Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria

Quando diciamo che la Costituzione del 1948 è esangue e non restaurabile, ci trattano da nemici della patria. Recitate un De Profundis non solo di quella Carta ma della democrazia, ci ripetono. Davvero? Non sarà invece che proprio attorno al ripetersi di quelle difese (ormai puramente ideologiche) si consuma quel po’ di democrazia che resta in Italia?

Queste domande non ce le poniamo di fronte a dei residui cantori delle glorie della prima e della seconda Repubblica. Lo strazio che continuano a fare della Costituzione del ’48 è sotto gli occhi di tutti. Ce le poniamo piuttosto a fronte di compagni che, negli ultimi anni, hanno sostenuto le lotte per il comune e che (non si capisce se è perché credono piattamente nella “fedeltà” alla lettera o perché ritengano piuttosto la pragmatica dello “sfondamento” costituzionale l’arma di rinnovamento più efficace) continuano a rimproverarci perché non ci muoviamo sul terreno della legittimità costituzionale e rifiutano di condividere la nostra riflessione sul fatto che l’appello all’esercizio del potere costituente sia oggi essenziale e dirimente. Quei compagni si fanno forti di aver promosso e vinto il referendum “acqua-bene comune” e, soprattutto, di aver positivamente difeso davanti alla Corte costituzionale quel risultato. Si è trattato, in effetti, in entrambi casi, di successi eccezionali. A questi si aggiungono altre importantissime iniziative, qua e là in tutta Italia – centri sociali e teatri occupati promossi ad istituzioni del comune, assessorati municipali che cercano di leggere le attività dei servizi pubblici nella prospettiva di una politica del comune e una giurisprudenza (che sta elaborandosi e che ritiene la categoria dei beni comuni di grande utilità nel tutelare e garantire – e probabilmente trasformare? – la proprietà pubblica, oggi minacciata pesantemente dalle politiche neoliberali).

Non dubitiamo che tutto ciò costituisca un passaggio fondamentale e siamo orgogliosi di aver partecipato a quelle battaglie, sia sul terreno teorico che su quello direttamente politico.

Ciò detto, non vediamo perché l’appello alla critica della Costituzione del ’48 ed al rinnovamento del tessuto costituzionale sia dannoso o inutile. A noi sembra invece centrale ed essenziale. Riteniamo infatti che, nella lotta che si è finalmente aperta in maniera forte contro il neoliberalismo, la Costituzione del ’48 che (volente o nolente) ha con il neoliberalismo – formalmente e materialmente – convissuto, sia incapace di proporci uno sviluppo della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà (intesa come terreno di costruzione di istituzioni del comune), adeguato ai nuovi bisogni della moltitudine.

A questo proposito, riguardando i difensori della Costituzione del ’48, non vogliamo certo aggiungere che non vediamo diversità fra i sostenitori dei “beni comuni” e, ad esempio, i grillini: vogliamo solo dire che finché la tematica del “comune” non assuma una potenza costituente, anche i temi dei beni comuni rischiano di essere appiattiti in un populismo (per così dire) di sinistra. Difficile immaginare che si possa estrapolare, nel disegno costituzionale, un’idea ancora “virtuosa” di sovranità popolare, e farsi forza di quella come scudo contro il neoliberalismo: e ciò non solo perché sovranità “del popolo” e proprietà sono nella Costituzione difficilmente separabili, ma perché comunque oggi le categorie di sovranità e di popolo non possono che portare la lotta contro il neoliberalismo sulla strada di una vuota retorica, priva di possibilità di aggancio con le soggettività vive che animano la cooperazione sociale. I beni comuni hanno saputo evocare, per quelle soggettività, la forza della riappropriazione della ricchezza prodotta in comune contro i dispositivi proprietari. Come potrebbe mai l’idea di “popolo sovrano” rendere conto della ricchezza di quelle soggettività, della composizione di differenze e di singolarità che muove quella cooperazione sociale, senza ancora una volta imprigionarla in una omogeneità tutta forzosa e ideologica? Comune e sovranità popolare stanno su sponde diverse: in mezzo, ci passano tutte le metamorfosi soggettive di questi anni, le trasformazioni del lavoro e della produzione, la forza emergente del lavoro vivo, dinamiche che – già dagli anni Sessanta e Settanta – hanno messo attivamente in crisi il nocciolo della mediazione costituzionale. La forza di questo comune, che ha animato lo stesso movimento dei beni comuni, non può essere colta da nessuna possibile riabilitazione della “sovranità popolare”, categoria che di nuovo chiuderebbe nel già costituito la tensione dinamica e aperta del costituente. A non calcolare adeguatamente la propria distanza critica dalla retorica della sovranità popolare, è inevitabile poi che anche chi, con le migliori intenzioni e ragioni, ha animato le lotte sui beni comuni, rischi di incagliarsi periodicamente nelle nebbie dei populismi, degli autoritarismi e dei personalismi, che nelle retoriche sovraniste hanno sempre trovato alimento per bloccare le lotte e impedirne la generalizzazione moltitudinaria.

Bastano pochi esempi per chiarire questa irriducibilità del comune alle mediazioni costituzionali, sia pure a quelle a tinte popolari e più o meno “socialiste”.

In primo luogo, parliamo di libertà. Un solo esempio, ma crediamo suggestivo: dov’è più – sulla base della Costituzione del ’48 – la libertà di espressione quando ci si confronti alla prepotenza del potere finanziario e della proprietà privata nei media? Possiamo invece immaginare che l’informazione sia restituita al comune? A fronte della Costituzione del ’48, che cosa significa “libera” informazione, sottratta all’alternativa (per quella Costituzione solo possibile) del privato e del pubblico? E siccome chez nous, “pubblico” (nazionalizzazione dell’informazione, sostegno amministrativo ai media, ecc.) significa fascismo e/o corruzione, come ci aiuta la Costituzione del ’48 ad evitare che l’informazione sia sottratta ai poteri dei privati o a quello statale? Cosa significa “comune” nella Costituzione del ’48? Com’è possibile costruire un “luogo comune” dell’informazione, che sia sostenuto e viva di forza democratica?

In secondo luogo, sempre a mo’ di esempio, parliamo di uguaglianza. Un solo caso: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito della moneta? E cioè del mezzo attraverso il quale lo Stato manovra la produzione delle merci e la distribuzione dei redditi? La moneta – è noto – è diventata lo strumento attraverso il quale il capitale riproduce a sua misura la società dello sfruttamento: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito del controllo dei “mercati” e dell’azione dei poteri finanziari globali, se non che lo Stato è sovrano in materia monetaria? Ma questo lo diceva anche lo Statuto Albertino! Se non ci scapasse da ridere, vorremmo chiedere ai nostri interlocutori, spesso su questo argomento prolissi, di declinare con noi “moneta-bene comune”: cosa concluderebbero? Che lo Stato-nazione va ricostruito oppure che la Costituzione del ’48 va trasformata? È evidente che se rispondessero nel primo modo, dovremmo chiamare il 118.

Ma, in terzo luogo, interroghiamoci su cosa possa più dire la Costituzione del ’48 a proposito di solidarietà (cioè del comune vero e proprio!). Sorge qui il sospetto che quando si pretende che il comune possa rappresentare una nuova forma di proprietà, si cerchi non di costruire ma di neutralizzare il concetto di comune. Recentemente (forse perché in periodo elettorale) abbiamo udito un autore come Ugo Mattei, solitamente molto determinato e preciso attorno al destino dei beni comuni e pragmatico difensore della Costituzione del ’48, sostenere che (dalle università – ma noi non pensiamo solo di lì) è partito un tentativo efficace di sminuire la portata “radicale” del tema “commons”. In quella prospettiva, essi sarebbero “scientificamente” sempre più limitati, circoncisi, privatizzati e sottoposti alla ristrutturazione istituzionale del neoliberalismo attraverso una critica che li costringe nel cognitivismo oppure nell’ideologia della sostenibilità, comunque ad un regime di enclosure, di restrizione. Si tratta di un vero e proprio détournement della forza costituente dei commons! Okay: ma allora perché non concludere che nella Costituzione del ’48 – come in tutte le costituzioni della modernità capitalista, come in tutte le riletture newdealistiche del costituzionalismo borghese e tanto più oggi nel regime globale del capitale finanziario – il comune non è giuridicamente pensabile? Perché pretendere la genuflessione dei “bene-comunisti” alla Costituzione del ’48? Per realismo politico? Ma che cos’è un realismo che non solo non riconosce la comune libertà di informarsi e di esprimersi ma neppure riesce a denunciare non tanto il “conflitto di interessi” di Berlusconi quanto quello del “Corriere della sera” e de “La Repubblica”, ecc., ecc.! E che non accetta di organizzare – fuori da ogni costituzione – una lotta per costruire una “moneta del comune” come unica forma nella quale l’uguaglianza può oggi proporsi (reddito di esistenza come nuova figura del salario relativo, welfare garantito, ecc.)? Fuori da ogni costituzione, dicevamo: perché organizzare istituzioni del comune, produrre le forme possibili di uguaglianza e libertà, non è un processo lineare, ma contiene in sé sempre elementi di rottura destituente e radicale con le forme istituzionali e costituzionali date – cosa che la tentazione sempre ricorrente di un ritorno all’istituzionalismo, anche quando è presentato, con qualche eccesso di retorica, come “diritto che nasce dalle lotte”, rischia di dimenticare.

Infine: il comune è comunismo più libertà. La Costituzione del ’48 è stata letta come un po’ di libertà e un po’ di socialismo: vivevamo in un mondo dove questa costituzione era forse la sola alternativa di pace alla guerra civile. Oggi la guerra, il capitale finanziario globalizzato ce la fa contro, ogni giorno. Perché non rispondergli, sottraendogli, attraverso la forza costituente del comune, questo potere?

da www.uninomade.org

 

#6D a Roma: non ci bastano i palazzi del potere

Se il 14N aveva consegnato un punto di domanda: è possibile immaginare
obbiettivi diversi dai periferici palazzi del potere?, il 6D ci lascia una
parziale ma importante risposta.

Gli studenti medi, con l’occupazione simbolica di via Induno a Trastevere,
hanno dato importanza alla pratica della riappropriazione. Sperimentata nelle
scuole occupate e agita nei territori, come nel caso del Cinema America, la
riappropriazione degli spazi ha dato modo di comprendere la potenza della
relazione nel tempo della crisi. La stessa gioventù lidense di Ostia si è
nutrita in questa simile dimensione.

I movimenti romani per il diritto all’abitare hanno poi costruito un
ulteriore passaggio di qualità, dando un tetto a circa 3000 persone, colpendo
direttamente la rendita e chi vuole procedere con la svendita del patrimonio
pubblico. Da Ponte di Nona a Torrevecchia, da Prenestino ad Anagnina, fino al
quartiere San Paolo dove nasce lo studentato”Alexis Occupato”.

Nel #6D il rapporto centro-periferia è saltato nel migliore dei modi. Un
moltiplicarsi di luoghi dove pianificare nuove forme di attacco. Non
“assaltando” i palazzi del potere si è lasciato spazio alla possibilità di
costruire nuove istituzioni autonome che si contrappongano alla metropoli della
rendita. I germi della ribellione si piantano proprio in quelle disgregate
dimensioni di quartiere dove sono possibili nuove relazioni antagoniste.

Tornare nei territori quindi non vuol dire chiudersi nel mutismo per assenza
di prospettiva politica. Vuol dire piuttosto osservare meglio le contraddizioni
e le ambivalenze del rapporto centro-periferia, imparando ad agire in una
dimensione spaziale nuova che richiede maggiore capacità di radicamento.

Tornare nei territori vuol dire costruire nuove istituzioni autonome che
rendano obsolete le istituzioni che governano a colpi di austerity. Tornare nei
territori vuol dire evitare di essere ceto politico e sporcarsi le mani tra
l’autonomia possibile e la barbarie che avanza.

E’ possibile quindi immaginare obbiettivi diversi dai palazzi del potere
soltanto se, uscendo dalla dimensione centro-periferia, ci accorgiamo che
l’unico conflitto possibile è nella costruzione, nella relazione e nella
riappropriazione. L’attacco del capitale e dello stato sarà una conseguenza di
questo nostro lavoro, come ci insegna la Val di Susa.

E se per una giornata non si finisce sui giornali poco importa. Non sarà
certo qualche intervista in televisione a dare forma ad un movimento
generalizzato contro le misure di austerity.

da www.infoaut.org

 

“Strategie contro l’austerity: reddito di base e incondizionato per tutti” Video-intervista a Guy Standing

Pubblichiamo una video-intervista a Guy Standing membro fondatore e co-presidente del Basic Income Earth Network (Bien), autore del libro“The Precariat. The new Dangerous Class“. L’intervento  è stato realizzato nell’ambito dell’iniziativa organizzata dal C.s.o.a. Officina99 & dal Lab.Occ. SKa a Napoli presso l’Istituto Universitario Orientale.

 

 

 

 

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La repressione ai tempi dell’austerity


 Il 23 marzo 2012, in pieno giorno a Casalbertone un gruppo di neofascisti, provenienti dalla sede di Casapound in via Orti di Malabarba tentava di assaltare lo spazio sociale Magazzini Popolari Casalbertone, venendo comunque respinti nonostante i numeri assolutamente sfavorevoli agli attivisti degli MPC. Di lì a poco, in un pomeriggio infrasettimanale, una settantina di neonazisti si radunava in via Orti di Malabarba, a pochi metri dall’ingresso della locale caserma dei Carabinieri, con caschi, mazze e pietre ben visibili.

La scelta degli antifascisti di muoversi in corteo è stata la necessaria risposta per denunciare lo squadrismo che ciclicamente torna a manifestarsi in città, grazie alle evidenti contiguità politiche, che nonostante la retorica elettorale, lega da decenni esponenti dell’attuale amministrazione cittadina e la ex giunta regionale di Renata Polverini: ruoli di responsabilità e ben remunerati nelle municipalizzate e nei servizi locali, quasi 12 milioni di euro per il palazzo di via Napoleone III in cui Casapound ha la sua sede, legittimazione politica per le iniziative revisioniste e di sapore nazistoide che vengono messe in piedi.

Gli incidenti che ne sono seguiti sono stati la conseguenza della legittima autodifesa all’attacco mosso al corteo da parte dei fascisti, e qualsiasi immagine o video reso pubblico nelle ore seguenti mostra chiaramente l’accanita resistenza dei pochi compagni contro una ben più nutrita e organizzata squadraccia, per altro sotto lo sguardo logicamente passivo delle forze dell’ordine, che anzi nelle ultime battute hanno mosso una carica alle spalle degli antifascisti.

Oggi, ottobre 2012, riceviamo una serie di denunce che vedono coinvolte entrambe le parti, in un tentativo maldestro di mettere sullo stesso piano chi si è difeso con chi pratica sistematicamente la violenza squadrista e la propone come macabro immaginario, vecchia tradizione della Roma bene che dai “mostri del Circeo” porta alle scuole della Cassia e dei Parioli, per ora unico luogo di fermentazione dell’estrema destra neonazista.

Quello della radicalizzazione dei movimenti di estrema destra è ormai un fenomeno europeo: in Grecia, nell’est europeo, l’ondata populista solo apparentemente deideologizzata degli anni Novanta e dei primi anni Duemila si sta traducendo in una pressione sempre più violenta delle organizzazioni neonaziste contro attivisti di sinistra, migranti e nel tentativo di cavalcare la legittima rabbia dei cittadini colpiti dalle misure di austerità: se chiunque può riconoscere sui media mainstream la pericolosità di Chrisi Avgi (Alba Dorata) in Grecia, al centro di sempre più frequenti casi di omicidio e sostenuta elettoralmente dalle forze dell’ordine, ci sembra conseguente dover rivendicare il diritto di resistenza dei movimenti sociali.

Nell’epoca del governo tecnico, il fascismo ritorna nell’Europa meridionale come collettore delle tensioni sociali, sia nelle strade che nelle tornate elettorali: con preoccupazione abbiamo osservato la crescita di Chrisi Avgi in Grecia, le alte percentuali di Marine Le Pen alle presidenziali francesi, l’ormai tristemente consolidato regime ungherese di Viktor Orban. Abbiamo sempre rivendicato la nostra pratica antifascista, nel ricordo di Renato Biagetti, nostro compagno ucciso nel 2006, ma anche nella consapevolezza di essere presenti e attivi in un territorio che ha in sé i simboli delle Fosse Ardeatine e di Porta S.Paolo: siamo antifascisti non per odio, ma per dignità, diciamo da queste parti.

E’ per questo che portiamo sulle spalle il peso di una continua repressione: é di pochi giorni fa l’assurda condanna di due nostri compagni di Acrobax “colpevoli” di essere stati indicati da noti attivisti di destra della locale sede del PDL come aggressori in un fatto avvenuto ormai 6 anni fa. In questa fase, la criminalizzazione dei movimenti sociali, delle piazze, si esprime sia nella logica, in certi termini quasi scontata in questo paese, degli “opposti estremismi”, che appiattisce le differenze in nome di una pacificazione in cui appunto è possibile anche la legittima partecipazione alla vita pubblica di gruppi nostalgici e xenofobi, di ispirazione orgogliosamente repubblichina, con vecchi attrezzi dello stragismo ancora attivi al loro interno, sia in quella della repressione violenta delle piazze: nell’anno che ci separa dalla giornata dell’indignazione del 15 ottobre 2011, ben poche sono state le occasioni di scendere in piazza in un paese senza incorrere in divieti, cariche e denunce. La sistematicità di condanne pesanti (anche fino a 5 anni) per chi è stato arbitrariamente rastrellato in Piazza S.Giovanni, e le misure cautelari che ad aprile hanno limitato la libertà di 12 persone in tutta Italia, ci sembrano il triste preludio ad una sempre maggiore stretta della agibilità del dissenso, ora che nuovamente l’intero pianeta, stretto nella morsa delle scelte draconiane degli organi sovranazionali che governano la vita pubblica dei cinque continenti, sta tornando in piazza: dal Cile alla Grecia, fin nella lontana Cina della produttività spinta oltre le umane possibilità, qui in Italia lo scorso 5 ottobre.

Se l’austerity è governo della paura, solo la nostra determinazione

può permetterci di riprendere parola sulle nostre vite.

Nodo redazionale indipendente

 

 

Uninomade 2.0 al Teatro Valle Occupato

SEMINARIO, Roma, 27-28 ottobre 2012 

 Il marchese di Condorcet e Thomas Jefferson conoscevano bene la forza e l’importanza delle Costituzioni. Eppure, entrambi concordavano sul fatto che nessuna Costituzione potesse essere considerata eterna. Anzi, ogni generazione – sostenevano questi padri del costituzionalismo moderno – avrebbe diritto a scrivere una nuova costituzione. Sapevano bene, Jefferson e Condorcet, che le costituzioni nascono da precise mediazioni storiche, traducono equilibri contingenti, e che il rapporto tra qualsiasi “diritto costituzionale” costituito e processi costituenti non può mai essere chiuso definitivamente.

Oggi la crisi ha riaperto ancora una volta lo spazio costituzionale, lo ha nuovamente investito trasformandolo in uno spazio di critica e di lotta politica. L’attacco neoliberale ha radicalmente disarticolato l’unità del sistema costituzionale, con un’iniziativa che si è collocata esplicitamente su un piano di sfida costituente: una vera e propria “rivoluzione dall’alto”, che ha preteso l’adeguamento delle stesse costituzioni “formali” al nuovo comando politico finanziario.

Davanti a questa sfida, la sinistra ha mantenuto una posizione semplicemente reattiva, difensiva: lo slogan della “difesa della Costituzione” non basta a nascondere l’incapacità di fare i conti con la fine di quegli equilibri costituzionali, con la destrutturazione profonda della cittadinanza democratica e con la rottura tradizionale mediazione tra capitale e lavoro incorporata nelle costituzioni welfaristiche del Novecento.

Gli Occupy nordamericani e europei, per non dire delle primavere nordafricane, pur nelle loro grandi differenze, si sono invece tutti collocati su un terreno completamente diverso da quello della “difesa” degli equilibri costituzionali esistenti. Sono stati tutti movimenti che hanno esercitato una rottura di quegli equilibri. Hanno avuto caratteristiche destituenti rispetto ai contesti costituzionali dati, e, contemporaneamente, hanno aperto un’agenda costituente: costruzione di contropoteri democratici qui e adesso, nuova affermazione di eguaglianza e libertà, non contenuta e non contenibile in nessun ordine costituzionale “dato”. Il fatto che questi movimenti siano riusciti a manifestare solo parzialmente le loro potenzialità, o, in altri casi, abbiano incontrato la reazione feroce delle élites conservatrici, non toglie nulla alla chiarezza con cui si sono collocati su un terreno costituente e non rappresentabile. Tale irriducibilità anzi, per questi movimenti, non è stato un obiettivo da proclamare, un programma cui tener fede: semplicemente, essi si sono mostrati costitutivamente inconfigurabili, così come è la cooperazione sociale che essi esprimono.

Con il seminario del 27 e 28 ottobre, vogliano discutere appunto della costituzione. E non solo e non tanto della costituzione italiana, quanto della rottura delle mediazioni costituzionali classiche, dell’esaurimento delle “costituzioni del lavoro” del Novecento. Della fine di quel modello di welfare e di cittadinanza. Vogliamo rilanciare la critica del diritto, a cominciare dalla critica del diritto pubblico e costituzionale, ma anche sporgerci al di là, verso quell’orizzonte costituente pur contraddittoriamente aperto dai movimenti. E farlo soprattutto guardando alla dimensione europea, dove è sempre più evidente come non esista nessuna costituzione data che possa recepire le istanze di eguaglianza e libertà avanzate dalla radicalità dei movimenti. Vogliamo discutere dell’urgenza in Europa di un’ipotesi costituente, oltre ogni possibile “aggiornamento” delle mediazioni costituzionali esistenti, in cui ancora paiono adagiarsi le sinistre europee.

Vogliamo anche dare sostanza, cominciare ad articolare questo orizzonte costituente. Immaginare che cosa può essere oggi una Dichiarazione dell’irrinunciabile, dell’inalienabile. Non si tratta di appiattirci sul linguaggio dei diritti – spesso tanto pomposo quanto impotente – o di scimmiottare le dichiarazioni del Settecento. Ma di cominciare a formulare i punti programmatici, emersi dalle lotte, che segnano, i nuovi “principi indisponibili” del lavoro vivo: il reddito, la libertà di movimento, il welfare del comune, la riappropriazione della moneta, la libertà della cooperazione sociale dai dispositivi parassitari che la attraversano, la lotta al debito, il diritto all’insolvenza, la libertà dai dispositivi di controllo e securitari, il diritto alla salute in tutte le sue dimensioni biopolitiche…

Infine, vogliamo affrontare la questione, continuamente affermata oggi dalle lotte per i commons, degli usi e dell’accesso al comune. Le lotte di quest’anno hanno elaborato pratiche inedite. È già un fatto politico che esistano una pluralità di usi del diritto, a tutti i livelli:

  • la scrittura di una istituzionalità autonoma proposta dallo Statuto del Teatro Valle;
  • la giurisprudenza delle sentenze, in particolare quella del cinema Palazzo;
  • delle delibere, come nel caso dell’ex Asilo Filangieri;
  • l’appello agli articoli della Costituzione nel referendum sull’acqua;
  • il diverso uso del diritto amministrativo fatto dai comitati cittadini dell’acqua;
  • le politiche dei “nessi amministrativi” nei municipi;
  • l’uso che risignifica politicamente alcune normative esistenti (dagli usi civici all’acquisto di microlotti di terreno attorno al cantiere in Val di Susa).

Queste lotte, che hanno fatto riemergere parole in qualche modo “antiche” come uso e accesso, hanno però anche reso evidente che “uso” e “accesso” non si radicano oggi in nessun presupposto oggettivo, ma all’interno di pratiche inedite attraversate dalla produzione di nuova soggettività. Che in altri termini, il tema dei commons si apre sullo sfondo del comune, come produzione di una cooperazione sociale finalmente libera dallo sfruttamento.

Dalle lotte sui commons, emerge anche come l’unità – tradizionalmente presupposta – dei sistemi costituzionali sia oramai in frantumi. Il diritto si produce sotto il segno dell’eterogeneità, non più dell’omogeneità che caratterizzava l’antica tradizione “pubblicistica” del Popolo e del Sovrano, mentre i processi di governo si svolgono in una dimensione di “opacità” e pongono in discussione i modelli classici di divisione dei poteri. Ma proprio l’irriducibile pluralità delle fonti giuridiche – sentenze, delibere, statuti, usi civici, norme costituzionali – e la rottura della loro tradizionale gerarchia, può essere oggi l’occasione di una politica federativa delle lotte.

In ultimo, ma è il punto cruciale: le lotte sull’uso e dell’accesso ai commons, riaprono – finalmente! – la questione della proprietà. La riapertura di un’istanza costituente oggi si gioca principalmente su questo: spodestare la proprietà dal centro che pretende di occupare nella regolazione della cooperazione sociale. L’immaginazione costituente che il nostro seminario vuole mettere in moto, accoglie dalle lotte e rilancia l’urgenza di superare l’arbitrarietà del “terribile diritto”.

PROGRAMMA

Teatro Valle Occupato (www.teatrovalle.it)
Via del Teatro Valle 21, 00186 Roma

Sabato 27 ottobre, ore 10.00 – Prima sessione
VERSO UN ORIZZONTE COSTITUENTE

Introduzione: Sandro Mezzadra, Giso Amendola, Teatro Valle Occupato
Relazioni: Ugo Mattei, Toni Negri

 

Sabato 27 ottobre, ore 14.30 – Seconda sessione:
GLI USI DEL COMUNE

Introduzione: Teatro Valle Occupato
Relazioni: Massimilano Guareschi e Federico Rahola, Paolo Napoli
Discussione

 

Domenica 28 ottobre, ore 10.00 –  Terza sessione:
PER UNA NUOVA DICHIARAZIONE DELL’IRRINUNCIABILE E DELL’INALIENABILE

Introduzione: Sandro Mezzadra, Giso Amendola
Relazioni: Michael Hardt, Raul Sanchez Cedillo
Discussione

 

Interventi programmati (da distribuire nelle due giornate): Alessandro Arienzo, Peppe Allegri, Giovanni Giovannelli, Maria Rosaria Marella, Costanza Margiotta, Marco Silvestri, Michele Surdi, Benedetto Vecchi.

da www.uninomade.org

 

 

 

 

Madrid 25S — La democrazia si apre il passo

di MADRILONIA.ORG

Ci hanno chiamati golpisti. Hanno detto che dietro questa manifestazione si nascondeva l’estrema destra. I mezzi di comunicazione hanno mentito per giorni e giorni. Hanno minacciato di mandarci in galera, hanno dispiegato oltre 1400 agenti di polizia, hanno identificato e denunciato molte persone solo perché esse si erano riunite in un parco pubblico a discutere sulla convocazione di questa manifestazione. Hanno provato a riempirci di paura, come mai era successo prima d’ora. Il risultato è che, nelle strade, eravamo in decine di migliaia, pronti a disobbedire allo stato di eccezione imposto dal governo. Ora tutti i media del pianeta stanno parlando di quanto successo a Madrid il 25S. E sappiamo bene che è solo l’inizio.

Il governo Rajoy è debole come mai era stato prima d’ora. E deve affrontare un problema di governamentalità politica su tre fronti, deve affrontare un problema di dimensioni totalmente nuove. In primo luogo, la forte crisi di legittimità presso la cittadinanza, non solo per le decine di migliaia di persone che si sono mobilitate durante il 25S, ma anche nei confronti del proprio elettorato. Il governo non ha in mente nessun piano di azione, a parte quello di continuare nella propria politica di tagli, accompagnati da una dinamica repressiva sempre più intensa, e sempre più inutile. La risposta al di là di ogni previsione alla mobilitazione lanciata ieri, la fuga clandestina degli “onorevoli”, le patetiche dichiarazioni della maggior parte dei deputati sono segni chiari di questo processo.

Vogliamo dirlo senza equivoci: un governo che si sostiene solo grazie al monopolio della violenza è un governo debole, moribondo e condannato.

Il secondo fronte aperto è quello di una grave crisi del modello territoriale dello Stato. Intrappolato tra il prostrarsi alla Troika (UE BCE FMI) – che si traduce nell’imposizione di politiche dettate dalle dinamiche finanziare – e lo smembrarsi del patto tra le élite – che ha permesso di sostenere la distribuzione della ricchezza tra le comunità autonome -, il governo centrale non è altro che uno spaventapasseri. Con grandi difficoltà è riuscito a mantenere una certa convergenza di azione con le varie élite territoriali, come ci dimostra la “minaccia” indipendentista del CIU (Convergenza e Unione, partito della destra catalanista al governo in Catalogna, ndt), capace di mobilitare una buona parte della società catalana nel nome di un progetto sfacciatamente neoliberale e oligarchico. In questo caso, la debolezza non è solo di questo governo. Siamo di fronte a una ristrutturazione generale delle istituzioni, ereditate dal processo della Transizione, che dimostra la necessità di costruire un nuovo modello di democrazia, tanto politica quanto economica.

Infine, il governo si è mostrato assolutamente incapace di imporsi di fronte alla Troika, di difendere gli interessi della propria popolazione e di allearsi con il resto dei paesi europei periferici. Detto in altro modo, il governo non ha smesso di obbedire agli ordini del potere finanziario che ci spinge verso un’intensificazione continua della crisi sociale. In questo quadro, non ci saranno altre via d’uscita se non la recessione e l’impoverimento. E su questo punto dobbiamo stare allerta perché venerdì o sabato sapremo quali sono le contropartite chieste dalla Troika per garantire il nuovo bailout: riduzione degli ammortizzatori sociali per la disoccupazione, aumento dell’età pensionabile, vendita di asset e beni comuni e nuovi tagli ai diritti dei lavoratori nel pubblico impiego.

Oggi, lo spread è tornato a salire rispetto agli ultimi giorni. Molto probabilmente è un avviso da parte della Troika – attraverso la sospensione dell’acquisto di buoni del tesoro – riguardo il fatto che il programma di contropartite imposto dalla finanza deve mantenersi inalterato, al di fuori da qualunque “concessione” alle richieste che provengano dalla cittadinanza.

Quello che abbiamo vissuto nelle strade di Madrid il 25S è stata la prima dimostrazione della potenza dell’organizzazione collettiva. Ci troviamo probabilmente all’inizio di un ciclo di mobilitazioni al quale tuttavia non si sono ancora uniti né i funzionari pubblici, né i pensionati. Dobbiamo riconoscerlo: la mobilitazione del 25S è stata segnata da un chiaro tratto generazionale. La generazione di chi non ha una casa, non ha un reddito, non ha un lavoro, la generazione di chi non ha votato la Costituzione del 1978 e non si sente garantito dai patti che negli anni Ottanta hanno dato corpo a questo modello di Stato.

Eppure, c’è da aspettarsi che le misure che il governo dovrà probabilmente approvare, spingeranno molte altre persone a unirsi all’assedio del Congresso. Il problema è politico e per questo il nostro compito continua a essere quello di riunire la potenza sociale necessaria a fermare il saccheggio del comune a cui stiamo assistendo. Il problema è politico e per questo dobbiamo riuscire a riprodurre quella alleanza che nelle giornate di Luglio aveva unito il 15M, i funzionari pubblici, i pensionati, i lavoratori dell’istruzione, della sanità e una moltitudine di persone che partecipavano senza altro nome che il proprio. Dobbiamo fare in modo che questa stessa alleanza torni a emergere e a mettere in evidenza la crisi dell’ordinamento costituzionale attuale, del bipartitismo imperante e delle istanze rappresentative. Per dire forte e chiaro che la democrazia è un’altra cosa e che questo paese, così come l’Europa, sono ancora da inventare.
La Delegación de Gobierno di Madrid può dire che c’erano seimila persone, parlare di golpismo e paragonarci al colonello Tejero e al suo golpe di Stato fallito nel 1981, però la “loro” realtà e la “nostra” camminano ormai lungo strade separate. L’intelligenza in rete possiede una capacità propria di auto-narrazione e non ha bisogno di meccanismi che la rappresentino. Si tratta di un esempio chiaro della crisi della forma Stato, uno Stato che assomiglia sempre più a una dittatura. Per questo dobbiamo gridare un’altra volta: non siamo spettatori, non ci rappresentate.

Il 25S è finito. Adesso viene il meglio. Il primo passo successivo al 25S è oggi [mercoledì scorso, 26 settembre, ndt] alle 19 a Nettuno, per dimostrare che seguimos adelante.

* Traduzione dallo spagnolo di Francesco Salvini.

Viva la costituente!

da www.uninomade.org

 

Liberare il campo. Questo è il problema che abbiamo posto e ci poniamo dentro il movimento italiano (ma in una prospettiva che guarda immediatamente al Mediterraneo e all’Europa), di fronte all’interrogativo su cui con insistenza è necessario arrovellarsi: perché non c’è stato in Italia l’insorgere di una composizione che di Occupy, degli indignados o delle “primavere arabe” non ripeta pappagallescamente slogan e simboli, ma ne traduca e dunque crei in forma specifica la potenza politica e di generalizzazione? Sia chiaro, sarebbe sbagliato dire che non ci sono conflitti. Questi non mancano e ogni giorno le cronache, sui mezzi di comunicazione di movimento e mainstream, danno conto della loro diffusione. Il punto è che queste lotte faticano a parlarsi, a generalizzarsi, a comporsi su un piano comune. La domanda sul perché ciò avvenga e, soprattutto, su come rompere i dispositivi di frammentazione, non può che avere differenti livelli di risposta: e tutti interpellano urgentemente gli sforzi di inchiesta militante. Lo scorso 15 ottobre l’iniziativa di un insieme di forze politiche, unitamente al ricatto dell’anti-berlusconismo, ha costruito una cappa sotto cui si è cercato di soffocare, dunque di rappresentare, quello che c’era o poteva esserci. Così, mentre in diverse parti del mondo si esprimevano in modo forte potenza e nodi aperti delle lotte globali dentro la crisi, in Italia il dibattito arretrava drammaticamente sui temi della violenza e della caccia agli untori.

Sarebbe ingenuo e improduttivo pensare che la soluzione all’interrogativo risieda semplicemente in una sorta di katechon interno ai movimenti, ovvero una forza che trattiene l’altrimenti inevitabile affermarsi dei dispositivi di ricomposizione delle lotte. E del resto le insufficienze di proposta e organizzative con cui tutti dobbiamo misurarci vanno al di là delle scelte opportunistiche. I punti di blocco sono evidentemente molteplici e consistono fondamentalmente nella tenuta di istituzioni della mediazione sociale (dai partiti e sindacati, fino ad arrivare alla Chiesa e alla famiglia) che, pur in crisi, riescono ancora a tamponare la generalizzazione di comportamenti sovversivi. Queste linee di ingombro, tuttavia, allungano le proprie articolazioni fin dentro i movimenti, e molte delle strutture che rappresentano un pezzo importante della riproduzione antagonista degli ultimi vent’anni (molti centri sociali, ad esempio) oggi appaiono svuotati di capacità espansiva. Liberare il campo, allora, significa non risolvere ma porre sulle corrette basi il problema di costruire nuove forme di organizzazione all’altezza dei compiti epocali che la crisi del capitalismo offre. É, per dirla in altri termini, una condizione necessaria ma non sufficiente, da cui partire per confrontarsi su elementi di programma e prospettiva.

Costituzione e costituente

Mai come oggi è apparso chiaro che nessun tipo di compromesso istituzionale può permettere di indirizzare i movimenti, meglio, di creare all’interno dei movimenti dispositivi di trasformazione efficaci nell’affrontare la situazione politica presente. Negli anni scorsi alcuni compagni hanno pensato di poter trovare una linea intermedia sulla quale coalizzare forze istituzionali (rappresentanti settori della produzione, sottoposti ad una forte pressione di riforma neoliberale) e movimenti di trasformazione sociale. Era facilmente prevedibile che questo tipo di alleanza non avrebbe potuto stabilirsi che in maniera “diplomatica”, qualora non fosse stata esercitata una pressione di base all’interno e all’esterno di quelle stesse forze istituzionali. Alcuni gruppi di compagni hanno invece privilegiato il terreno istituzionale, sia quello sindacale che quello parlamentare, finendo per subire totalmente quel terreno e per risultare subalterni alla sua agenda. Cosa ancora più grave: si è arrivati ad accettare la discriminazione tra compagni sulla base del bieco refrain socialista: “chi è per la violenza è un nemico”. Per questi comportamenti, la critica è necessaria e l’autocritica deve essere imposta.

Il tentativo di alleanza con la Fiom è stato in proposito un esempio classico di fallimento politico: perché? Perché non si potevano accostare funzioni separate, come quella della mera difesa “lavorista” di una classe operaia di fabbrica investita da una profonda ristrutturazione e quella della proposta di un reddito garantito di cittadinanza che trasforma la concezione stessa del lavoro produttivo. Ogni tentativo svolto su questo terreno senza l’accompagnamento di una forte coscienza teorica del passaggio che si sta compiendo, è opportunista se non cialtrona. Il risultato è che oggi la Fiom è su posizioni più arretrate e conservatrici di tre anni fa. La parola d’ordine della costituente può invece diventare un punto unificante, come già sta avvenendo in Spagna. Il problema oggi è quello dunque di costruire, sul livello generale, forme di contropotere che contrastino l’avanzamento delle proposte costituzionali (sia sul terreno della pratica giuridica, sia sul terreno delle riforme strutturali) che le élite neoliberali impongono. È su questo terreno che tutte le forze e i movimenti della trasformazione, presenti sui territori, possono e debbono muoversi. Queste indicazioni prevedono un’apertura sociale massima degli organismi di base alla discussione di indicazioni costituenti ed alla definizione di strumenti adeguati. Negli anni ’90 si diceva “uscire dal ghetto” e si occupavano i centri sociali; ora, se non si vuole rimanere intrappolati nella gabbia dell’autoreferenzialità, bisogna aprirsi organizzativamente alle iniziative di nuova istituzionalità autonoma, dalle occupazioni dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo a quelle di intere porzioni di territorio, trasformate in luoghi di contropotere costituente. Infatti, anche nelle lotte territoriali o per i beni comuni, così come per Occupy o le acampadas, il problema non è ripeterne slogan e icone da spendere sul mercato della politica: se non si comprende questo punto, non ci possiamo spiegare perché il movimento No Tav riesce a generalizzarsi e falliscono esperienze almeno potenzialmente analoghe. Il tema del comune, gli obiettivi e i programmi legati alle lotte sul comune e alla proposta costituzionale del comune sono dunque centrali.

Dentro/contro l’unità europea

Lo abbiamo detto e ripetuto: ogni illusione di poter scegliere lo spazio nazionale per portare avanti le lotte anticapitaliste è del tutto illusorio. Sul terreno europeo il capitale ha anticipato con enorme forza le politiche del riformismo socialista, le ha decisamente estirpate. Riconoscere questo ritardo, di venti-trent’anni, significa anche attribuirne la responsabilità a tutti quelli che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, hanno pensato che la forza del movimento operaio internazionale (o addirittura la lotta di classe) fosse definitivamente scomparsa. Affermare che la lotta di classe si svolge sul terreno nazionale è sempre stata un’infamia (ed oggi è un errore moltiplicato per mille). C’è chi ancora si stupisce che il rifiuto dell’Europa finisca per essere populista e/o fascista: questa non è una deriva ma uno sviluppo coerente per ogni atteggiamento e/o comportamento identitario. Quello che è successo nell’ultimo anno in Ungheria ne è una dimostrazione lampante.

L’Europa rappresenta il nostro destino: può essere un inferno ma è anche il terreno adeguato alle lotte di emancipazione nel mondo globalizzato. Interiorizzare il senso europeo alla lotta di classe, ovunque essa si svolga, nelle fabbriche, nei servizi industriali e sociali, nell’università, ecc., è assolutamente fondamentale. È chiaro che le politiche dell’Unione europea vanno fin da ora radicalmente modificate e che la preminenza dei vecchi trattati va combattuta: ma questo non è un passaggio entro il quale lo spazio europeo venga dissolto (e le singole nazioni lasciate ancor più in preda alle operazioni delle grandi multinazionali e dei poteri finanziari) – questo passaggio è costruttivo di organizzazione, di contropoteri, di nuove strutture costituzionali. Programma del comune e programma europeo vanno completamente unificati. Per dirla chiaramente: non c’è programma del comune se non su base europea. Non è un caso che dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia – per citare i tre maggiori esempi di mobilitazioni, di massa e radicali, contro l’austerity – i compagni più avvertiti pongano con insistenza la necessità di uno spazio europeo, pur nella consapevolezza della difficoltà di questo compito. Senza questa capacità di iniziativa politica europea, che è oggi innanzitutto mediterranea, quindi in grado di allargarsi alle “primavere arabe” sull’altra sponda, le lotte contro l’austerity rischiano di essere consegnate al rancore localista. La costruzione di una “leva meridionale” con cui riaprire la questione europea, a partire dai paesi membri della UE maggiormente investiti dalla crisi, ma con una capacità di collegarsi a quanto si muove sulla sponda sud del Mediterraneo, può diventare un realistico progetto politico in questa fase.

Al contrario, l’arretramento sul piano della difesa della rappresentanza e della sovranità nazionale è il frutto velenoso della cosiddetta “dittatura della Bce”: da un lato si intende la finanziarizzazione non come un processo reale ma come l’invenzione di una cricca di malvagi (i discorsi sulla casta, fonte dei populismi degli ultimi anni, hanno qui il loro presupposto); dall’altro, si consegnano i movimenti alla peraltro illusoria alternativa tra corruzione del sistema politico e risentimento giustizialista. Nei prossimi mesi, c’è da scommetterci, non mancheranno neppure in Italia grandi esplosioni di conflitto contro le politiche di austerity: la loro caratteristica sarà inevitabilmente spuria e perfino ambigua. Il nostro compito è quello di starci dentro, perché è la stessa condizione della crisi a essere spuria e ambigua. Ma se non vogliamo essere risucchiati nel vortice della demagogia o rinchiuderci nella pura testimonianza, dobbiamo costruire collettivamente la capacità di conquistare l’egemonia programmatica del comune. Ed è solo qui, sul piano dell’iniziativa costituente europea, che la trappola populismo-rappresentanza va rotta e l’ambiguità può essere rovesciata.

La lotta per il comune è una lotta per la pace

In questi anni, dentro la miseria della vita politica interna al paese, alcune componenti dei movimenti antagonisti hanno dimenticato la vocazione alla lotta per la pace che altre volte ne ha costituito il nerbo. La situazione nella quale viviamo, i rivolgimenti sensazionali del mondo mediterraneo e mediorientale e i tentativi di controllo e di moderazione della loro potenza rivoluzionaria, le lotte attorno al possesso delle materie prime energetiche, ecc., – tutto ciò porta precipitosamente verso contraddizioni ed antagonismi difficilmente regolabili se non attraverso opzioni belliche. Il fatto che l’egemonia americana nel Mediterraneo fino agli estremi limiti del mondo arabo sia in grave declino non allontana il pericolo ma lo rende ancora più vicino. Bisogna quindi che i movimenti si impegnino immediatamente sul terreno della pace in quanto processo costituente. Le lotte sociali per il salario, per il welfare, per la trasformazione della produzione, per una struttura costituzionale rivolta alla costruzione del comune non possono non avere al proprio interno un’istanza di lotta per la pace e per la giustizia nei rapporti tra le moltitudini.

Dentro la lotta per il comune la pace si spoglia così dei residui idealisti che l’hanno spesso caratterizzata nell’ultimo e importante ciclo no war, quando la lotta contro la guerra faticava a territorializzarsi nella quotidianità del conflitto sociale, finendo per consumarsi nel semplice richiamo alla coscienza civile o, in Italia, all’articolo 11 della Costituzione. Nella storia lunga e recente dei movimenti americani, ad esempio, la guerra è sempre stata un tema centrale, rischiando però spesso di essere il coagulo morale di un ceto medio che reclamava gli ideali del “sogno americano”, gridava al tradimento delle elite e marcava la separatezza dalle lotte contro i rapporti di sfruttamento. Nel momento in cui quel ceto medio è definitivamente declassato e l’American dream sprofonda nell’incubo della crisi permanente, Occupy lascia apparentemente sottotraccia la questione della pace, proprio perché essa comincia a vivere nella materialità delle lotte per un nuovo welfare e contro la povertà e il debito. Non c’è più tradimento, perché quelle elite – a cominciare da Obama – non rappresentano nessuno. E il tema della pace vive nelle “primavere arabe”, il cui processo è stato parzialmente interrotto ma resta completamente aperto, a dispetto delle retoriche – mainstream e di movimento – su un’inevitabile egemonia islamista. I partiti islamisti al governo hanno definitivamente gettato la maschera: infranta qualsiasi illusione di una funzione destabilizzatrice che la stupidità di un consunto anti-imperialismo continua ad attribuir loro, si rivelano per quello che sono sempre stati, cioè i migliori garanti di una prospettiva di stabilizzazione conservatrice. E in questo ruolo utilizzano salafiti e gruppi religiosi che, alla prova dell’insorgenza, si dimostrano nemici innanzitutto dei processi rivoluzionari.

Contro ogni minoritarismo

Liberare il campo, dicevamo. Cioè uscire dal minoritarismo, che non consiste in un puro dato quantitativo, di opinione pubblica, oppure – come pensano tutte le “terze vie”, quelle tragiche e quelle farsesche – moderare i contenuti per allargare il numero dei simpatizzanti: pensare questo, nell’accelerazione della crisi, è stupidità o malafede. L’uscita dal minoritarismo è una prassi politica, la capacità di essere all’altezza della composizione del lavoro vivo, della sua potenza di espressione e radicalità. Quando diciamo politica della composizione contro politica delle alleanze, dunque, non ci gingilliamo con le parole a effetto. Molto concretamente il problema è: perché si riempiono le sale degli incontri tra le supposte rappresentanze dei movimenti, degli studenti e dei lavoratori, e in piazza gli operai dell’Alcoa sono lasciati soli? Perché si constata l’esaurimento della forma-sindacato a Taranto e si consegna al sindacato la (mancata) iniziativa contro la riforma Fornero o per i referendum sul lavoro? Sono domande che interrogano tutti, nessuno escluso. Così, mentre in Italia si implorava la Cgil di convocare uno sciopero generale, a Oakland e nella MayDay questo veniva indetto direttamente dai movimenti, costringendo i sindacati americani, nazionalisti e corrotti, a confrontarsi con l’autonomia di programma e di agenda politica di Occupy. Insomma, è chiaro che processi di organizzazione unitari vanno privilegiati. Ma solo se sono espansivi, dunque con una vocazione maggioritaria e di classe, e non frontisti, cioè minoritari.

Il grado zero sul livello del mare, l’orizzonte del conflitto sociale

da www.uninomade.org

di RAFAEL DI MAIO

Nella crisi profonda si moltiplicano e si confondono un po’ ovunque figure di grigi funzionari della dialettica, da sempre schierati contro la liberazione dell’uomo dal lavoro. Avviene sovente anche nei sindacati e movimenti loro alleati quando s’improvvisano per i nuovi diritti, che peraltro la governance del bio-capitalismo tenta continuamente di catturare con riforme e sintesi normative – soprattutto nell’Europa lontana dagli interessi sul debito – per scandire la trasformazione continua del rapporto irriducibile tra lavoro vivo e capitale. Rovesciano e trasformano come un re Mida in un’alchimia negativa l’oro in merda, il reddito universale in sofisticati dispositivi di controllo sociale.

La finanziarizzazione definisce la sfera pubblica del capitale mettendoci davanti ad una crisi strutturale della governabilità, del valore e della sostenibilità stessa della moneta. Nella grande transizione dal fordismo al post-fordismo la crisi finanziaria diviene prima di tutto crisi sistemica del processo di valorizzazione. Nel bio capitalismo contemporaneo è ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione del lavoro nel diritto. Questa è ormai la tendenza costituente del profitto che diviene rendita. Sul piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Dentro le nuove striature del capitalismo digitale i colossi come Apple, Google e Facebook fungono come leve per la nuova misurazione del valore, come catalizzatori di informazioni sociali sui comportamenti della collettività che vengono continuamente ricombinate e analizzate  e che attraverso l’espropriazione del capitale sociale vengono monetizzate, senza nessun riconoscimento della effettiva ricchezza socialmente prodotta. Il lavoratore diviene una figura immersa nella produzione sociale. Gli utenti e il loro continuo interagire con i dispositivi  tecnologici in Rete operano sul campo immanente della produzione biopolitica che potremmo definire prod/utenza o co-creazione di valore.

Basti pensare ad esempio alle nuove sperimentazioni nel modello anglo-sassone di sostegno al reddito ai giovani tra i 15 e 24 anni. A questi viene erogato un sussidio minimo settimanale a fronte di prestazioni d’opera in lavori socialmente utili svolti in forma totalmente gratuita. Ragazzi giovani e giovanissimi che vivono tra la precarietà e la disoccupazione – del resto in Italia come sappiamo dalla pletora statistica è una condizione ancora più diffusa – che passano il proprio tempo su Internet e sui social network, dove lì si, lavorano permanentemente nella nuova accumulazione originaria che sulla rete poi si dispiega. Questo lato “estremo” del ragionamento sicuramente ancora tendenziale assume una centralità strategica se consideriamo le assurdità sulle quali misuriamo formalmente la composizione attiva e realmente occupata nel Mercato del lavoro. Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia viene considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il reale tasso di disoccupazione, che ovviamente viene calcolato solo sul bacino degli attivi e cosiddetti disponibili. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. Quale programma e quali “ricadute” possono misurarsi dentro tale contesto? A fronte della produzione sociale, dove il nesso si connette all’unica istanza possibile oggi, quella del reddito di cittadinanza – nel senso precipuo del reddito di esistenza, incondizionato, svincolato dal lavoro formalmente riconosciuto – quale dovrebbe essere se non il precariato metropolitano il referente, la soggettività produttiva emergente che rivendica i nuovi “claims”? E non dovremmo includere anche quella massa di operai precarizzati dalle crisi industriali, i lavoratori dei servizi e del pubblico impiego che in ogni dove moltiplicano le lotte e le forme di resistenza?

Le ricadute politiche divengono quindi macroscopiche e i nessi interni alla produzione sociale rompono anche il meccanicismo dell’organizzazione sindacale. Se nel capitalismo digitale il lavoratore diventa ibrido e doppio, da un lato costantemente attraversato dalle striature del comando centralizzato sulle infrastrutture informatiche e dall’altro, dall’auto-valorizzazione delle proprie attitudini, saperi, affetti e desideri, la forma della possibile organizzazione politica sposta completamente il suo asse dalla sottomissione formale del lavoro nel capitale, alla sussunzione reale del lavoro vivo nelle macchine e nelle maglie dell’irrigimentazione capitalistica. Dobbiamo quindi continuare ad approfondire la relazione tra i processi della nuova valorizzazione e la rivendicazione del reddito di esistenza, se su questo terreno ci si vuole effettivamente cimentare sul piano politico.

Dopo aver visto per mesi la rabbia trasformarsi in disperazione, salire sulle torri, sui tetti o scendere in fondo ad una miniera è tornato ora il momento – semmai si fosse perduta questa elementare bussola – di riportare il conflitto sociale sul livello del mare, dove i piedi tracciano il suolo e i corpi riemergono insieme per attraversare l’orizzonte “in pianura” li dove ti sfruttano, ti picchiano, ti deportano, lì dove si soffre e si gioisce, lì dove si può perdere tutto ma certamente si può tentare ancora di rimanere vivi. E’ lì e solo lì che si può costituire quella materialità della lotta, ben oltre la nuda sopravvivenza. E’ lì che la disperazione può trasformarsi nuovamente in rabbia, in conflitto sociale, sovversivo, creativo e decidere di non tornare più a casa. Così come è la disperazione che porta donne e uomini senza prospettive, futuro e garanzie a rivendicare il semplice lavoro, come se chiedessero ancora solo sfruttamento e sacrifici. Bel quadretto da presentare ai padroni grazie ai sindacati. Con loro mai la rabbia diventerà gioia e desiderio per la trasformazione del presente. La crisi picchia duro e la politica si nasconde, nega la realtà e allora anche quelle forze sociali, operaie, marginalizzate, rimangono politicamente confuse, senza legami, prospettive, senza rivoluzione. Rivendicano semplicemente il lavoro – sfruttato sottopagato, unica fonte di reddito e nella disperazione come non comprenderli – senza potersi spiegare, con le proprie parole, quando l’unica cosa che conta è la sopravvivenza. Dove anche un bambino leggerebbe reddito intero contro lo sfruttamento, in quel chiedere disperatamente lavoro, lavoro, lavoro. Gli opportunisti, sindacalisti senza arte e solo con la loro parte, possono oggi schiacciarsi su questa dimensione populista del lavoro. Del resto nella disperazione sociale avviene questo e molto altro. Si fa gioco forza poi a negare la cooperazione, la produzione sociale permanente,  le forme di vita costantemente a lavoro. Un lavoro sempre più invisibile, in nero, gratuito, non riconosciuto che però oggi costituisce quella condizione generalizzata della precarietà diffusa che è innegabile in quanto costituisce l’unica realtà materiale per un intera generazione di precari, studenti, disoccupati, lavoratori cognitivi e “nativi digitali”.  Così è possibile mistificare quella mobilitazione permanente continuamente appropriata dal capitale, imponendo ancora il paradigma del lavoro come traduzione dei diritti. E poi di quali? Quelli che puzzano di morte come a Taranto o nel Sulcis dove per il profitto dovremmo accettare supini le briciole in busta paga mentre il senato globale dei rentier del capitaliasmo finanziario globale se la ride, sapendo bene che è nel “comune immateriale”, nella “produzione sociale dell’uomo mediante l’uomo” che si crea oggi ricchezza e si estrae il reale profitto, quel plusvalore sociale appropriato dalla rendita finanziaria che da rendita privata deve essere riconvertita in rendita sociale per combattere le crisi e costruire il futuro estendendo le pratiche del comune. Vi è una costituzione biopolitica delle lotte da organizzare dentro la moltitudine, dentro la cooperazione sociale, dentro i flussi della nuova valorizzazione. Questa moltitudine precaria rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, sicuramente impoverito. Reddito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale (affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva) ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali della rete e della nuova organizzazione del lavoro. Reddito intero per far saltare i dispositivi del biopotere e della sua governance.

15 settembre in Portogallo: dichiarare vittoria?

da www.uninomade.org

di PASSA PALAVRA

Il contesto

Il 7 settembre, il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho tiene un discorso in diretta rivolto a tutto il paese, prima di una partita della nazionale di calcio. Durante il suo intervento, il primo ministro annuncia l’aumento del 7% del valore della tassa  sociale unica (TSU), che deve essere pagata dai lavoratori del settore privato, e la diminuzione del 5% della somma imposta alle imprese. Una misura che si va ad aggiungere al vasto pacchetto di austerità che si sta accumulando a partire dal primo intervento della Troika (FMI, Banca Centrale Europea, Commissione Europea) nel 2010.

Già al tempo del governo socialista (PS) l’applicazione della ricetta di austerità era stata caratterizzata dal congelamento delle entrate e degli avanzamenti di carriera negli uffici pubblici, dall’aumento delle imposte sui consumi, dai tagli agli stipendi dei funzionari pubblici superiori a 1 500 euro, dal congelamento delle pensioni e dall’aumento dei ticket negli ospedali.

A metà del 2011, di fronte ai costanti “avvisi alla navigazione” provenienti da autorità economico-finanziarie (dalla Troika alle agenzie di rating), la nuova coalizione governativa (Partito Socialdemocratico e Partito Popolare) rompe la promessa elettorale di non aumentare le imposte approvando un’imposta straordinaria sui rendimenti equivalente al 50% della tredicesima. Giorni dopo, è annunciato il taglio della tredicesima per i dipendenti statali. Parallelamente, si verificano aumenti dei prezzi dei trasporti pubblici nell’ordine del 15%, e si assiste all’aumento di gas ed elettricità.

Nel pieno di questa ondata di misure, il governo modifica le leggi sul lavoro facilitando i licenziamenti, in parte ampliando il principio di “non adattabilità” del lavoratore al suo posto di lavoro [condizione che si verifica quando il lavoratore non si adatta a cambiamenti introdotti nell’ambiente di lavoro Ndt], in parte diminuendo gli indennizzi per il licenziamento senza giusta causa. Questa ricetta, tuttavia, non ha dato risultati. Il fatto che l’austerità costituisca un paradigma di governo economico transnazionale ha fatto sì che la speranza nell’aumento delle esportazioni si fondasse soltanto su di essa. La crescita esponenziale dei prezzi e degli indici di disoccupazione ha finito per portare alla riduzione del potere d’acquisto, al fallimento delle piccole attività commerciali e, di conseguenza, a un aggravamento della disoccupazione. Un meccanismo che non accenna a fermarsi e che non ha risparmiato quella che, in teoria, dovrebbe essere la “pupilla” dei partiti di centro: la famigerata “classe media”.

Il caso portoghese rivela la natura ideologica del termine “classe media”. Il debole tessuto produttivo nazionale ha basato il proprio vantaggio competitivo sul prezzo e non sul prodotto, ottenendo lucri facili a partire da salari bassi e dai più svariati “contorsionismi” fiscali. L’iniezione di fondi strutturali a partire dal 1986, anno in cui il Portogallo entra nella Comunità Economica Europea (CEE), ha fatto sì, tuttavia, che un’importante fetta della popolazione portoghese si ritrovasse con case di proprietà, automobili e ferie una volta all’anno. Un insieme di benefit che hanno simboleggiato l’ascesa verso un nuovo status sociale.

Al contempo, e nonostante gli aiuti finanziari, le strutture produttive non hanno messo in questione i propri presupposti di funzionamento e le proprie aree di attività. Per loro la modernizzazione ha significato soltanto adottare nuove modalità contrattuali, più “flessibili”, continuando a scommettere sul fattore prezzo.

La fine del sogno della “classe media” iniziò precisamente alla fine degli anni 90, quando questa scoprì che gli investimenti fatti sui propri figli non avevano portato ai risultati sperati. Per quanto il Portogallo sia ancora distante dai livelli dell’Europa più “evoluta”, e seppur continui ad avere una percentuale di abbandono scolastico assai elevata, il paese ha assistito negli ultimi anni alla massificazione dell’insegnamento secondario superiore. Tuttavia, una volta usciti da scuola e dall’università, i giovani qualificati hanno trovato, nella migliore delle ipotesi, un lavoro precario in centri commerciali o in call-center, impieghi che vengono presentati come “un’alternativa migliore della disoccupazione”. La “classe media” si è così confrontata con la sua sterilità. Una frustrazione che, insieme al costante aumento dei prezzi, all’invenzione di nuove imposte, ai crediti da pagare e infine, alla perdita dell’impiego, l’ha costretta a fare i conti con la propria fragilità.

La manifestazione

L’annuncio dell’aumento della TSU ha suscitato fortissime critiche, anche da destra. Partendo da esponenti di punta del PSD, come Manuela Ferreira Leite, fino ad arrivare a presidenti di gruppi economici, come Belmiro de Azevedo, l’opposizione a questa misura è stata generalizzata, viste le conseguenze restrittive su un potere d’acquisto già di per sé indebolito. La manifestazione “Basta Troika! Vogliamo le Nostre Vite” ha finito quindi per assumere dimensioni fuori dal comune. Partendo da un discorso più ambizioso rispetto ai precedenti, la manifestazione ha preso le mosse da un gruppo di singoli firmatari, quasi tutti figure pubbliche di sinistra o leader di piccole organizzazioni. Svoltasi in concomitanza con le manifestazioni in Spagna, l’iniziativa si è diffusa in 40 città portoghesi e in alcuni consolati portoghesi all’estero, dando vita alla manifestazione forse più grande degli ultimi decenni. A Lisbona, centinaia di migliaia di persone sono partite da Praça José Fontana in direzione di Praça de Espanha, un percorso che voleva esprimere solidarietà alle manifestazioni in corso nel paese vicino. Circa due ore dopo, in Avenida da Repùblica, si sono verificati i primi momenti di tensione, durante i quali frutti, petardi e bottiglie sono stati lanciati contro la sede di rappresentanza della Troika. Una persona è stata fermata da alcuni poliziotti in borghese. Arrivate alla fine del percorso, migliaia di persone, soprattutto i più giovani, hanno deciso di continuare la manifestazione dirigendosi verso la sede del Parlamento. In poco tempo, la piazza di fronte all’edificio si è rivelata troppo piccola per quella moltitudine che, per più di un’ora, ha continuato ad aumentare. É qui che si sono registrati i momenti di maggiore scontro tra manifestanti e forze di polizia. Per circa due ore bottiglie, pietre e frutta sono state lanciate a mano a mano che la polizia aumentava i propri uomini sulla scalinata. La polizia, a sua volta, ha organizzato alcune piccole azioni, fermando, alla fine, quattro persone.

Il modo di agire della polizia è stato, tra l’altro, una delle novità di questa manifestazione. Al contrario di quanto avvenuto durante lo sciopero generale del 22 marzo, le forze di polizia hanno agito in modo più strategico: pur non abbandonando le dimostrazioni di forza, le loro azioni si sono rivelate tuttavia meno concentrate sulla violenza sproporzionata e piuttosto sull’identificazione delle minacce e sul ricorso ad agenti in borghese per procedere con i fermi.

E adesso?

Di fronte alla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, è facile cantare vittoria. Da spettatori passivi, i portoghesi si sono evoluti improvvisamente in grandi attori. Il ricorso all’essenzialismo, per convinzione o per scopi strategici, ci sembra tuttavia poco fruttuoso, dato il suo carattere astorico e dunque non strategico.

Una manifestazione che riesce a riempire le strade di svariate città del paese, dimostrando, a tratti, di potersi radicalizzare (a Porto alcune vetrine di banche e di società assicurative sono state danneggiate, ad Aveiro un giovane di 28 anni si è dato fuoco, riportando varie ustioni), costituirà sempre un dato importante. Tuttavia, esistono problemi strutturali difficilmente risolvibili in un solo giorno. In primo luogo, come si è potuto forse evincere da quanto detto fin qui, la manifestazione ha rivelato una mancanza di orizzonte politico. Una gran parte dei cartelloni e degli striscioni esposti dai manifestanti continua a essere riempita con sfoghi o con semplici negazioni: da “Sono stufo..” a “Basta” passando da “No a…”. Questi slogan segnalano l’inesistenza di un minimo progetto politico, senza il quale qualsiasi critica ai partiti politici e ai sindacati, per quanto precisa, corre il rischio di assumere una posizione meramente difensiva, facilmente manipolabile dai populismi e/o dai poteri carismatici. In secondo luogo, non solo Grandola Vila Morena (inno della rivoluzione dei Garofani) è stata meno cantata di A Portuguesa (inno nazionale), ma la bandiera nazionale è stata di gran lunga il simbolo più visto in tutta la manifestazione. Da questo punto di vista, sembra che venga dato più peso al fatto che le politiche di austerità risultino da un processo di ingerenza esterna, il cui scopo sarebbe la diminuzione del debito pubblico, piuttosto che all’aspetto internazionale di tale processo (realizzato con lo stesso tipo di diagnosi e di intervento in altri paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda).

Il 15 di settembre è stata, certamente, la prova che nessuno sta con le mani in mano. E tuttavia dimostra al contempo quanto lungo e tortuoso sarà il cammino da percorrere.

* Pubblicato su http://www.passapalavra.info Traduzione dal portoghese di Silvia Genovese.

Senza margini. Appunti per l’autunno

di SANDRO MEZZADRA e FEDERICO RAHOLA

Attorno alla Spagna, in queste settimane, stiamo assistendo al dispiegarsi di un nuovo capitolo del tentativo di costruire, con immane violenza, una nuova costituzione materiale dell’Unione Europea. All’ortodossia ordoliberale di stampo tedesco si associa una perentoria gerarchizzazione degli spazi, immaginata come al solito con poca fantasia: i margini dell’Europa sono la linea del fronte, e dal presunto centro si irradiano le linee guida di una terapia shock che punta a determinare una vera e propria trasformazione “antropologica”, secondo retoriche che ormai si incontrano negli stessi organi di stampa “liberal” dell’Europa settentrionale. Il neo-liberalismo mostra oggi interamente – a partire dalla generalizzazione del debito come principale dispositivo di governo – il suo fondo autoritario, punitivo e lavorista: ogni interstizio della vita va messo al lavoro, in un vero e proprio paradossale revival della teoria del valore-lavoro (si aumenta l’età pensionabile, si aboliscono le festività, si punta a far entrare prima possibile i giovani nel mercato del lavoro). Ma di quale lavoro stiamo parlando? Le statistiche sulla disoccupazione, in particolare giovanile, raggiungono soglie fino a poco tempo fa impensabili, le politiche di austerity hanno un effetto moltiplicatore sulla depressione economica, e ormai nessuno crede più davvero alla favola continuamente procrastinata di una ripresa di là da venire.

Davvero, come ha affermato in questi giorni Mario Draghi, l’euro è “irreversibile”? Il fatto stesso che sia il governatore della Banca centrale europea a dichiararlo suona sospetto. L’impressione è che di irreversibile ci siano solo il carattere generale e pervasivo della crisi e l’incapacità delle politiche messe in campo a prefigurare una effettiva via d’uscita. Queste politiche stravolgono la costituzione materiale dell’Unione Europea (e dei singoli Paesi membri), generalizzano povertà, precarietà e sofferenza sociale, seminano terrore, ma lasciano intravedere all’orizzonte soltanto una prosecuzione della crisi in funzione della sua gestione. La stessa alternativa tra neo-liberali e neo-keynesiani, su cui indulge molta stampa, appare da questo punto di vista a dir poco fuorviante, considerata la genericità e l’assenza di esemplificazioni politiche delle posizioni che si riconducono al polo neo-keynesiano. La situazione europea, mentre non va dimenticato che la dinamica della crisi si approfondisce a livello globale (con il “rallentamento” di essenziali poli di sviluppo, dagli USA al Brasile alla Cina), presenta oggi caratteri paradossali, di blocco: le stesse geografie che vengono immaginate e imposte, con la ricostituzione di situazioni “periferiche” in Paesi come la Spagna e l’Italia, non sembrano avere alcuna possibilità di funzionare, nella misura in cui l’attacco ai consumi finisce per essere una minaccia per gli stesse Paesi che si pretendono “centrali”. Se la crisi non ha margini, non si capisce quali dovrebbero essere i nuovi “margini”: all’orizzonte si profila così una propagazione della stessa crisi all’interno del presunto “centro” dell’Unione Europea.

Crediamo che su questo punto si debba essere assolutamente chiari: la cura imposta non fa che riprodurre la malattia. La linearità catastrofica della crisi e della sua gestione non può quindi che essere interrotta dalla generalizzazione di un movimento di rifiuto e di rivolta, che coinvolga l’insieme delle figure sociali che ne stanno subendo la violenza. Tanto il febbraio greco quanto il luglio spagnolo hanno prefigurato questa generalizzazione, che si è innestata in entrambi i casi su una temporalità di medio periodo delle lotte dentro e contro la crisi che – pur con caratteristiche diverse (anni di sollevazione permanente in Grecia, le acampadas in Spagna) – avevano materialmente costruito un terreno nuovo. Altrove (in Italia, ma anche ad esempio in Portogallo e in Irlanda) le forme di resistenza si sono dispiegate in una dinamica maggiormente frammentata, con difficoltà a determinare momenti realmente ricompositivi. Superare questa frammentazione non può che essere il primo obiettivo per i prossimi mesi, attorno a cui costruire la più ampia convergenza di forze. E’ sull’assunzione della priorità di quest’obiettivo, solo in apparenza scontata, che andranno anzi verificati i comportamenti di tutti coloro che si pongono oggi in una prospettiva di costruzione di una radicale alternativa all’esistente. Alcuni elementi essenziali di programma politico – dalla costruzione di nuovi elementi di welfare attorno alle forme date della cooperazione sociale alla combinazione della lotta sul salario e sul reddito, dalla centralità dell’autogoverno dei commons alla lotta contro le privatizzazioni – sono ormai dati. Per approfondirli e per renderli immediatamente praticabili è necessario tuttavia aprire un nuovo spazio politico, e questo è possibile solo attraverso la generalizzazione del movimento di rifiuto e di rivolta di cui dicevamo. A noi pare che si possa da subito cominciare a lavorare a un progetto articolato su tre dimensioni, distinte analiticamente ma da gestire in modo combinato.

In primo luogo, si tratta di approfondire un movimento in senso proprio destituente, puntando ad affermare il dato dell’ingovernabilità dei margini, e cioè delle società europee maggiormente colpite dalla crisi, dell’impossibilità di determinare un’uscita neo-liberale da una crisi che è anche crisi del neoliberalismo. L’obiettivo delle mobilitazioni deve diventare immediatamente la caduta dei governi dell’austerity, entro un processo di combinazione e aggancio tra le mobilitazioni che continueranno a determinarsi in Paesi come la Spagna e la Grecia e di quelle che non possono non aprirsi in un Paese come l’Italia. I punti d’attacco di queste mobilitazioni possono essere i più diversi: indubbiamente le esperienze di lotta più significative degli ultimi anni in Italia (dalle mobilitazioni dei precari della cultura e dello spettacolo al movimento NOTAV) potranno giocare un ruolo importante, così come la riapertura di un fronte di lotta nella scuola e nell’università potrà funzionare da elemento moltiplicatore della mobilitazione. L’attacco generalizzato al pubblico impiego, del resto, determinerà movimenti di lotta che dovremo essere in grado di far uscire immediatamente da un terreno di mera resistenza (più o meno corporativa), ponendo il problema più generale di attribuire un nuovo significato comune alla istituzionalità complessivamente considerata. Ma il problema fondamentale, su questa prima dimensione, rimane quello di indirizzare complessivamente la mobilitazione verso l’obiettivo dell’ingovernabilità, ovvero di quella soluzione di continuità senza la quale non è possibile aprire un ragionamento e sperimentazioni pratiche su una diversa uscita dalla crisi.

In secondo luogo, si tratta di cominciare a costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova “mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi. L’esperienza argentina del 2001-2002 (le assemblee di quartiere, la sperimentazione della gestione diretta di servizi sociali, la generalizzazione dello scambio non monetario) continua a offrire esemplificazioni profondamente suggestive in questo senso, ma esperienze significative si sono diffuse anche in Spagna e in Grecia. Al di là dell’impatto immediato di queste pratiche nel fronteggiamento della crisi, non va sottovalutato l’effetto di medio periodo che possono avere, sotto il profilo della materiale costruzione di una nuova solidarietà, capace di sostenere processi di ricomposizione tra figure sociale diverse. Da questo punto di vista, ci sembra che un ruolo essenziale, in Italia, possa e debba essere giocato da due dei movimenti più importanti di questi anni: quello dei migranti e quello delle donne, o meglio più in generale sulle questioni della sessualità. Si tratta di movimenti che hanno profondamente inciso sul terreno della “vita quotidiana”, che hanno accumulato formidabili esperienze nell’affrontamento appunto quotidiano di razzismo e sessismo, e che hanno la potenzialità di garantire quell’apertura delle sperimentazioni attorno al tema dell’autogoverno che costituisce un elemento essenziale nel momento in cui riprendono terreno retoriche e pratiche di chiusura populistica, nazionalistica e xenofoba.

In terzo luogo (ma, lo ripetiamo: da subito), si tratta di associare a questo elemento di apertura che possiamo definire “intensiva” (rivolto cioè verso l’interno del tessuto sociale) un elemento di apertura “estensiva”. Già abbiamo detto che soltanto la concatenazione e l’aggancio tra le mobilitazioni in diversi Paesi europei, partendo da quelli più direttamente colpiti dalla crisi ma allargandosi ad altri, può determinare la soluzione di continuità oggi necessaria. Ma al tempo stesso, nel momento in cui ci si pone l’obiettivo immediato di far saltare l’architettura dell’Unione Europea così come si è andata radicalmente ristrutturando dentro la crisi, non si può che insistere sul fatto che non vi sono oggi soluzioni costruite attorno al “ritorno” alla sovranità nazionale. E’ dunque di vitale importanza moltiplicare immediatamente momenti di confronto e iniziativa politica a livello transnazionale (anche in questo caso: partendo dai Paesi più colpiti dalla crisi) per rendere praticabile l’obiettivo della riconquista di uno spazio europeo liberato dallo spettro del debito e dai dispositivi di comando che attorno al debito si sono organizzati rendendo intollerabili le nostre vite.

da www.uninomade.org