Commento sull’ultima tornata elettorale

Un commento a margine dell’esito elettorale è già possibile farlo, certo non con la solerzia di chi in prima persona deve affrontare i propri errori o sconfitte nella piccola dama elettorale prendendo parola subito, come si dice, a caldo magari sperando nell’ultima agenzia stampa. Noi da altro canto preferiamo un altro stile avendo scelto un taglio, una traiettoria che non prevede candidarsi ad alcunché se non a fluidificare organizzare e sedimentare quotidianamente la rottura politica contro la governance neoliberista. Ad ogni modo con una certa soddisfazione e inquietitudine che tanto viviamo sempre nella vita vissuta bio politicamente nelle lotte e nei conflitti aperti, e quindi con una certa abitudine stimolante, di chi non ha nulla da perdere se non le catene dei dispositivi di comando che lo attanagliano, rileviamo alcuni punti politicamente qualificanti sui quali vale la pena scrivere due righe con il sorriso sulle labbra.

L’astensione ha travolto il dato elettorale e scompaginato il quadro politico.

Qualunque sindaco verrà eletto a Roma ad esempio dove la media degli astenuti si è rilevata di 10 punti superiore a quella nazionale non avrà nessuna legittimità politica di imporre alcunché alla cittadinanza. Per noi le elezioni sono nulle, così come miserevolmente si sono praticamente annullate da sole tutte le forze politiche vecchie e nuove: dalla protesta civile del 5 stelle a quella un po’ più sbarazzina della sinistra ecologica e catalica del PD, dai partiti dei padroni a quella dei consulenti, dai partitini di sinistra che si accontentano del 6% a Roma che poi corrisponde alla metà sul territorio della penisola, agli errori consumati anche più a sinistra progettando opzioni vecchie peraltro concependole in sedicesima, ammantandole di nuove. Ci dispiace dirlo, perché su alcuni temi per carità, compagni come prima, in ogni caso se può essere utile e meno autoreferenziale a fronte della situazione data caratterizzata da una certa inadeguatezza dei movimenti, il “ve l’avevamo detto” risuona limitato oggi anche a chi lo pronuncia, sempre se si ha ancora voglia di volare un po’ più in alto della palude scegliendo di non sciacallare sulle disgrazie altrui.

Altro stile, scelto e determinato.

Oggi lo scenario politico è cambiato, trasformato verticalmente, non si può rimanere sul terreno della ripetizione dell’eterno ritorno sempre più sbiadito. E’ cambiata la fase e si andava preparando da tempo, il lungo corso di questa crisi, il ciclo che si sta chiudendo non è ancora terminato e se non saremo noi dal basso ad individuare il varco della transizione lo farà il partito trasversale dell’ordine ordo-post, del gotha e senato globale di quel neoliberismo che in questo inferno ci ha cacciato. I terreni sono e saranno quelli dove noi abbiamo combattuto fin’ora, pensiamo ai grandi temi dei movimenti a cui la stessa politica si è dovuta piegare, dal reddito garantito ai nuovi diritti, dalla precarietà alla disoccupazione, ai bisogni negati nelle disuguaglianze perseguite da un modello sempre più tiranno. Del resto non è una novità la lotta di classe è un po’ come fare l’amore bisogna (almeno) essere in due. I padroni e i loro tecno segugi in parlamento, la esercitano tutti i giorni, è il momento che il precariato eserciti la sua legittima e sacrosanta conflittualità. Ciò che indubbiamente rappresenta un passaggio di avanzamento ovvero quello di aver imposto nel dibattito mainstreaim i temi di cui sopra come ad esempio il reddito garantito, la posta in gioco oggi sarà quella di far diventare le nostre rivendicazioni una vera frana sociale che deve cadere addosso alla governance attraverso le pratiche e le forme della riappropriazione, far vivere e respirare quella rottura e insubordinazione  destituente di cui oggi più che mai abbiamo profondamente bisogno. Abbiamo bisogno  di spazi indipendenti di movimento, dispositivi pubblici ed autorganizzati capaci di sviluppare processi sociali reali che partendo da una dimensione territoriale riescano a contrastare le politiche che metterà in campo  il governissimo.

 Ci vedremo nelle piazze, nelle strade, molto presto per costruire tassello dopo tassello un clima sociale adeguato, affinchè le stagioni che seguiranno non siano solo “calde” e roventi ma che diventino per lor signori banchieri, politici di professione, truffaldini del capitalismo finanziario semplicemente infernali.

 

Nodo redazionale indipendente

Il day-block della logistica

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

É iniziato prima dello scoccare della mezzanotte lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: depositi e magazzini della Tnt, della Bartolini, dell’Sda, della Dhl e delle altre imprese nelle principali città protagoniste delle lotte degli ultimi anni (Verona, Bologna, Milano, Piacenza) sono stati bloccati a partire dalla sera di giovedì. Al passare delle ore hanno iniziato a prendere corpo i numeri dell’adesione allo sciopero: si arriva al 100% o quasi, i principali poli della logistica per oltre 24 ore sono svuotati del lavoro vivo. Il dato di grande rilievo è che la giornata di mobilitazione è andata ben oltre gli ormai consolidati centri della mobilitazione, arrivando al centro-sud: a Roma, ad esempio, i livelli di partecipazione allo sciopero alla Sda e in altre imprese della logistica sono stati pressoché totali. Ciò permette il rafforzamento dei conflitti dove già c’erano e il loro esordio nei posti in cui finora erano assenti. Lo sciopero del 22 marzo segna quindi un fondamentale salto di qualità nel processo di accumulo di forza ed estensione di questo ciclo di lotte.

Ma il 22M non si è esaurito negli straordinari numeri di adesione allo sciopero. Prima che l’alba facesse capolino, sono cominciati i picchetti e i blocchi dei principali snodi della circolazione delle merci. A Bologna l’interporto viene completamente paralizzato, le file di camion fermi in entrata e in uscita vanno avanti per chilometri. La composizione è quella vista nella vittoriosa lotta all’Ikea e in altre occasioni: al fianco dei facchini ci sono studenti, precari e militanti. Poco prima delle 10 arriva la notizia di una prima violenta carica della polizia ad Anzola, tra Bologna e Modena, per provare a sgomberare i cancelli della Coop Adriatica (sì, non è un caso, il fiore all’occhiello della sinistra e ganglio nevralgico del blocco di potere politico-economico del modello di governo socialista emiliano-romagnolo). Anche qui tutti i lavoratori delle cooperative avevano incrociato le braccia. Il picchetto resiste con determinazione e occupa la via Emilia, arteria centrale della circolazione: intorno a mezzogiorno viene rimpolpato dai partecipanti al blocco dell’interporto, che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo. Nel frattempo, a Verona e a Padova vengono bloccate le tangenziali e le strade della zona industriale, a Roma è presidiata la sede dell’Sda, a Torino e Genova ci sono iniziative in imprese specifiche. Nell’area metropolitana di Milano sono tre i concentramenti principali: all’interporto di Carpiano, dove vengono bloccate l’Sda e la Dhl, nella zona strategica di Linate, infine a Settala, dove i lavoratori picchettano due grossi centri della Dhl. Qui il delegato della Cgil prova a sfondare i picchetti per portare dentro i crumiri, l’uno e gli altri vengono cacciati via dai lavoratori. I confederali sono complici dei padroni non solo in senso figurato. A Piacenza, dopo aver nuovamente bloccato il deposito Ikea a partire dalle 6 del mattino, nel pomeriggio si forma un corteo che invade le strade del centro cittadino.

Ma la giornata è lunga. Poco dopo le 14 poliziotti e carabinieri indossano nuovamente caschi, scudi e manganelli per sgomberare il picchetto davanti alla Coop Adriatica e Unilog. Le cariche sono ripetute e violente, lavoratori, studenti e precari resistono e occupano la via Emilia. Cercando di sfuggire alla brutalità poliziesca tre lavoratori vengono investiti da un camion, le loro condizioni sembrano critiche: arriva l’ambulanza, uno viene portato in ospedale, gli altri due vengono soccorsi e restano sdraiati a terra. La strada rimane bloccata. I manganelli tornano a inseguire i corpi dei manifestanti, che mantengono compatto il corteo, raggiungono un parco ai lati della via Emilia e si riuniscono in assemblea.

Le immagini dei poliziotti che scortano i camion carichi di merci sembra una fotografia del capitalismo contemporaneo e della violenza dei processi di accumulazione. Ma queste lotte, innanzitutto, ne indicano i livelli di fragilità e di possibile rottura. La ritualità dello sciopero è definitivamente infranta, questo viene reinventato e torna così a essere un’arma per fare male ai padroni. Anche il simbolico non è più finalmente quello dei media mainstream, ma appartiene alla comunicazione autonoma che – attraverso siti, twitter e social network di movimento – ha creato il tessuto connettivo della giornata di sciopero (l’hashtag #logistica è stato tra i principali “trending topic” in Italia). In molti luoghi lo sciopero va avanti fino al sabato mattina, alcuni lavoratori discutono della possibilità di protrarlo ulteriormente. Dunque, finita con un bilancio eccellente la prova di forza e generalizzazione del 22, il processo continua su nuove basi: oltre la logistica, ripetono tutti, qui vanno trovati i circuiti della ricomposizione. Qualcuno cita gli Iww: forse è solo una suggestione, o semplicemente serve per descrivere alcune caratteristiche (mobilità, eterogeneità, irrappresentabilità) che oggi, nel cuore del capitalismo cognitivo, descrivono la forza lavoro precaria. In ogni caso, le forme organizzative della nuova composizione di classe ora sembrano un po’ meno indecifrabili: un passo in avanti comune lo stiamo facendo, magari proprio verso i wobblies del XXI secolo.

* Pubblicato su “il manifesto”, 23 marzo 2013.

Non abbiamo bisogno di un governo, ma dei soldi che ci spettano #anzituttoredditopertutti

15 marzo si insediano le nuove camere. Non abbiamo bisogno di un governo, vogliamo un reddito per tutti

Tra i 27 Paesi attualmente membri dell’Unione europea la mancanza di un reddito di base è localizzata soltanto in Italia, Grecia ed Ungheria. L’Italia resta al di fuori dei parametri europei continuando a disporre di un lacunoso ed iniquo sistema di ammortizzatori sociali che esclude il variegato universo dei precari e dei soggetti non coperti da nessun sistema di protezione sociale. La crisi e le politiche di austerity adottate dietro il ricatto del debito hanno agito come un dispositivo di “livellamento verso il basso” – facendo regredire garanzie sociali e i diritti acquisiti – seppur con un
intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. Le riforme Monti-Fornero hanno ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro e tagliato i fondi del nostro sistema previdenziale e welferistico. Siamo da poco entrati nel sesto anno consecutivo di crisi e dal punto di vista delle condizioni materiali, stiamo assistendo a forme inedite di povertà. Il costante e drammatico peggioramento degli indicatori sull’occupazionee sulle condizioni economiche (e di indebitamento) dei soggetti e delle famiglie (erogatrici di cassintegrazione di ultima istanza) è inserito in un quadro di recessione globale che non tende ad arrestarsi. Il tasso di disoccupazione reale – non quello delle statistiche ufficiali – è schizzato alle stelle come mai era accaduto negli ultimi decenni. Durante la campagna elettorale la riforma del welfare e la garanzia del reddito sono state al centro della scena mediatica. Il reddito e i variopinti aggettivi per descriverlo sono
diventati mainstream, argomenti portanti utilizzati in maniera trasversale. Le classificazioni riempiono quotidianamente le pagine dei giornali: “minimo”, di “cittadinanza”, di “solidarietà”, di “ultima istanza” fino ad arrivare ad un non ben definito “salario sociale”. Ognuno di questi progetti ha il suo calcolo di spesa più o meno veritiero. Il dato fondamentale emerso è che l’erogazione di un reddito per tutti non è un problema di sostenibilità economica ma di volontà politica. Il susseguirsi di prese di posizione ha circoscritto l’importanza di una legge nazionale per il reddito ad una misura di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Lo spettro che si aggira dietro le solidaristiche intenzioni di equità sociale sono le nuove politiche di welfare to work (ovvero workfare, welfare condizionale, labourfare) che il nostro Paese sta predisponendo, importandole da altri stati europei. Partiti, sindacati e burocrazie di servizio stanno prestando il fianco a questa operazione.

L’obiettivo non dichiarato è la subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario. Ma il workfare non ha neppure una ricaduta positiva sulla spesa pubblica. Anzi, è piuttosto costoso, sia sul piano amministrativo sia in generale, dal momento che i posti di lavoro in offerta sono a bassa produttività. Le esigenze principali a cui assolve sono due: il controllo sociale sulla vita dei soggetti e la falsificazione delle statistiche sulla disoccupazione operando una riduzione fittizia, senza creare quindi dei posti di lavoro, ma con il solo risultato di scoraggiare i disoccupati dal richiedere gli assegni assistenziali. Ma non si tratta esclusivamente di redistribuire la ricchezza – il che non sarebbe poco in questo momento, se avvenisse senza il ricatto dell’impiego precario da accettare – ma si tratta di riconoscere – e quindi retribuire – la produzione sociale che avviene ogni giorno. Gli attori protagonisti di questa mobilitazione permanente per il capitale sono i milioni di precari che quotidianamente producono ricchezza. Il reddito di base e incondizionato è il riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione.

 Operazione chiarezza! Il decalogo ovvero i 10 punti del reddito che vogliamo:

1.      Per reddito intendiamo un intervento economico universale ed incondizionato, ovvero l’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perenne in grado di garantire la riproduzione delle vite singolari. Oltre al reddito diretto si devono garantire i bisogni comuni (formazione, comunicazione, mobilità, socialità, abitare) attraverso forme di reddito indiretto.

2.      Il reddito non è discriminante nei confronti di nessuno, quindi viene erogato a nativi e migranti a prescindere dalla cittadinanza perché concorre a definire la piena cittadinanza sociale e il pieno godimento delle libertà civili.

3.      Il reddito deve essere erogato a tutti i soggetti dal compimento della maggiore età fino al raggiungimento della pensione (che non avranno mai, quindi fino alla conclusione della vita terrena).

4.      Il reddito è un diritto fondamentale della persona (quindi soggettivo) che tutela il diritto ad un’esistenza autonoma, libera e dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata.

5.      Il reddito è il riconoscimento della produzione sociale permanente. Il reddito indipendente dalla prestazione lavorativa riconosce il concetto di produttività della vita sociale, dà valore al tempo di vita che è oltre il tempo di lavoro.

6.       L’istituzione di un reddito rappresenta un mezzo per lottare contro la precarietà (sociale e) lavorativa e il basso livello di remunerazione (in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa),
evitando che una parte crescente della popolazione – come è avvenuto nei 6 anni di crisi – cada nella “trappola della povertà”. Il reddito fornirebbe ai precari e ai precarizzati il potere di non accettare qualsiasi lavoro e di opporsi alla precarizzazione. Quindi il reddito è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro.

7.      Il reddito non è un sussidio di povertà, quindi non è una forma di salarizzazione della miseria e dell’esclusione sociale.

8.      Il reddito non è un sussidio di disoccupazione.

9.      Il reddito non è vincolato all’accettazione di nessuna offerta formativa e/o lavorativa, di conseguenza non ha un regime sanzionatorio. Ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito Minimo Garantito proposta da una rete di associazioni e partiti di sinistra, ispirata alla legge regionale del Lazio n.4 del 2009 (“Istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito in favore di disoccupati, inoccupati e precariamente occupati) prevede tra le cause di sospensione, esclusione e decadenza della prestazione, il rifiuto di una proposta di lavoro avanzata dal Centro per l’impiego comporta la decadenza del
beneficio, fatta eccezione per l’ipotesi della non congruità della proposta di impiego (art.6 legge regione Lazio n 4/2009). Una sorta di regime sanzionatorio che dovrebbe inserire degli elementi di condizionalità del beneficio o delle indennità godute dal soggetto inserito nei programmi di orientamento, formazione e attivazione, lasciando però in uno stato di indeterminatezza la questione dei doveri in capo alle amministrazioni deputate all’inserimento. Di conseguenza, un’ulteriore perplessità deriva dall’erogazione ancorata alla disponibilità al lavoro, la cosiddetta “congrua offerta” (meccanismo sanzionatorio predisposto dalla Strategia Europa per l’Occupazione) e quindi alla condizionatezza al lavoro precario e intermittente proposto dai centri per l’impiego che, oltre ad essere inadeguati nel realizzare le politiche formative/di orientamento e di inserimento lavorativo, ricevono esclusivamente offerte di lavoro con basse qualifiche professionali. Noi pensiamo che si possano coniugare strumenti universalisti di protezione sociale con politiche di attivazione, senza regime sanzionatorio.

10.     Il reddito non può essere “minimo”, perché è la configurazione di un nuovo diritto ed i diritti non sono né minimi né massimi. Per quanto riguarda l’importo della misura, per noi dovrebbero essere almeno 1000 euro al mese. Occorre riflettere, infatti, sull’evenienza che una prestazione modesta possa comportare un effetto perverso a carico dei lavoratori precariamente occupati: in casi di contrattazione diretta della loro condizione lavorativa un rinvio al reddito come risorsa complementare potrebbe diventare l’escamotage per prospettare un mantenimento dell’occupazione precaria con livelli di retribuzione ridotti. La conseguenza sarebbe l’istituzionalizzazione del ”sotto-occupato” working poor (lavoratore povero) che non riuscirà a vivere con 600 euro al mese e dovrà accettare lavori al nero pur di non perdere il sussidio. Sappiamo bene quanto il lavoro sommerso in Italia sia necessario in quanto camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso.

#anzituttoredditopertutti

Incontro con Maurizio Lazzarato

Per una rottura politica contro la governance neoliberista

Con il risultato elettorale abbiamo sicuramente un deposito di elementi contradditori, una dimensione politica complessa su cui ragionare e dispiegare una riflessione ad ampio spettro.

Innanzitutto sulla crisi irreversibile e verticale della rappresentanza dei partiti, praticamente tutti  in special modo di quelli per il governo autoritario dell’austerity, 9 ML i voti persi complessivamente da PD, PDL e Lega. Il partito del non voto (astensione, schede bianche, nulle o invalidate) si è affermato come il vero primo partito, l’affluenza rispetto al 2008 ha subito nei fatti un calo del 7% nonostante il tentativo di recupero sulla così detta antipolitica.

Poi l’ingovernabilità parlamentare secondo coalizioni di schieramento opposte e speculari in linea con la trojka e l’affermazione istituzionale, formalizzata, come già detto da più parti, rappresentata e contestualmente addomesticata attraverso il movimento 5 stelle di quelle istanze che i movimenti sociali hanno imposto in questi anni con il loro protagonismo, le rivendicazioni costituenti delle lotte: dai notav, ai comitati referendari contro la privatizzazione dell’acqua pubblica, dalla redistribuzione dei fondi e delle risorse – la semplificazione operata nella vulgata giustizialista contro la corruzione è stata nei fatti fin qui destituente – fino ai nuovi diritti per i precari come quella sul reddito di cittadinanza, sociale o garantito che dir si voglia. Temi sui quali dovremo concentrare le nostre riflessioni e strategie di conflitto se vogliamo poi imporre all’agenda di governo – qualunque esso sia – una mobilitazione di massa, una capacità d’urto, necessaria per qualsiasi ridefinizione dei nuovi diritti, figuriamoci poi per una trasformazione della carta costituzionale.

Una premessa politica è d’obbligo. Non intendiamo affatto il 5 stelle come la nuova rappresentanza dei movimenti. Al contrario l’ipotesi che si è aperta con l’affermazione dei cosi detti grillini rimanda all’incapacità da parte dei movimenti di farsi – almeno in questo frangente – conflitto non risolvibile e non addomesticabile, rottura costituente. Almeno per ora pare riuscita l’operazione di cattura e sussunzione della conflittualità e della stessa materialità dei movimenti proprio in questo farsi stato che il 5 stelle ha inteso avviare con il forte scossone di incursione parlamentare e di consenso elettorale.
In ogni caso anche solo temporaneamente – la finestra si chiuderà molto presto – si rompe il meccanismo della coazione a ripetere di un sistema bloccato di cui evidentemente la stessa governance comincia ad essere stanca e a sentirsi legata. C’è un blocco della valorizzazione capitalistica al centro della crisi che da anni sta segnando le politiche economiche e di governance, dove l’unico paradigma di governo si articola intorno alla misura del debito e dell’austerity come vero e proprio dispositivo di comando, di sottomissione di assoggettamento del lavoro vivo.

E sappiamo bene quanto possa tornare utile alla logica dei mercati e della speculazione l’instabilità che si è venuta determinando in questo difficile tornante nella storia del nostro paese. Ma, e lo affermiamo con forza, anche di quale grande opportunità si apre al cospetto dei movimenti, soprattutto su quei temi dove i movimenti stessi sono chiamati in causa dentro l’ingovernabilità formale che si è aperta con l’ultima tornata elettorale.
Le così dette riforme delle politiche del lavoro e del welfare, ciò che la tecnicalità di una certa dottrina dello stato chiama welfare per la protezione sociale o diviene un campo di forze, un terreno di scontro e di sperimentazione delle pratiche del conflitto oppure rimarrà semplicemente la cooptazione e la sottomissione, il controllo e disciplinamento sociale. Un movimento che spinge il reddito garantito come istanza minima di esclusivo contrasto della povertà assoluta e non come orizzonte del conflitto sociale nella densità delle sue pratiche riappropriative, si ridurrà alle già annunciate spirali di cattura e assistenza sociale così come si manifestano i progetti di workfare e di reddito minimo fin’ora conosciuti.

Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia è considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il formale tasso di disoccupazione. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale
del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. La tanto decantata riforma sul MdL dell’ultimo governo tecno-autoritario ha aumentato il lavoro sommerso e paradossalmente ridotto gli AA. SS. esistenti, come sappiamo già largamente insufficienti ed iniqui. Così come sono anni che andiamo chiarendo le distinte prospettive tra la flexicurity come politica di workfare, dalla proposta di un reddito universale e di esistenza.

Si diceva di reddito quindi e negli ultimi anni le moltitudini precarie si sono mobilitate con le tante iniziative promosse su tutto il territorio nazionale almeno nel biennio 2003/2004 fino ad arrivare ad imporre all’agenda politica il tema del caro vita, della precarietà, del sacrificio imposto e del ricatto sociale. Abbiamo organizzato insieme a tanti manifestazioni nazionali per il reddito garantito di decine di migliaia di persone, siamo entrati nei supermercati e nelle
librerie pur nei tanti limiti delle soggettività politiche coinvolte e l’impatto sociale della riappropriazione messa in atto con la campagna dello shop surfing servì indubbiamente a porre il reddito come istanza non più rinviabile in una paese dove solo insieme alla Grecia all’interno del quadro europeo non è presente a tutt’oggi alcun minimo elemento di protezione sociale, neppure di welfare to work. Poi seguirono tra gli appuntamenti del mayday milanese che negli anni cresceva nella densità della partecipazione, le tante lotte e vertenze, alcune anche vinte significativamente dalla cospirazione precaria che sotto la protezione di San precario ha difeso i devoti, sfruttati, ma disponibili a rovesciare il tavolo del padrone. Ci siamo messi contro Ministri, Pubbliche amministrazioni, Enti locali, perché la lotta di classe non permette giravolte e politicismi, quando rompi la compatibilità e il compromesso, saltano le mediazioni e la manifestazione autoritaria dell’austerity la tocchi con mano. Così siam giunti al biennio caldo delle lotte transnazionali 2010/2011 dove le moltitudini precarie hanno aperto e liberato il campo, hanno travolto gli accordicchi, subissato i politicanti, hanno sedimentato rivolta riprendendosi la piazza, del Popolo prima, di San Giovanni poi. E così è la lotta di classe, terribilmente oscena, a volte non proprio ordinata ma certamente densa della rottura costituente di cui abbiamo bisogno.

Dopo gli scontri di Genova, dopo la rabbia non solo per un compagno caduto, ma anche per l’insufficienza e totale incapacità di quei compagni che diressero quell’appuntamento, c’è stato tutto questo e molto altro: basti ricordare le battaglie campane contro gli inceneritori, quelle per il referendum vinto – cosa non da poco – contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e ovviamente non in ultimo la lotta NoTav. Oggi abbiamo un patrimonio sociale un’eredità di
conflitto e di trasformazione da incarnare, oggi se possibile più di ieri il disordine è tanto, molto, denso sotto il cielo e come qualcuno ricorda per noi è un’ottima prospettiva.
Non solo non veniamo dal nulla ma abbiamo un futuro da conquistare.
Dobbiamo quindi essere all’altezza della fase e sapere come orientarsi nella prateria per prendere posizione. Dobbiamo definire quindi con molta chiarezza per cosa ci mobilitiamo e come intendiamo oggi porre la questione del reddito.
La moltitudine precaria che vogliamo organizzare da dentro e dal basso rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, certamente impoverito, ridotto a mero strumento di controllo sociale.

Reddito garantito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Lo intendiamo come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale, affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva, ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali nella nuova organizzazione del lavoro.
Di questo e molto altro vogliamo parlare con Maurizio Lazzarato. Non ha bisogno certo di presentazioni, è prima di tutto un compagno oltre che un lucidissimo pensatore – magari l’etichetta di ricercatore o sociologo gli può stare stretta, vista la sua esperienza politica e di militanza nell’autonomia operaia – è tradotto ormai in molte lingue e apprezzato in diversi continenti. Possiamo ripercorrere alcune tendenze del suo pensiero come costituenti di tutto un dibattito politico e teorico che nell’ultimo ventennio ha caratterizzato non solo le trasformazioni del lavoro e della produzione – ricordiamo che già nei primi anni 90’ aveva rintracciato il contenuto immateriale del lavoro come egemone nei nuovi processi produttivi dispiegati nell’economica postfordista e nelle sue trasformazioni che hanno risignificato lo stesso processo di valorizzazione e che tuttora rimangono un terreno aperto d’inchiesta in continuo divenire. Ancor di più lo seguiamo fino ad oggi per la perfetta e calzante attualità della dimensione teorica di alcune ipotesi che vorremmo qui ricondividere.

Venerdì 5 Aprile h 17 Laboratorio Acrobax – Roma

intervista a Maurizio Lazzarato per www.indipendenti.eu con

*Gianluca Pittavino – Askatasuna Torino

*Francesco Festa – 081 Napoli

*Benedetto Vecchi – Il Manifesto

*Federico Primosig – attivista Stoccolma

*Sergio Bianchi – Deriveapprodi

*Dario Lovaglio – attivista 15M Barcellona

sono invitati ad intervenire: Laboratorio Alexis, America occupato, Degagè, Laboratorio Acrobax, collettivi e reti studentesche

Riflessioni per la rottura politica, un contributo alla discussione prima della tornata elettorale

La governance capitalista è allo sbando, non ha un piano strategico, si muove sulla tattica e sulla rapina sistematica, usa strumentalmente la crisi, la costituisce come fondamento e la risignifica come dottrina.

Il gioco di specchi è tra l’uso politico della crisi attraverso il ruolo vincolante della troika e il comando politico e militare sull’austerity, con le polizie usate sovente come truppe di occupazione dei territori.

Dentro lo sviluppo e la trasformazione radicale della realtà sociale e produttiva, lo stato contemporaneo, snello o postmoderno o come lo si voglia definire, è ancora lì esistente, con la sua scienza della polizia a difesa dell’autoregolazione del mercato, sovrano unico e incontrastato. La macchina dello stato è ancora il potere politico a guardia dell’esercizio sistematico del profitto per mezzo dello sfruttamento capitalistico, nella sua permanente dinamica di espropriazione e cattura.

La moneta in crisi, ovvero l’Euro – questo enorme campo di forze a regime intensivo di sfruttamento del lavoro vivo sotto l’egemonia del capitale renano – diviene un nuovo stato, oltre lo stato. Potremmo dire che la moneta – ma anche la finanza globalmente intesa – diviene sovra stato produce legge senza bisogno della legge, decide permanentemente sull’eccezione e sulle nostre teste, disponendo sistematicamente del futuro delle nostre vite.

Il volto politico della governance attraverso gli esecutivi tecnici e autoritari che si alternano alla guida di molti paesi della comunità europea – tecnicizzazione, vecchia passione dell’autorità – assume sembianze sempre cangianti, diversificate e articolate che sintetizzano sul territorio la rappresentanza del complesso snodo di lobbies e agenzie, apparati e gruppi di expertise. Snodi di potere che sul territorio si diffondono e si moltiplicano progressivamente proprio per il loro ruolo strategico all’interno della stessa catena di comando.

Sostenuti ed eterodiretti dai gruppi di interesse del capitalismo contemporaneo, ormai attraversato e verticalmente costituito dal processo di finanziarizzazione dell’economia, basato sulla stessa produzione biopolitica del comune.

E’ in corso, nella grande transizione e diaspora del moderno, una nuova accumulazione originaria del capitale attraverso la gestione e il controllo proprietario della banca dei dati sociali, il nuovo grezzo immateriale, la nuova energia come lavoro vivo, sottomessa e risucchiata dal regime capitalistico contemporaneo.

La produzione del capitale sociale e i nessi tra le forme della nuova valorizzazione cognitiva, digitale, affettiva, l’evoluzione delle tecnologie della comunicazione e del linguaggio che nella rete si dispiegano sono lo spazio per la nuova accumulazione capitalistica. Le reti sociali virtuali ad esempio rappresentano lo spazio della cooperazione sociale diffusa e nel contempo della nuova cattura: siamo di fronte alla sussunzione reale non solo del processo lavorativo formalmente costituito ma dell’intera vita nella sua produzione e riproduzione reale. Le multinazionali oligopolistiche che gestiscono i big data e le infrastrutture informatiche sono evidentemente i nuovi padroni.

Ciò non significa aver individuato l’unica contraddizione nello sviluppo del capitale, quanto invece aver segnalato una delle tendenze più avanzate sotto il profilo delle nuove forme dello sfruttamento della vita e della sua riproduzione.

E però queste forme di accumulazione e sfruttamento intensivo non sono le uniche del comando capitalista. La speculazione immobiliare, la cementificazione del suolo, la rendita immobiliare rappresentano, nelle continue interconnessioni con il processo di finanziarizzazione, altre e altrettanto decisive forme dello sfruttamento e estrazione di valore.
Così come anche dentro le stesse politiche neoliberiste del pareggio in bilancio e della privatizzazione dei servizi del welfare, dello sfruttamento dei cosiddetti beni comuni, come appunto il suolo e l’acqua, si determina un processo intensivo di sviluppo e accumulazione di profitto ed estrazione di plusvalore.

Da qualche parte abbiamo letto che il ceto capitalista è in un certo qual modo foucaultiano, ogni sua categoria definitoria è categoria pratica, ipotesi di trasformabilità rapporto tattico e strategico e con questo siamo profondamente d’accordo.

Le politiche dell’austerity e la misura del debito devono però come sempre essere imposte e governate con la forza, con quella coercizione propria della “spada che sostiene la legge”. Le decisioni dei governi che hanno adottato le indicazioni della commissione UE sono di profonda e drammatica portata nei termini di costi sociali e questo in nome della dittatura dei mercati e del neoliberismo.

Il governo autoritario della crisi prova a gestire la grande transizione con un’asimmetrica guerra civile non dichiarata. Gli eserciti del neoliberismo contro i nuovi poveri del neoliberismo. Nella crisi della misura del valore, si rompe anche il piano-sequenza della politica come mediazione e governo dei conflitti. La crisi della rappresentanza politica relega la governance al ruolo di una nuova scienza della polizia in un progressivo, voluto e disinteressato distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione. L’unico welfare realmente visibile nella vita delle persone è la polizia.

La particolarità del momento preelettorale che sta attraversando il nostro bel paese, vive un passaggio complesso che si dispiega su un vero campo di forze, su una tensione polarizzata che terminerà evidentemente in uno scontro e ulteriore conflittualità sociale, starà a noi capire però in quale direzione politica.

I rigurgiti della teppa neofascista, con il populismo del ritorno sovranista alla casa dello stato regolatore o, peggio, alla più retrogada cultura nazional popolare sono dietro l’angolo di ogni dibattito sulla crisi. Non ci sorprenderebbe affatto un risultato discretamente pericoloso per le organizzazioni neofasciste e neonaziste candidate ovunque tra elezioni politiche e amministrative.
Per non parlare della scelta del movimento cinque stelle di farsi i salutini con i fascisti del terzo millennio ammiccando qua e là, ovviamente, anche nel mondo dei centri sociali, vantando l’internità, magari anche specificatamente genuina, in alcuni movimenti popolari noti come il No Tav, i movimenti per l’acqua pubblica o quelli sui rifiuti.

Magari scopriremo che la burla del comico torna comoda come ultimo estremo tentativo di una parte della governance e dei suoi apparati per il recupero, la cattura della rabbia, nell’ultimo disperato tentativo di neutralizzare e normalizzare il malcontento ormai diffuso che, nel biennio 2010/11, qualche fiammata di indignazione l’aveva manifestata nelle strade di questo paese.

Meglio dare il sussulto alla legalità e al richiamo confessionale alla costituzione e rimandare i giovani rivoltosi a casa o, ai più cattivelli, e sprovveduti un po’ di galera.
E speriamo non sia solo un addomesticamento quello delle istanze anche più avanzate, come quella sul reddito di cittadinanza – che poi figurarsi scavalcano le pozioni micragnose della sinistra con l’orecchino sotto l’ala del PD.
Proprio su questo tema si dovrebbe aprire una profonda riflessione su quello che i movimenti sono stati in grado di produrre in questi anni e della capacità che hanno avuto di imporre una questione nell’agenda politica di questo paese. Eppure, da sempre convinti che il reddito sia uno strumento, sappiamo anche che, come tale, può essere utilizzato per approfondire quella condizionatezza e controllo sei sistemi di workfare che, negli ultimi anni, abbiamo visto nel resto di Europa.
C’è da compiere una scelta: rivendicare un reddito incondizionato perchè in aperta rottura con le dinamiche di precarizzazione, o scegliere di rimanere imprigonati nelle maglie del contenimento sociale.

Un sistema bloccato, circolo vizioso, nella coazione a ripetere.

La nostra generazione per vivere e non sopravvivere può fare solo la rivoluzione, non c’è altra strada.
C’è bisogno della rottura politica col quadro della compatibilità voluto anche dalle sinistre parlamentari o aspiranti tali, chi col PD, chi con quella magistratura che sostituendosi alle opposizioni sta aprendo un varco pericolosissimo dentro lo stesso esercizio del potere.
Per tre volte la Repubblica Italiana ha fatto ricorso, per supplire alla mediocrità della politica, alla via giudiziaria. Prima, con lo stato di emergenza e le leggi speciali evocate ed applicate per annichilire la spinta rivoluzionaria nel decennio caldo che è seguito in Italia al maggio francese, poi per disarcionare una classe politica corrotta nello scandalo tangentopoli, poi per reprimere l’asse di potere del Cavaliere congiuntamente alle pressioni e successivi ultimatum dei vertici della Trojka che a loro volta hanno imposto d’autorità e nello stato di emergenza il governo dei tecnici.

La rottura non può che essere generalizzata, aperta e di massa critica. Quella trasformazione può essere compiuta solo se i soggetti precarizzati e impoveriti riusciranno a connettere le loro singole attivazioni in un processo più ampio e liberare il campo dagli orticelli delle organizzazioni precostituite anche di movimento.
Evidentemente negli ultimi anni si è costruito, con lo sviluppo e l’acuirsi di vertenze più o meno grandi, un segno di insubordinazione, un arcipelago, un’idra dalle molte teste; il punto sostanziale oggi però è generalizzare, comprendere un quadro differente, in cui dovremo essere in grado di mettere in campo non più rappresentazioni del conflitto quanto invece la giusta forma della rottura con un’organizzazione sociale fluida e sufficientemente attestata sulla trasformazione, all’altezza della fase.
Questo molto più che le elezioni, sono il centro delle nostre prospettive e relazioni.

Le condizioni, attualmente, non possono essere univoche, perchè la crisi ha prodotto un’enorme frammentazione ed è difficile ritrovarsi nello stesso luogo e nello stesso tempo, la ricomposizione nella lotta.

Riuscire ad immaginare una trasformazione radicale dell’esistente è l’unica via di fuga dalla retorica e dal senso di responsabilità e sacrificio mortifero del capitalismo. Nell’insopportabile violenza prodotta sulle nostre vite sta la prima leva in cui rivoltare il macigno, la seconda è l’organizzazione della rottura oltre i partiti, le sigle sindacali o le reti di scopo, ma nella condivisione reale di un processo, in cui sia chiara e trasparente la relazione tra i singoli territori, che siano essi fisici o mentali, ma in cui si produce lo sfruttamento delle nostre vite e dove è necessario concentrare energie e conflitto.
La terza è l’individuazione delle strategie della soggettività di movimento adeguate al conflitto nel cosi detto mercato del lavoro, nello sfruttamento dei beni comuni contro le dinamiche della precarizzazione, normalizzazione e cooptazione che spesso compongono quell’ingranaggio di potere, prerequisito e dispositivo nelle strategie della governance neoliberista.

Le nostre catene continuano ad essere sempre più salde e noi non abbiamo che perdere solo quelle.

Conoscete il detto “capire di che morte morire”? Si usa in condizione di frustrazione e rassegnazione, aspettando che qualcuno palesi le proprie volontà perché determini anche il nostro di futuro.
Esattamente il punto di vista opposto. E’ questo quello che abbiamo provato a costruire e continueremo a fare cercando altri con cui respirare e cospirare assieme.

Determinare le nostre vite, creare legami per riprendere il presente e poter decidere un futuro, diverso:
scegliere di che vita vivere.

Que se vayan todos, no algunos
Laboratorio Acrobax

Conflitto sociale e Libertà di movimento – i bi/sogni non si arrestano – verso Teramo

Il 15 Ottobre del 2011 le moltitudini indignate e in lotta contro il neoliberismo si mobilitarono globalmente. In Italia nella preparazione di quella giornata, durante il suo svolgimento e dopo sono avvenute cose degne di un bilancio politico e più approfondito da parte dei movimenti: partiamo anzitutto da noi, ma dovrebbe essere un’incombenza sentita anche e soprattutto da coloro che quel giorno e nei seguenti gridarono al lupo e cercarono il nemico interno – abitudine brutta e antica, ahinoi, di chi a sinistra ricorrentemente giustifica i propri tatticismi mascherandoli per grandi strategie e poi cerca di scansare l’implacabile giudizio dei fatti. Abbiamo sentito in quei giorni quindi dare fiato alle trombe, fin sulle pagine dei giornali, con lucido risentimento: ritrovandoci così, noi insieme alla cospirazione precaria, ad essere tra i pochi alleati della sana disponibilità al conflitto che quel giorno ha dispiegato ciò che si andava concatenando da tempo.

Ostinatamente continuiamo a rivendicarlo come nostro punto di forza e di resistenza: essere variabile indipendente, volere e aprire un possibile varco per una necessaria rottura politica, un odio di classe come motore costituente che per noi è desiderante espressione di potenza e non di superficiale rancore tra gruppi. A cooperare per il conflitto e la praticabilità di un’opzione rivoluzionaria siamo tutt’oggi disponibili, ma con la chiarezza politica necessaria, chiedendo sempre – anzitutto a noi stessi, a partire proprio dalle lezioni di quel 15 ottobre – di giocare a carte scoperte nelle alleanze e nelle pratiche di relazione politica.

Andremo a Teramo prima di tutto per chiedere l’immediata e incondizionata libertà per i fratelli e le sorelle, i/le compagn* rastrellat*, pedinat*, seguit*, ricattat* e minacciat* dallo stato o dai suoi solerti funzionari in divisa o in doppiopetto. Da quella giornata di rivolta e di rabbia precaria, che ha tenuto piazza San Giovanni per ore resistendo alle cariche e ai caroselli di polizia, carabinieri, finanza e polizia in borghese, lo Stato per come ha reagito nell’immediato e deciso di vendicarsi nel medio e lungo termine dimostra di aver avuto paura della sollevazione quale mezzo di partecipazione. Ci hanno preso troppo sul serio, verrebbe da dire nell’indagare i limiti in seguito espressi dalle soggettività di movimento.
Ora in tante e tanti stiamo subendo la repressione a suon di processi e di sentenze che già hanno accumulato un ammontare spropositato di anni di carcerazione somministrati, proprio mentre il nostro bel paesello viene redarguito davanti al mondo dal tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la vessazione e disumana condizione in cui versano le patrie galere – e, verrebbe da aggiungere, le celle dei commissariati e dei CIE che quotidianamente praticano la tortura fisica e psicologica su tutti i malcapitati; la maggior parte, come si dice in gergo, comuni, cioè cittadini comuni nelle mani dello Stato in balia delle sue prove tecniche di governo autoritario.
Perciò non basta dire no alla repressione. Occorre, e lo diciamo da tempo, una più ampia campagna di denuncia del clima insopportabile che prima di tutto il corpo sociale sta subendo in termini di chiusura degli spazi di libertà: a partire da quei particolari laboratori della repressione che si esercitano sugli stadi, i migranti, il precariato delle periferie, e insieme alla progressiva delinquentizzazione delle lotte sociali attraverso la fattispecie di reato di devastazione e saccheggio.

In un paese compresso da politiche di austerity durissime è necessario dunque aprire una vertenza generale per la libertà di movimento, coniugarla alla più estesa battaglia per una democrazia reale, radicale, esercitata dal basso contro le politiche autoritarie inflitteci nella logica del sacrificio e con le armi della precarizzazione e dell’esclusione sociale. Da qui nasce l’esigenza non solo di sottolineare il paradosso della traduzione della conflittualità sociale in “probema di ordine pubblico”, ma soprattutto di ri-significare la parola libertà.

Parlare di libertà di movimento significa anzitutto mettere a fuoco il cambiamento di paradigma che sta trasformando le realtà sociali: significa prenderne coscienza delle meccaniche del profitto dentro lo sfruttamento e della disciplina sociale che l’austerity impone. Parlare di libertà di movimento significa rovesciare il senso delle accuse e cercare di creare quelle condizioni sociali per cui siano la devastazione del mercato del lavoro e il saccheggio del nostro futuro ad essere combattuti, con le lotte e il protagonismo sociale.

Laboratorio Acrobax

Lotte, nell’indipendenza, per la libertà

E’ arrivata anche la sentenza del tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo a schiaffeggiare l’Italia davanti al mondo per la quotidiana vessazione in cui versano le decine di migliaia di prigionieri nelle carcere italiane piene di gente comune, spesso di esclusi, emarginati, immigrati, prigioni sovraffollate, dense di storie di vita, di ingiustizie, soprusi, pestaggi, quasi tutti detenuti in attesa di sentenza, vite vissute nell’inferno delle carceri italiane. Storie di precari nelle metropoli franate ai tempi della crisi economica.

E ultimamente, nuovamente almeno da quando era a regime lo stato di emergenza degli anni 70 e 80,  le carceri italiane cominciano ad essere riempite anche con decine di compagne e compagni, giovani, rivoltosi, presi durante scontri con la polizia, per occupazioni di case o sgomberi di centri sociali, per iniziative di antifascismo militante, per manifestazioni di riappropriazione o di contestazione alle politiche economiche o alle grandi opere come il Tav nella Val di Susa.  E’ da tempo che stiamo assistendo ad un evidente inasprimento delle misure repressive con un susseguirsi continuo di misure cautelari ogni qualvolta quel minimo di rabbia che portiamo dentro prova ad organizzarsi ed a scendere in piazza. Nella giornata dell’altro ieri pesantissime condanne sono state inflitte a 5 compagni (4 di Teramo ed 1 di Roma) per aver partecipato alla manifestazione dello scorso 15 ottobre 2011 a Roma contro le politiche di austerity. Sei anni di reclusione e trentamila euro di risarcimenti al comune di Roma che costituendosi come parte civile ha legittimato l’utilizzo del reato di devastazione e saccheggio come dispositivo di punizione contro ogni forma di dissidenza sociale in nome della sua essenza storicamente fascista.

Lo abbiamo detto più volte e lo ribadiamo con forza, come ricorda Davide Rosci nella lettera aperta scritta dopo la sentenza dell’altro ieri, non ci sentiamo dei perseguitati poiché da lunghe notti fatte di anni abbiamo scelto di configgere con lo stato di cose presenti e abbiamo messo in conto tutto nella nostra convinzione, anche quella della vendetta dello Stato che promuove impoverimento e tanta polizia come unico nuovo sistema di welfare ai tempi dell’austerity.

Uno su tre di noi è senza lavoro, senza casa e senza futuro, i due su tre che rimangono sono precari, spesso si trova il reddito nell’illegalità e in un paese di banditi in doppio petto, con 60 miliardi di euro persi nella corruzione della Pubblica amministrazione, con 120 miliardi persi nell’evasione dei grandi patrimoni, con il tasso di disoccupazione record e livelli di impoverimento della popolazione complessiva, mai vista dal dopoguerra ad oggi, ribellarsi è necessario, legittimo, per noi lecito. E a fianco di tutta la popolazione carceraria dobbiamo far vivere la denuncia della svolta autoritaria che aumenterà nei prossimi mesi come penalizzazione, delinquentizzazione, interdizione delle lotte sociali, che in questi anni hanno dato grandi prove di resistenza, dignità e determinazione.

Dobbiamo fare nostra senza bandiere di appartenenza dal basso la necessaria battaglia per il diritto di resistenza e coniugarla con la libertà di movimento che per essere affermata come diritto costituente deve necessariamente essere strappata. In tempi di elezioni e campagne elettorali, oggi più che mai dobbiamo tracciare una distanza necessaria con la rappresentanza politica per fare di ogni battaglia una sfida senza inganni e menzogne a partire dalla conquista di una piena e legittima agibilità politica. Se un’amnistia come chiedono tutte le associazioni di detenuti ed ex-detenuti sarà necessaria anche solo per cominciare ad immaginare un mondo diverso, sarà nostro compito farla vivere e sedimentare come una battaglia di principio non sindacabile, per la democrazia reale, per la libertà.

Nodo redazionale indipendente

15 ottobre: a ridere eravamo in tanti

di GIROLAMO DE MICHELE

La condanna a sei anni per devastazione, saccheggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravate di sei compagni imputati per l’assalto al blindato dei carabinieri in piazza San Giovanni, nel corso degli scontri del 15 ottobre 2011, segue ad analoghe condanne per gli stessi fatti, e merita alcune considerazioni. In primo luogo, è degno di nota che i compagni siano stati arrestati e sottoposti alla domiciliazione forzata non perché arrestati in flagranza di reato, ma perché

identificati dai video a disposizione delle forze dell’ordine. Vale a dire che per un reato di rilevante gravità quale “devastazione e saccheggio”, ma altresì per lesioni pluriaggravate, è sufficiente essere riconoscibile all’interno di una ripresa, non importa in quale posizione o ruolo: come nel caso di Davide Rosci, che non ha tirato una sola pietra o bottiglia, limitandosi ad osservare l’accaduto senza fuggire. E a ridere: …e l’infame sorrise, ci insegnavano un tempo alle elementari, è lo stigma dell’infame Franti, possibile alter ego di Gaetano Bresci. Ride mentre viene assaltato un blindato che, lanciatosi all’interno di piazza San Giovanni, si trova isolato e viene abbandonato dai suoi occupanti: in quel momento quel parallelepipedo di lamiere, usato per criminali caroselli contro una moltitudine di compagni che non accettavano di essere scacciati dalla piazza, diventa un simbolo dello Stato, e come tale meritevole di tutela giuridica ben maggiore di quei dimostranti che solo per la prontezza individuale e la capacità collettiva di improvvisare una resistenza comune non sono finiti sotto i pneumatici (come Carlo Giuliani, come Giannino Zibecchi).

Oltre allo sberleffo nei confronti del potere costituito, i sei condannati pagano la colpa di esserci. Quel pomeriggio la rappresentazione della rappresentazione di un movimento doveva consegnare a dirigenti politici e sindacali, a leader di partiti e di giornali-partito, la rassicurante parvenza di un movimento docilmente variegato, ironicamente innocuo, pronto ad avallare la rappresentazione di una radicalità in assenza di una reale, perturbante capacità antagonista: una rivoluzione dolce in diretta tv, introdotta da anchormen e anchorwomen, giornalisti d’inchiesta e politologi di fama. Com’è noto, non è andata così: e la spontanea, immediata resistenza, accresciutasi nel corso del pomeriggio, a piazza San Giovanni ha dimostrato l’impossibilità materiale di rinchiudere entro i limiti della rappresentanza la rabbia, l’indignazione, l’odio nei confronti del governo della finanza, dell’uso violento e disciplinare della crisi, dell’attacco alle condizioni minime di esistenza. Solo una lettura disincarnata del diritto e delle sue procedure, che ignora i corpi, le passioni e i desideri concreti che agivano quel pomeriggio può non vedere, dietro l’algido “fatto tecnico” dell’applicazione di un rodato articolo del codice penale – il 285, già sperimentato nelle condanne per gli scontri di Genova – non solo una risposta vendicativa, ma sopratutto un avvertimento nei confronti di quella resistenza collettiva che manifestava una pericolosa disponibilità a generalizzarsi. Che questa rabbia spontanea e irrappresentabile – dalla Val di Susa all’Ilva di Taranto, dai movimenti studenteschi ai lavoratori dell’Ikea – possa trovare un punto di coagulo è stata del resto l’ossessione degli yesmen e delle mosche cocchiere del “governo tecnico”: da cui la denuncia del rischio di “conflitto delegittimante”, o di un possibile “esito greco” della crisi.

In questa situazione i sei compagni colpiti da un reato da Codice Rocco sono, nella loro concreta esistenza, figure di soggettività della crisi: condividono, nelle personali biografie, l’essere precarizzati nei processi lavorativi e nelle esistenze, indebitati per effetto della crisi che utilizza la forma del debito come strumento di governance, mediatizzati perché ridotti a quei cliché e stereotipi – il “black bloc”, il “violento”, l’”ultras”, i “quattro stronzi” – con cui i media riconfigurano e ridefiniscono le identità, e infine securizzati nel loro essere usati come monito dai gestori delle politiche della paura e del panico sociale. Una sola figura di soggettività non si attaglia loro: quella del rappresentato. Ed è questa irrappresentabilità, questa indisponibilità a delegare ad altri la pratica attiva della cittadinanza e il desiderio collettivo della democrazia, ciò viene fatto loro pagare con sei anni di galera.

11 Gennaio | Visioni dal Mondo – Mexico en Rebeldia

 

Il 1 Gennaio 1994 la rivolta zapatista portava sotto gli occhi di tutti/e nuovo modo di intendere la ribellione; una scintilla che dalla resistenza ai trattati di libero commercio neoliberisti arrivava ad immaginare la costruzione di un altro mondo “desde abajo y a la isquierda” (dal basso a sinistra). Un immaginario che diventa pratica quotidiana sperimentando resistenza e autogestione nei territori “liberati” e contagiando nel resto del Messico, e non solo, tanti movimenti sociali attraverso la sesta dichiarazione della selva Lacandona e l’Altra Campagna del 2006 che farà da sfondo alle rivolte di Atenco e Oaxaca. Quasi vent’anni dopo simbolicamente nel giorno della “predetta fine del mondo” il movimento zapatista torna a invadere le piazze di tutto il Chiapas in una mobilitazione silenziosa ma assordante. Come nel loro comunicato: “Questo è il suono del vostro mondo distruggendosi, questo è il suono del nostro risorgimento…”

Dalle 19.00 – PROIEZIONI VIDEO “TESSENDO AUTONOMIE” a cura di PIATTAFORMA LA PIRATA – video della Marcia Zapatista del Silenzio
APERICENA MESSICANA
dalle 20.30 dibattito: MEXICO EN REBELDIA insieme a
-Vittorio Sergi autore di “Il vento dal basso, nel Messico della rivoluzione in corso”
– PIATTAFORMA PIRATA – lapirata.indivia.net (piattaforma internazionalista per la resistenza e l’autogestione tessendo autonomie)
– COLLETTIVO NODO SOLIDALE – autistici.org/nodosolidale
– COLLEGAMENTI DAL CHIAPAS
A SEGUIRE: selezioni musicali a cura di LA ESQUINA DEL SOL – ondarossa.org

Dopo la fine della rappresentanza – Disobbedienza e processi di soggettivazione

di MAURIZIO LAZZARATO

Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68.

Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.

Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?

In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?

Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva». Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.

La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.

D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla «riuscita» individuale del modello imprenditoriale.

Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli «finanziari» a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del «capitale».

Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra «produzione» e «produzione di soggettività» si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in «creditori» e in «debitori». Fallimento economico e fallimento nella produzione delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire «capitale umano», e nella crisi, rifiuto di divenire «uomo indebitato».

A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalista, i partiti e i sindacati di «sinistra» non forniscono alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.

Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?

Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del «rapporto con il sé» come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita dall’impasse in cui siamo impigliati.

Per Foucault partire dalla «cura di sé» non significa inseguire l’ideale «dandy» di una «vita bella», ma porre la questione di un intreccio tra «estetica dell’esistenza» e una politica che le corrisponda. I problemi di «una vita altra e un mondo altro» si pongono insieme, a partire da una vita militante, la cui premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.

I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione di rottura e di divisioni politiche tra «riformisti» e «rivoluzionari».

Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le «guerre di soggettività» (Guattari) a cui ha portato. «Il tipo di operaio della Comune di Parigi è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy». I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.

Interrogare i processi di soggettivazione politica partendo dal mettere in luce la dimensione della «micro-politica» (Guattari) e della «microfisica» del potere (Foucault) non esonera dalla necessità di attraversare e riconfigurare la dimensione macro-politica. «Di due cose l’una o l’altra: o qualcuno, chiunque, produrrà dei nuovi strumenti di produzione di soggettività che siano essi bolscevichi, maoisti o non importa chi; oppure la crisi continuerà ad accentuarsi».

Questo passaggio alla macro-politica che Guattari invoca in questa citazione, mi sembra tanto più necessario in quanto siamo in una situazione totalmente differente da quella degli anni Settanta. In quel periodo l’urgenza era piuttosto quella di uscire da una macro-politica pietrificata e sclerotizzata visibile nei programmi dei partiti comunisti e dei sindacati. Oggi, dato che queste forze sono o sparite o completamente integrate nella logica del capitalismo, quello che importa è inventare, sperimentare e affermare una macro-politica capace, da una parte, di farci uscire dalla democrazia rappresentativa (politica e sociale) e di collegarci a quella che Guattari definisce «rivoluzione molecolare». Dall’altra parte, bisognerebbe riattivare l’utilizzo della forza, di un potere di blocco e sospensione dell’assoggettamento e dell’asservimento, che possa giocare la stessa funzione dello sciopero nel capitalismo industriale. Senza questo la frangente neoliberale applicherà integralmente il suo programma: ridurre i salari al livello della sopravvivenza, ridurre i servizi dello Stato Sociale (Welfare Stare) al minimo, privatizzare tutto ciò che resta ancora nel dominio «pubblico», facendo scivolare la popolazione nel processo regressivo dell’uomo indebitato.

Guattari a suo modo, non è solamente rimasto fedele a Marx, ma anche a Lenin. Sicuramente, gli strumenti di produzione di soggettività che il leninismo ha creato (il partito, la concezione della classe operaia come avanguardia, il «militante di professione» ecc.) non sono più adatti alla composizione di classe attuale. Ma ciò che Guattari mantiene della sperimentazione leninista è la metodologia: la necessità di rottura con la «social-democrazia», la costruzione di strumenti di innovazione politica che si dispiegano sulle modalità di organizzazione della soggettività. Per Guattari l’affermazione di questa autonomia politica è stata, prima di tutto, espressa dalla rottura soggettiva praticata dalla Prima Internazionale che ha letteralmente inventato una classe operaia che ancora non esisteva (il comunismo ai tempi di Marx si appoggiava essenzialmente sugli artigiani e i «compagni»). Nel capitalismo, i processi di soggettivazione devono a loro volta articolarsi e liberarsi dai flussi economici, sociali, politici, macchinici. Le due operazioni sono indispensabili: partire dalla presa che l’asservimento e l’assoggettamento esercitano sulla soggettività e organizzarne la rottura, che è sempre un’invenzione e una costituzione del sé.

Le regole della produzione del sé sono quelle «facoltative» e processuali che inventiamo costruendo dei «territori sensibili» e una singolarizzazione della soggettività a livello micro-politico e delle disposizioni collettive di enunciazione a livello macro-politico. Da qui il ricorso, non tanto a degli strumenti e a dei paradigmi cognitivi, informazionali o linguistici, ma a degli strumenti e a dei paradigmi politici che sono etico-estetici, il «paradigma estetico» di Guattari e l’«estetica dell’esistenza» di Foucault.

Per produrre un nuovo discorso, una nuova conoscenza, una nuova politica, bisogna superare un punto innominabile, un punto di non-racconto assoluto, di non sapere, di non cultura, di non conoscenza. Da qui l’assurdità (tautologica) di pensare la produzione come produzione di conoscenza a mezzo di conoscenze. Le teorie del capitalismo cognitivo, della società dell’informazione, del capitalismo culturale, che si propongono come teorie dell’innovazione e della creazione, falliscono precisamente nel pensare il processo attraverso cui si fanno la «creazione» e l’«innovazione», poiché il linguaggio, la conoscenza, l’informazione e la cultura sono largamente insufficienti a questi fini.

La soggettivazione politica, per prodursi, deve passare necessariamente da questi momenti di sospensione dei significati dominanti e dalla neutralizzazione del meccanismo di asservimento macchinico. Lo sciopero, la rivolta, la sommossa, le lotte costituiscono dei momenti di rottura e sospensione del tempo cronologico, di neutralizzazione di assoggettamenti e di asservimenti, dove si manifestano, non tanto le soggettività vergini e immacolate, ma i focolai, le emergenze, le cariche di soggettivazione, la cui attualizzazione e proliferazione dipende da un processo di costruzione che deve articolare, senza passare per le tecniche di rappresentazione, il rapporto tra «produzione (desiderante)» e «soggettivazione».

Se la crisi non produce altro, d’ora in poi, che assoggettamenti e asservimenti negativi e regressivi (l’uomo indebitato), se il capitalismo è incapace di articolare produzione e produzione di soggettività in altro modo, se non riaffermando la salvaguardia dei titoli di proprietà del capitale, allora gli strumenti teorici devono essere capaci di pensare le condizioni di una soggettivazione politica che sia anche una mutazione esistenziale in rottura con il capitalismo, all’interno della sua crisi che è già divenuta storica.

* Pubblicato su “Alfabeta2″.