di MAURIZIO LAZZARATO
Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68.
Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.
Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?
In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?
Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva». Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.
La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.
D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla «riuscita» individuale del modello imprenditoriale.
Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli «finanziari» a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del «capitale».
Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra «produzione» e «produzione di soggettività» si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in «creditori» e in «debitori». Fallimento economico e fallimento nella produzione delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire «capitale umano», e nella crisi, rifiuto di divenire «uomo indebitato».
A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalista, i partiti e i sindacati di «sinistra» non forniscono alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.
Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?
Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del «rapporto con il sé» come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita dall’impasse in cui siamo impigliati.
Per Foucault partire dalla «cura di sé» non significa inseguire l’ideale «dandy» di una «vita bella», ma porre la questione di un intreccio tra «estetica dell’esistenza» e una politica che le corrisponda. I problemi di «una vita altra e un mondo altro» si pongono insieme, a partire da una vita militante, la cui premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.
I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione di rottura e di divisioni politiche tra «riformisti» e «rivoluzionari».
Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le «guerre di soggettività» (Guattari) a cui ha portato. «Il tipo di operaio della Comune di Parigi è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy». I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.
Interrogare i processi di soggettivazione politica partendo dal mettere in luce la dimensione della «micro-politica» (Guattari) e della «microfisica» del potere (Foucault) non esonera dalla necessità di attraversare e riconfigurare la dimensione macro-politica. «Di due cose l’una o l’altra: o qualcuno, chiunque, produrrà dei nuovi strumenti di produzione di soggettività che siano essi bolscevichi, maoisti o non importa chi; oppure la crisi continuerà ad accentuarsi».
Questo passaggio alla macro-politica che Guattari invoca in questa citazione, mi sembra tanto più necessario in quanto siamo in una situazione totalmente differente da quella degli anni Settanta. In quel periodo l’urgenza era piuttosto quella di uscire da una macro-politica pietrificata e sclerotizzata visibile nei programmi dei partiti comunisti e dei sindacati. Oggi, dato che queste forze sono o sparite o completamente integrate nella logica del capitalismo, quello che importa è inventare, sperimentare e affermare una macro-politica capace, da una parte, di farci uscire dalla democrazia rappresentativa (politica e sociale) e di collegarci a quella che Guattari definisce «rivoluzione molecolare». Dall’altra parte, bisognerebbe riattivare l’utilizzo della forza, di un potere di blocco e sospensione dell’assoggettamento e dell’asservimento, che possa giocare la stessa funzione dello sciopero nel capitalismo industriale. Senza questo la frangente neoliberale applicherà integralmente il suo programma: ridurre i salari al livello della sopravvivenza, ridurre i servizi dello Stato Sociale (Welfare Stare) al minimo, privatizzare tutto ciò che resta ancora nel dominio «pubblico», facendo scivolare la popolazione nel processo regressivo dell’uomo indebitato.
Guattari a suo modo, non è solamente rimasto fedele a Marx, ma anche a Lenin. Sicuramente, gli strumenti di produzione di soggettività che il leninismo ha creato (il partito, la concezione della classe operaia come avanguardia, il «militante di professione» ecc.) non sono più adatti alla composizione di classe attuale. Ma ciò che Guattari mantiene della sperimentazione leninista è la metodologia: la necessità di rottura con la «social-democrazia», la costruzione di strumenti di innovazione politica che si dispiegano sulle modalità di organizzazione della soggettività. Per Guattari l’affermazione di questa autonomia politica è stata, prima di tutto, espressa dalla rottura soggettiva praticata dalla Prima Internazionale che ha letteralmente inventato una classe operaia che ancora non esisteva (il comunismo ai tempi di Marx si appoggiava essenzialmente sugli artigiani e i «compagni»). Nel capitalismo, i processi di soggettivazione devono a loro volta articolarsi e liberarsi dai flussi economici, sociali, politici, macchinici. Le due operazioni sono indispensabili: partire dalla presa che l’asservimento e l’assoggettamento esercitano sulla soggettività e organizzarne la rottura, che è sempre un’invenzione e una costituzione del sé.
Le regole della produzione del sé sono quelle «facoltative» e processuali che inventiamo costruendo dei «territori sensibili» e una singolarizzazione della soggettività a livello micro-politico e delle disposizioni collettive di enunciazione a livello macro-politico. Da qui il ricorso, non tanto a degli strumenti e a dei paradigmi cognitivi, informazionali o linguistici, ma a degli strumenti e a dei paradigmi politici che sono etico-estetici, il «paradigma estetico» di Guattari e l’«estetica dell’esistenza» di Foucault.
Per produrre un nuovo discorso, una nuova conoscenza, una nuova politica, bisogna superare un punto innominabile, un punto di non-racconto assoluto, di non sapere, di non cultura, di non conoscenza. Da qui l’assurdità (tautologica) di pensare la produzione come produzione di conoscenza a mezzo di conoscenze. Le teorie del capitalismo cognitivo, della società dell’informazione, del capitalismo culturale, che si propongono come teorie dell’innovazione e della creazione, falliscono precisamente nel pensare il processo attraverso cui si fanno la «creazione» e l’«innovazione», poiché il linguaggio, la conoscenza, l’informazione e la cultura sono largamente insufficienti a questi fini.
La soggettivazione politica, per prodursi, deve passare necessariamente da questi momenti di sospensione dei significati dominanti e dalla neutralizzazione del meccanismo di asservimento macchinico. Lo sciopero, la rivolta, la sommossa, le lotte costituiscono dei momenti di rottura e sospensione del tempo cronologico, di neutralizzazione di assoggettamenti e di asservimenti, dove si manifestano, non tanto le soggettività vergini e immacolate, ma i focolai, le emergenze, le cariche di soggettivazione, la cui attualizzazione e proliferazione dipende da un processo di costruzione che deve articolare, senza passare per le tecniche di rappresentazione, il rapporto tra «produzione (desiderante)» e «soggettivazione».
Se la crisi non produce altro, d’ora in poi, che assoggettamenti e asservimenti negativi e regressivi (l’uomo indebitato), se il capitalismo è incapace di articolare produzione e produzione di soggettività in altro modo, se non riaffermando la salvaguardia dei titoli di proprietà del capitale, allora gli strumenti teorici devono essere capaci di pensare le condizioni di una soggettivazione politica che sia anche una mutazione esistenziale in rottura con il capitalismo, all’interno della sua crisi che è già divenuta storica.
* Pubblicato su “Alfabeta2″.