Alcune questioni sullo stato dei movimenti di Toni Negri

da www.uninomade.org

Alcuni compagni americani ed europei mi chiedono: ma perché in Italia non c’è stata Occupy? Perché l’unica espressione della moltitudine in lotta rimane attualmente il movimento della Val di Susa? Con un paradosso evidente: i no TAV, se hanno certamente radicamento forte, se esprimono una tonalità originale di lotta di classe nella post-modernità, non possiedono le caratteristiche dei movimenti Occupy – un’espansività generale della proposta sociale, una potenza destituente delle vecchie gerarchie  della rappresentanza – e soprattutto non possiedono ancora realmente una dinamica allargata di costituzione politica “comune” che apra a radicali rivolgimenti politici…

 

Ora il paradosso è anche un altro. Perché porsi questa domanda proprio quando  la dinamica di Occupy sembra già esaurita? Più generalmente: quando le primavere arabe sono in buona parte terminate sotto il tallone dei militari, nella tragedia della guerra civile o, dulcis in fundo, hanno prodotto regimi islamici che sembrano annunciare restringimenti di libertà e di pratiche politiche appena riscoperte, restaurazioni del vecchio sotto gli orpelli, semmai più tremendi di quelli delle vecchie dittature, del teologico-politico? Quando i movimenti europei sono stati soffocati dalla mefitica atmosfera della crisi economica, e quelli americani sono li lì dall’essere assorbiti dalle macchine politiche che dominano ormai interamente le scadenze elettorali?

 

Ma forse la realtà può essere letta altrimenti. Il movimento Occupy, laddove è insorto, quand’anche fosse stato sconfitto, ha rinnovato l’orizzonte dell’azione politica, sconvolgendo il fondamento dei programmi costituzionali e imponendo una nuova immagine della democrazia, affermando il “comune” al centro – nel cuore, e all’orizzonte – di ogni progetto sociale. Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi: ha segnato un passaggio senza reversibilità alcuna; ha, fin dentro la sua sconfitta, spalancato un insieme di possibili che ridefinisce d’ora in poi il mondo che verrà. In questo senso, ha vinto: ha costituito nuova grammatica politica del comune. Da Occupy non si torna in dietro.

 

Torniamo allora al punto. Perché dunque in Italia non c’è stata Occupy? La questione è irrilevante dal punto di vista della tendenza; è invece importante se vogliamo capire localmente l’agenda politica che avremo da gestire nei prossimi mesi – un’agenda i cui effetti immediati, concreti, biopolitici, riscontrabili nella materialità delle esistenze, dei modi di vita, dei sogni e delle disperazioni, non possono – non debbono – essere ignorati.

In Italia, probabilmente, non c’è stata Occupy perché, in buona parte, i movimenti italiani non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco: questa loro continuità, ed il peso della loro tradizione, soffoca il nuovo regime dei desideri, delle aspirazioni, delle sperimentazioni – insomma di quello che abbiamo chiamato le nuove potenze costituenti del comune – che pure le nuove generazioni portano con se quando si aprono al politico. Quella continuità ha fatto dell’Italia un paese in cui la politica dei movimenti, nonostante le repressioni feroci, è sopravvissuta a se stessa e ha permesso la trasmissione di esperienze e saperi delle lotte essenziali; ma allo stesso tempo, ha paradossalmente impedito che nuove sperimentazioni si facessero strada. Il patrimonio delle lotte, cosi prezioso, non può diventare patrimoniale: se cede alla tentazione, diventa a sua volta ciò di cui tanto aveva sofferto in altri tempi: istanza di occultamento, obbligo di silenzio, volontà di cecità.

 

Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali.

Ora, però, nelle fabbriche sono spesso schiacciati da una improvvida alleanza che essi stessi hanno tentato con l’organizzazione socialista del mondo del lavoro. Solo raramente l’ideologia della produttività è stata assunta nelle fabbriche come il nemico da combattere; quando lo è stata, ce ne siamo scordati. La trasformazione del lavoro a cavallo fra XX e XXI secolo non è stata riflettuta per quello che effettivamente è (e che i movimenti, precisamente, trent’anni fa, hanno contribuito a rendere evidente): una trasformazione radicale – dall’operaio massa all’operaio sociale; dal lavoro materiale al lavoro “immateriale”, linguistico, cooperativo, affettivo; fino all’egemonia del lavoratore cognitivo. Sindacati socialisti e sindacatini fabbrichisti hanno troppo spesso continuato a considerare il lavoro “bene comune”, cioè niente di più – e niente di meno – che la “giusta misura” dello sfruttamento capitalista.

 

Nelle scuole e nelle università, poi, l’autonomia dei movimenti, anche quando ha contestato il “merito” – e troppo poche volte lo ha fatto in maniera realmente efficace e schietta  –  non è quasi mai riuscita a incarnare, materializzare e organizzare una vera domanda di libertà dei saperi. Raramente ha provato a costruire lotte attorno allo studio, alla formazione, alla qualificazione in quanto programmi di costruzione politica del comune. E spesso si è arenata nella strenua difesa di un “pubblico” ormai incapace di proteggere le scuole e l’università contro il loro smantellamento, e diventato strumento principe della messa al lavoro della produzione sociale. Il riformismo non è mai cosa bella – in alcuni casi, facendosi coraggio, lo si capisce quando, disperatamente, cerca di salvare il salvabile; ma lo si odia quando si fa complice delle politiche del peggio: assoggettamento, declassamento, disciplinarizzazione, sfruttamento, disprezzo – il tutto per salvare uno Stato che sembra poco preoccupato di salvare i suoi “cittadini”.

 

Quanto al modello dei centri sociali, che è stato fondamentale – in particolare nella fase post-repressione che ha caratterizzato il difficile guado dala fine degli anni ’70 ai primi anni dei ’90, ha troppo spesso perso ogni prospettiva politica che non fosse subordinata all’interesse della propria riproduzione, della propria sopravvivenza. I centri sociali sono stati, per la maggiore, luoghi, strumenti, prodotti di una stagione di lotte continuata con altri mezzi nonostante la sconfitta degli anni ’70; ma sono diventati, in tanti casi, il fine di se stessi – l’unico orizzonte di una realtà ormai ridotta al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo. Molti si sono dunque piegati alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica. Hanno smarrito ogni capacità di azione e non a caso stanno spesso, negli ultimi anni, ripiegando su linee istituzionali a livello locale e/o nazionale. Certo, localmente, l’analisi può sembrare ingiusta. In molti casi, lo è. Ma la domanda va posta lo stesso: siamo sicuri che il modello “slow food” sia davvero adeguato alle scommesse e alle sfide davanti alle quali la crisi ci mette? O che l’imprenditorialità “buona” basti a dimenticare il gioco al massacro che si sta svolgendo subito fuori dalle mura, nelle nostre vite?

 

Insomma: tre luoghi “storici” dell’autonomia sociale, che hanno reso possibile la resistenza e l’organizzazione, la sperimentazione di pratiche, l’invenzione di altri modi d’azione; ma tre luoghi che, proprio perché “storici”, sembrano oggi sempre più inadeguati. Tre luoghi che troppo frequentemente sembrano pezzi di modernariato della nostra memoria, ricchezze patrimoniali un po’ imbalsamate: foglie di fico ben leggere davanti all’incedere della realtà. Tre luoghi che sono diventati tre “beni comuni” come sempre lo sono stati nelle parrocchie, il lavoro, lo studio e il patronato – laddove bene comune significa solo bene vicino, locale, bene di condivisione, bene da condividere in famiglia. Il comune, se non è il prodotto di una dinamica costituente, si riduce a ciò: una serie di commons sicuri di suscitare consenso popolare – come non essere d’accordo con la difesa della natura, il buon vivere, la genuinità, il buon gusto -, e spesso immediatamente travisati da discorsi di elogio dell’Ancien Régime: quanto si stava bene prima – prima dell’Europa, prima delle macchine, prima della tecnica, prima della modernità, prima della globalizzazione, prima dell’operaio sociale, prima del consumo di massa. Evviva: torniamo a Peppone e don Camillo, alla dignità del lavoro operaio, all’Italia che vive di poco e lavora tanto, alle balere. Per carità, lasciamo alla Chiesa e alla Lega, o a quel che rimane del vecchio PCI che non finisce di sopravvivere alla propria morte, quella assurda e mortifera nostalgia.

 

Non contenti di questo, molti movimenti sociali si sono infilati in una strada contorta e buia, accettando i ricatti loro posti sulla questione della “violenza”, sulla valutazione della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni, sono stati colpiti di accecamento davanti alla corruzione che le infestava. Che ci volesse l’ultima sentenza su Genova per capire da quale parte stava la violenza? E quale giochetto infame avevano fatto e continuavano a fare tutti coloro che, di fronte ad un movimento in crescita (che andava di pari passo con crescita del disagio, della disperazione e della rabbia di tutti quelli che oggi, letteralmente, non ce la fanno più) ricattavano ad ogni motto “riottoso” – “violenza si, violenza no”?

Molti, nei centri sociali, hanno cercato alleanze politiche dentro un quadro parlamentare che andava disfacendosi ed hanno stretto alleanze sindacali che hanno avuto l’effetto opposto a quello che era realmente desiderato: hanno spinto i sindacati ancor più verso posizioni corporative, negando ogni tematica di reddito sociale o di alleanza con altri strati precari. In certi casi, hanno perfino considerato le rivolte arabe, i riots inglesi, e alcune forme di auto-organizzazione come passaggi negativi, come regressioni politiche, come pure “spontaneità” infra- o impolitiche.  Siamo sicuri che provare a capire prima di giudicare non ne valeva la pena? O si era talmente ossessionati dalla propria sopravvivenza che tutto il resto diventava secondario?

Fino agli ultimi  capovolgimenti in data: sentiamo tanti, oggi, piagnucolare sul fatto di non aver ragionato abbastanza sul ricatto “a proposito di violenza” che hanno subito; si lamentano del fatto  che la loro presunta internità alle dinamiche sociali non è riuscita a trasformarsi in una estraneità attenta e critica agli sgambetti ed alle inerzie continuamente subite – sicché ora si chiedono se doversi richiamare niente di meno che all’“illegalità di massa”…. Ci sembra solo un lamento, come l’altro che abbiamo inteso in questi mesi, e che ci lascia – anche questo – a non dir poco esterrefatti: Dio è violent!

 

Per chi ha vissuto tutto questo dall’interno dei movimenti, questa fase assomiglia molto a quella che seguì il disfacimento dei gruppi sessantotteschi nei primi anni ’70. Come per i centri sociali provenienti dal movimento no global, anche allora, nel 1973-74, i partitini sopravvivevano a se stessi. Alcuni, presentatisi alle elezioni, erano stati spazzati via, altri si erano barricati attorno a giornali ed iniziative sparse. Il mondo, quello delle lotte operaie e delle lotte sociali, andava ormai avanti senza di loro. Fu così che, a partire dal ‘73-‘74 l’autonomia emerse e mostrò improvvisamente la sua enorme forza di resistenza e di proposta (di resistenza: vale a dire di proposta) – almeno fino al ’77. Poi, ancora, sopravvisse come etica e come modello organizzativo alla sconfitta dei movimenti, e torniamo all’inizio della nostra analisi.

 

Oggi si tratta di rinnovare quel modello. I suo limiti di allora – troppa spontaneità dei singoli, troppa violenza di massa – sembrano già superati dalle attuali caratteristiche della composizione dei nuovi movimenti – spazialmente diffusi, culturalmente convergenti (non a caso è sul terreno dei lavoratori della cultura che in Italia c’è stato, da ultimo, qualche positivo fracasso), politicamente rivolti alla costituzione del “comune”. Questo è quello che vogliamo chiamare Occupy.

 

C’è bisogno di un nuovo protagonismo. Proponendo l’autonomia diffusa dei movimenti, sappiamo che la ricerca di nuovi obiettivi e la sperimentazione unitaria di nuove lotte sono il primo passaggio da realizzare. Lo “sciopero dei precari”, il “reddito di cittadinanza”, la riapertura urgente di forti lotte operaie sul salario, la pratica di risposte efficaci all’offensiva del capitalismo finanziario sul debito, la difesa sociale del Welfare ecc.: questi i passaggi principali sui quali la conricerca e la proposta di lotte unitarie debbono provarsi. Organizzare i poveri e gli operai insieme, non semplicemente per il salario ma per il Welfare; organizzare gli studenti e gli indebitati di tutte le categorie, non semplicemente per misure di sostegno ma per il reddito universale di cittadinanza; organizzare i migranti insieme ai pensionati perché non è solo la cittadinanza che interessa i primi  e la garanzia di diritti ormai maturati i secondi, ma l’organizzazione biopolitica dell’esistenza tutt’intera.

 

L’autonomia dei movimenti deve riportare le sue lotte verso un obiettivo politico di composizione. Ed esso non può consistere se non nell’espressione di un potere costituente che rinnovi radicalmente l’organizzazione della vita nel lavoro e nella società.

 

Toni Negri

 

19 luglio 2012

 

 

La valle e il nostro tempo. Autonomi in Val Susa

Il 27 giugno, quando la polizia ha attaccato la Libera Repubblica della Maddalena, ero a Manhattan, dove abitavo da qualche tempo. Ho ascoltato la diretta dello sgombero in streaming, in una casa di Chinatown. Pochi giorni dopo ho preso un aereo e sono tornato in Italia, in quello che oggi è il Kiomontistan, territorio impervio per i difensori del neoliberismo in crisi, gli stessi che fanno i conti con Occupy Wall Street. Passare dai grattacieli al fogliame e alle fronde mi ha fatto davvero l’effetto di essere un soldato partito per il Vietnam, anche perché ho condiviso con i miei compagni ogni minuto della lotta nel nuovo scenario dell’occupazione militare: dalle ferite riportate sul campo agli arresti, dagli assedi al non-cantiere alla caduta di Luca, fino alla rabbia che ne è seguita. Essere No Tav è, per me, uno dei mille modi di essere ciò che sono: ho sempre vissuto tra le persone, nei luoghi più diversi, con il sogno di distruggere il mondo che ho ricevuto in eredità; ed è da loro, dai miei compagni, che ho imparato che un sogno simile, per divenire realtà, deve sapersi calare in ogni situazione e in ogni luogo in modo nuovo, misurando il peso delle scelte sulla bilancia dell’efficacia.

La polizia, i giornalisti, i leader di partito si interrogano su chi siamo noi, gli autonomi della Val di Susa, con differenti livelli di stupidità. Il nostro identikit sociale è semplice: precari, studenti-lavoratori, disoccupati ad intermittenza. Non versiamo contributi, non abbiamo né avremo tutele. Salariati in nero o in forma atipica nella ristorazione, nell’informatica, nella comunicazione, nell’industria della conoscenza, ci consideriamo i prototipi più azzeccati della nostra generazione e, al tempo stesso, i suoi nemici mortali; non per la presunzione di voler essere meglio del nostro tempo, ma per essere il nostro tempo al meglio: combattiamo, a nostro modo, la passività congenita a ogni classe oppressa. Siamo tanti, organizzati. Tra la nebbia dei lacrimogeni sappiamo orientarci giorno e notte, nei boschi o sulle autostrade, in inverno o in estate, con il sole o con la pioggia. Quando l’assemblea decide il grande corteo popolare, contribuiamo alla sua riuscita; quando decide di arrivare alle reti, non ci spendiamo con minor sacrificio. Imprevedibilità e flessibilità ci caratterizzano, nel tentativo di conciliare la morale irreprensibile del rifiuto con il pragmatismo della sua declinazione diretta. Allergici alla retorica e ad ogni fanatismo, siamo lontani dall’individualismo ipocrita del liberalismo quanto da quello scolastico dell’anarchismo. È l’interesse comune, quello che si definisce in autonomia dalle istituzioni e dalle dinamiche di sfruttamento, il cavallo di Troia che abbiamo nascosto nel futuro.

Partito di massa e di opinione convivono, in essenza, nella nostra forma di organizzazione agile, figlia della critica della forma-partito come tale. Radicamento sociale e strategia mediatica si uniscono in un abbraccio scandaloso, nell’equilibrio millimetrico che sappiamo di dover trovare per non cedere spazi di linguaggio e di immaginario al nostro nemico. Il tutto con un unico, ossessivo obiettivo: valorizzare e organizzare il conflitto sociale, aggregare nuove ragazze e nuovi ragazzi, riprodurre ed estendere l’insubordinazione, allargare la critica. Perché? Perché il futuro, se vuole essere diverso dal presente, deve costituirsi sul nuovo. Senza l’autonomia sociale, politica e culturale dal potere non si vince, dura legge della storia, spietata con chi non la impara. Siamo militanti politici, una forma di essere umano sempre e necessariamente in guerra, anzitutto in tempo di pace, ma non abbiamo forze armate né piani militari; semmai, attraversiamo in modo conflittuale una miriade di piani sociali, tra metropoli e montagna. Incarcerati, ci mettono in isolamento; seguiti e pedinati, ci danno il foglio di via; allergici alle carriere e alle divise, ci muoviamo come volontari agli antipodi del volontariato.

Abbiamo fondato il primo comitato popolare contro l’Alta Velocità dodici anni fa e, da allora, nella corsa del movimento a diventare sempre più grande, non ci siamo mai fermati. I governi vanno e vengono, noi siamo sempre qui, per vincere. Qualcuno si meraviglia di come siamo visibili e irriconoscibili a un tempo; ma è normale per chi, come noi, si compiace di tentare la declinazione post-postmoderna del bolscevismo più originario. Allora dicono che siamo “nascosti” dentro il movimento, ma è l’esatto opposto: scriviamo sui siti e compariamo in televisione; venite a trovarci nelle assemblee, nelle feste popolari, nelle conferenze stampa. Non siamo una corrente interna, ma soggetti votati al potenziamento dell’insieme, del tutto; l’autonomia non è una fazione, è una necessità. Tra i fuochi delle barricate ci muoviamo senza ideologia. Quando i Cattolici per la Valle hanno voluto costruire una statua di Padre Pio accanto al nuovo presidio, dopo che la polizia ha loro sottratto il pilone votivo alla Madonna, non abbiamo obiettato: sappiamo quanto la fede può essere importante per una resistenza. Persino quando i leghisti venivano alle assemblee, anni fa, non li abbiamo cacciati; era chiaro fin da allora che avrebbero abbandonato in massa il loro partito.

E se una valligiana mi parla di energia della terra, di magia dei luoghi e dello spirito che abita le montagne, io – scettico per indole, materialista per vocazione – la ascolto pieno di fascino. Imparo da tutto e da tutti, in questo scenario folle e bellissimo, dove paganesimo e cristianesimo si incrociano con l’identità occitana e montana, mentre ragazzi di stadio della cintura torinese incrociano i destini dei pensionati di montagna e dei reduci della guerra, che a loro volta ascoltano rapiti le storie delle studentesse emigrate a Torino dalla Sicilia e dal Salento. Il potere organizza la tutela disciplinata e astratta delle differenze, noi ne coltiviamo il potenziale reale. Le vediamo crescere e rafforzarsi contro l’uniformazione coatta prodotta da un potere decrepito, lo stesso che ho visto all’opera nei quartieri di New York. Mi è costato abbandonare l’America, ma la valle è legata alla mia vita non meno della Grande Mela, e allora soffoco la nostalgia della giungla d’asfalto ammirando i colori della foresta reale, la poesia dei ciglioni dopo la nevicata, o respirando l’aria inconfondibile di cui vivono – e dovranno continuare a vivere – i nostri castagneti.

Pubblicato su “Alphabeta2”, 6 giugno 2012

da quieteotempesta.blogspot.it

La storia insegna, ma non ha alunni

Contributo da Villa Roth occupata di Bari

Noi, la rabbia, le lacrime e gli Altri
 
 
Abbiamo preferito tacere per qualche ora. Non volevamo scrivere un’ulteriore inutile lettera di sgomento, tristezza o vicinanza per la morte di una ragazza innocente. Né volevamo lanciare slogan o proclami più o meno ideologici sulla vicenda di Brindisi. Per noi Melissa rimarrà per sempre ragazza, e la rabbia per i suoi occhi strappati via alla vita non è esplosa in grida o giudizi dissennati. Non abbiamo voluto farlo per il rispetto del dolore, di quella soglia oltre la quale non vogliamo andare per “restare umani” (che è un imperativo difficilissimo da mantenere nell’Italia di oggi). Purtroppo Altri non hanno taciuto, Altri si sono avventati come sciacalli furibondi sui corpi delle vittime o nel fumo delle bombe di Brindisi. Lo hanno fatto lanciando proclami, costruendo parallelismi assurdi, promettendo militarizzazioni, strette poliziesche, invocando addirittura l’uomo forte al comando (quel coprofago di Storace ha dichiarato proprio questo un’ora, solo un’ora dopo, l’esplosione; per ricordare a tutti gli smemorati la passione dei fascisti nostrani per le bombe che esplodono e proprio in quella Brindisi in cui vive in libertà da anni Franco Freda questo dovrebbe essere un segnale politico chiarissimo). Gli Altri per noi sono quelli che, seguendo un copione cinico quanto scontato in questo terribile paese, mentre i genitori, gli amici piangono ancora, si sono chiesti come riuscire a sfruttare a proprio vantaggio quest’episodio folle. E allora l’attentato alla scuola Morvillo – Falcone di Brindisi diventa il pretesto utile per rispolverare il caro vecchio “uniamoci tutti a difendere le istituzioni”, “ci vuole prevenzione”, “l’esercito difenderà i cittadini dalla follia terroristico/mafiosa”. Il che sta a significare che da domani, chiunque scenda in piazza a manifestare contro la crisi, contro la casta politica, contro i suicidi (cfr. le dichiarazioni dello sciacallo Susanna Camusso su Equitalia di ieri), contro i tagli, per i beni comuni, rischierà di disturbare la “vita tranquilla dei cittadini” (citando le dichiarazioni di Bersani a due ore dall’esplosione), rischierà di disturbare il manovratore, rischierà di contribuire al “caos da cui solo lo Stato può difenderci”. Gli Altri insomma, quelli di ieri e quelli di oggi, proveranno a dare giudizi, proveranno a trovare i colpevoli in fretta e furia, oppure a trovarne diversi in modo rocambolesco per intorbidire ulteriormente le acque. Proveranno a utilizzare una strage fatta per uccidere, fatta per spaventare e fatta insomma per lanciare un messaggio. Una strage fatta in un modo che, per analogie storiche e di fase, riporta alla mente la strage di via dei Georgofili di Firenze del ’93, per analogie di obiettivi, ricorda le stragi che vengono compiute per militarizzare la Palestina, Gaza, l’Afghanistan o il Pakistan e, in generale, porta alla mente le tante, troppe stragi di Stato senza colpevole del nostro paese. Quelle stragi di cui tutti sappiamo i nomi dei colpevoli ma “senza le prove né gli indizi”.Immaginiamo gli Altri nei loro studi televisivi a studiare le dinamiche, le anomalie dell’attentato, magari con un bel plastico su una scrivania in ciliegio, qualcuno dirà è stata la mafia, qualcuno dirà “terrorismo politico”, qualcun altro il gesto di un folle o chissà cos’altro e si andrà avanti così come una normale partita di calcio, come un reality show, tutti inquirenti, tutti concordi con una soluzione possibile per accontentare tutte le ipotesi possibili “Stato più forte, polizia, esercito, telecamere, controlli, arresti, intimidazioni”.Gli Altri che fino al giorno prima avevano paura. Avevano paura perché vedevano il consenso sociale delle loro azioni ridursi di giorno in giorno; perché la rabbia degna in Val di Susa o il 14 dicembre o il 15 ottobre o contro le vessazioni di Equitalia o contro un Governo non votato da nessun cittadino e sostenuto da una classe politica corrotta e volgare, diventava ripresa della vita contro i manganelli, contro le prigioni, contro i fili spinati e (ora dobbiamo dirlo) contro le bombe. Perché sospesa la democrazia in nome dell’austerità e delle misure economiche da imporre “costi quel che costi”, la svolta neo-autoritaria diventa la seconda gamba su cui si fonda la nascente Terza Repubblica. E tra crisi infinita e autoritarismo si può rinchiudere la gente nella disperazione, nella propria solitudine, ricacciarla nelle case mentre le strade potranno essere militarizzate e controllate.Non è il nostro ruolo trovare chi ha piazzato a Brindisi la bomba, nostro ruolo è capire a chi può giovare questo atto. Chi ne può trarre vantaggi, chi può specularci sopra, chi può insomma sfruttare al massimo l’indignazione e la rabbia che da un gesto così infame può generarsi.Non abbiamo dubbi a tal proposito. Sono proprio gli Altri che abbiamo nominato prima.Proveranno sulle macerie fumanti insomma a ridurci al silenzio a spaventarci, a terrorizzarci.Il film in Italia è noto come anche il finale.Sta a noi adesso, l’altro nostro ruolo, se siamo stati bravi alunni della Storia, cambiare questo finale. Facendo esattamente quello che và nella direzione uguale e contraria a quella a cui loro, gli “Altri” appunto, vorrebbero spingerci. La piazza di Brindisi di sabato sera è stata importante per questo; una piazza rabbiosa, che ha fischiato tutti i sepolcri imbiancati della politica locale e non e anche le autorità religiose salite sul palco e ha invece applaudito con forza quando dal palco si è detto: “non vogliamo più esercito, non vogliamo più polizia, non vogliamo la militarizzazione delle nostre vite”.Per questo quello che ci consegna quella piazza è quello che dovremmo fare da subito. Dobbiamo riversarci nelle strade, noi, la moltitudine irrappresentabile che tanto spaventa gli “Altri”, dobbiamo riappropriarci degli spazi di discussione, delle piazze, dei luoghi abbandonati, rendere impossibile progettare attentati, rendere impossibile determinare l’esito del conflitto fuori dagli spazi di discussione, dobbiamo definire questi spazi come Comune, dobbiamo finalmente prendere la nostra storia nelle mani, per la prima volta da cinquant’anni a questa parte, senza delegarla a nessun apparato corrotto o assassino, e costruire un’esondazione sociale  ridandoci la possibilità di decidere noi contro la loro austerity, contro la loro crisi, contro la loro polizia, contro le loro bombe.

Lo specchio elettorale infranto e la torsione autoritaria dello Stato…

Ma l’amor mio non muore…

In questi giorni accadono cose che incidono sulla percezione collettiva della fase. Prendere parola è oggi la condizione necessaria per chi vuole continuare a riconoscersi dentro un movimento che non si lasci cucire il vestitino addosso da altri, che siano apparati e servizi dello Stato o nuovi spontaneisti armati.
L’Italia è più che mai in Europa, nel senso che oggi ne condivide pienamente la crisi, a partire da quella della rappresentanza politica. Anche in Italia, con le specifiche peculiarità, è posta terribilmente in discussione qualsiasi capacità di cattura del consenso nella macchina della politica rappresentativa ossia nella gestione del piano di comando che va sotto il nome di austerity. Questo non vuol dire che l’azione del governo tecnocratico-finanziario ne sarà indebolita: significa anzi – e si vede già – che si farà più arcigna perché più scopertamente senza mediazioni. Ma questo significa anche molte cose sul terreno della percezione sociale.
Tant’è che nessuno tra gli osservatori e opinionisti in voga scommette su un “rientro” del fenomeno del grillismo né può negare il carattere tendenziale e costante della crescita dell’astensione, accanto all’evidenza che viene punito chi è visto insieme come figura del sistema partitico e nel contempo corresponsabile dell’austerity (in particolare chi ha formalmente dovuto passare le consegne a Monti), tanto quanto è premiato chi a quel sistema si contrappone e dall’austerity anche solo formalmente si smarca. Certo questa fotografia, per non essere equivocata e per intenderne anche le potenzialità rischiose, va sovrapposta a quella del livello minimo raggiunto dal conflitto sociale come movimento reale: altrettanto certo è che c’è una percezione diffusa che vede la pace sociale come imposta e subita, per quanto ancora non se ne agisca un ribaltamento o meglio non si producano e non si incontrino dispositivi adeguati ad agirlo generalmente.
Ma questo è il punto di limite da affrontare senza facili scorciatoie.
Il risultato delle presidenziali in Francia era atteso. La novità però è determinata dalla simultanea circostanza delle elezioni politiche in Grecia. Qui dove di fronte alla débacle dei due tradizionali poli del consenso, ci troviamo a notare da una parte, è vero, l’obiettivo successo di Syriza, ma anche l’aprirsi di uno scenario da vera e propria Weimar post moderna: percentuali balcanizzate, minacce di rottura della zona euro, e, impossibile non vederlo, 21 parlamentari assegnati ad una organizzazione, Chrisi Avgi, letteralmente neonazista, che al contrario dei movimenti europei dell’ultimo ventennio non media con la propria identità, anzi la esalta. Siamo di fronte ad una novità e allo stesso tempo prossimi all’imponderabile: ulteriori limitazioni della sovranità nazionale o l’inizio di una spirale di conflitto tra poteri costituiti? Autonomie sociali dispiegate o pulsioni autoritarie  in un contesto dove oltre il 50% dei funzionari di polizia sembra che abbia dato il proprio voto ai neonazisti?
Il risultato elettorale in Grecia non solo induce la fibrillazione dei mercati ma soprattutto produce una totale revisione delle prospettive di governance della crisi e nella crisi dell’eurozona. Il piano B, specialmente tedesco, cioè la rottura dell’unità monetaria è ormai alle porte non come eventualità ultima ma come possibile necessità urgente. La caratteristica fondamentale del risultato greco viene non a caso taciuta nel dibattito italiota: essa risiede non solo e non tanto nella nettezza di quella fotografia di rigetto della cattura del consenso fra le burocrazie politiche serve della Troijka, bensì nel fatto che la moltitudine ha spazzato via ogni possibilità di “soluzione politica”, ad un tempo con l’astensione di massa e con l’aver premiato ogni forza vincolata alla promessa di non fare compromessi con il memorandum imposto da BCE-UE- FMI, non casualmente con l’enorme prevalenza dell’unica formazione capace di farsi tollerare nelle piazze del movimento di rivolta sociale ossia SYRIZA. Alla faccia di chi predicava sulle “rovine fumanti” dello scenario greco per assumerle a stigma negativo rispetto al quale agitare le magnifiche sorti e progressive di una “alternativa”.
Questo risultato greco – che riflette proprio i 3 anni di rivolta sociale – è quello che fa saltare i conti degli osti dell’austerity in Europa e ne rimette in discussione l’architettura di potere per il prossimo futuro. Non sarebbe (stato) possibile se non, come (è stato) riflesso d’un esodo diffuso dall’opzione della governance che, tra i rigori della disperazione sociale, ha stabilito già un flusso di pratiche alternative in termini di resistenza materiale e di autorganizzazione sin sul piano economico. Questa lezione è quella, sola, che dovrebbe interpellare chi abbia un vero assillo sull’alternativa al capitale e alla sua crisi, e non ne faccia invece una parodia opportunista.
Ma qui siamo in Italia, bruscamente risvegliati dall’incantesimo berlusconiano e precipitati nella più profonda crisi politica ed economica dal dopoguerra, senza neanche uno scudocrociato o una falce e martello a cui aggrapparsi. Lo spauracchio necessario, altro che il coraggio cui si appella Monti, a far da collante per continuare a sottoscrivere una sottrazione dietro l’altra, di diritti, di garanzie, di futuro ma sempre con una paternalistica pacca sulla spalla.
Dall’altra parte la FAI informale – Fronte rivoluzionario internazione  che si erge a guida per ogni forma di dissenso, per chiunque voglia seriamente e senza mediazioni produrre uno spazio di conflitto e di superamento delle attuali condizioni di precarizzazione e sfruttamento. Non avremmo sentito l’esigenza di rivolgerci a chi agita queste pratiche cui non riconosciamo neanche la dignità politica che in altri contesti ha la “lotta armata”. Perché con nessuna lotta reale si confrontano, piuttosto preferendo sfruttare la facile visibilità mediatica fine a se stessa di un gesto con lo stesso coraggio e la stessa maturità di quello di bambini che infilzino una rana con gli spilli.
Ma ci sentiamo chiamati in causa in quanto determinatamente ed ostinatamente attivi nella costruzione di conflitto in questa società, come siamo, maledettamente impegnati ad organizzare la rabbia, quella “perdente” s’intende, quotidianamente presi con tanti altri e tante altre a rivendicare quei diritti – vecchi e nuovi poco importa – il cui impianto e ragionamento sostanziale viene oggi messo sotto accusa presso il tribunale anarchico informale perché contribuirebbe, a loro dire, “al rafforzamento della democrazia!”
Questa l’accusa di fondo contenuta nel manifesto/documento degli anarchici Informali che hanno rivendicato la gambizzazione del “tecnocrate” Adinolfi, dirigente di Ansaldo Nucleare, episodio più che noto la cui cronaca giudiziaria si moltiplica e si diffonde con un esercizio di stile orwelliano, in una permanente dittatura mediatica postmoderna in 3d. E’ così che il banale e contemporaneamente complesso sistema dei media mainstream si presta volentieri a far da sponda agli anarco/armati con un’attenzione mediatica ossessiva, quasi paranoica nella costruzione della notizia, nella capacità di farla divenire opinione pubblica, coscienza collettiva.
Un certosino lavoro di costruzione del consenso attraverso la mediatizzazione, come vera e propria mobilitazione sociale per la nuova scelta del capitale nell’accumulo delle sue plusvalenze  e per l’ormai improcrastinabile passaggio da uno Stato che cerca una forma di consenso ad uno che, in crisi di legittimità e di senso, non ha più remore nel mostrare il suo volto antidemocratico e neoautoritario. Nella società delle informazioni e dei segni ambigui dello spettacolo, anarchici informali e Stato autoritario si spalleggiano uno con l’altro con due opzioni che procedono per luce riflessa, uguale e contraria, determinando il rigido quadro politico che ad oggi si deposita di fronte a noi e che molti poteri forti vorrebbero così schiacciato esclusivamente tra due polarizzazioni: l’austerity e i tecnocrati da un lato e la lotta armata dall’altro. E quello che rimane dello specchio elettorale infranto è solo il controllo, l’esercito e l’intelligence. Come rimangono i tanti silenzi sulle morti sul lavoro che quotidianamente si ripetono in questi anni o i suicidi che via via si sommano uno all’altro per colpa della crisi e le politiche di austerity. Una pistola puntata contro un signore particolare vale e azzitisce tutte le pistole puntate contro le tempie dei tanti disperati, precari e precarizzati. Vogliamo politicamente dire la nostra, affermare l’autonomia e l’indipendenza dei movimenti e delle lotte sociali anche da chi pretende di condizionarli usando una pistola idealizzata e feticisticamente coccolata: “azione che si fa idea”, in una retorica più futurista che altro. Come affermato più volte, e non solo da noi, qui non si tratta di dissociarsi o meno perché mai associazione si è data, mai nessuna condivisione con chi svilisce come “cittadiniste” le battaglie sociali e le rivendicazioni che quotidianamente portiamo avanti.
Ed è proprio sul movimento,  in Italia, che vogliamo portare una riflessione, sulla sua inquietante assenza, sul silenzio in cui esplode il colpo sparato a Genova.
Si può dire che niente come il discorso sull’indipendenza sia stato avvalorato in questi tempi, sia nell’oggettività della crisi di sistema sia nell’esperienza più arricchente delle soggettività, quella esibita dalle più innovative traiettorie di movimento nel panorama globale dell’anno di rottura, il 2011.
Esattamente l’esperienza che è stata praticamente quasi assente qui in Italia. Infatti se non fosse stato per l’accumulazione e la potenza della mobilitazione No-Tav con quella determinata e moltitudinaria resistenza sociale che ha saputo dispiegare il protagonismo politico della lotta e dell’opposizione, il nostro paese sarebbe stato completamente assopito nella sua vita quotidiana e risvegliato magari solo con qualche sobbalzo episodicamente determinato, da un 14 dicembre ad un 15 ottobre. E questo è il dato sul quale occorre fondare un discorso di verità. Riaprendo una sfida, anzi la posta d’uno spazio generale di movimento indipendente, che parta anche dallo sconvolgimento di proposte nostrane ripetitive quanto distanti dal vento della rottura che spira globalmente, spalancando le porte a pratiche di esodo dai meccanismi di rappresentanza, che diano forma di discorso, costituente, all’espressione del desiderio compresso di rivolta.Una seria condivisione di quello slogan “non ci rappresenta nessuno” che echeggia da una parte all’altra del globo; possibile che l’unica alternativa, qui, stia in Grillo o sfogatoi vari? Sembra mancare la volontà di confrontarsi, mischiarsi, fare un passo indietro per produrne cento in avanti sul piano dell’alternativa, non solo al governo Monti ma alle scelte di sistema che sono state compiute e si compiranno nel prossimo periodo.
Certo non mancano focolai di dissenso, prese di parola determinate né le ancora scomposte mobilitazioni dentro e a partire da quel sociale tanto bistrattato, costretto a riscoprire i nessi di cooperazione e la capacità di organizzazione nella frammentazione e in un’informalità, questa sì, fuori da ogni logica predeterminata, struttura di rappresentanza o orticello identitario da difendere. Accanto e dentro a questo processo, che si pone già di fatto nella condizione di superare definitivamente la precarietà e lo sfruttamento, vogliamo stare. Perché le lotte contro precarietà e austerity sono oggi le lotte per la libertà e l’autodeterminazione: non un gesto estetico, ma il movimento reale.

Nodo redazionale indipendente

Un’operazione di polizia ai tempi del burlesque

sexy&cool riot/art from London

Rivedendo le immagini usate dai media come feticcio della rabbia precaria che loro definiscono senza alcun segno politico, come violenza gratuita da sventolare e mostrare come giustificazione del linciaggio mediatico nei confronti di quei giovani e meno giovani che sono stati i protagonisti degli scontri di piazza san Giovanni o delle azioni più o meno efficaci della manifestazione del 15 Ottobre –  al netto della disinformazione di regime ci chiediamo retoricamente ma a ragione quale diritto di informazione possiamo ancora sperare in questa democrazia blindata dai mercati, piegata dal neoliberismo, umiliata dall’abuso di potere recidivo e dalla corruzione diffusa in una continua coazione a ripetere?

Una volta ancora ci dobbiamo chiedere cosa si aspettavano governanti, politici, controllori, editorialisti, ma anche quel popolo di sinistra “indignato” da anni assopito dal berlusconismo o ancor peggio da un certo antiberlusconiano atteggiamento, cosa si aspettavano e cosa credevano? che quelli che vivono in emergenza abitativa e precariamente tra una vertenza e l’altra o tra un contratto intermittente e l’altro, coloro che studiano e lavorano o studiano e lavorano nel “quarto settore dell’economia”, coloro che riempiono i numeri e le statistiche della disoccupazione giovanile – che poi fanno indignare tutti quanti nel crogiuolo del bel paese cattolico dove la condanna delle ingiustizie ha il sapore del senso di colpa universale – sarebbero stati zitti e sorridenti fino alla morte?

O magari pensano che coloro che vivono nella zona grigia dei milioni di inattivi siano veramente inattivi e non già schiavizzati nella voragine del lavoro nero, dove cari governanti, politici ed opinionisti veniteci voi a vedere come si vive con la testa dentro il cesso. Orbene questi sfruttati e disperati, precari e precarizzati un tempo garantiti, vanno compatiti e sono anime buone quando si lamentano della propria condizione e magari lo fanno li in cima ad una torre o sul tetto di un palazzo, salvo poi fottersene alla prima minaccia di spread, quando invece si organizzano per manifestare la propria degna rabbia e delle volte lo fanno in forma non propriamente dialettica e decidono di rappresentare magari quell’inferno che vivono tutti i giorni nella propria solitudine per una volta tanto collettivamente e in pubblica piazza, diventano i mostri neri, il nuovo pericolo pubblico, i marziani del teppismo urbano, i cavalieri del nuovo terrorismo, forse i veri eredi di Mefistofele chissà “hai visto, hanno distrutto e ucciso la madonna!” E magari mangiano pure i bambini. Forse allora i benpensanti vogliono dire che è meglio continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassa-integrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore? Strano il suicidio dovrebbe essere anch’esso contro la morale cattolica, eppure scandalizzano evidentemente più due banche rotte che i suicidi continui per colpa delle stesse banche.

Forse semplicemente la realtà del 15Ottobre è andata ben oltre la finzione o la testimonianza. Per una volta il programma è cambiato. Ed è stato un accumulo di forze, di coincidenze e di processi sociali incodificabili per voi, cari padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavate governare. E questo vale anche per chi nei movimenti pensava di portare l’avanzo riscaldato del banchetto dei politicanti come premio ai più allineati alla governance, quella buona eh! quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune, ecco tutti a braccetto con la minestra riscaldata per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato per tutti, pure per loro.

E  dopo aver già accumulato qualche prima condanna nei mesi immediatamente successivi a questa giornata del 15 Ottobre 2011 – considerata ormai all’indice degli annali neri della Repubblica, sempre quella Repubblica delle banane, delle stragi di Stato senza colpevoli, quella della Diaz e di Bolzaneto, sempre la Repubblica della P2, P3 e P4, insomma quella della mafia, e della mafia dell’antimafia – arriva la chiusura delle indagini, con un baccanale di Antiterrorismo, Digos e Ros – ma non litigavano tra di loro una volta? –

Nel buio dei tempi abbiamo, un piccolo lumicino che una volta tanto, succede, regola i conti all’interno degli apparati, governa la overbalance statuale e decide per un’altra opzione. Nel mandato il GIP respinge l’impianto dell’accusa, ridimensionando le misure cautelari e assumendo a tratti quasi il tono se non assolutorio quanto meno tendente ad attenuare gran parte delle accuse. In Italia tralaltro l’habeas corpus pare che ancora non l’abbiano del tutto abolito.

Addirittura per Acrobax c’è un sostanziale riconoscimento del lavoro politico svolto “al fianco dei poveri, per i diritti della classi meno abbienti a difesa dei più umili”, giusto, tutto vero, siamo quasi lusingati. Nella boria di questi tempi dove per mesi tra “la palestra del terrorismo” e l’isola ribelle della sovversione, tra il capo della Polizia e l’ex ministro degli Interni si sono moltiplicate e sprecate le definizioni del brand della paura appiccicato a noi come ai compagni della Val di Susa. Oggi abbiamo finalmente trovato una cosa veritiera tra tante menzogne e provocazioni.

Si, è vero, ci battiamo per i più poveri, siamo da sempre a fianco dei meno abbienti, dei più umili e un domani noi crediamo, saremo al fianco dei ribelli contro il neoliberismo che saranno meno poveri e più liberi, finalmente affrancati dalla vostra pietas, ipocrita e codarda. Si è vero ci battiamo da dieci anni contro la precarizzazione della vita e del lavoro, contro la precarietà che è sempre più un dispositivo complesso di comando, controllo e  disciplinamento dei nostri corpi, delle nostre vite, esistenze, passioni e desideri. Si è vero, contro la “corruzione” della precarietà, scegliamo la strada della lotta per la libertà.

Una precisazione, Acrobax non è un laboratorio né anarchico, né comunista, né libertario, forse è un pò di tutto questo, ma sicuramente e risolutamente è una piccola, ma insorgente, Repubblica Indipendente

Il passato conoscilo, il presente vivilo, il futuro (senza la lotta) dimenticalo!

Nodo redazionale indipendente

Video | Invito alla discussione, per la libertà di movimento!

Foto della Comune di Parigi 1871

Con alcune fondate ragioni riteniamo che il convegno sulla Libertà di movimento tenutosi il 7 Marzo scorso all’università Roma3 sia andato bene, oltre le aspettative e diciamo subito il perché. A volte parlare di repressione significa parlare delle sfighe, di quanto ci si sente attaccati, controllati ed intimiditi. Molto spesso la si mette su un piano della denuncia o delle volte della commiserazione collettiva. Bene, l’incontro sulla Libertà di movimento ha decisamente preso un’altra strada.

Guarda i video degli interventi del convegno

Con una certa gioia e necessaria porzione di umiltà abbiamo affermato alcune semplici questioni: prima di tutto e ne siamo orgogliosi, con desiderio e determinazione abbiamo rivendicato il nostro elementare compito, riportare le forme del conflitto sociale su di un piano pubblico mettendone in luce non la sola legittimità quanto la più ampia e utile dinamica costituente propria di quell’eccedenza sociale, di quella partecipazione popolare, che si dispone contemporaneamente come dispositivo di rottura ed elemento costituente, per la libertà di movimento e per la stessa indipendenza politica delle lotte. Crediamo fermamente che il conflitto sociale sia il motore della costituzione materiale, vero unico prerequisito reale per lo sviluppo costituzionale – che in alternativa diverrebbe semplice feticcio esterno alla realtà stessa, come spesso la politica e le istituzioni strumentalmente la intendono e lì nel feticcio costituzionale poi si concepiscono e si riproducono. Non ci sentiremo mai dei perseguitati perché abbiamo deciso e autodeterminato un percorso che ci vede in conflitto con loro, scelta lucida e politica che noi per primi dispieghiamo e rivendichiamo alla luce del sole, contro la precarizzazione e i precarizzatori, contro le lobby e le mafie, anche quelle targate antimafia.

 

Fondamentalmente l’assunto di fondo che ha promosso e sviluppato le tracce del ragionamento è partito dalla consistente convinzione materiale che noi siamo risolutamente in conflitto con loro, conflitto per e con il diritto di resistenza. Per resistere alla prepotenza dello Stato, alla boria delle truppe di occupazione nelle montagne della Val Susa lo scorso 3 luglio, così come alle cariche della polizia della recente Piazza San Giovanni di Roma del 15 Ottobre, prendendo poi queste giornate solo come ultimi due esempi del recente conflitto sociale, esempi che vedono peraltro nel loro epilogo giudiziario ancora vergognosamente carcerati alcuni compagni e alle misure cautelari altre ed altri, di cui il convegno ovviamente ha chiesto, già dalla sua introduzione, la loro immediata ed incondizionata liberazione.

 

E nel corso di queste settimane rileviamo una prima importante sentenza che rappresenta un esito non scontato dell’epilogo giudiziario di uno dei processi ai movimenti, sul tema del caro vita, quando il 6 Novembre del 2004 vennero prima indagati 105 attivisti poi rinviati a giudizio in 39, poi giunti a sentenza in 15, con l’accusa di concorso in rapina pluriaggravata, differenziando per alcuni anche il ruolo di organizzatori, come se il mondo fosse volontà e rappresentazione delle loro gerarchie e dispositivi di potere. Bene, dopo 8 anni di maxiprocesso il giudice ha stabilito non solo l’assoluzione per tutti e tutte ma anche perimetrato uno spazio giuridico ancora più importante, il fatto non sussiste, non è stata una rapina. E a questo punto, lo diciamo noi, è stata solo una minacciosa montatura, per la quale peraltro sono state già scontate settimane e mesi tra misure cautelari di arresti domiciliari e obblighi di firma – applicati per di più a distanza di mesi dal fatto contestato. Una minaccia a mezzo giudiziario che ha limitato molto l’iniziativa delle lotte, interdetto per alcuni anni lo spazio politico delle legittime pratiche di riappropriazione, inibendo e reprimendo per via preventiva, eventuali e possibili nuove iniziative.

 

E ora non bastano i commiati e i pietismi anche di coloro che dentro e oltre i movimenti si dolgono il petto, dopo aver fino a poco tempo fa intessuto relazioni con il Partito cosi detto Democratico che, mentre con una mano offre scorciatoie politicamente opportunistiche, con l’altra bastona e chiude i cancelli lasciando dietro le sbarre i nostri compagni e le nostre compagne Notav, con la pretesa cortese del mandante, Presidente Napolitano e dell’esecutore e repressore, Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli.

E allora servono le alleanza ma serve chiarezza e intelligenza politica, serve cuore e passione, ma è fondamentale il cervello, collettivo e sovversivo, per l’utopia concreta, per affermare il comune tra di noi, di ciò che in comune coltiviamo per noi, per la libertà nell’indipendenza.

A presto nelle strade per rovesciare il potere.

 

Nodo redazionale Indipendente

 

Video. Debito sovrano e diritto all’insolvenza (Fumagalli)

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Il governo precedente come l’attuale governo tecnico, pressati dalla sfiducia dei mercati e dalla speculazione finanziaria, hanno varato una manovra lacrime e sangue dopo l’altra in nome dell’emergenza. Ma i sacrifici che pretendono sono davvero così ineluttabili? Da dove viene questa crisi? Una panoramica sui sitemi di accumulazione finanziaria, per capire meglio chi sono, in realtà, questi fantomatici “mercati”.

Un momento di approfondimento con Andrea Fumagalli sulla crisi del neoliberismo e sul debito sovrano, con un duplice intento, quello di misurare per un verso le soggettività e le reti sociali indipendenti, le intelligenze di movimento, intorno alla riflessione teorica sulla crisi finanziaria, sul biopotere dei mercati, sul debito e il possibile default per poter individuare il moover politico e sociale della trasformazione, sul piano immediato e diretto dell’iniziativa di movimento e quindi anche delle proposte che ne scaturiscono come appunto quella al diritto all’insolvenza.

Navigazione

00:00 Introduzione sul diritto all’insolvenza

24:24 Perché tanta attenzione sull’Italia?

Giustizialismo e satrapia sono i due volti del comando, solo l’Indipendenza paga!

E’ in corso nel cuore dell’Europa fino alle sponde del Mediterraneo un nuovo processo costituente, che si dispone dal basso come nuda vita, contro la governance neoliberista, nel pieno di una guerra civile asimmetrica, dove le genti in lotta si confrontano contro i carri armati, dall’Egitto alla Grecia, dalla Tunisia all’Inghilterra. Siamo nella transizione di un paradigma, dalla guerra convenzionale tra Stati, alle odierne e asimmetriche guerre civili non convenzionali. Gli eserciti (del neoliberismo) contro i nuovi poveri
(del neoliberismo).

Nella crisi della misura del valore, nella crisi complessiva del processo di valorizzazione, si rompe anche il piano-sequenza
della politica come mediazione. La crisi della rappresentanza relega la governance al ruolo di una nuova poliziewisenschaft, in un progressivo distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione. In Italia il parlamento vive da anni prevalentemente in funzione delle sue strategie mirate alla cooptazione e al controllo sociale.
Nel mentre affina le sue mappe per dare corpo all’accelerazione di un processo neo autoritario le cui origini in Italia sono note a tutti.

Però la particolarità del momento che sta attraversando il nostro bel paese, caso politico unico nel laboratorio della crisi e della decadenza globale, vive un passaggio delicato che si apre su un vero campo di forze, su una tensione polare che de facto produce uno scenario di guerra civile, politica e culturale. Lo abbiamo già letto e scritto nel dibattito di questa rivista. Si chiude una fase politica insieme all’apertura ad un nuovo ciclo economico, che ora s’incardina nella grande crisi, in quel
precipuo processo di transizione, dalla centralità dell’industria all’economia della conoscenza. Ma ovviamente l’unicità non sta in sé nella fine di una stagione politica che potremmo definire, berlusconiana. Anzi, per chiudere
questa fase si sta disponendo una preoccupante filosofia dell’emergenza autoritaria, della critica allo stato di eccezione rovesciata di segno e si fa sempre più strada l’ipotesi del paradosso dei paradossi, che sarebbe quello del ripristino dell’equilibrio istituzionale attraverso fondamentalmente un golpe eversivo. Interno ed esterno agli apparati dello Stato. Non è l’idea del defunto ministro K, ma quella di autorevoli esponenti dell’intellighenzia italiana. Il vuoto supposto della forza sociale di un processo costituente
viene riempito con la richiesta dell’ordine per il ripristino dell’ordine, formalmente democratico. I “grandi progetti” di far fuori il Cavaliere con i riti propiziatori di palazzo o con i dispositivi giudiziari a tratti alterni a
quelli morali, sono andati ben oltre le ipotesi più fantasiose che potevamo immaginare. In definitiva per la terza volta la Repubblica Italiana fa ricorso, per supplire alla mediocrità della politica, alla via giudiziaria. Prima, con
lo stato di emergenza e le leggi speciali evocate ed applicate per annichilire la spinta rivoluzionaria nel decennio caldo che è seguito in Italia al maggio francese, poi per disarcionare una classe politica corrotta nello scandalo tangentopoli, ora per reprimere l’asse di potere del Cavaliere divenuto un imbarazzante Nerone che con la sua lira sta lì a cantare le storielle mentre
ormai Roma brucia da anni, dopo averlo peraltro tutelato e protetto per anni nel suo conflitto di interessi. In ogni caso, per scelta, l’opposizione preferisce portare l’acqua con le orecchie agli apparati piuttosto che organizzare non dico la rivolta ma almeno un’opposizione sociale credibile. Quindi si apre un’enorme prateria che nemmeno il sindacato più grande d’Europa pensa di poter
condurre al cambiamento politico. In Italia e nella UE la crisi economica è soprattutto politica e culturale, e non riguarda l’intero sistema globale, riguarda invece precisamente il blocco occidentale e il patto atlantico che lega dalla fine della seconda guerra mondiale, gli interessi degli USA a quelli della Comunità europea (e sì, perché vista da una certa angolatura del pianeta, il sistema capitalistico non è in crisi ovunque. In Cina o in Brasile la cosi detta crescita è infatti a due cifre). Non è la fine del mondo, ma di una parte
del mondo in cui l’Italia è integrata. Le guerre civili e le catastrofi ambientali divengono però le somme del neoliberismo, quello sì globale. Le immagini delle rivolte assumono un contorno sfumato nei confini delle geografie politiche, culturali, finanche antropologiche della nuova modernità. Il vento del sud è un vento di libertà, certo, contro la tirannide della classe politica
corrotta e venduta al mercato. Ma le differenze dei diversi orizzonti dei conflitti oggi non ci permettono riduzioni semplicistiche e banali. Dalle rivolte nel cuore dell’Europa e del mediterraneo si aprono sicuramente nuove prospettive. Ma le rivolte al centro del sistema di accumulazione finanziaria come quelle di Londra, Roma, Parigi, Atene, segnalano la novità nel cuore dell’innovazione e del decantato benessere (Do you remember welfare state?).

L’irrompere di un nuovo protagonismo sociale dei movimenti contro l’austerity, contro il piano capitalista dell’exit strategy dalla crisi, ovvero da quella stessa crisi che il piano capitalista ha provocato, è il nodo politico centrale che spaventa i potenti e che comincia a far paura. E lì nel punto più avanzato della contraddizione, nei suoi perimetri formali, che si accumula forza per il cambiamento dopo due decenni di egemonia del pensiero neoliberista. Ormai in massa territori si ribellano contro le grandi opere del comitato di affari delle speculazioni finanziarie e delle devastazioni ambientali. Da una punta all’altra della penisola riemerge con più forza ancora,
l’oscenità del conflitto sociale, fino a quella piazza del popolo e al fascino della sua lotta. E’ necessario quindi organizzarci. Immaginare una rivolta costituente nel nostro paese. Cominciare a dare seguito e spazio costruttivo alla rabbia della generazione precaria, bloccare ad oltranza questo paese, dare spazio ad uno sciopero, sociale, civile, ad uno sciopero precario! E insieme costruire la
piattaforma del possibile e non quella del presente, del desiderio e non quella della legge. Riprendiamoci la parola Libertà e lasciamo ad altri le regole.
Dobbiamo reinventare l’intelaiatura e lo schema delle così dette istituzioni, dobbiamo rifondarle. Abbiamo bisogno delle istituzioni del comune, per la nuova “regolazione” dal basso che parta dall’attacco ai profitti per generare e
riconoscere quella ricchezza socialmente prodotta dalla moltitudine precaria, permanentemente al lavoro, tra produzione formale ed informale, materiale ed immateriale, senza reddito adeguato e diritti riconosciuti.

Dobbiamo insorgere per un diritto comune, una nuova “magna charta” a partire dalla forma
materiale della costituzione, per la sovranità e l’autogoverno, oltre il nuovo
welfare, possiamo e dobbiamo necessariamente costruire e cooperare per un nuovo
modello di società!

In gioco c’è qualcosa in più di una riforma.

Dobbiamo riscrivere la nostra costituzione, cioè ridare forma alla forma, per diffondere e sostenere l’utopia necessaria.

Rafael Di Maio

*articolo uscito per Loop n° 13 Aprile/Maggio 2011

 

 

 

Dispositivi x l’Indipendenza – la crisi economica nell’austerity!

 

La crisi economica nell’austerity: la grande trasformazione tra la crisi del processo della valorizzazione capitalistica, la nuova composizione sociale al lavoro e i dispositivi di comando e governance politica ed economica.

– Introduce Rafael Di Maio – Laboratorio Acrobax

– Andrea Fumagalli, Prof. Economia Politica all’università di Pavia

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal 2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario della narrazione che la governance politica europea produce, come interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di differenza interno alla misura di un valore particolare – che però determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento. Il divenire della crisi, complesso di  stratificazioni economiche, politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale, al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo “sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle “Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Loa Acrobax
via della vasca navale, 6 [ponte Marconi]
www.acrobax.org
www.indipendenti.eu

Giovedi 29 marzo-ore 17
Dispositivi per l’indipendenza
presso il LOA Acrobax

Segue la versione integrale della griglia di discussione:

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della
governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario
internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del
processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal
2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde
che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario
della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario
tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di
differenza interno alla misura di un valore particolare – che però
determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o
interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente
analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto
consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi
ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo
altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro
un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche,
politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo
economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello
olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi
l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto
effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge
inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di
transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da
un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale,
al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato
fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del
processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e
della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo
“sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle
“Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla
visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Quindi una crisi economica e finanziaria strutturale e sistemica,
dalla quale si pensa di poter uscire a seconda delle declinazioni
politiche o dei diversi interessi geo-strategici, attraverso strade o
canali differenti.

Oggi per dirla con Marazzi la finanza è parte integrante della nostra
vita quotidiana, è pervasiva a tutto il ciclo, e le fonti di
finanziarizzazione si sono moltiplicate in modo che le finanze sono
consustanziali alla produzione stessa dei beni e servizi. Questa
estensione delle “fonti di accumulazione del capitale finanziario,
vanno tenute presente per comprendere le trasformazioni del modello di
sviluppo/crisi post-fordista.

Il peso del debito privato spostato sul debito pubblico (in realtà
comprato dalle banche estere, come nel nostro caso, le banche
francesi, che detengono più del 40% del nostro debito sovrano) in
virtù della nuova crisi che stiamo conoscendo, impone agli stati come
gli USA o alla governance della comunità europea diretta dalla
cosidetta Troika – i cui destini peraltro sono incrociati e uniti sin
dal “patto atlantico” – d’individuare le possibili vie di uscita dalla
crisi, stagnazione e bassa crescita. Oggi come oggi, sostanzialmente
abbiamo due modelli sempre più divaricati tra loro che per
semplificazione potremmo etichettare con la Germania della Merkel da
un lato e gli USA di Obama dall’altro. A partire dall’approfondimento
di questi due modelli di crescita e gestione delle risorse pubbliche
vorremmo ampliare la visuale sulla crisi e sulle strade che vengono
indicate come possibili indicazioni anticicliche di uscita dalla crisi
verso una nuova ripresa economica. Vorremmo capire quali sono i punti
di reale differenza tra i due modelli di politica economica che
sinteticamente rintracciamo tra quello della Germania improntato
all’austerity e alla salvaguardia dei conti pubblici a discapito degli
investimenti sulle risorse dedicate alle politiche di welfare, e che
prevalentemente usa alcuni indicatori economici come rigida guida
quasi religiosa per impostare il governo della società e del suo stare
in comune. E quello degli USA che dall’apparizione di Obama ha
invertito le dinamiche fondative del sistema neoliberista, imposto a
se e al mondo sotto la sua influenza anche con la forza e con
l’ausilio di dittature militari come nel sud America negli anni 70 e
80, e che oggi ha decisamente cambiato la rotta delle politiche
economiche a partire dall’utilizzo delle risorse pubbliche e di un
diverso approccio ai parametri come il deficit o lo spread, dando tale
centralità al ruolo dello Stato nell’economia da far ipotizzare un
nuovo impianto keynesiano per la crescita e lo sviluppo capitalista.

Un terzo modello a cui dedicare un ulteriore momento di
approfondimento è il caso dei cosidetti paesi emergenti, i BRIC che
stanno attraversando il corso della crisi fuori da questo binomio a
partire da tutt’altro contesto e che però stanno conoscendo un livello
di crescita esponenziale e di sviluppo complesso tale da
ri-significare lo stesso concetto di crisi globale, a testimonianza
che non si tratta evidentemente, dal crack della Leman Brother in
avanti, della fine del mondo, ma della decadenza di una parte ben
precisa del mondo.  Un altro tema sul quale vorremmo concentrare le
nostre analisi e riflessioni riguardo il contesto economico e sociale
che si respira e si tocca con mano nel nostro paese, a partire dalle
ripercussioni sul MdL come effetto materiale della crisi finanziaria e
della sua ricaduta sul tessuto produttivo e lavorativo – e anche
dell’effetto delle politiche adottate dal governo Monti per seguire le
strade di exit strategy dalla crisi a partire dalla Riforma del MdL tutte peraltro concordate con la UE – sono le liberalizzazioni di alcuni settori
produttivi e le proteste che si stanno susseguendo per contrastarle.
Dopo l’assordante e inaspettato silenzio sulla riforma delle pensioni
a partire dal blocco sociale pensionandi di riferimento (classe
52/53/54) peraltro ampliamente sindacalizzato che si è fatto carico
del costo sociale della riforma delle pensioni, il paese sta facendo i
conti nelle scorse settimane con la caparbia e dura protesta di
alcuni soggetti produttivi ben precisi che sul tema delle
liberalizzazioni stanno costituendo una protesta sociale forte e
decisa – dal movimento dei forconi alla lotta degli autotrasportatori
– sulla quale vorremmo interrogarci a partire da due piani di analisi
inizialmente distinti, due ordini del discorso, paralleli ma
complementari:

Uno riguarda la struttura produttiva: Sergio Bologna per primo aveva
individuato all’interno delle trasformazioni produttive che hanno
costituito il processo di ristrutturazione e trasformazione nel
passaggio di fase dalla grande industria fordista all’economia
post-fordista dei servizi e della conoscenza, proprio nel settore del
trasporto e della logistica, un ambito produttivo centrale,
strategico. In primis come settore privilegiato nella specifica
creazione di valore – centrale nell’economia postfordista – dove la
valorizzazione capitalistica passa dalla produzione materiale delle
merci alla valorizzazione della loro distribuzione e circolazione. E
però il carico di valore aggiunto nei profitti della grande
distribuzione è stato possibile per la nuova organizzazione del lavoro
che ne è conseguita. La riorganizzazione della molecolare struttura
delle sub-forniture ri-articolate dentro le trasformazione della
composizione sociale a lavoro – nei processi di esternalizzazione che
tra gli anni 80 e 90 hanno dato il via al cosi detto esercito delle
Partite IVA – è un tema che vorremmo analizzare oggi alla luce di un
dato sociale nuovo, al netto quindi dell’analisi generale sullo stato
dell’arte dell’economia globale e finanziaria, gettando lo sguardo sul
corpo sociale coinvolto, che porta con sé alcuni elementi di
innovazione e trasformazione radicale anche dell’apparente
rovesciamento del rapporto capitale/lavoro che si delinea nella classe
dei cosi detti padroncini, ovvero delle partite IVA. Su questo blocco
sociale di riferimento a cui sempre per primo Sergio Bologna con
Andrea Fumagalli avevano dedicato la propria analisi relativamente al
lavoro autonomo di seconda generazione, l’importanza appare quindi più
che evidente di dover ancora scandagliare e analizzare in profondità
la vicenda ampliamente annunciata ed intuita della nuova composizione
sociale al lavoro, in questo caso anche in rivolta. E su questo piano
se volete più politico vorremmo dedicare l’attenzione del secondo
elemento complementare alla comprensione dell’attuale fase, ovvero
concentrare il nostro focus sulla composizione sociale del primo
grande blocco dei flussi nella produzione postfordista o anche sul
primo grande sciopero selvaggio del lavoro indipendente nella crisi.
Vorremmo capire se e quanto può essere considerata una protesta
dettata più da esigenze specifiche o corporative o quanto invece
questo non sia altro che l’inizio per una nuova ricomposizione di
classe – delle nuove classi, o della nuova stratificazione di classe –
che potrebbe portare ad una nuova definizione della rappresentanza
sindacale di interessi produttivi emergenti ma anche alla radicale
messa in discussione dell’intera forma dell’organizzazione del lavoro
e della distribuzione della ricchezza sul territorio.

 

Bibliografia di riferimento:

 

Mediterraneo – F. Braudel Einaudi

Lotte operaie e sviluppo capitalistico – R. Panzieri Einaudi

La violenza del capitalismo finanziario – C. Marazzi Ombre corte

Il lavoro di Dioniso – M. Hardt e A. Negri Manifesto Libri

Il lavoro autonomo di II° generazione – S. Bologna e A. Fumagalli Feltrinelli

 

Testi consigliati:

 

Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II – F. Braudel Einaudi

La grande trasformazione – K. Polany Einaudi

Comune – M. Hardt e A. Negri Rizzoli

Il comunismo del capitale – C. Marazzi Ombre corte

Ceti medi senza futuro – S. Bologna Derive e approdi

Oltre lo stato assistenziale – Per un nuovo patto tra generazioni – G.
Esping-Andersen Einaudi

I fondamentali sociali delle economie postindustriali – G.
Esping-Andersen Einaudi

L’immateriale – A. Gorz – Bollati Boringhieri

Dispositivi per l’Indipendenza: La crisi economica nell’austerity

La crisi economica nell’austerity: la grande trasformazione tra la crisi del processo della valorizzazione capitalistica, la nuova composizione sociale al lavoro e i dispositivi di comando e governance politica ed economica.

 

 

– Introduce Rafael Di Maio – Laboratorio Acrobax

– Andrea Fumagalli, Prof. Economia Politica all’università di Pavia

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal 2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di differenza interno alla misura di un valore particolare – che però determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche, politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA.
Oggi l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale, al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo “sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle “Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Loa Acrobax
via della vasca navale, 6 [ponte Marconi]
www.acrobax.org
www.indipendenti.eu

Giovedi 29 marzo-ore 17
Dispositivi per l’indipendenza
presso il LOA Acrobax

Segue la versione integrale della griglia di discussione:

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della
governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario
internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del
processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal
2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde
che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario
della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario
tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di
differenza interno alla misura di un valore particolare – che però
determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o
interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente
analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto
consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi
ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo
altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro
un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche,
politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo
economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello
olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi
l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto
effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge
inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di
transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da
un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale,
al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato
fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del
processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e
della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo
“sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle
“Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla
visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Quindi una crisi economica e finanziaria strutturale e sistemica,
dalla quale si pensa di poter uscire a seconda delle declinazioni
politiche o dei diversi interessi geo-strategici, attraverso strade o
canali differenti.

Gli obiettivi dei seminari:

Oggi per dirla con Marazzi la finanza è parte integrante della nostra
vita quotidiana, è pervasiva a tutto il ciclo, e le fonti di
finanziarizzazione si sono moltiplicate in modo che le finanze sono
consustanziali alla produzione stessa dei beni e servizi. Questa
estensione delle “fonti di accumulazione del capitale finanziario,
vanno tenute presente per comprendere le trasformazioni del modello di
sviluppo/crisi post-fordista.

Il peso del debito privato spostato sul debito pubblico (in realtà
comprato dalle banche estere, come nel nostro caso, le banche
francesi, che detengono più del 40% del nostro debito sovrano) in
virtù della nuova crisi che stiamo conoscendo, impone agli stati come
gli USA o alla governance della comunità europea diretta dalla
cosidetta Troika – i cui destini peraltro sono incrociati e uniti sin
dal “patto atlantico” – d’individuare le possibili vie di uscita dalla
crisi, stagnazione e bassa crescita. Oggi come oggi, sostanzialmente
abbiamo due modelli sempre più divaricati tra loro che per
semplificazione potremmo etichettare con la Germania della Merkel da
un lato e gli USA di Obama dall’altro. A partire dall’approfondimento
di questi due modelli di crescita e gestione delle risorse pubbliche
vorremmo ampliare la visuale sulla crisi e sulle strade che vengono
indicate come possibili indicazioni anticicliche di uscita dalla crisi
verso una nuova ripresa economica. Vorremmo capire quali sono i punti
di reale differenza tra i due modelli di politica economica che
sinteticamente rintracciamo tra quello della Germania improntato
all’austerity e alla salvaguardia dei conti pubblici a discapito degli
investimenti sulle risorse dedicate alle politiche di welfare, e che
prevalentemente usa alcuni indicatori economici come rigida guida
quasi religiosa per impostare il governo della società e del suo stare
in comune. E quello degli USA che dall’apparizione di Obama ha
invertito le dinamiche fondative del sistema neoliberista, imposto a
se e al mondo sotto la sua influenza anche con la forza e con
l’ausilio di dittature militari come nel sud America negli anni 70 e
80, e che oggi ha decisamente cambiato la rotta delle politiche
economiche a partire dall’utilizzo delle risorse pubbliche e di un
diverso approccio ai parametri come il deficit o lo spread, dando tale
centralità al ruolo dello Stato nell’economia da far ipotizzare un
nuovo impianto keynesiano per la crescita e lo sviluppo capitalista.

Un terzo modello a cui dedicare un ulteriore momento di
approfondimento è il caso dei cosidetti paesi emergenti, i BRIC che
stanno attraversando il corso della crisi fuori da questo binomio a
partire da tutt’altro contesto e che però stanno conoscendo un livello
di crescita esponenziale e di sviluppo complesso tale da
ri-significare lo stesso concetto di crisi globale, a testimonianza
che non si tratta evidentemente, dal crack della Leman Brother in
avanti, della fine del mondo, ma della decadenza di una parte ben
precisa del mondo.  Un altro tema sul quale vorremmo concentrare le
nostre analisi e riflessioni riguardo il contesto economico e sociale
che si respira e si tocca con mano nel nostro paese, a partire dalle
ripercussioni sul MdL come effetto materiale della crisi finanziaria e
della sua ricaduta sul tessuto produttivo e lavorativo – e anche
dell’effetto delle politiche adottate dal governo Monti per seguire le
strade di exit strategy dalla crisi, tutte peraltro concordate
concordate con la UE – sono le liberalizzazioni di alcuni settori
produttivi e le proteste che si stanno susseguendo per contrastarle.
Dopo l’assordante e inaspettato silenzio sulla riforma delle pensioni
a partire dal blocco sociale pensionandi di riferimento (classe
52/53/54) peraltro ampliamente sindacalizzato che si è fatto carico
del costo sociale della riforma delle pensioni, il paese sta facendo i
conti proprio in queste settimane con la caparbia e dura protesta di
alcuni soggetti produttivi ben precisi che sul tema delle
liberalizzazioni stanno costituendo una protesta sociale forte e
decisa – dal movimento dei forconi alla lotta degli autotrasportatori
– sulla quale vorremmo interrogarci a partire da due piani di analisi
inizialmente distinti, due ordini del discorso, paralleli ma
complementari:

Uno riguarda la struttura produttiva: Sergio Bologna per primo aveva
individuato all’interno delle trasformazioni produttive che hanno
costituito il processo di ristrutturazione e trasformazione nel
passaggio di fase dalla grande industria fordista all’economia
post-fordista dei servizi e della conoscenza, proprio nel settore del
trasporto e della logistica, un ambito produttivo centrale,
strategico. In primis come settore privilegiato nella specifica
creazione di valore – centrale nell’economia postfordista – dove la
valorizzazione capitalistica passa dalla produzione materiale delle
merci alla valorizzazione della loro distribuzione e circolazione. E
però il carico di valore aggiunto nei profitti della grande
distribuzione è stato possibile per la nuova organizzazione del lavoro
che ne è conseguita. La riorganizzazione della molecolare struttura
delle sub-forniture ri-articolate dentro le trasformazione della
composizione sociale a lavoro – nei processi di esternalizzazione che
tra gli anni 80 e 90 hanno dato il via al cosi detto esercito delle
Partite IVA – è un tema che vorremmo analizzare oggi alla luce di un
dato sociale nuovo, al netto quindi dell’analisi generale sullo stato
dell’arte dell’economia globale e finanziaria, gettando lo sguardo sul
corpo sociale coinvolto, che porta con sé alcuni elementi di
innovazione e trasformazione radicale anche dell’apparente
rovesciamento del rapporto capitale/lavoro che si delinea nella classe
dei cosi detti padroncini, ovvero delle partite IVA. Su questo blocco
sociale di riferimento a cui sempre per primo Sergio Bologna con
Andrea Fumagalli avevano dedicato la propria analisi relativamente al
lavoro autonomo di seconda generazione, l’importanza appare quindi più
che evidente di dover ancora scandagliare e analizzare in profondità
la vicenda ampliamente annunciata ed intuita della nuova composizione
sociale al lavoro, in questo caso anche in rivolta. E su questo piano
se volete più politivo vorremmo dedicare l’attenzione del secondo
elemento complementare alla comprensione dell’attuale fase, ovvero
concentrare il nostro focus sulla composizione sociale del primo
grande blocco dei flussi nella produzione postfordista o anche sul
primo grande sciopero selvaggio del lavoro indipendente nella crisi.
Vorremmo capire se e quanto può essere considerata una protesta
dettata più da esigenze specifiche o corporative o quanto invece
questo non sia altro che l’inizio per una nuova ricomposizione di
classe – delle nuove classi, o della nuova stratificazione di classe –
che potrebbe portare ad una nuova definizione della rappresentanza
sindacale di interessi produttivi emergenti ma anche alla radicale
messa in discussione dell’intera forma dell’organizzazione del lavoro
e della distribuzione della ricchezza sul territorio.

 

Bibliografia di riferimento:

 

Mediterraneo – F. Braudel Einaudi

Lotte operaie e sviluppo capitalistico – R. Panzieri Einaudi

La violenza del capitalismo finanziario – C. Marazzi Ombre corte

Il lavoro di Dioniso – M. Hardt e A. Negri Manifesto Libri

Il lavoro autonomo di II° generazione – S. Bologna e A. Fumagalli Feltrinelli

 

Testi consigliati:

 

Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II – F. Braudel Einaudi

La grande trasformazione – K. Polany Einaudi

Comune – M. Hardt e A. Negri Rizzoli

Il comunismo del capitale – C. Marazzi Ombre corte

Ceti medi senza futuro – S. Bologna Derive e approdi

Oltre lo stato assistenziale – Per un nuovo patto tra generazioni – G.
Esping-Andersen Einaudi

I fondamentali sociali delle economie postindustriali – G.
Esping-Andersen Einaudi

L’immateriale – A. Gorz – Bollati Boringhieri