutture istituzionali nell’assetto globale degli Stati e delle nazioni nel “secolo breve”. Questa trasformazione comincia all’interno dei singoli mercati nazionali dove, in ciascuno di essi, la struttura produttiva capitalistica è riorganizzata dopo la prima Grande Guerra (rispondendo al trionfo della rivoluzione bolscevica), secondo moduli contrattuali keynesiani. Nel secondo dopoguerra e dopo le “ricostruzioni”, questo modulo di organizzazione sociale e di comando capitalista comincia ad essere fragilizzato e talora a saltare sotto la pressione operaia: è allora che comincia la rivoluzione neoliberale a partire dalla fine degli anni ’70 con una straordinaria accelerazione all’inizio del XXI secolo. Essa riorganizza innanzitutto lo Stato secondo modalità fiscali nella gestione della crisi e nella governance del debito pubblico. Il procedere della mondializzazione che interviene in quel periodo e l’affermazione globale dei “mercati finanziari” spostano il controllo delle possibilità debitorie dello Stato dal potere pubblico alle strutture che organizzano il privato, dall’equilibrio dell’amministrazione interna  dello Stato all’equilibrio costruito sotto il dominio dei “mercati” globali.

 

È a questo punto che si dà una definitiva frattura fra il nuovo ordine capitalistico globale e i soggetti che vivevano nel precedente ordinamento capitalistico dei singoli Stati-nazione – in quell’ordinamento “riformista” del capitale, cioè, che avendo introdotto keynesianamente il movimento operaio nel contratto sociale, ne disciplinava i comportamenti secondo regole cosiddette “democratiche”. Se nello Stato fiscale, presto pervenuto alla crisi, il debito statale aveva assunto quel ruolo di anticipazione della spesa che prima aveva avuto l’inflazione (in senso opposto, come strumento di devalorizzazione della spesa) e se presto la fiscalità non è più sufficiente a sostenere il debito promosso dallo Stato – se dunque la struttura del debito muta e il neoliberalismo, facendo del mercato la regola dello sviluppo e dei “mercati” la giustizia del pianeta, impone la privatizzazione globale del debito…. dato tutto questo, la crisi capitalistica si presenta oggi come impossibilità di far agire all’interno dello sviluppo stesso qualsiasi elemento di mediazione, qualunque  struttura contrattuale, insomma il keynesismo in tutte le diverse accezioni riformiste che esso possa eventualmente assumere. D’altra parte, questo sviluppo (se riguardato dal punto di vista delle lotte del soggetto sovversivo) ci restituisce un modulo assai consistente di lotta di classe. Da un lato tutti coloro che possono partecipare all’”interesse” (cioè al profitto monetario – alla partecipazione alla pratica globale dell’usura dei mercati privati e/o semipubblici) costruito sul mercato finanziario; dall’altro lato tutti coloro che considerano l’esercizio della loro forza-lavoro reso socialmente utile dal loro “stare insieme” e quindi dall’esigenza (bisogno e desiderio) di essere garantiti nel corso della loro vita non dal perdurare della barbarie del privato possesso ma dal possibile godimento dell’accesso al comune. E non c’è “nessuna classe media” fra queste due realtà etiche.

 

Il secondo presupposto è soggettivo, ne abbiamo accennato le caratteristiche etiche – ora si tratta di studiarne (anche in questo caso riassumendo un lavoro collettivamente compiuto) l’ontologia della produzione. In essa si ricompongono dunque le modificazioni intervenute nella composizione della classe lavoratrice. Essa non è più (come da molto tempo si sa) “operaia” in senso esclusivo, tanto meno può essere qualificata come centrale nei processi di valorizzazione – la dimensione immateriale, intellettuale, cooperativa e la rete (come tessuto di ogni attività produttiva)  sono diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. La forza-lavoro si è dunque radicalmente modificata. Nessuna nostalgia della vecchia classe operaia. Impegno, invece, a ritrovarne le stigmate nel continuum della “disindustrializzazione”, determinata (non tanto dal capitale finanziario quanto) dall’automazione industriale e dalla sua espansione a tutto il sistema dei servizi produttivi (sicché anche l’operaio industriale è oggi lavoratore immateriale). La radicalità di questa modificazione è estrema. Altrove abbiamo definito l’insieme della forza-lavoro nella sua dimensione di soggetto sfruttato nello sviluppo del capitale finanziario come un composto da individui “indebitati, mediatizzati, securizzati, rappresentati”. In questo quadro lo sfruttamento avviene assumendo la società come totalità, investe e sussume l’intera società. È uno sfruttamento estrattivo. La qualità estrattiva dello sfruttamento significa che l’analitica “temporale” (quella marxiana, per esempio) delle figure e delle quantità di pluslavoro e di plusvalore, dev’essere rivista e analizzata secondo nuovi criteri. È qui infatti che il capitale finanziario si segnala come potente agente di un’”estorsione” compatta e massificata di plusvalore, come mistificatore di ogni assemblaggio di lavoro cooperativo e infine – in tal modo – come forza estrattiva del comune. Nel concetto di “estrazione” si modifica quindi quello di “sfruttamento”. “Estrazione” significa appropriazione di plusvalore attraverso una continua scrematura dell’attività sociale, la riduzione delle singolarità che cooperano nella produzione sociale (e che così esprimono comune) ad una massa che ha perduto ogni controllo di se stessa ed ogni autodeterminazione, la trasformazione dell’imprenditorialità capitalista in una funzione ormai incapace di organizzare il lavoro, immersa nel gioco finanziario e solo attenta alle cedole azionarie. Il concetto marxiano di sfruttamento sembra così pateticamente lontano – nella sua insistenza sulla temporalità della giornata lavorativa e dello sfruttamento individuale che in essa si misura. Se non fosse che la massa esiste solo nella logica del capitale finanziario (come il popolo in quella dei sovrani). Mentre la vita sfruttata è singolare. Da questo punto di vista, dunque, le soggettività implicate in questo sviluppo del capitalismo, espropriate come massa, sfruttate come singolarità, avvertono che la frattura sociale, meglio, la scissione del concetto di capitale si è data in maniera ormai piena. Al punto in cui lo sviluppo capitalistico è stato spinto dall’azione neoliberale, una qualsiasi mediazione interna allo sviluppo capitalistico (anche se imposta dalla moltitudine dei lavoratori bisognosi, insomma comunque essa si presenti, qualsiasi sia la forma in cui le singolarità sono rinchiuse nella massa espropriata) – ogni mediazione, dunque, è stata rotta. Assistiamo all’azzeramento del politico, meglio, del valore della composizione politica del soggetto antagonista: in questa prospettiva “la politica” è solo considerata una mediazione – e questa non potrà certo darsi con gli “esclusi”.

 

Dobbiamo dunque concludere che la dialettica operaista che sempre teneva presente un rapporto antagonista tra sviluppo capitalistico e lotta di classe operaia e ad essa imputava ogni sviluppo, è terminata? È possibile, con tutta probabilità è avvenuto. Infatti la relazione delle singolarità che costituiscono moltitudine è divenuta del tutto intransitiva nel rapporto di capitale. Il neoliberalismo ci impone questa verità. La valorizzazione capitalista nasce infatti dal fatto che la moltitudine di singolarità è ridotta a massa – è resa “transitiva” in quanto capitale variabile ma non può più esprimersi come classe – neppure all’interno del capitale, come la dialettica “socialista” esigeva. Affermare questo non significa che la concezione marxiana dello sviluppo sia obsoleta o la metodologia operaista ormai desueta; significa solo che il metodo va innovato, che le “armi della critica” vanno adeguate alla nuova situazione complessiva e che “far politica oggi” è concetto che non può esser legittimato, per esempio, semplicemente dal ricorso all’inchiesta operaia – modulata sul couplet composizione tecnica e composizione politica – ma che i temi del potere e del contropotere, della guerra e della pace, del potere costituente e dell’insurrezione, insomma, del programma comunista, vanno riproposti – in prima linea.

 

Mi ripeto. Già da tempo è stato teorizzato che l’”uno si è diviso in due”. Questo significa che non c’è più misura fra capitale e soggetto sfruttato, antagonista, che non vi è più mediazione possibile. Vi può essere mediazione solo forzosa. Questo comporta crisi, inefficienze, limiti della forma politica del capitalismo oggi dominante, di quella “democratica” in particolare, sempre più evidenti. Se l’azione politica del primissimo e primo movimento operaio (tra l’’8-‘900) ha cercato alternativamente per la sua azione un modello riformista e/o uno insurrezionale; se la seconda grande epoca del movimento operaio – quella dell’operaio fordista – ha consolidato nella forma contrattuale (e riformista) il suo progetto, oggi non vi è più nulla di questo che possa essere nuovamente percorso. Alcuni autori hanno con grande intelligenza sottolineato che il capitalismo neoliberale ha perduto ogni caratteristica democratica da  quando le istituzioni  della democrazia non son più riuscite a trattare, ad incidere sulle questioni economiche – hanno cioè permesso al neoliberalismo di estrarle dalle regole della democrazia. È un altro modo di dire che l’”uno si è diviso in due”. La sovranità è stata allora tolta agli Stati-nazione per essere trasferita verso il potere globale dei “mercati”. Ma questa conclusione non conclude nulla, è essa stessa implicata nel processo della crisi e la estremizza piuttosto che risolverla. È ormai banalmente ripetuta dai più e finisce per mistificare l’impotenza dei soggetti e per vanificare le lotte contro il capitale finanziario.

 

Finora abbiamo visto come il concetto di composizione politica di classe operaia sia venuto meno, come sia stato azzerato dalla nuova figura dei movimenti finanziari e politici del capitale – e in ogni caso come esso non possa funzionare (la diciamo grossa) “ontologicamente”, e cioè nella realtà storica determinata: perché ormai privato di ogni transitività. “Come fare politica, oggi”, non significa dunque giocherellare fra composizione politica e tecnica ma ridefinire radicalmente che cos’è “politica”. Tra poco vedremo quale sia la fragilità dello stesso concetto di composizione tecnica. La metodologia classica dell’operaismo non funziona dunque più. Bisogna modificarla. E farlo tenendo presente che la nostra autocritica non significa che non ci possiamo più chiamare marxisti; forse significa che non ci chiameremo più post-operaisti; probabilmente ci diremo solo comunisti – alla nostra maniera, facendo del marxismo un dispositivo vivente per adeguarlo alla critica del nostro mondo. Per cominciare cioè ad uscire da quella condizione di azzeramento della politica.

 

Sulla questione del presupposto soggettivo dobbiamo quindi ora ritornare, armandoci di una nuova metodologia che lavori essenzialmente sulle maniere di far crescere, indipendentemente dal rapporto di capitale (non-transitivamente dunque), la nuova soggettività sociale sfruttata. In essa non saranno più riconoscibili composizione tecnica o composizione politica, conseguenti l’una dall’altra, ma piuttosto una composizione semplificata ed una consistenza reale che cercheremo ora qui di definire, descrivendo l’azione che è possibile, a questa soggettività, di produrre.

 

In primo luogo dobbiamo tener presente che quel soggetto separato, azzerato dal punto di vista politico, è comunque un soggetto che si è riappropriato di capitale fisso, in tutta la fase di trasformazione del capitalismo fra crisi dello Stato fiscale e consolidamento dello Stato del capitale finanziario. In che cosa consiste precisamente questa riappropriazione? Consiste specificatamente nel far proprie, nell’afferrare, nel rendere protesi corporee e mentali, linguistiche e/o affettive, cioè nel ricondurre alla propria singolarità alcune capacità che prima erano solo riconosciute proprie delle macchine con le quali si lavorava, e nell’incorporare queste caratteristiche macchiniche, farne attitudini e comportamenti primari dell’attività dei soggetti lavorativi. Nel distacco storico che si era affermato tra oggettività del comando (e del capitale costante) e soggettività della forza-lavoro (soggetta al capitale variabile) – si dà, da parte delle singolarità, una riconquista di capitale fisso, un’acquisizione irreversibile di elementi macchinici sottratti alla capacità valorizzante del capitale – per dirlo brutalmente, un furto continuato di elementi macchinici che arricchisce di capacità tecnica il soggetto, meglio, come si è detto che il soggetto lavorativo incorpora. Con ciò si mostra quanto il lavoro immateriale sia corporeo, della sua capacità di assorbire con rapidità e virtuosità stimoli e potenze macchiniche.

 

Ora, ogni riappropriazione è destituzione del comando capitalistico. Questo processo di appropriazione da parte dei lavoratori immateriali è infatti molto forte, efficace nel suo svilupparsi – esso determina crisi. Ma non si darebbe crisi se considerassimo che essa nasce spontaneamente dai processi di riappropriazione e di destituzione. Non è così. La crisi ha bisogno di uno scontro, di una realtà politica che si muova per la distruzione non più semplicemente del rapporto di sfruttamento ma della condizione forzosa che lo sostiene. In effetti quando si parla di riappropriazione da parte del soggetto antagonista, non si parla semplicemente della modificazione della qualità della forza-lavoro (che deriva dall’assorbimento di porzioni di capitale fisso), si parla essenzialmente della riappropriazione di quella cooperazione che nella ristrutturazione capitalista della produzione era stata incentivata e poi espropriata – e che rappresenta il dramma essenziale di questa fase critica. Quando si dice recupero di capitale fisso, riappropriazione – lungi dall’esprimersi in termini macchiati di economicismo – l’analisi entra piuttosto su quel terreno della cooperazione che è oggi regolato in termini biopolitici dal capitale: destituire il capitale di questa funzione significa recuperare alla forza-lavoro autonoma capacità di cooperazione. Ma poiché la società civile e la cooperazione produttiva sono oggi dominate dalle funzioni monetarie – e le funzioni monetarie fanno capo direttamente al capitale finanziario – riappropriazione di capitale fisso e destituzione del comando capitalistico sulla cooperazione ci portano immediatamente all’interno di quanto è oggi più decisivo nella struttura del comando capitalista: la sfera monetaria. Se qui si dessero significanti, sarebbero significanti che rivelano il comune. La moneta si incontra e si scontra con le caratteristiche comuni della cooperazione. E allora la resistenza, la lotta e l’autodeterminazione del soggetto lavorativo qui assumono immediatamente caratteristiche politiche, poiché si scontrano con le dimensioni finanziarie (monetarie) del controllo sociale. Il welfare è il terreno privilegiato di questo scontro.

 

In secondo luogo, oltre a destituire il comando sulla cooperazione e a incorporarsi parti di capitale fisso, la nuova forza-lavoro, ovvero quella classe politica antagonista, socialmente ricomposta nella cooperazione, si trova a costruire luoghi comuni. Forse li desidera, comunque vuole costruirli. Luogo comune: che cosa significa? Immediatamente, un senso di orientamento nel contesto proprio della mobilità e della flessibilità incorporate alla forza-lavoro (cooperante). E, in seconda battuta, che cosa sono dunque i luoghi comuni, meglio, gli insiemi istituzionali dentro ai quali il soggetto antagonista vuole riconoscersi? Si tratta essenzialmente di livelli strutturali dell’organizzazione dello stare insieme, spesso il contesto sociale della città, meglio della metropoli – come luogo di incontro e di costruzione comune di linguaggi e di affetti, come piena virtualità di associazioni produttive. La metropoli sta infatti diventando, sempre di più, il luogo dove la resistenza all’estrazione capitalista del plusvalore dall’attività comune ed allo sfruttamento delle singolarità moltitudinarie, è divenuta possibile – forse un luogo di desiderio. La metropoli è certo divenuta centrale nell’accumulazione capitalista perché lì, nella metropoli, l’intransitività del rapporto capitalista ha raggiunto il più alto livello di realizzazione e di espressione, e come tale va governato dal capitale. Ma d’altra parte la metropoli si è fatta eminentemente luogo di incontro e di riappropriazione proletarie. Ogni istanza di contro-potere non può prescindere da luoghi, da spazi nei quali svilupparsi, affermarsi, sostenersi. Se nel primo momento che abbiamo considerato (quello della riappropriazione di capitale fisso) la singolarità veniva nel medesimo tempo riconoscendosi nel comune – ed il comune (nel caso, l’insieme dei servizi di welfare) diveniva l’oggetto delle sue istanze di riappropriazione – se questo avviene nella metropoli, cioè a partire da moltitudini che vengono ricomponendosi e prendendo forma in luoghi comuni – lo scontro allora si definisce immediatamente come lotta di un proletariato moltitudinario contro il capitale finanziario. Qui l’azione moltitudinaria, volta a difendere, a ricostruire, ad appropriarsi del welfare, si incardina sulla riscoperta di soggettività attive, di quelle singolarità che costituiscono la moltitudine – perciò si esprime nella richiesta del diritto di cittadinanza – che è politicamente “diritto alla città”. Diritto cioè garanzia di godimento della città, di cooperazione nella città, di governo della città, di lavoro nella città. La questione del reddito garantito di ogni cittadino diviene quindi un elemento che integra questa costruzione del politico. E se la richiesta di reddito riconosce la funzione produttiva di ogni cittadino, non è tuttavia questa la cosa fondamentale: fondamentale è piuttosto che ogni singolarità (cioè ogni lavoratore ed ogni cittadino) trovi e fissi nella sua pretesa soggettiva al reddito, una domanda di potere politico adeguata alla costruzione della moltitudine. Reddito garantito e diritto alla città sono un solo obiettivo politico. Se nel primo luogo comune che abbiamo costruito, la singolarità moltitudinaria si realizzava nel comune (nel governo del welfare), qui il comune è moltitudinario e si esprime attraverso le singolarità (nel diritto soggettivo alla città, all’accesso al comune) – così si afferma la nuova maniera di far politica oggi.

 

Nel neoliberalismo, nello Stato consolidato della trasformazione del comando di capitale, il tessuto del comune è organizzato dalla moneta ed espropriato dalla Banca. È così che, procedendo dal basso, si propone per noi, per le nostre lotte di emancipazione sociale e di libertà, il tema Europa. Ricostruire l’orizzonte europeo significa dunque battersi per la riappropriazione del welfare e per l’ottenimento di un reddito di cittadinanza, eguale per tutti e più che decente, riconoscendo nella BCE il nemico da battere, il potere da spossessare. È qui che si da, a fronte degli attacchi dei “mercati” (quanto avvenuto nella crisi ce lo ha mostrato) un’occasione unica di spostare il discorso politico  dalle condizioni asfissianti del dibattito all’interno dei singoli Paesi-nazione ad una prospettiva rivoluzionaria. Ma di più – proprio se non si può tornare indietro (e la crisi lo ha dimostrato, e la sua soluzione lo affermerà ancora più duramente) l’Europa è un’occasione rivoluzionaria. Se non si può tornare indietro, occorre andare avanti – e per andare avanti c’è una sola strada: lottare, insistendo su welfare e reddito di cittadinanza, per rifondare quell’istanza democratica del comune che ci è stata strappata via dall’attuale governance europea, egemonizzata dal neoliberalismo. Il tema Europa si pone dunque direttamente contro la Banca, riconoscendo che la lotta moltitudinaria, la lotta del proletariato sociale contro la Banca non rinnega il processo di unificazione europea ed i risultati raggiunti (fra i quali la moneta unica) ma si pone piuttosto l’obiettivo del governo della moneta, della costruzione della moneta del comune. Questa è però solo una premessa, quasi un anticipo ideologico di un’azione comunista da riprogrammare.

 

Di nuovo chiediamoci dunque: perché l’Europa? Perché siamo “europeisti” anche dopo che del neoliberalismo abbiamo direttamente subito la repressione feroce, l’austerità orribile e ne abbiamo fatto l’oggetto del nostro odio? E dopo aver implicitamente riconosciuto che l’Europa rappresenta nel quadro istituzionale presente, il più completo esempio di consolidamento dello Stato neoliberale? All’interno della “sinistra” molti, la maggior parte di quelli che non aderiscono alla socialdemocrazia, ora (dopo aver a lungo lottato contro il processo di unificazione europea, duramente ammaestrati dalla crisi economica e avendo appreso che indietro non si torna) – ora, dunque pensano che la sola maniera di ricostruire l’Europa preveda la riformulazione del contratto costitutivo, da parte degli Stati-nazione europei, esigono dunque che questi si ricostruiscano come soggetti sovrani della contrattazione. Si tratterebbe di ritornare (temporaneamente?) agli Stati-nazione, di restaurare una sovranità nazionale (protetta dall’Europa dentro e contro la globalizzazione?) e così di riconquistare potere sulla moneta. E poi… poi si vedrà. Il sovranismo è duro a morire e ci sono ancora socialisti disponibili, fin dal 1914, a ripetersi nel difendere la sovranità nazionale oltre ogni vergognoso limite! Subordinatamente, in maniera più pacata, si sostiene la possibilità di riaprire un rapporto – quasi contrattuale – fra i vari Stati europei, quasi sovrani, dopo che essi abbiano riconquistato una maggiore autonomia sovrana – quelli che il fiscal compact e gli altri diabolici accordi monetari hanno eliminato:  insomma, di ricostruire l’Europa in due tempi. Uno, cancellazione degli accordi sulla BCE; due, ricomposizione attorno ad un accordo tipo Bretton Woods, dove a comandare sia un indipendente “Bancor” – moneta convenzionale che flessibilmente accompagni le diversità delle situazioni europee e guidi i movimenti di aggiustamento delle bilance e dei budget all’interno dei singoli paesi e fra tutti. Patetici progetti. Comunque ci riguardano solo parzialmente, come per definire uno sfondo. Per noi il problema non si risolve ritornando indietro: pensiamo infatti che l’Europa sia il contenente minimo per un’azione politica rivoluzionaria che si collochi nella globalizzazione. Lo spazio (proprio in seguito alla globalizzazione) è ritornato ad essere una dimensione politica essenziale, primaria. È solo costruendo e consolidando la forza di un ordinamento in uno spazio determinato fra soggetti che cooperano, che la legittimità (quella sovrana, certo, ma anche quella) rivoluzionaria, si afferma. Non c’è alternativa. L’Europa è questo spazio – dove il proletariato moltitudinario nel quale ci riconosciamo può insorgere, trasformando non lo spazio (anche quello, forse: ne parleranno altri) ma la struttura di potere che lo ordina. L’Europa e la moneta europea costituiscono un ambito di virtuale autonomia all’interno della mondializzazione. Senza l’Europa non vi è possibilità di governare, limitando la pressione immane dei mercati globali e dei poteri multinazionali. Europa è quella dimensione spaziale che rappresenta una possibilità di sopravvivenza politica e di azione autonoma delle moltitudini europee, a fronte della pressione delle forze sovrane, già assestate su dimensioni globali – configurantesi ormai come sezioni continentali del potere globale.

 

Quanto è avvenuto sulla scacchiera globale in quest’ultimo trentennio, dalla fine della guerra fredda, va fortemente sottolineato per chiarire che la proposta di una lotta che si proponga un progetto di democrazia radicale in Europa, è tutto tranne che un sogno. Se è vero, infatti, che la potenza dei mercati è immane, è altrettanto vero che il peso e i condizionamenti dell’alleanza e della subordinazione atlantica è divenuto, nella continuità, sempre più fragile e in prospettiva instabile. È dal declino della potenza americana che l’inizio del XXI secolo è stato caratterizzato – con due conseguenze maggiori. La prima è il conflitto latente fra USA e Cina – esso sta maturando ed ha una prima conseguenza che ci interessa: avere estraniato il potere americano dall’Europa e fatto registrare il forte indebolimento (da non sottovalutare) del potere americano, non solo in Europa ma sull’intera dimensione mediterranea. Gli USA non hanno mai voluto un’Europa unita, tranne come alleato durante la guerra fredda. Dopo la “caduta del muro” di Berlino hanno continuamente osteggiato l’unificazione e la Gran Bretagna ha sempre rappresentato il cavallo di Troia di questo sabotaggio. Ora la situazione è profondamente mutata e, all’indebolimento della leadership, si aggiunge per la Casa Bianca la necessità di sostenere più efficacemente gli interessi americani nel Pacifico e di costruire laggiù un fronte strategico per l’egemonia asiatica. Come si vede, la “provincializzazione di Europa” non porta solo guai! La seconda conseguenza è ben più importante: si lega allo sviluppo delle primavere arabe lungo il Mediterraneo e nel Medio Oriente (un vero 1848). Per ora sembra impossibile identificare una soluzione politica al conflitto fra moltitudini arabe e le strutture autoritarie (militari e/o plutocratiche) che le controllano e le stringono in una gabbia di miseria e ignoranza medievali. In quella situazione, la lotta di classe sta riprendendo i suoi diritti – naturalmente se di lotta di classe si parla nei termini in cui noi ne abbiamo fin qui parlato, come lotte di moltitudini di singolarità, come lotte che sono insieme di emancipazione dalla povertà e di liberazione dei soggetti. Il tema di un’Europa unita da un progetto di democrazia radicale-comunista trova nel movimento d’oltre Mediterraneo una sua base d’appoggio – anche il viceversa è da costruire.

 

In terzo luogo – o meglio, è questo il terzo presupposto che sta alla base del ragionamento sulla soggettività che abbiamo cominciato a sviluppare all’inizio di questo intervento (tanto tempo fa!) – si tratta di consolidare, anche noi, in istituzioni i movimenti fin qui descritti. Si tratta non solo di costruire contropoteri diffusi ma di coalizzarli per produrre potere costituente. Si tratta di ricomporre l’insieme delle forze plurali che lottano per il reddito e per la difesa/espansione del welfare, attorno ad un telos, ad una finalità comune. A noi sembra che quando si sia assistito alla lunga vicenda delle primavere arabe e delle insorgenze occupy (ed alle tragedie che stanno contrassegnando la pur indomabile – talora aperta, talora sotterranea – continuità delle prime ed al ristagno – sia pur talora potentemente riflessivo – che tocca le seconde) – bene, non si può allora non pensare – se ancora si possiede un minimo di responsabilità teorica, prima ancora che politica – alla necessità di un lavoro di costituzione di una forza che sappia – tutti insieme – affrontare il nemico. La consapevolezza di un passaggio strategico è stata probabilmente acquisita: sarà necessario costruire piattaforme che organizzino la continuità delle lotte e il loro progresso. Far divenire istituzione le lotte significa imprimere loro un telos, incorporato ad ogni momento organizzativo. Sia chiaro che dicendo questo non si intende parlare di “rifondazione” della “sinistra” (“rifondare” e “sinistra” sono state ridotte a parole di merda) né si allude a possibili rapporti con forze parlamentari della vecchia sinistra. Siamo comunisti, non abbiamo nulla a che fare con la socialdemocrazia nella quale riconosciamo una variante ideologica del dominio capitalista. Noi siamo un’altra cosa, e ci definiamo al di là del socialismo. Cominciamo dunque per ora a sviluppare in Europa coalizioni di forze in lotta, dentro l’Europa, contro la sua Costituzione e le politiche della Banca Centrale e cerchiamo di dare loro forma istituzionale. Come una volta dicevamo, nel costruire organizzazione: “chi non ha fatto inchiesta, non parla”, cominciamo a dire: “chi non ha costruito coalizione, in Europa non parli”. Questo è probabilmente un modo per far diventare tendenza, in Europa quelle forme nuove che la moltitudine insegna, di costruire ed occupare spazi liberati – perché moltitudine è moltitudine di soggettività che si ritrovano in uno spazio comune. Credo comunque che per qualificare la costruzione di coalizioni, in questa fase, sia sufficiente affermare un punto: la volontà di distruggere la proprietà privata, di dissolvere nel comune la proprietà pubblica e la sovranità che la colora, e di costruire e di gestire democraticamente il governo del comune.

 

Lo spazio europeo è allora, forse, un territorio privilegiato di sperimentazione moltitudinaria nella costruzione di istituzioni del comune. Lo dico con molta prudenza ma anche con molta speranza: perché è ben vero che l’Europa è stata provincializzata e che il proletariato europeo ha perduto la sua battaglia di emancipazione che per alcuni secoli aveva condotto contro l’impero neoliberale dal capitale…. e però gliene abbiamo dato tante ed abbiamo ancora la forza di dargliene.

Gli audio e i video del seminario

 

Avvisi a i/le naviganti (1) per Sovvertire il presente

*Passignano dal 5 all’8 Settembre 2013

Cominciamo a dire: Europa.

Individuiamo, con più precisione, l’oggetto specifico del nostro lavoro – piuttosto, lo spazio d’analisi a partire dal quale produrre lavoro politico. Cominciamo dunque a dire: Europa. Perché? Per il semplice fatto – semplice e duro come un sasso – che la struttura centrale del comando si è ormai definitivamente fissata altrove dal piano nazionale e da ogni corrispettivo livello istituzionale repubblicano – piuttosto a Francoforte che a Berlino. E’ dunque sull’asse che stringe le lotte e le resistenze di classe e moltitudinarie al comando monetario europeo che intendiamo soffermarci, nella nostra discussione. Si discuterà dunque di cosa significhi assumere l’Europa come spazio specifico e punto focale delle lotte per la democrazia e per il comunismo. Non sarà facile collocarsi a quell’altezza concettuale e politica: crediamo, però, che se riusciremo a stabilire una propedeutica per l’approccio al tema lotte/Europa, molte cose nei prossimi anni diventeranno più chiare e, forse, facili da fare. Nella nostra esperienza la definizione del luogo da cui parlare, è sempre stata fondamentale per ricostruire movimento.

Che cosa vuol dire lottare contro la Banca Centrale? Portare la nostra esperienza e la nostra teoria a rispondere a questa domanda – attraverso la lotta metropolitana sui temi del reddito e del comune, attraverso la costruzione di istituzioni del comune – bene, questo è quanto cominceremo a fare a Passignano e continueremo a fare poi. Naturalmente si tratterà di parlare di politica in maniera nuova. Di politica: e cioè di tutti gli strumenti (anche di leggi) utili a costruire un programma di lotte sull’Europa, subordinandogli ogni iniziativa. Se diciamo: “in maniera nuova” è per sottolineare la nostra sete di conoscenza comune, il desiderio di costruire concetti che afferrino il reale e capovolgano il dispositivo di comando. Perciò formazione, non potrà più essere – se mai qualcuno l’avesse pensato – sinonimo di una qualsivoglia tradizione: ma lavoro comune per imparare a guardare il mondo.

Sia chiaro: nell’attuale panorama istituzionale europeo, il livello della rappresentanza può essere solo riconosciuto come impedimento oggettivo allo sviluppo dei movimenti. La discussione sulle prossime elezioni europee finisce così con l’essere corruttiva del punto di vista sovversivo che urge e pressa il presente. In questa fase intendiamo separare radicalmente composizione tecnica e composizione politica delle moltitudini. Delle istituzioni esistenti (e delle competizioni elettorali) possiamo produrre solo critica. Quel resto di socialismo europeo che affoga nella morsa del pareggio di bilancio, non saremo certo noi a salvarlo. Delle forze tecnocratiche, dei passacarte di Francoforte e dei sacerdoti della Troika, come del contro effetto nazionalista che le loro politiche inevitabilmente produrranno nelle prossime scadenze elettorali possiamo solo dire: ecco il volto del nostro prossimo avversario.

In questo contesto, e solo a partire dal livello europeo, intendiamo certo porre in questione lo scenario italiano. Ancora una volta: è di critica, che si tratta. Leggere la rottura dei poteri istituzionali in Italia attraverso le lenti della critica radicale del diritto repubblicano, proporre una via di fuga dallo scontro tra gli alti gradi della magistratura e i vertici della rappresentanza politica, decostruire l’ideologia di tutte le soluzioni giudiziarie messe a servizio della mediocrità stessa della politica e delle sue istituzioni. La soluzione non si trova tra i banchi di Montecitorio, né siederà tra gli scranni del Parlamento Europeo. Ma dentro la crisi istituzionale che si apre, i movimenti possono subentrare duramente con un discorso chiaro e senza ambiguità – anche a partire dal dibattito “a sinistra” – e porre in evidenza senza inchini e salamelecchi un tema fondamentale, ovvero la trasformazione e ridefinizione della carta costituzionale. L’Italia è stata una repubblica fondata sul lavoro. L’Europa sia il continente di una democrazia assoluta fondata sul lavoro vivo, sulle donne e gli uomini che producono saperi, cura di sé, forme di vita. Ogni generazione ha diritto alla sua costituzione.

Per noi si tratta di costruire strumenti di lotta che rivendichino questo diritto. Allora innanzitutto dobbiamo individuare le nuove enclosures nell’economia della conoscenza ed abbatterle; riappropriarci del comune; definire una legge di stabilità del reddito universale di esistenza come premessa anticapitalista del riconoscimento della produzione permanente di cui siamo portatori; rivendicare come reddito quella produzione di valore che viene estratta dalla rendita finanziaria. Questo è il nostro costruire concetti: definire un potere costituente per salvaguardare, dentro il dispositivo formale, una strategia incrementale del conflitto.

Come si vede, non crediamo affatto che le figure della rappresentanza politica, in qualunque forma e in qualsiasi luogo siano prese in considerazione, possano oggi essere utili a risolvere i nostri problemi. Avrebbero il solo effetto di spostare l’attenzione critica e militante su elementi secondari e spesso opportunistici – comunque decentrati rispetto alla realtà ed al programma specifico dell’élite egemonica europea. Quello che ci interessa è piuttosto confrontarci con la nuova consistenza del governo capitalista, come contropotere espresso dal nuovo proletariato. Abbiamo bisogno di identificare sul livello europeo punti di scontro nella misura e nella dimensione di Rio o di Taksim. Su questo terreno convocare alla discussione tutte le forze – sì proprio tutte – che in Italia hanno vissuto gli anni del disfacimento della democrazia postbellica, ci sembra necessario e utile: non certo per costruire scenari elettorali. Chi sente il bisogno di esercitarsi in piccole tattiche e minuscole strategie per le elezioni europee non troverà nulla di interessante nella nostra discussione. E neppure coloro che pensano di rievocare attraverso un logoro sindacalismo di base, vecchi fantasmi gruppettari: le moltitudini europee non difettano di organizzazione. Le forme di vita e i conflitti che attraversano le metropoli sono ricchissime di capacità politica. Si tratta di non disperderla, di leggerla e interpretarla.

https://europassignano2013.wordpress.com/

Recensione di A sara dura!

Centro sociale Askatasuna (a cura di), A sarà düra. Storie di vita e militanza no tav, DeriveApprodi, Roma 2012

E’ una storia molto più profonda di quanto avremmo immaginato. E’ una questione di vita e di morte, di vivere meglio e morire serenamente, sapendo di averci provato”

Ai compagni di Askatasuna va il merito con questo libro di proporre al movimento una riflessione sugli strumenti metodologici e teorici che abbiamo a disposizione per definire, raccontare e promuovere i percorsi di lotta.

Riprendendo in mano gli attrezzi della ricerca sociale hanno definito un possibile campo sul quale muoversi guardando ai futuri possibili per nuovi orizzonti di conflitto.

Partendo dall’“inchiesta”, proposta di lavoro immancabile in ogni ambito militante dell’ultimo decennio come bussola nella navigazione “a vista” in cui siamo costretti dalle profonde ridefinizioni nel plurisecolare divenire “classe” da parte dei subalterni, gli autori dalle prime pagine la riprendono come strumento che “produce conoscenza” (p.11), inoltrandosi nel complicato terreno della “conricerca”.

Questa pratica che “è costruzione di conoscenza e al contempo governo della conoscenza, inteso come indirizzo, scelta, decisioni, sottese da fini di parte” (p.17), abbandonata dagli ambienti antagonisti da almeno tre decenni, rappresenta uno scarto ulteriore nel lavoro epistemologico dell’inchiesta: è il farsi pratica rivoluzionaria da parte di un sapere altrimenti a rischio sussunzione anche negli ambiti accademici e scientifici ufficiali. La conricerca mette questo sapere al servizio delle lotte, produce soggettività, o in parole più semplici “fa prendere coscienza”. Delle condizioni proprie e della controparte, “di classe”. Con la nettezza che li contraddistingue i compagni torinesi definiscono anche il campo dei saperi utili alle lotte rispetto ai saperi che favoriscono il sistema capitalistico nella “sua stabilizzazione e il suo sistema di dominio” (p.33). Così propongono di distinguere tra una funzionalità delle scienze sociali e pedagogiche alle lotte rispetto a quelle economiche o giuridiche, dalle quali il capitalismo riproduce se stesso. Su questo potremmo anche non essere d’accordo perché una critica al sistema economico e alle sue forme politiche, allo Stato e alle forme del diritto passa necessariamente attraverso un impegno teorico dentro queste discipline. Ma è giusto che nella definizione dell’orizzonte di conflitto proposto dai compagni ci si nutra anche di scarti netti.

La conricerca si realizza nel momento in cui permette di indicare il “soggetto” come colui che “definisce e sostiene un punto di vista, assume una posizione di parte, si differenzia e costruisce una sua autonomia praticando una contrapposizione” (p.21) e coerentemente gli autori del libro riconoscono nella figura del militante il centro della narrazione della lotta no tav. La centralità che viene data al militante è rappresentativa delle posizioni più salde e articolate, dell’incontro di aspettative individuali e collettive intorno ad un processo di conflitto. Non a caso quindi le interviste, non solo quelle pubblicate (le altre sono consultabili sul sito www.saradura.org), sono state raccolte tra gli attivisti più noti del movimento, tra quelle figure che nella loro biografia politica hanno attraversato i momenti fondativi della lotta no tav o i passaggi più importanti della sua storia recente. Questo anche a scapito di una rappresentatività degli intervistati, che a parte poche eccezioni fanno parte di una generazione anagraficamente compresa tra i 40 e i 70 anni.

Gli spunti per una riflessione politica sono molti, ma va sicuramente sottolineato lo sforzo di proporre all’attenzione del lettore, specie se coinvolto in prima persona in processi di attivismo collettivo, la questione della cooperazione come momento costitutivo del comune: il commoning ovvero il processo di definizione dello stato della proprietà di quei beni “che sono stati socialmente riappropriati”(p.226) è una delle suggestioni più potenti che ci viene dalle pagine del libro, sgombera il campo dalle banalizzazioni sull’abusato tema dei “beni comuni” e orienta in avanti il dibattito nello schieramento antagonista.

Muovendosi lungo alcuni assi contenutistici (Contesto, Soggetto, Processi, Mezzi e capacità, Fini) il libro diventa una bussola importante per orientarsi nell’esperienza no tav dentro un quadro storico e sociale coerente. La Val di Susa è un territorio alpino utilizzato da oltre 30 anni come corridoio per le merci da e verso la Francia. E’ già saturata da arterie stradali ad alto scorrimento e trasformata nel suo tessuto economico da che era una propaggine periferica dell’industria torinese agli investimenti turistici dell’Alta Valle (pp.213-226). Per distinguere i contorni della composizione politica che anima il movimento bisogna partire da qui e dal lavoro di lungo periodo svolto da singoli e comitati nel corso degli anni. Per capire la sua forza e l’attrazione che ne deriva dobbiamo cogliere il valore della costruzione di forme organizzative, non date naturalmente ma elaborate con la cura e l’attenzione di chi ha realizzato intorno ad un progetto di lotta “qualcosa di più della somma delle sue differenze” (p.257).

Saper costruire relazioni forti che vanno oltre la comunità locale, trascendere il confine tra legalità e legittimità portando alla condivisione di pratiche al di la della sola e non scontata spontaneità, guardare ad un orizzonte anticapitalista dentro un rinnovato quadro sociale praticando forme di cooperazione che guardano ad alternative di futuro. Sono queste le indicazioni che ci arrivano dalla lettura di questo volume, oltre che naturalmente, dall’esempio quotidiano della lotta no tav.

a cura del nodo redazionale indipendente

Dalla valle alle metropoli, per un autunno di conflitto

Movimenti di lotta per la casa e per il diritto all’abitare, centri sociali e spazi occupati, collettivi studenteschi e precari, militanti del movimento no tav  e di altre lotte a difesa del territorio, ci siamo incontrati al campeggio di lotta di Venaus – tra cariche nei boschi e momenti di lotta e condivisione – per costruire un percorso comune che guardi avanti, verso un autunno di conflitto di cui tutt* condividiamo l’urgenza.

 

Abbiamo individuato nella data del 19 ottobre (già indicata dalla 2 giorni sull’abitare a Porto Fluviale) un’occasione utile per mettere a verifica un percorso e intrecciarne molti altri. Una giornata in cui assediare i Ministeri che traducono le direttive della troika in leggi e decreti che distruggono le nostre vite. Un punto di partenza dunque e non di arrivo. Non una scadenza ma un processo in costruzione, da articolare  nei differenti territori da cui proveniamo.

 

Raccogliamo la proposta uscita dagli incontri avvenuti al campeggio del Monte Amiata di una mobilitazione diffusa sul territorio in occasione del 12 ottobre sul tema del colonialismo sui territori, attendiamo la conferma di una giornata di mobilitazione transnazionale dall’Hub Meeting di Barcellona per il prossimo 15 ottobre e c’impegnamo nella costruzione di iniziative territoriali di avvicinamento, sostenendo lo sciopero del sindacalismo conflittuale e di base del 18 ottobre. Non una data ma una settimana di mobilitazione.

 

Una riflessione comune ha registrato una necessità che è anche un auspicio: c’è bisogno di un salto di qualità nell’agire dei movimenti; non si può continuare a condurre battaglie divise che si consumano nel proprio ciclo fisiologico o nella separatezza della propria specificità, quando il comando che ci governa dall’alto impone ogni giorno nuove misure di austerità che decidono le finanziarie di interi paesi. Lottare contro il Tav non è diverso dall’occupare una palazzina per dare un tetto a chi non ce l’ha, difendere uno sfratto, lottare per l’erogazione di un reddito dignitoso per tutt*, difendere servizi essenziali alla persona o sostenere attivamente le lotte che si producono nel mondo del lavoro.

 

Il tema della riappropriazione è emerso con forza come necessario corollario alla difesa dei territori dalla valorizzazione capitalistica. La parole d’ordine del “Non pago!” e dell’“Occupiamo tutto!” le poniamo come metodo e programma, da agire nella quotidianità dei nostri percorsi. Battaglie concrete da iniziare a proporre e attivare dentro quella composizione sociale fluida di nuovi poveri che vede sempre più simili nelle condizioni di vita e nei bisogni precari, migranti, studenti fuori sede, operai e ceti medi. Riprendendoci le case di cui abbiamo bisogno per vivere, auto-riducendoci le bollette del gas, dell’acqua e della luce, per iniziare a ridurre il ricatto di un lavoro salariato sempre più esiguo e costretto in una competizione al ribasso.

 

Su tutti questi temi, nella costruzione di questa settimana di mobilitazioni, verso e oltre il 19 ottobre, invitiamo tutti quei soggetti, quei collettivi e quelle singolarità che non abbiamo ancora avuto modo o occasione di incontrare a raggiungerci e confrontarsi con noi, aperti nella discussione e nel confonto, con la discriminante precisa di mantenere il profilo di indipendenza e autonomia di un percorso che si vuole sganciato da interessi partitici e di rappresentanza istituzionale. C’impegnamo quindi fin da ora a costruire momenti assembleari e di organizzazione nei singoli territori di provenienza e una giornata di assemblea generale da costruire a Roma nella seconda metà di settembre.

 

 

Assemblea “Dalla valle alle metropoli”

Venaus, campeggio di lotta notav, 20-21 luglio 2013

Il silenzio è dei colpevoli per un controdispositivo di liberazione dal sessismo

Spesso accade che migliaia di persone attraversino l’ex cinodromo occupato per una serata di musica e socialità. L’autogestione contamina lo spazio e la libertà produce liberazione. Ma a qualcuno di tutto questo non gliene frega un bel niente e, inconsapevole del pericolo che corre, può decidere di usare violenza per avvicinare l’”oggetto” del suo desiderio.

Vogliamo scrivere queste semplici riflessioni per non rimanere in silenzio di fronte ad episodi a cui non possiamo e non vogliamo assuefarci. Vogliamo rompere il silenzio con un urlo liberatorio contro il sessismo e la violenza di genere.

 

Non rimaniamo certo basiti del fatto che spazi occupati e liberati, come il nostro, non siano immuni da eventi di questo tipo. Come compagne e compagni di Acrobax ci rendiamo perfettamente conto (anche perché lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle) che il sessismo è interiorizzato, trasmesso e perpetrato nella società e quindi, purtroppo, anche in quel piccolo pezzetto di mondo che sentiamo nostro e che con impegno ogni giorno proviamo a stimolare, incitare, esortare e spronare verso un’alterità e una trasformazione dell’esistente fatta di autodeterminazione, solidarietà e lotte contro le ingiustizie sociali.

Non serve ricordare la gravità e il numero degli episodi di violenza di genere che si susseguono in Italia come in tutto il mondo. Ce lo ricorda ogni giorno una cronaca affamata di sensazionalismo e buona morale. La nostra rabbia cresce di fronte alle risposte false e ipocrite quali il braccialetto elettronico o l’aggravante del “femminicidio” da parte di una politica integralista che vieta le più banali libertà in tema d’interruzione di gravidanza, coppie di fatto, divorzio rapido per poi battersi il petto di fronte alle conseguenze di tanto oscurantismo.

Non esiste repressione che risolva la questione, non ci culliamo nell’idea che una nuova fattispecie di reato oggi tolga un “femminicidio” domani.

Pensiamo, piuttosto, che anche in questo caso dobbiamo e vogliamo partire dal basso: dai bisogni e dai desideri negati.

Quando occupammo il ministero della piangente ministra Fornero, l’8 marzo 2012, dicemmo chiaramente che “la crisi non è neutra”. C’è una questione di precarietà oggettiva, di vita, di affetti, di ansie e paura, di lavoro e reddito da risolvere. Reddito per tutt*, anche per le donne che denunciano abusi da cui spesso non riescono a staccarsi per le povere condizioni materiali che vivono. Sulla vita delle donne la crisi travolge i falsi miti del lavoro e della carriera come fattori di emancipazione sociale e lascia intorno il deserto, e la famiglia come cattedrale.

In mancanza di forti anticorpi sociali fatti di autodeterminazione e cospirazione, la crisi rischia di produrre, come in altri paesi europei, una deriva di destra, tradizionalista e conservatrice decisamente funzionale al necessario controllo sociale.

Un problema dunque sociale, culturale ed anche economico che attiene alle forme di sopraffazione su cui si fonda la nostra società. Un problema che deve essere messo al centro di quella critica costituente che portiamo avanti ogni giorno sforzandoci con sempre maggiore determinazione nel costruire insieme uno spazio di rottura e di liberazione, una risposta reale, concreta e solidale.

Partiamo da noi, dalle iniziative queer-gay-lesbo-trans, dallo sport popolare antifascista-antisessista-antirazzista, dai corsi di autodifesa femminile organizzati nella palestra La Popolare, fino ai percorsi di lotta per la libertà di movimento e il diritto ad un’esistenza degna oltre il capitale.

Partiamo da noi per organizzare la nostra rabbia…

A me, vittima non lo dici!

Ciao Clément, il miglior omaggio è continuare le lotte

“Bonheur à ceux qui vont nous survivre et goûter la douceur de la
Liberté et de la Paix de demain”

(Missak Manouchian)

 

L’omicidio di Clément  Méric, 18enne militante antifascista parigino, impone alla Francia una riflessione su quanto il vento della crisi stia portando la propria società sul piano inclinato dell’identitarismo e del consenso a proposte politiche autoritarie e nostalgiche.

 

Già il 15 maggio il presidente Hollande si è dovuto difendere dalle bordate mediatiche per i primi segnali di recessione (-0,2% del PIL), contestualmente alle critiche mosse all’esecutivo di centro-sinistra per la legge a favore del matrimonio “per tutti”, ovvero il riconoscimento delle nozze tra omosessuali. I due fatti non sono scollegati: da una parte abbiamo un paese che da decenni si confronta con tensioni interne fortissime, tra centri metropolitani eperiferie, tra cittadini di provenienze nazionali differenti e conflitti
interconfessionali. Fino ad ora il tradizionale centralismo e l’ipertrofico sistema di tutela pubblica avevano parzialmente alleviato le fratture, ricorrendo spesso e volentieri alla retorica legalitaria e all’uso della forza pubblica per limitare le emergenze al chiuso delle banlieues e dei ceti sociali più poveri.

Oggi, con la recessione alle porte, le vecchie paure della “France profonde”, di quella provincia bianca, cattolica e rurale, tradizionalista e xenofoba, entrano a gran forza nelle città: Parigi, Lione, Lille, Tolosa sono investite da una rinnovata fascinazione per i molti gruppi di estrema destra e per la figura decisamente carismatica di Marine Le Pen, a capo di un Front National il cui consenso, dopo gli anni di sussunzione “sarkozyana”, è arrivato ad oltre il 17% alle ultime presidenziali. Il miglior risultato di sempre. La cittadinanza impaurita dal possibile disastro sociale che già vede dispiegarsi tra i PIGS alza gli steccati dell’identità, cerca di blindare le risorse pubbliche a proprio favore, secondo i principi escludenti della preferenza nazionale.
L’approvazione di un importante diritto civile come quello al matrimonio gay viene messo in discussione tanto come attacco ad un principio di società eterocentrica e tradizionale, quanto come punto di agenda politica considerato non prioritario di fronte alle dismissioni industriali e ai primi tagli di spesa ai servizi.

Come ben sappiamo in Italia, quando l’austerity diventa governo della paura e l’estrema destra è in grado di assorbire parte del malcontento sociale, questa facciata pubblica crea l’ombra nella quale si rafforza il neofascismo. Le piazze contro il “matrimonio per tutti” si sono animate di una radicalità probabilmente in Francia assente dai tempi della guerra d’Algeria e dell’OAS. Con il suicidio il 21 maggio dell’intellettuale
nazista Dominique Venner, ricordato con affetto anche dagli italiani di Casapound, l’estrema destra ha goduto di una visibilità che ha speso
immediatamente negli scontri il sabato successivo in coda ad una partecipata mobilitazione sulla questione delle nozze omosessuali. Solo negli ultimi mesi a Parigi e in tutta la Francia gruppi più o meno organizzati di fascisti avevano attaccato compagni, omosessuali (è di ieri la notizia di un raid a Lille contro un bar gay-friendly) e riaperto le tensioni  islamofobe, con l’organizzazione Génération Identitaire che a Poitiers
in ottobre occupava il cantiere di una nuova moschea. A Tolosa un raduno neonazista è in programma per il prossimo fine settimana, con una mobilitazione antifascista già convocata.

Insomma, l’omicidio di Clément Méric non cade dal cielo. I suoi autori, militanti della Jeunesses Revolutionaires Nationalistes, fanno parte di una organizzazione storica, già attiva negli anni Ottanta e che oggi rappresenta il legame più forte con Casapound in Francia. Anche la Francia, come già avviene in Grecia e in parte in Spagna e Italia, sta cedendo alle pulsioni più basse della pancia del paese, legittimando una società fatta di recinti e discriminazioni, di prevaricazione e squadrismo fascista.

Ci troviamo a piangere un attivista di appena 18 anni, senza aver ancora asciugato le lacrime per Abdullah Comert, assassinato pochi giorni fa in Turchia dalla repressione:  a ucciderli per noi è stata la stessa mano, che abbia la divisa o una celtica al collo. A muovere entrambi era il nostro
stesso desiderio di libertà e dignità. Tutti o nessuno, tutto o niente. Il nostro miglior omaggio è continuare le lotte.

LOA Acrobax Project

All Reds Rugby Roma

All Reds Basket

La Popolare Palestra Indipendente

Antifascist* sempre

Political divide: il cinquanta per cento degli italiani se ne fotte dei partiti, vecchi e nuovi

di Lanfranco Caminiti

Di sicuro c’è solo che si è votato. Ma la fluidità del comportamento elettorale è ormai tale che diventa un busillis non solo predire con una qualche approssimazione politica quel che succede ogni volta, ma anche quel che succederà la prossima volta. Il cinquanta per cento degli elettori non va a votare. Dopo la Sicilia, dopo il Friuli, in questa tornata di amministrative il fenomeno si è esteso a livello nazionale, e a Roma sia per numero che per senso ha un significato macroscopico. Identificare il profilo di questo “non elettore” è davvero complicato, perché — è questo, a mio parere, il dato nuovo e perturbante del sistema — non è sempre lo stesso soggetto [sociale, economico, geografico] a andare a far parte di questo nuovo “blocco”. Qui il fenomeno, in un certo senso dato per scontato da sondaggisti e spin doctor, di quel venti per cento di resistenti e indifferenti alla liturgia democratica elettorale, quasi una “plebaglia elettorale” di chi scribacchiava un insulto o preferiva il mare se era la stagione buona o stiracchiarsi a letto se era una stagione fredda, si è modificato in uno “zoccolo politico”. Da un sistema politico congelato in due enormi blocchi, la Dc e il Pci — che era il “segreto” funzionamento della Prima repubblica —, siamo passati, attraverso il bipolarismo acciaccato di centrodestra e centrosinistra della Seconda repubblica che avrebbe dovuto ammodernarci nel normale ricambio di governo tra uno schieramento e l’altro, a una spaccatura tra chi vota e chi no, che sembra la formula nuova della Terza repubblica. Il cinquanta per cento degli elettori italiani non va a votare con una motivazione politica “forte”. Il “fattore A”, A come astensione, è andato a sostituire il “fattore K”, come Kommunismus, che era la “norma fondamentale”, la Grundnorme della Prima repubblica. Solo che il fattore K era un elemento di “stallo” e fu intelligenza comunista quella di governare dall’opposizione. Il fattore A è invece un elemento di instabilità e non si vede ancora chi riesca a governarla — mi sembra poca cosa il ragionamento di chi considera automatico un rafforzamento del governo Letta. «Uno vale uno», che sarebbe il principio democratico introdotto dal 5 stelle, non è più vero, perché uno non va a votare e se ne fotte.

 

La retorica del lavoro e quella di internet

Ci sono due fenomeni che in qualche modo si possono accostare, senza sovrapporsi, a questo, di una metà di elettori che non esercitano più il loro diritto/dovere di voto. Il primo è quello riguardante le persone che non cercano più lavoro, perché non lo trovano, e sono scoraggiati tanto da non mettersi più in fila, non consultare gli elenchi ai Centri per l’impiego, non mandare in giro curriculum, non bussare più ad alcuna porta, non chiedere neppure più alla cerchia degli amici e dei parenti; sommando i circa tre milioni di inattivi con i circa due milioni di disoccupati arriviamo a una cifra consistente che va vicino alla metà della forza lavoro disponibile, con grosse concentrazioni tra le donne e i giovani e nel Sud, quindi con notevoli squilibri nella distribuzione regionale. Detto tra parentesi, a guardare questi dati viene da pensare quanto sia ideologica e indecente la posizione di chi è contrario all’introduzione del reddito minimo di cittadinanza perché “scoraggerebbe” le persone dalla ricerca di un lavoro, acquietandole in un universo assistito, e in definitiva di parassitaria sopravvivenza. Ideologica perché sembra aggrappata a un universo di riferimento dell’occupazione di massa e della produzione affluente che nessuna ripresa e nessuna crescita potrà mai più garantire; e indecente perché hanno la faccia di tolla di dirlo con l’aria di chi di preoccupa per te e cerca il tuo bene, quando lo “scoraggiamento” da non lavoro è già un dato di fatto. L’altro fenomeno da accostare riguarda la diffusione di internet e della rete e dei social network, di cui si fa un gran parlare per la sua influenza politica e per la deliberazione democratica, e che in realtà resta confinato a ventinove milioni di italiani — peraltro in statistiche di ammucchiate comuni dove gli utenti più pervicaci stanno assieme a quelli che in rete ci vanno solo una volta al mese e magari solo per la posta elettronica —, con una distribuzione più intensa in alcune province e non in altre, diverse zone del Sud connesse poco e male, e con venti milioni che non frequentano la rete e che sembrano indifferenti, refrattari [non gliel’ha mica consigliato il medico, e non è mutuabile], ma continuano a vivere benissimo senza e, soprattutto, a poter mantenere, se si vuole, un buon livello di informazione sugli eventi attraverso strumenti più tradizionali: la radio, moltissimo, la televisione, i giornali locali. Potremmo dire — con beneficio d’inventario, certo — che metà del paese è “separata in casa” dall’altra metà. Non è propriamente una divisione geografica e non è neppure una divisione verticale, nel senso che non si riconoscono facilmente questioni di reddito, di sicurezze sociali, di appartenenza e identità, di ruolo, di età, che in qualche modo renderebbero similare una metà e altrettanto quell’altra. Invece, non è così. Le due metà non sono speculari, e alcuni caratteri di densità — per la mancanza di lavoro il fatto che la concentrazione più alta stia fra i giovani, oppure fra le donne e comunque dove bassa è la scolarizzazione, per la connessione il fatto che le persone anziane siano le più refrattarie e le aree metropolitane più periferiche come i comuni più piccoli, mentre invece scolarizzazione, età e status rendono più similari gli utenti forti, in generale perché nel Sud le negatività sembrano maggiori — contraddicono ogni semplificazione sociologica.

 

Political divide e implosione sociale

Mutuando un termine legato alla diffusione di internet, il digital divide, parlerei proprio di un political divide. È qualcosa di molto diverso dall’antipolitica, di cui si è tanto parlato e si continua a fare — io, poi, credo che il Movimento 5 Stelle, sempre tirato in ballo, rappresenti semmai l’arcipolitica — perché, come per quel fenomeno legato al lavoro, c’è uno scoraggiamento, perché, come per quel fenomeno legato alla connessione alla rete, c’è una indifferenza, o meglio: una consapevolezza dell’impossibilità di costruire una relazione qualunque di vantaggio fra se stessi e la rete. Una volta c’era “la maggioranza silenziosa”, non protestava, ma votava. E faceva pesare col voto le proprie opinioni, le proprie preferenze, le proprie ossessioni. In un tempo in cui “prendere parola”, scendere in piazza, protestare, lottare, era la democrazia, sottrarsi nel silenzio in penombra del voto era conservatore, reazionario. Qui invece sembra affermarsi qualcosa di diverso. Questo cinquanta per cento, che sembra refrattario alle battaglie di rinnovamento del Pd, sia in salsa liberale sia in salsa socialdemocratica, alle rifondazioni delle rifondazioni comuniste, alle sirene del berlusconismo, alle sfuriate e alle proteste del M5S, è una piaga o una riserva — come suol dirsi ripetutamente adesso a ogni piè sospinto — della democrazia e della repubblica? Non siamo gli Stati uniti, dove da tempo ben più della maggioranza degli elettori non si iscrive ai registri e non partecipa al voto. Tra una cosa e l’altra, un presidente americano — cioè il leader della più grande potenza della storia — è al comando con circa un venti per cento dei cittadini che lo hanno scelto. Ma a parte le differenze di grandezza e di storia, i partiti in Italia sono stati la grande scuola della democrazia, della partecipazione, della promozione sociale. E chi non faceva vita politica aveva mille altre occasioni per partecipare alla vita sociale. Da noi invece, la vita economica è strettissima e la vita sociale si è andata progressivamente sfaldando. E se le pulsioni sociali non hanno voice, non hanno exit, per riprendere le categorie di Hirschman, tendono a implodere anche drammaticamente.

 

Si può vivere senza partiti?

Daniel Cohn-Bendit, il ragazzo anarchico che partendo da Nanterre infiammò le barricate del Maggio francese, l’ebreo tedesco espulso dalla Francia che fece urlare nei cortei del 1968 «Nous sommes tous juif allemandes», il fondatore, con Joschka Fischer, del movimento dei Grunen, i Verdi tedeschi, i Realo pragmatici che hanno avuto un ruolo importante nella politica della Germania degli ultimi venti anni, l’europarlamentare che si è battuto per difendere e diffondere i temi ecologici in Europa, non si ricandiderà alle elezioni. Cohn-Bendit ha condensato in un piccolo libro — una cinquantina di pagine — da poco arrivato in libreria una serie di convincimenti maturati nel tempo: Pour supprimer les partis politiques!? Réflexions d’un apatride sans parti, Editions Indigènes, che è insieme una rapida autobiografia e un pamphlet contro il partito politico — qualsiasi, possiamo supporre anche il “suo”, dei Verdi —, questo artificio che dalla rivoluzione giacobina passando per la rivoluzione d’Ottobre e le riflessioni di Weber si è incistato nel continente. Il titolo del pamphlet di Cohn-Bendit riecheggia un altro piccolo grande libro, della filosofa e militante Simone Weil, scritto nel 1940: Note sur la suppression générale des partis politiques. Cohn-Bendit, che non ha alcuna intenzione di abbandonare la scena pubblica, pensa che siano necessarie piuttosto forme di cooperazione, di associazione fra cittadini per portare avanti proposte, proteste e per conquistare «l’autonomie». Per quanto possa essere interessante, e lo è, per quello che una biografia può raccontare di un periodo storico e del suo lascito, la dichiarazione di intenti di Cohn-Bendit sembra più una presa d’atto che un programma. Voglio dire: i partiti politici sono già soppressi, c’è poco da interrogarsene e agitarsene in merito. Non credo che la disaffezione quando non l’ostilità ai partiti politici — di cui l’Europa sta sperimentando varie forme, un po’ dovunque, dalla crescita dell’astensione al proliferare di movimenti apertamente contro i partiti alla rinascita di movimenti identitari, territoriali— sia solo una questione “politica”, dipenda cioè esclusivamente dalla crisi delle ideologie e degli orientamenti che hanno caratterizzato il Novecento. Credo piuttosto che la crisi dei partiti politici debba essere ricondotta alla crisi dell’universalità e alle modificazioni produttive. L’una e l’altra — universalità e produzione — sono le strutture della rappresentanza politica, della cittadinanza. La storia europea dal Seicento al Novecento è storia dello Stato, senza lo Stato — il suo monopolio della forza, il patto di obbedienza in cambio di sicurezza — saremmo condannati alla frantumazione, all’implosione, alla sopraffazione, alla guerra intestina. È in questa “visione” che sta la centralità dello Stato e trova ragione lo strumento del partito politico per conquistarlo o per mantenerne il comando. La storia dello Stato del Novecento è stata storia di conflitti tra partiti del proletariato e partiti della borghesia, tra partito del capitale e partito del lavoro. Ed è stata una storia grande. Era qui — capitale e lavoro — la materialità del partito politico. La materialità del conflitto e del compromesso. Si può ancora dire oggi che esista un partito del capitale, il “comitato d’affari della borghesia”? E, di converso, si può ancora dire che esista un partito del lavoro? Sembra piuttosto che capitale e lavoro siano senza un partito “proprio”, sembra anzi che ne facciano bellamente o mestamente a meno. Il capitale, inoltre, può fare a meno dello Stato, dello Stato-nazione, ha dismesso lo Stato, e per questa via il lavoro [il lavoro che produce] non può più usare lo Stato ai propri fini. Lo Stato è un involucro vuoto, o meglio un apparato privo di senso e di scopo — guardate com’è carta straccia la nostra Costituzione —, tranne la propria riproduzione. In questo “parassitismo” è rimasto intrappolato il partito politico. I processi multitudinari — la scomposizione della classe operaia dalla sua unicità in mille prestazioni d’opera, una volta che la fabbrica e il suo modello di produzione non è stato più il parametro delle relazioni sociali — hanno investito in pieno la “borghesia”, frammentandone a sua volta la sua unicità di comportamento, di status. Il comando dei processi come l’investitura di una missione sono passati direttamente alle nuove élite. Transnazionali come il denaro. L’atomizzazione, l’individualizzazione non sono stati processi che hanno colpito solo il “proletariato”, ma anche le classi medie. Per un verso si è tutti “ceto medio”, per un altro si è sempre tutti a rischio di scivolare dall’inclusione verso l’esclusione.

 

Riappropriazione del voto e critica della politica

Un comportamento sociale così massiccio come l’astensione al cinquanta per cento non può più essere letto solo come uno degli aspetti di liquidità sociale o di “crisi della rappresentanza politica”, che sposta l’attenzione e il focus sulle questioni dei partiti e dell’esercizio della trasmissione della delega, tralasciando la soggettività politica del soggetto che esercita il “non voto”. Piuttosto, sembra una “opzione politica”, cosciente e determinata: una critica della politica. Qui dunque stiamo: la politica, intesa come costruzione di un consenso e esercizio della sua forza non è certo scomparsa. Anzi, cresce la consapevolezza di questa necessità. È sui territori, nella vita quotidiana che si sperimentano forme nuove di associazione tra liberi e uguali. Tra movimenti e istituzioni si apre una dinamica nuova, di conflitto e compromesso quando necessario, che è tutta da costruire e scoprire.

 

29 maggio 2013