Il merito al futuro passa per l’idoneità alla lotta. L’università verso il #19A


“Odio e sovrastruttura, ma non lenisce il sale, che dio vi maledica, eroi della carriera,
limone asfalto sputo, mai più io sarò saggio … il mondo si è fermato, mò ce lo riprendiamo”

Partiamo da qui.

Mentre scriviamo Napolitano si affretta a capire egli stesso come finirà il suo neo-nato governo(?), guidato dai dieci “celeberrimi” saggi, che si annuncia in partenza in crisi, debole e lacerato da contraddizioni che probabilmente verranno acuite anche dall’azione dei grillini in parlamento.

 

Il governo del presidente è la denominazione scelta dai mass media per indicare la creazione da parte di Napolitano di un consiglio di dieci saggi, da cui dovranno uscire le nuove riforme di austerity imposte dall’Europa insieme a qualche altro provvedimento di facciata, ma da far passare ovviamente sotto la maschera dell’interesse prima nazionale e negli ultimi anni europeo,ovvero l’interesse di quelli che sono i ceti dominanti.

Tutto ciò in un quadro politico sempre più delegittimato con una crisi della rappresentanza sempre più acuita. Se poi entriamo nel dettaglio delle nomine va a cadere anche ogni velleità, per chi volesse farlo, di aggrapparsi alla parola saggi. Infatti risulta evidente come l’inserimento di Violante e Quagliarello sia il chiaro tentativo di far produrre a questi ultimi le riforme di austerity volute dalla governance europea, in modo tale da garantire a questi provvedimenti una maggioranza PD-PDL che i media definirebbero trasversale e che invece rappresenta solo l’espressione del ceto dominante. Insomma a parte che dare il senso del prestigio formale delle istituzioni volendo citare Onida, i saggi non servono a nulla, e se lo dice lui,che è uno di loro ci sarà da crederci.

L’aggravarsi della crisi ha accelerato negli anni i processi di aziendalizzazione dell’università, e la sua crescente dequalificazione non è per noi oggi un argomento nuovo, in quanto rientra nei progetti dei governi susseguitisi nel corso degli ultimi anni, da centro – destra a centro – sinistra, prospettandoci univocamente quel passaggio strategico di mutamento e trasformazione del mondo della formazione adesso materializzatosi, dall’università d’élite all’università di massa, dall’università di massa all’università del merito; Con tutto ciò che questo comporta: aumento progressivo delle tasse, tagli violenti alle borse di studio ,meccanismi di esclusione differenziale con facoltà universalmente a numero chiuso (con test d’ingresso ovviamente a pagamento), accelerazione dei tempi universitari, produttori da una parte dell’affanno per il presente per una sorta di debito morale nei confronti della famiglia che mantiene gli studi, dall’altra parte dall’affanno per il futuro, per il fantasma del fuoricorso accompagnato dall’incubo fittizio della decadenza degli studenti; l’incubo dello status di fuori corso si costituisce così quasi come una “strategia della tensione” dentro le facoltà, in quanto strumento che impone dall’alto ritmi serrati e irriducibili di produttività, stress, scarsa socialità, vita frenetica e volta alla competizione, quasi fosse una guerra tra poveri per accaparrarsi … non si sa cosa, tra l’altro.

I serrati ritmi di studio frenetici e volti alla produttività obbligano lo studente a vivere le facoltà per intere giornate, con il carico di spese che questo comporta, dai trasporti ai pasti fuori casa (dato che anche la mensa sta per diventare un ristorante escludente e volto alla ricca clientela), dal caro libri alla possibilità di usufruire di mezzi di formazione, che facenti però parte di un mondo basato proprio sulla mercificazione della cultura e del sapere, offre un panorama di inaccessibilità, come ad esempio cinema, teatri, librerie, corsi di lingua, mostre, viaggi, erasmus, e tutti dispositivi simili; d’altra parte assistiamo a tentativi di “individualizzazione” della carriera accademica e della formazione degli studenti, educati sin dall’ingresso ad una prospettiva di precarietà, incertezza e subordinazione già durante il percorso formativo, con la conseguente speranza (imposta) dell’acquisizione di Skill individuali: diplomi, tirocini, svariate lauree, master, dottorati, corsi di lingue, corsi di formazione, attestati vari, salassi per gli studenti e meccanismi di indebitamento per il presente e per il futuro.

Oltre al danno la beffa: non solo la disillusione totale di un futuro nel mondo del lavoro tanto decantato, ma anche lo sfruttamento durante il percorso di studi, palesato e giustificato da non si sa quale legge superpartes; mettendo solo per un attimo da parte le migliaia di studenti che sono obbligati a cercare un lavoro precario, in nero e per paghe misere per mantenersi gli studi, ci riferiamo a tutti gli studenti e le studentesse (nessuno escluso, in quanto previsto dal proprio piano di studi) a praticare stage e tirocini per mesi, quello che si configura come Free Labor, lavoro assolutamente gratuito e di sfruttamento.

Ecco perché i dati elaborati dal CUN, seppur fornitori di un dato importante, quello del calo del 17% delle immatricolazioni negli ultimi dieci anni, non ha scandalizzato lo studente universitario: lo svuotamento progressivo delle facoltà e l’eliminazione strategica di spazi e tempi di socialità all’interno degli atenei sono dati con cui facciamo i conti da almeno due anni; si aggiunge la diminuizione del 5% del FFO (Fondo Finanziario Ordinario), taglio di personale docente del 22%, soppressione totale del tanto decantato welfare universitario e l’ennesima applicazione della riforma Gelmini, ovvero sistemi chimerici di proporzioni per occludere ancor di più non solo la didattica già dequalificata e il sapere tecnico e specifico, ma anche l’accentramento di potere, bypassando il vecchio sistema delle facoltà per i nuovi Deus Dipartimentis.

Per tutte queste ragioni ci è sembrato fondamentale affrontare un’inchiesta tra gli studenti e le studentesse universitarie, per capirne un po’ di più sulle condizioni di vita di uno studente, che sia o no uno studente fuorisede, che sia idoneo, vincitore o magari anche per chi il fantasma delle borse di studio e dell’idoneità è ormai lontano, che sia semplicemente uno studente la cui famiglia vive pragmaticamente i costi della crisi e non sa più come affrontare spese giornaliere per caro libri, mezzi di trasporto e mensa inesistente o non garantita.

Tra centinaia di studenti e studentesse intervistati, risulta che il 75% fa ancora riferimento al welfare familistico, vivendo spesso ancora in casa con i propri genitori, lamentando un’insufficienza (o un’inesistenza) di servizi e di aiuti da parte dell’istituzione universitaria, sia per ciò che concerne borse di studio o diminuizione delle tasse (nei casi di fasce di reddito basse), o per ciò che concerne libri, posti letto e accesso a percorsi formativi (sopra menzionati); quasi il 90% è concorde nell’affermare come debba essere la stessa istituzione universitaria a dover provvedere a situazioni di questo tipo ormai tanto diffuse, e nel caso in cui ciò non avvenga viene rituenuta legittima l’occupazione di posti abbandonati (presenti in grande quantità nel territorio siciliano) per garantire posti letto gratuiti e la conseguente creazione di welfare.

Collegando tutto alla fase politica del Bel Paese il quadro si fa interessante: si, perché tra i migliaia di licenziati per fallimento, tra le famiglie che devono scegliere se a fine mese fare la spesa o pagare le bollette, altrimenti Serit ed Equitalia attendono già dietro la porta con la falce in mano, tra le fabbriche che chiudono, o peggio, restano l’unica possibilità di sopravvivenza a cui aggrapparsi seppur dispositivi che pongono i lavoratori davanti al dilemma se scegliere di morire di fame o scegliere di morire di malattie per inquinamento (come l’Ilva di Taranto insegna); tra la cassa integrazione, che raggiunge i massimi storici, ammortizzatore sociale utilizzato tra l’altro come mezzo di controllo, discriminatorio e soprattutto disgregativo e atomizzante all’interno degli stabilimenti (vedi Fincantieri), e\o comunque destinato a breve vita in quanto ridotto al midollo e garantito sempre a breve scadenza per tentare di livellare il conflitto sociale(vedi Gesip);tra tutte queste situazioni si inserisce il grande dato della disoccupazione giovanile, questo 37% (che al sud raggiunge il 40%) di esercito di riserva, che si illude ancora che, seppur l’università abbia smesso da tempo di far da ascensore sociale, esista ancora qualche possibilità di futuro, magari all’estero (dato che l’Italia è il paese che spende meno nel mondo della formazione),o magari per chi si trova nelle fasce alte di reddito.

La soppressione di welfare studentesco e servizi universitari è sentito ormai da chiunque viva l’università: particolarmente da chi ha ricevuto l’idoneità ma non la borsa di studio, dunque nessuna retribuzione economica; da chi non è rientrato nelle striminzite graduatorie per i posti letto nel pensionato ed è costretto a pagare un affitto mensile pari a 200 euro e spesso costretto ad essere uno studente lavoratore; La “caccia al reddito” ci spinge a lavori sottopagati e precari che sottraggono tempo ed energia al nostro studio e alla nostra vita. Assistiamo di anno in anno alla continua chiusura di mense e studentati mentre i sindacati studenteschi restano aggrappati a battaglie(?) resistenziali soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza studentesca, triste strumento per accumulazione di tessere e finanziamenti.

Se il modello che ci viene imposto è questo, se davvero la formazione deve essere una corsa all’acquisto di competenze allora reclamiamo parità di diritti, in questo caso economici;

Nell’ultima fase della sua vita, Foucault porta la sua analisi del linguaggio da un ordine del discorso alla necessità di una costruzione di un linguaggio antagonista, che si inserisce nella vita” volta a dire il vero, la vita altra, quella della militanza rivoluzionaria”; ci siamo spesso ritrovati a discutere della mistificazione del linguaggio dalla controparte e della necessità di ribaltamento, attraversamento e ri – costruzione autonoma di questo, che deve proporsi come linguaggio diffuso e generalizzabile. A ciò si legano immediatamente i nostri strumenti nella lotta dei saperi, un’autoformazione che producendo saperi autonomi sempre al di là della barricata deve porsi come produttore di posizionamenti e resistenze popolari, ricomposizioni, ricombinazioni del lavoro vivo, e una conricerca che nel suo ruolo essenziale di rottura epistemologica deve volgersi a creare da una parte una visione materialistica dentro la composizione, dall’altra, consequenzialmente, a sviluppare forme di tendenza di rottura e forme di organizzazione politica delle lotte.

In campagna elettorale abbiamo sentito accennare dal movimento 5 stelle al ritorno sul campo di parole come “reddito di base”, “reddito garantito”, o “reddito di dignità”, nelle sue varianti; il passaggio dal ritorno in campo delle parole, all’azione politica nel campo dei territori sta a noi!

Lotta per il reddito si, ma come pratica di intervento sui territori e prospettiva di avanzamento e massificazione delle lotte e dei conflitti generalizzabili, attorno alla battaglia che abbiamo definito “per un welfare degli usi e delle riappropriazioni,cioè un movimento dei bisogni reali di parte” , per un soddisfacimento dei bisogni per contrattaccare nei territori dai movimenti.

Ecco dove c’entra il ribaltamento del linguaggio che citavamo poc’anzi; I discorsi della controparte, le norme, le retoriche e le logiche atte al nostro asservimento vanno ribaltate e usate per rilanciare percorsi di lotta e riappropriazione. La battaglia si gioca sulla loro scacchiera, siamo noi a schierare i pezzi e a dover fare l’ultima mossa.

Ecco perché riteniamo sia opportuno rilanciare rivendicazioni,riappropriazioni e riconquiste che si configurano così , dopo questa attenta analisi essenziali per la nostra vita , il nostro diritto alla felicità, ovvero alla liberazione dal giogo del debito e della precarietà che può e deve passare attraverso il rilancio di esperienze di autogestione, riappropriazione di welfare diretto e indiretto e la conquista di spazi in cui organizzare le lotte e i saperi di studenti e precari che attraverso il lavoro finanziano la produzione di un sapere merce che genera profitti per pochi a discapito di molti; siamo consapevoli che gli strumenti del welfare, fin dall’epoca keynesiana, hanno sancito l’accordo tra capitale e lavoro, e che hanno come caratteristiche intrinseche un ruolo di disciplinamento e una falsa promessa di emancipazione; è altrettanto vero che il reddito, come si è detto “è un tema che ritorna”, che va inchiestato, e continuamente, perché segue le mutazioni dei rapporti di produzione e i mutamenti degli scenari della crisi, quelli che a noi sta attraversare.

Riteniamo sia dunque indispensabile la realizzazione di pratiche tese alla riappropriazione di rendita finanziaria. Il nodo del reddito, della riappropriazione dal basso sono quelli attorno a cui costruire lotte, progettualità politica , organizzazione e massificazione del conflitto. A partire,perché no, da un 19 Aprile di lotta, che si prospetta un varco, un’occasione, uno scenario interessante, un momento di conquista.

Se è vero che “Grande è la confusione sotto il cielo…

Collettivo Universitario Autonomo – Palermo

 

http://www.infoaut.org/index.php/blog/saperi/item/7453-il-merito-al-futuro-passaper-lidoneit%C3%A0-alla-lotta-luniversit%C3%A0-verso-il-#19a

Cosa c’è di meglio di un cornetto e un buon caffè per iniziare insieme una lunga giornata di lotta?!

Siamo entrati a via musa ieri mentre centinaia di famiglie facevano lo stesso in altri 11 edifici abbandonati sparsi nella città. Una marea di persone: famiglie, single, migranti, italiani, precari, disoccupati, studenti che hanno deciso di smettere di attendere, di riprendersi un diritto elementare come quello ad avere un tetto sopra la testa senza mediare i loro bisogni con i conti in banca dei palazzinari. In una città stuprata dal cemento dove si costruisce per costruire, in cui il comune dichiara la presenza di oltre 260.000 case sfitte, la casa è un miraggio per decine di migliaia di persone costrette ad arrancare a presso alle rate del mutuo o all’affitto.

È la città “reale” della gente che ci vive, ci lavora o ci studia che si scontra con la città degli amministratori, sono i nostri bisogni che confliggono con le leggi dell’accumulazione e della rendita.

La storia dello stabile che abbiamo occupato è allo stesso tempo esemplare e grottesca: esemplare perché attraverso la cessione di patrimonio pubblico, l’erogazione di lauti appalti e la costituzione di un fondo bancario ad hoc l’amministrazione di turno (in questo caso la provincia) regala milioni di euro al palazzinaro di turno (in questo caso Parnasi) con un metodo riproposto talmente tanto spesso da sembrare un modello. Grottesca perché a coprire questa operazione speculativa non è un progetto di riqualificazione di un quartiere di periferia, la costruzione di infrastrutture per il trasporto pubblico o misure di contrasto all’emergenza abitativa ma bensì l’edificazione di una monumentale sede per un ente che non esiste più, non provano neanche più a convincerci che le loro speculazioni possano avere una ricaduta positiva sulla città. Si saranno stancati anche loro di ascoltare bugie tanto spudorate.

Alle sei del pomeriggio sono arrivati blindati e polizia, hanno chiuso via musa e ci hanno intimato di lasciare lo stabile: volevano che uscissimo senza sapere cosa ne sarà di questa palazzina bellissima, senza conoscere i nomi degli ex consiglieri provinciali che tuttora gestiscono il fondo paribas incaricato di vendere lo stabile, senza che nessuno si prendesse la briga di spiegare il senso della chiusura di due studentati al centro di Roma in una città che ospita 200000 studenti universitari. La determinazione di chi era dentro lo stabile e di chi immediatamente è arrivato ad esprimerci solidarietà ha evitato che ciò fosse possibile. domani mattina vorrebbero chiudere questa esperienza sperando che nessuno metta più il naso nei loro affari. Noi saremo svegli ad aspettarli, chiunque voglia farci compagnia troverà caffè e cornetto, ci vediamo alle 7.00

Il day-block della logistica

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

É iniziato prima dello scoccare della mezzanotte lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: depositi e magazzini della Tnt, della Bartolini, dell’Sda, della Dhl e delle altre imprese nelle principali città protagoniste delle lotte degli ultimi anni (Verona, Bologna, Milano, Piacenza) sono stati bloccati a partire dalla sera di giovedì. Al passare delle ore hanno iniziato a prendere corpo i numeri dell’adesione allo sciopero: si arriva al 100% o quasi, i principali poli della logistica per oltre 24 ore sono svuotati del lavoro vivo. Il dato di grande rilievo è che la giornata di mobilitazione è andata ben oltre gli ormai consolidati centri della mobilitazione, arrivando al centro-sud: a Roma, ad esempio, i livelli di partecipazione allo sciopero alla Sda e in altre imprese della logistica sono stati pressoché totali. Ciò permette il rafforzamento dei conflitti dove già c’erano e il loro esordio nei posti in cui finora erano assenti. Lo sciopero del 22 marzo segna quindi un fondamentale salto di qualità nel processo di accumulo di forza ed estensione di questo ciclo di lotte.

Ma il 22M non si è esaurito negli straordinari numeri di adesione allo sciopero. Prima che l’alba facesse capolino, sono cominciati i picchetti e i blocchi dei principali snodi della circolazione delle merci. A Bologna l’interporto viene completamente paralizzato, le file di camion fermi in entrata e in uscita vanno avanti per chilometri. La composizione è quella vista nella vittoriosa lotta all’Ikea e in altre occasioni: al fianco dei facchini ci sono studenti, precari e militanti. Poco prima delle 10 arriva la notizia di una prima violenta carica della polizia ad Anzola, tra Bologna e Modena, per provare a sgomberare i cancelli della Coop Adriatica (sì, non è un caso, il fiore all’occhiello della sinistra e ganglio nevralgico del blocco di potere politico-economico del modello di governo socialista emiliano-romagnolo). Anche qui tutti i lavoratori delle cooperative avevano incrociato le braccia. Il picchetto resiste con determinazione e occupa la via Emilia, arteria centrale della circolazione: intorno a mezzogiorno viene rimpolpato dai partecipanti al blocco dell’interporto, che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo. Nel frattempo, a Verona e a Padova vengono bloccate le tangenziali e le strade della zona industriale, a Roma è presidiata la sede dell’Sda, a Torino e Genova ci sono iniziative in imprese specifiche. Nell’area metropolitana di Milano sono tre i concentramenti principali: all’interporto di Carpiano, dove vengono bloccate l’Sda e la Dhl, nella zona strategica di Linate, infine a Settala, dove i lavoratori picchettano due grossi centri della Dhl. Qui il delegato della Cgil prova a sfondare i picchetti per portare dentro i crumiri, l’uno e gli altri vengono cacciati via dai lavoratori. I confederali sono complici dei padroni non solo in senso figurato. A Piacenza, dopo aver nuovamente bloccato il deposito Ikea a partire dalle 6 del mattino, nel pomeriggio si forma un corteo che invade le strade del centro cittadino.

Ma la giornata è lunga. Poco dopo le 14 poliziotti e carabinieri indossano nuovamente caschi, scudi e manganelli per sgomberare il picchetto davanti alla Coop Adriatica e Unilog. Le cariche sono ripetute e violente, lavoratori, studenti e precari resistono e occupano la via Emilia. Cercando di sfuggire alla brutalità poliziesca tre lavoratori vengono investiti da un camion, le loro condizioni sembrano critiche: arriva l’ambulanza, uno viene portato in ospedale, gli altri due vengono soccorsi e restano sdraiati a terra. La strada rimane bloccata. I manganelli tornano a inseguire i corpi dei manifestanti, che mantengono compatto il corteo, raggiungono un parco ai lati della via Emilia e si riuniscono in assemblea.

Le immagini dei poliziotti che scortano i camion carichi di merci sembra una fotografia del capitalismo contemporaneo e della violenza dei processi di accumulazione. Ma queste lotte, innanzitutto, ne indicano i livelli di fragilità e di possibile rottura. La ritualità dello sciopero è definitivamente infranta, questo viene reinventato e torna così a essere un’arma per fare male ai padroni. Anche il simbolico non è più finalmente quello dei media mainstream, ma appartiene alla comunicazione autonoma che – attraverso siti, twitter e social network di movimento – ha creato il tessuto connettivo della giornata di sciopero (l’hashtag #logistica è stato tra i principali “trending topic” in Italia). In molti luoghi lo sciopero va avanti fino al sabato mattina, alcuni lavoratori discutono della possibilità di protrarlo ulteriormente. Dunque, finita con un bilancio eccellente la prova di forza e generalizzazione del 22, il processo continua su nuove basi: oltre la logistica, ripetono tutti, qui vanno trovati i circuiti della ricomposizione. Qualcuno cita gli Iww: forse è solo una suggestione, o semplicemente serve per descrivere alcune caratteristiche (mobilità, eterogeneità, irrappresentabilità) che oggi, nel cuore del capitalismo cognitivo, descrivono la forza lavoro precaria. In ogni caso, le forme organizzative della nuova composizione di classe ora sembrano un po’ meno indecifrabili: un passo in avanti comune lo stiamo facendo, magari proprio verso i wobblies del XXI secolo.

* Pubblicato su “il manifesto”, 23 marzo 2013.

Non abbiamo bisogno di un governo, ma dei soldi che ci spettano #anzituttoredditopertutti

15 marzo si insediano le nuove camere. Non abbiamo bisogno di un governo, vogliamo un reddito per tutti

Tra i 27 Paesi attualmente membri dell’Unione europea la mancanza di un reddito di base è localizzata soltanto in Italia, Grecia ed Ungheria. L’Italia resta al di fuori dei parametri europei continuando a disporre di un lacunoso ed iniquo sistema di ammortizzatori sociali che esclude il variegato universo dei precari e dei soggetti non coperti da nessun sistema di protezione sociale. La crisi e le politiche di austerity adottate dietro il ricatto del debito hanno agito come un dispositivo di “livellamento verso il basso” – facendo regredire garanzie sociali e i diritti acquisiti – seppur con un
intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. Le riforme Monti-Fornero hanno ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro e tagliato i fondi del nostro sistema previdenziale e welferistico. Siamo da poco entrati nel sesto anno consecutivo di crisi e dal punto di vista delle condizioni materiali, stiamo assistendo a forme inedite di povertà. Il costante e drammatico peggioramento degli indicatori sull’occupazionee sulle condizioni economiche (e di indebitamento) dei soggetti e delle famiglie (erogatrici di cassintegrazione di ultima istanza) è inserito in un quadro di recessione globale che non tende ad arrestarsi. Il tasso di disoccupazione reale – non quello delle statistiche ufficiali – è schizzato alle stelle come mai era accaduto negli ultimi decenni. Durante la campagna elettorale la riforma del welfare e la garanzia del reddito sono state al centro della scena mediatica. Il reddito e i variopinti aggettivi per descriverlo sono
diventati mainstream, argomenti portanti utilizzati in maniera trasversale. Le classificazioni riempiono quotidianamente le pagine dei giornali: “minimo”, di “cittadinanza”, di “solidarietà”, di “ultima istanza” fino ad arrivare ad un non ben definito “salario sociale”. Ognuno di questi progetti ha il suo calcolo di spesa più o meno veritiero. Il dato fondamentale emerso è che l’erogazione di un reddito per tutti non è un problema di sostenibilità economica ma di volontà politica. Il susseguirsi di prese di posizione ha circoscritto l’importanza di una legge nazionale per il reddito ad una misura di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Lo spettro che si aggira dietro le solidaristiche intenzioni di equità sociale sono le nuove politiche di welfare to work (ovvero workfare, welfare condizionale, labourfare) che il nostro Paese sta predisponendo, importandole da altri stati europei. Partiti, sindacati e burocrazie di servizio stanno prestando il fianco a questa operazione.

L’obiettivo non dichiarato è la subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario. Ma il workfare non ha neppure una ricaduta positiva sulla spesa pubblica. Anzi, è piuttosto costoso, sia sul piano amministrativo sia in generale, dal momento che i posti di lavoro in offerta sono a bassa produttività. Le esigenze principali a cui assolve sono due: il controllo sociale sulla vita dei soggetti e la falsificazione delle statistiche sulla disoccupazione operando una riduzione fittizia, senza creare quindi dei posti di lavoro, ma con il solo risultato di scoraggiare i disoccupati dal richiedere gli assegni assistenziali. Ma non si tratta esclusivamente di redistribuire la ricchezza – il che non sarebbe poco in questo momento, se avvenisse senza il ricatto dell’impiego precario da accettare – ma si tratta di riconoscere – e quindi retribuire – la produzione sociale che avviene ogni giorno. Gli attori protagonisti di questa mobilitazione permanente per il capitale sono i milioni di precari che quotidianamente producono ricchezza. Il reddito di base e incondizionato è il riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione.

 Operazione chiarezza! Il decalogo ovvero i 10 punti del reddito che vogliamo:

1.      Per reddito intendiamo un intervento economico universale ed incondizionato, ovvero l’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perenne in grado di garantire la riproduzione delle vite singolari. Oltre al reddito diretto si devono garantire i bisogni comuni (formazione, comunicazione, mobilità, socialità, abitare) attraverso forme di reddito indiretto.

2.      Il reddito non è discriminante nei confronti di nessuno, quindi viene erogato a nativi e migranti a prescindere dalla cittadinanza perché concorre a definire la piena cittadinanza sociale e il pieno godimento delle libertà civili.

3.      Il reddito deve essere erogato a tutti i soggetti dal compimento della maggiore età fino al raggiungimento della pensione (che non avranno mai, quindi fino alla conclusione della vita terrena).

4.      Il reddito è un diritto fondamentale della persona (quindi soggettivo) che tutela il diritto ad un’esistenza autonoma, libera e dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata.

5.      Il reddito è il riconoscimento della produzione sociale permanente. Il reddito indipendente dalla prestazione lavorativa riconosce il concetto di produttività della vita sociale, dà valore al tempo di vita che è oltre il tempo di lavoro.

6.       L’istituzione di un reddito rappresenta un mezzo per lottare contro la precarietà (sociale e) lavorativa e il basso livello di remunerazione (in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa),
evitando che una parte crescente della popolazione – come è avvenuto nei 6 anni di crisi – cada nella “trappola della povertà”. Il reddito fornirebbe ai precari e ai precarizzati il potere di non accettare qualsiasi lavoro e di opporsi alla precarizzazione. Quindi il reddito è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro.

7.      Il reddito non è un sussidio di povertà, quindi non è una forma di salarizzazione della miseria e dell’esclusione sociale.

8.      Il reddito non è un sussidio di disoccupazione.

9.      Il reddito non è vincolato all’accettazione di nessuna offerta formativa e/o lavorativa, di conseguenza non ha un regime sanzionatorio. Ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito Minimo Garantito proposta da una rete di associazioni e partiti di sinistra, ispirata alla legge regionale del Lazio n.4 del 2009 (“Istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito in favore di disoccupati, inoccupati e precariamente occupati) prevede tra le cause di sospensione, esclusione e decadenza della prestazione, il rifiuto di una proposta di lavoro avanzata dal Centro per l’impiego comporta la decadenza del
beneficio, fatta eccezione per l’ipotesi della non congruità della proposta di impiego (art.6 legge regione Lazio n 4/2009). Una sorta di regime sanzionatorio che dovrebbe inserire degli elementi di condizionalità del beneficio o delle indennità godute dal soggetto inserito nei programmi di orientamento, formazione e attivazione, lasciando però in uno stato di indeterminatezza la questione dei doveri in capo alle amministrazioni deputate all’inserimento. Di conseguenza, un’ulteriore perplessità deriva dall’erogazione ancorata alla disponibilità al lavoro, la cosiddetta “congrua offerta” (meccanismo sanzionatorio predisposto dalla Strategia Europa per l’Occupazione) e quindi alla condizionatezza al lavoro precario e intermittente proposto dai centri per l’impiego che, oltre ad essere inadeguati nel realizzare le politiche formative/di orientamento e di inserimento lavorativo, ricevono esclusivamente offerte di lavoro con basse qualifiche professionali. Noi pensiamo che si possano coniugare strumenti universalisti di protezione sociale con politiche di attivazione, senza regime sanzionatorio.

10.     Il reddito non può essere “minimo”, perché è la configurazione di un nuovo diritto ed i diritti non sono né minimi né massimi. Per quanto riguarda l’importo della misura, per noi dovrebbero essere almeno 1000 euro al mese. Occorre riflettere, infatti, sull’evenienza che una prestazione modesta possa comportare un effetto perverso a carico dei lavoratori precariamente occupati: in casi di contrattazione diretta della loro condizione lavorativa un rinvio al reddito come risorsa complementare potrebbe diventare l’escamotage per prospettare un mantenimento dell’occupazione precaria con livelli di retribuzione ridotti. La conseguenza sarebbe l’istituzionalizzazione del ”sotto-occupato” working poor (lavoratore povero) che non riuscirà a vivere con 600 euro al mese e dovrà accettare lavori al nero pur di non perdere il sussidio. Sappiamo bene quanto il lavoro sommerso in Italia sia necessario in quanto camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso.

#anzituttoredditopertutti

Incontro con Maurizio Lazzarato

Per una rottura politica contro la governance neoliberista

Con il risultato elettorale abbiamo sicuramente un deposito di elementi contradditori, una dimensione politica complessa su cui ragionare e dispiegare una riflessione ad ampio spettro.

Innanzitutto sulla crisi irreversibile e verticale della rappresentanza dei partiti, praticamente tutti  in special modo di quelli per il governo autoritario dell’austerity, 9 ML i voti persi complessivamente da PD, PDL e Lega. Il partito del non voto (astensione, schede bianche, nulle o invalidate) si è affermato come il vero primo partito, l’affluenza rispetto al 2008 ha subito nei fatti un calo del 7% nonostante il tentativo di recupero sulla così detta antipolitica.

Poi l’ingovernabilità parlamentare secondo coalizioni di schieramento opposte e speculari in linea con la trojka e l’affermazione istituzionale, formalizzata, come già detto da più parti, rappresentata e contestualmente addomesticata attraverso il movimento 5 stelle di quelle istanze che i movimenti sociali hanno imposto in questi anni con il loro protagonismo, le rivendicazioni costituenti delle lotte: dai notav, ai comitati referendari contro la privatizzazione dell’acqua pubblica, dalla redistribuzione dei fondi e delle risorse – la semplificazione operata nella vulgata giustizialista contro la corruzione è stata nei fatti fin qui destituente – fino ai nuovi diritti per i precari come quella sul reddito di cittadinanza, sociale o garantito che dir si voglia. Temi sui quali dovremo concentrare le nostre riflessioni e strategie di conflitto se vogliamo poi imporre all’agenda di governo – qualunque esso sia – una mobilitazione di massa, una capacità d’urto, necessaria per qualsiasi ridefinizione dei nuovi diritti, figuriamoci poi per una trasformazione della carta costituzionale.

Una premessa politica è d’obbligo. Non intendiamo affatto il 5 stelle come la nuova rappresentanza dei movimenti. Al contrario l’ipotesi che si è aperta con l’affermazione dei cosi detti grillini rimanda all’incapacità da parte dei movimenti di farsi – almeno in questo frangente – conflitto non risolvibile e non addomesticabile, rottura costituente. Almeno per ora pare riuscita l’operazione di cattura e sussunzione della conflittualità e della stessa materialità dei movimenti proprio in questo farsi stato che il 5 stelle ha inteso avviare con il forte scossone di incursione parlamentare e di consenso elettorale.
In ogni caso anche solo temporaneamente – la finestra si chiuderà molto presto – si rompe il meccanismo della coazione a ripetere di un sistema bloccato di cui evidentemente la stessa governance comincia ad essere stanca e a sentirsi legata. C’è un blocco della valorizzazione capitalistica al centro della crisi che da anni sta segnando le politiche economiche e di governance, dove l’unico paradigma di governo si articola intorno alla misura del debito e dell’austerity come vero e proprio dispositivo di comando, di sottomissione di assoggettamento del lavoro vivo.

E sappiamo bene quanto possa tornare utile alla logica dei mercati e della speculazione l’instabilità che si è venuta determinando in questo difficile tornante nella storia del nostro paese. Ma, e lo affermiamo con forza, anche di quale grande opportunità si apre al cospetto dei movimenti, soprattutto su quei temi dove i movimenti stessi sono chiamati in causa dentro l’ingovernabilità formale che si è aperta con l’ultima tornata elettorale.
Le così dette riforme delle politiche del lavoro e del welfare, ciò che la tecnicalità di una certa dottrina dello stato chiama welfare per la protezione sociale o diviene un campo di forze, un terreno di scontro e di sperimentazione delle pratiche del conflitto oppure rimarrà semplicemente la cooptazione e la sottomissione, il controllo e disciplinamento sociale. Un movimento che spinge il reddito garantito come istanza minima di esclusivo contrasto della povertà assoluta e non come orizzonte del conflitto sociale nella densità delle sue pratiche riappropriative, si ridurrà alle già annunciate spirali di cattura e assistenza sociale così come si manifestano i progetti di workfare e di reddito minimo fin’ora conosciuti.

Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia è considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il formale tasso di disoccupazione. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale
del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. La tanto decantata riforma sul MdL dell’ultimo governo tecno-autoritario ha aumentato il lavoro sommerso e paradossalmente ridotto gli AA. SS. esistenti, come sappiamo già largamente insufficienti ed iniqui. Così come sono anni che andiamo chiarendo le distinte prospettive tra la flexicurity come politica di workfare, dalla proposta di un reddito universale e di esistenza.

Si diceva di reddito quindi e negli ultimi anni le moltitudini precarie si sono mobilitate con le tante iniziative promosse su tutto il territorio nazionale almeno nel biennio 2003/2004 fino ad arrivare ad imporre all’agenda politica il tema del caro vita, della precarietà, del sacrificio imposto e del ricatto sociale. Abbiamo organizzato insieme a tanti manifestazioni nazionali per il reddito garantito di decine di migliaia di persone, siamo entrati nei supermercati e nelle
librerie pur nei tanti limiti delle soggettività politiche coinvolte e l’impatto sociale della riappropriazione messa in atto con la campagna dello shop surfing servì indubbiamente a porre il reddito come istanza non più rinviabile in una paese dove solo insieme alla Grecia all’interno del quadro europeo non è presente a tutt’oggi alcun minimo elemento di protezione sociale, neppure di welfare to work. Poi seguirono tra gli appuntamenti del mayday milanese che negli anni cresceva nella densità della partecipazione, le tante lotte e vertenze, alcune anche vinte significativamente dalla cospirazione precaria che sotto la protezione di San precario ha difeso i devoti, sfruttati, ma disponibili a rovesciare il tavolo del padrone. Ci siamo messi contro Ministri, Pubbliche amministrazioni, Enti locali, perché la lotta di classe non permette giravolte e politicismi, quando rompi la compatibilità e il compromesso, saltano le mediazioni e la manifestazione autoritaria dell’austerity la tocchi con mano. Così siam giunti al biennio caldo delle lotte transnazionali 2010/2011 dove le moltitudini precarie hanno aperto e liberato il campo, hanno travolto gli accordicchi, subissato i politicanti, hanno sedimentato rivolta riprendendosi la piazza, del Popolo prima, di San Giovanni poi. E così è la lotta di classe, terribilmente oscena, a volte non proprio ordinata ma certamente densa della rottura costituente di cui abbiamo bisogno.

Dopo gli scontri di Genova, dopo la rabbia non solo per un compagno caduto, ma anche per l’insufficienza e totale incapacità di quei compagni che diressero quell’appuntamento, c’è stato tutto questo e molto altro: basti ricordare le battaglie campane contro gli inceneritori, quelle per il referendum vinto – cosa non da poco – contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e ovviamente non in ultimo la lotta NoTav. Oggi abbiamo un patrimonio sociale un’eredità di
conflitto e di trasformazione da incarnare, oggi se possibile più di ieri il disordine è tanto, molto, denso sotto il cielo e come qualcuno ricorda per noi è un’ottima prospettiva.
Non solo non veniamo dal nulla ma abbiamo un futuro da conquistare.
Dobbiamo quindi essere all’altezza della fase e sapere come orientarsi nella prateria per prendere posizione. Dobbiamo definire quindi con molta chiarezza per cosa ci mobilitiamo e come intendiamo oggi porre la questione del reddito.
La moltitudine precaria che vogliamo organizzare da dentro e dal basso rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, certamente impoverito, ridotto a mero strumento di controllo sociale.

Reddito garantito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Lo intendiamo come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale, affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva, ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali nella nuova organizzazione del lavoro.
Di questo e molto altro vogliamo parlare con Maurizio Lazzarato. Non ha bisogno certo di presentazioni, è prima di tutto un compagno oltre che un lucidissimo pensatore – magari l’etichetta di ricercatore o sociologo gli può stare stretta, vista la sua esperienza politica e di militanza nell’autonomia operaia – è tradotto ormai in molte lingue e apprezzato in diversi continenti. Possiamo ripercorrere alcune tendenze del suo pensiero come costituenti di tutto un dibattito politico e teorico che nell’ultimo ventennio ha caratterizzato non solo le trasformazioni del lavoro e della produzione – ricordiamo che già nei primi anni 90’ aveva rintracciato il contenuto immateriale del lavoro come egemone nei nuovi processi produttivi dispiegati nell’economica postfordista e nelle sue trasformazioni che hanno risignificato lo stesso processo di valorizzazione e che tuttora rimangono un terreno aperto d’inchiesta in continuo divenire. Ancor di più lo seguiamo fino ad oggi per la perfetta e calzante attualità della dimensione teorica di alcune ipotesi che vorremmo qui ricondividere.

Venerdì 5 Aprile h 17 Laboratorio Acrobax – Roma

intervista a Maurizio Lazzarato per www.indipendenti.eu con

*Gianluca Pittavino – Askatasuna Torino

*Francesco Festa – 081 Napoli

*Benedetto Vecchi – Il Manifesto

*Federico Primosig – attivista Stoccolma

*Sergio Bianchi – Deriveapprodi

*Dario Lovaglio – attivista 15M Barcellona

sono invitati ad intervenire: Laboratorio Alexis, America occupato, Degagè, Laboratorio Acrobax, collettivi e reti studentesche

Nel decennale dell’assassinio di Dax

16 MARZO 2013: CORTEO NAZIONALE ANTIFASCISTA E ANTICAPITALISTA

 

16 MARZO 2003: LA NOTTE NERA DI MILANO. I fascisti accoltellano a morte Davide Cesare, detto Dax. Subito dopo la polizia ed i carabinieri picchiano a sangue gli amici ed i compagni accorsi all’ospedale San Paolo per avere sue notizie. Squadrismo fascista e brutalità poliziesca.
Lame e manganelli.

MARZO 2013: nel decimo anniversario dell’assassinio di Dax, ucciso perché militante antifascista, Milano si prepara a ricordare i fatti della notte nera e a opporsi ad ogni tentativo di rigurgito fascista, con una tre giorni di controinformazione, lotta, musica e sport popolare.

15 MARZO, GIORNATA INTERNAZIONALE: dibattito e confronto fra esperienze di diversi paesi, perchè la solidarietà è un’arma contro chi ci governa e reprime. Interverranno Antifascist Network of South Athens, Jabalia Youth Activity Center Gaza, Marcha Patriottica Colombia, Antifascisti
Russi.

16 MARZO, CORTEO NAZIONALE: le lotte sociali attraverseranno Milano per ricordare Dax, contro la repressione, e per affermare il valore dell’antifascismo e dell’anticapitalismo come filo conduttore contro un modello di sviluppo economico neoliberista . Per questo si darà visibilità alla lotta per la casa, alla lotta studentesca, allo sport popolare.

17 MARZO, SPORT POPOLARE: giornata di attività sportive, interamente promosse, gestite e praticate dal basso. Perché è importate riappropriarsi e concepire lo sport come pratica sociale sempre aperta e percorribile da chiunque ne abbia la volontà.

Contro il fascismo, da sempre schierato a difesa degli interessi delle classi dominanti. Contro il capitalismo, responsabile dello sfruttamento e dell’oppressione che attanaglia il pianeta. Un modello in crisi endemica da abbattere dalla fondamenta, per costruire un’alternativa basata su giustizia sociale, solidarietà e rispetto di tutti gli esseri viventi.

16 MARZO 2013: DAX VIVE NELLE LOTTE DEL PRESENTE.

NELLA MILITANZA ANTIFASCISTA E ANTICAPITALISTA.

UNITI SI VINCE!

INFOPULLMAN SOLO PER GIORNATA CORTEO:  3333666713 – COSTO 30€ DA ROMA

Manifesto delle iniziative a sostegno delle spese per i pullmann: http://www.facebook.com/events/475632285819330/# [1]
www.daxvive.info [2]

I compagni e le compagne di Dax

Links:
——
[1] http://www.facebook.com/events/475632285819330/
[2] http://www.daxvive.info/

Riflessioni per la rottura politica, un contributo alla discussione prima della tornata elettorale

La governance capitalista è allo sbando, non ha un piano strategico, si muove sulla tattica e sulla rapina sistematica, usa strumentalmente la crisi, la costituisce come fondamento e la risignifica come dottrina.

Il gioco di specchi è tra l’uso politico della crisi attraverso il ruolo vincolante della troika e il comando politico e militare sull’austerity, con le polizie usate sovente come truppe di occupazione dei territori.

Dentro lo sviluppo e la trasformazione radicale della realtà sociale e produttiva, lo stato contemporaneo, snello o postmoderno o come lo si voglia definire, è ancora lì esistente, con la sua scienza della polizia a difesa dell’autoregolazione del mercato, sovrano unico e incontrastato. La macchina dello stato è ancora il potere politico a guardia dell’esercizio sistematico del profitto per mezzo dello sfruttamento capitalistico, nella sua permanente dinamica di espropriazione e cattura.

La moneta in crisi, ovvero l’Euro – questo enorme campo di forze a regime intensivo di sfruttamento del lavoro vivo sotto l’egemonia del capitale renano – diviene un nuovo stato, oltre lo stato. Potremmo dire che la moneta – ma anche la finanza globalmente intesa – diviene sovra stato produce legge senza bisogno della legge, decide permanentemente sull’eccezione e sulle nostre teste, disponendo sistematicamente del futuro delle nostre vite.

Il volto politico della governance attraverso gli esecutivi tecnici e autoritari che si alternano alla guida di molti paesi della comunità europea – tecnicizzazione, vecchia passione dell’autorità – assume sembianze sempre cangianti, diversificate e articolate che sintetizzano sul territorio la rappresentanza del complesso snodo di lobbies e agenzie, apparati e gruppi di expertise. Snodi di potere che sul territorio si diffondono e si moltiplicano progressivamente proprio per il loro ruolo strategico all’interno della stessa catena di comando.

Sostenuti ed eterodiretti dai gruppi di interesse del capitalismo contemporaneo, ormai attraversato e verticalmente costituito dal processo di finanziarizzazione dell’economia, basato sulla stessa produzione biopolitica del comune.

E’ in corso, nella grande transizione e diaspora del moderno, una nuova accumulazione originaria del capitale attraverso la gestione e il controllo proprietario della banca dei dati sociali, il nuovo grezzo immateriale, la nuova energia come lavoro vivo, sottomessa e risucchiata dal regime capitalistico contemporaneo.

La produzione del capitale sociale e i nessi tra le forme della nuova valorizzazione cognitiva, digitale, affettiva, l’evoluzione delle tecnologie della comunicazione e del linguaggio che nella rete si dispiegano sono lo spazio per la nuova accumulazione capitalistica. Le reti sociali virtuali ad esempio rappresentano lo spazio della cooperazione sociale diffusa e nel contempo della nuova cattura: siamo di fronte alla sussunzione reale non solo del processo lavorativo formalmente costituito ma dell’intera vita nella sua produzione e riproduzione reale. Le multinazionali oligopolistiche che gestiscono i big data e le infrastrutture informatiche sono evidentemente i nuovi padroni.

Ciò non significa aver individuato l’unica contraddizione nello sviluppo del capitale, quanto invece aver segnalato una delle tendenze più avanzate sotto il profilo delle nuove forme dello sfruttamento della vita e della sua riproduzione.

E però queste forme di accumulazione e sfruttamento intensivo non sono le uniche del comando capitalista. La speculazione immobiliare, la cementificazione del suolo, la rendita immobiliare rappresentano, nelle continue interconnessioni con il processo di finanziarizzazione, altre e altrettanto decisive forme dello sfruttamento e estrazione di valore.
Così come anche dentro le stesse politiche neoliberiste del pareggio in bilancio e della privatizzazione dei servizi del welfare, dello sfruttamento dei cosiddetti beni comuni, come appunto il suolo e l’acqua, si determina un processo intensivo di sviluppo e accumulazione di profitto ed estrazione di plusvalore.

Da qualche parte abbiamo letto che il ceto capitalista è in un certo qual modo foucaultiano, ogni sua categoria definitoria è categoria pratica, ipotesi di trasformabilità rapporto tattico e strategico e con questo siamo profondamente d’accordo.

Le politiche dell’austerity e la misura del debito devono però come sempre essere imposte e governate con la forza, con quella coercizione propria della “spada che sostiene la legge”. Le decisioni dei governi che hanno adottato le indicazioni della commissione UE sono di profonda e drammatica portata nei termini di costi sociali e questo in nome della dittatura dei mercati e del neoliberismo.

Il governo autoritario della crisi prova a gestire la grande transizione con un’asimmetrica guerra civile non dichiarata. Gli eserciti del neoliberismo contro i nuovi poveri del neoliberismo. Nella crisi della misura del valore, si rompe anche il piano-sequenza della politica come mediazione e governo dei conflitti. La crisi della rappresentanza politica relega la governance al ruolo di una nuova scienza della polizia in un progressivo, voluto e disinteressato distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione. L’unico welfare realmente visibile nella vita delle persone è la polizia.

La particolarità del momento preelettorale che sta attraversando il nostro bel paese, vive un passaggio complesso che si dispiega su un vero campo di forze, su una tensione polarizzata che terminerà evidentemente in uno scontro e ulteriore conflittualità sociale, starà a noi capire però in quale direzione politica.

I rigurgiti della teppa neofascista, con il populismo del ritorno sovranista alla casa dello stato regolatore o, peggio, alla più retrogada cultura nazional popolare sono dietro l’angolo di ogni dibattito sulla crisi. Non ci sorprenderebbe affatto un risultato discretamente pericoloso per le organizzazioni neofasciste e neonaziste candidate ovunque tra elezioni politiche e amministrative.
Per non parlare della scelta del movimento cinque stelle di farsi i salutini con i fascisti del terzo millennio ammiccando qua e là, ovviamente, anche nel mondo dei centri sociali, vantando l’internità, magari anche specificatamente genuina, in alcuni movimenti popolari noti come il No Tav, i movimenti per l’acqua pubblica o quelli sui rifiuti.

Magari scopriremo che la burla del comico torna comoda come ultimo estremo tentativo di una parte della governance e dei suoi apparati per il recupero, la cattura della rabbia, nell’ultimo disperato tentativo di neutralizzare e normalizzare il malcontento ormai diffuso che, nel biennio 2010/11, qualche fiammata di indignazione l’aveva manifestata nelle strade di questo paese.

Meglio dare il sussulto alla legalità e al richiamo confessionale alla costituzione e rimandare i giovani rivoltosi a casa o, ai più cattivelli, e sprovveduti un po’ di galera.
E speriamo non sia solo un addomesticamento quello delle istanze anche più avanzate, come quella sul reddito di cittadinanza – che poi figurarsi scavalcano le pozioni micragnose della sinistra con l’orecchino sotto l’ala del PD.
Proprio su questo tema si dovrebbe aprire una profonda riflessione su quello che i movimenti sono stati in grado di produrre in questi anni e della capacità che hanno avuto di imporre una questione nell’agenda politica di questo paese. Eppure, da sempre convinti che il reddito sia uno strumento, sappiamo anche che, come tale, può essere utilizzato per approfondire quella condizionatezza e controllo sei sistemi di workfare che, negli ultimi anni, abbiamo visto nel resto di Europa.
C’è da compiere una scelta: rivendicare un reddito incondizionato perchè in aperta rottura con le dinamiche di precarizzazione, o scegliere di rimanere imprigonati nelle maglie del contenimento sociale.

Un sistema bloccato, circolo vizioso, nella coazione a ripetere.

La nostra generazione per vivere e non sopravvivere può fare solo la rivoluzione, non c’è altra strada.
C’è bisogno della rottura politica col quadro della compatibilità voluto anche dalle sinistre parlamentari o aspiranti tali, chi col PD, chi con quella magistratura che sostituendosi alle opposizioni sta aprendo un varco pericolosissimo dentro lo stesso esercizio del potere.
Per tre volte la Repubblica Italiana ha fatto ricorso, per supplire alla mediocrità della politica, alla via giudiziaria. Prima, con lo stato di emergenza e le leggi speciali evocate ed applicate per annichilire la spinta rivoluzionaria nel decennio caldo che è seguito in Italia al maggio francese, poi per disarcionare una classe politica corrotta nello scandalo tangentopoli, poi per reprimere l’asse di potere del Cavaliere congiuntamente alle pressioni e successivi ultimatum dei vertici della Trojka che a loro volta hanno imposto d’autorità e nello stato di emergenza il governo dei tecnici.

La rottura non può che essere generalizzata, aperta e di massa critica. Quella trasformazione può essere compiuta solo se i soggetti precarizzati e impoveriti riusciranno a connettere le loro singole attivazioni in un processo più ampio e liberare il campo dagli orticelli delle organizzazioni precostituite anche di movimento.
Evidentemente negli ultimi anni si è costruito, con lo sviluppo e l’acuirsi di vertenze più o meno grandi, un segno di insubordinazione, un arcipelago, un’idra dalle molte teste; il punto sostanziale oggi però è generalizzare, comprendere un quadro differente, in cui dovremo essere in grado di mettere in campo non più rappresentazioni del conflitto quanto invece la giusta forma della rottura con un’organizzazione sociale fluida e sufficientemente attestata sulla trasformazione, all’altezza della fase.
Questo molto più che le elezioni, sono il centro delle nostre prospettive e relazioni.

Le condizioni, attualmente, non possono essere univoche, perchè la crisi ha prodotto un’enorme frammentazione ed è difficile ritrovarsi nello stesso luogo e nello stesso tempo, la ricomposizione nella lotta.

Riuscire ad immaginare una trasformazione radicale dell’esistente è l’unica via di fuga dalla retorica e dal senso di responsabilità e sacrificio mortifero del capitalismo. Nell’insopportabile violenza prodotta sulle nostre vite sta la prima leva in cui rivoltare il macigno, la seconda è l’organizzazione della rottura oltre i partiti, le sigle sindacali o le reti di scopo, ma nella condivisione reale di un processo, in cui sia chiara e trasparente la relazione tra i singoli territori, che siano essi fisici o mentali, ma in cui si produce lo sfruttamento delle nostre vite e dove è necessario concentrare energie e conflitto.
La terza è l’individuazione delle strategie della soggettività di movimento adeguate al conflitto nel cosi detto mercato del lavoro, nello sfruttamento dei beni comuni contro le dinamiche della precarizzazione, normalizzazione e cooptazione che spesso compongono quell’ingranaggio di potere, prerequisito e dispositivo nelle strategie della governance neoliberista.

Le nostre catene continuano ad essere sempre più salde e noi non abbiamo che perdere solo quelle.

Conoscete il detto “capire di che morte morire”? Si usa in condizione di frustrazione e rassegnazione, aspettando che qualcuno palesi le proprie volontà perché determini anche il nostro di futuro.
Esattamente il punto di vista opposto. E’ questo quello che abbiamo provato a costruire e continueremo a fare cercando altri con cui respirare e cospirare assieme.

Determinare le nostre vite, creare legami per riprendere il presente e poter decidere un futuro, diverso:
scegliere di che vita vivere.

Que se vayan todos, no algunos
Laboratorio Acrobax

Conflitto sociale e Libertà di movimento – i bi/sogni non si arrestano – verso Teramo

Il 15 Ottobre del 2011 le moltitudini indignate e in lotta contro il neoliberismo si mobilitarono globalmente. In Italia nella preparazione di quella giornata, durante il suo svolgimento e dopo sono avvenute cose degne di un bilancio politico e più approfondito da parte dei movimenti: partiamo anzitutto da noi, ma dovrebbe essere un’incombenza sentita anche e soprattutto da coloro che quel giorno e nei seguenti gridarono al lupo e cercarono il nemico interno – abitudine brutta e antica, ahinoi, di chi a sinistra ricorrentemente giustifica i propri tatticismi mascherandoli per grandi strategie e poi cerca di scansare l’implacabile giudizio dei fatti. Abbiamo sentito in quei giorni quindi dare fiato alle trombe, fin sulle pagine dei giornali, con lucido risentimento: ritrovandoci così, noi insieme alla cospirazione precaria, ad essere tra i pochi alleati della sana disponibilità al conflitto che quel giorno ha dispiegato ciò che si andava concatenando da tempo.

Ostinatamente continuiamo a rivendicarlo come nostro punto di forza e di resistenza: essere variabile indipendente, volere e aprire un possibile varco per una necessaria rottura politica, un odio di classe come motore costituente che per noi è desiderante espressione di potenza e non di superficiale rancore tra gruppi. A cooperare per il conflitto e la praticabilità di un’opzione rivoluzionaria siamo tutt’oggi disponibili, ma con la chiarezza politica necessaria, chiedendo sempre – anzitutto a noi stessi, a partire proprio dalle lezioni di quel 15 ottobre – di giocare a carte scoperte nelle alleanze e nelle pratiche di relazione politica.

Andremo a Teramo prima di tutto per chiedere l’immediata e incondizionata libertà per i fratelli e le sorelle, i/le compagn* rastrellat*, pedinat*, seguit*, ricattat* e minacciat* dallo stato o dai suoi solerti funzionari in divisa o in doppiopetto. Da quella giornata di rivolta e di rabbia precaria, che ha tenuto piazza San Giovanni per ore resistendo alle cariche e ai caroselli di polizia, carabinieri, finanza e polizia in borghese, lo Stato per come ha reagito nell’immediato e deciso di vendicarsi nel medio e lungo termine dimostra di aver avuto paura della sollevazione quale mezzo di partecipazione. Ci hanno preso troppo sul serio, verrebbe da dire nell’indagare i limiti in seguito espressi dalle soggettività di movimento.
Ora in tante e tanti stiamo subendo la repressione a suon di processi e di sentenze che già hanno accumulato un ammontare spropositato di anni di carcerazione somministrati, proprio mentre il nostro bel paesello viene redarguito davanti al mondo dal tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la vessazione e disumana condizione in cui versano le patrie galere – e, verrebbe da aggiungere, le celle dei commissariati e dei CIE che quotidianamente praticano la tortura fisica e psicologica su tutti i malcapitati; la maggior parte, come si dice in gergo, comuni, cioè cittadini comuni nelle mani dello Stato in balia delle sue prove tecniche di governo autoritario.
Perciò non basta dire no alla repressione. Occorre, e lo diciamo da tempo, una più ampia campagna di denuncia del clima insopportabile che prima di tutto il corpo sociale sta subendo in termini di chiusura degli spazi di libertà: a partire da quei particolari laboratori della repressione che si esercitano sugli stadi, i migranti, il precariato delle periferie, e insieme alla progressiva delinquentizzazione delle lotte sociali attraverso la fattispecie di reato di devastazione e saccheggio.

In un paese compresso da politiche di austerity durissime è necessario dunque aprire una vertenza generale per la libertà di movimento, coniugarla alla più estesa battaglia per una democrazia reale, radicale, esercitata dal basso contro le politiche autoritarie inflitteci nella logica del sacrificio e con le armi della precarizzazione e dell’esclusione sociale. Da qui nasce l’esigenza non solo di sottolineare il paradosso della traduzione della conflittualità sociale in “probema di ordine pubblico”, ma soprattutto di ri-significare la parola libertà.

Parlare di libertà di movimento significa anzitutto mettere a fuoco il cambiamento di paradigma che sta trasformando le realtà sociali: significa prenderne coscienza delle meccaniche del profitto dentro lo sfruttamento e della disciplina sociale che l’austerity impone. Parlare di libertà di movimento significa rovesciare il senso delle accuse e cercare di creare quelle condizioni sociali per cui siano la devastazione del mercato del lavoro e il saccheggio del nostro futuro ad essere combattuti, con le lotte e il protagonismo sociale.

Laboratorio Acrobax

Bartleby è ovunque, siamo tutt* Bartleby

L’hanno murata, la casa di Bartleby a Bologna, stamattina. E’ così che si tratta la produzione di ricchezza comune, di idee e cultura e libera socialità, sotto i governi democratici dell’austerità.
Volevano espellerla dalla città, quella casa, dalla pericolosa promiscuità con i flussi del sapere in conflitto nell’Università da cui Bartleby era spuntato, nato dall’Onda, dicendo ancora una volta quasi quattro anni fa “avrei preferenza di No”.
E anche stavolta ha detto così, Bartleby, come quando per più volte gli avevano violentemente chiuso la sua prima casa: “avrei preferenza di No”, resto in San Petronio, convenzione o non convenzione, non son un tipo convenzionale, ne converrete…
Ora che hanno messo su un muro al posto di una porta e un altro muro di divise e blindati intorno, Bartleby risponde con la sua persona plurale che più preoccupa il Potere: “Dissotterriamo le asce di guerra”.
Noi che con Bartleby abbiamo nel nostro piccolo condiviso moltissimo in questi anni, cose come la pretesa di indipendenza, la costruzione di autonomia, la libertà di tessere reti e immaginare la nostra comune esplosione di precarie e precari in uno sciopero inevitabilmente e sapientemente sociale che infine inizia a divampare nell’EuroMediterraneo, possiamo avere una sola risposta: Augh! Bartleby, fratello e sorella! Le nostre asce con le vostre e sarà terribile la risata che li seppellirà sotto le macerie dei loro muri!
Ogni giorno, ogni notte, con Bartleby che è dovunque perché è moltitudine.
Laboratorio Acrobax –  All Reds – Alexis occupato – America occupato

Ogni Giorno e ogni notte sono per Alexis! RECUPERIAMO L’EX ACEA OCCUPATO!

Per noi la giornata del 6 dicembre scorso è stata una tappa, un
tassello importante di quel processo di cambiamento e attacco alle
politiche di austerity prodotte dalla crisi, un processo che si è
scrostato di dosso l’illusione elettorale e parla di riappropriazione e
sperimentazione del comune. Lo stesso che ha visto nell’autunno uscire
dalle scuole occupate e scendere in piazza migliaia di studenti al grido
“non ci rappresenta nessuno”, lo stesso che ha dato vita all’esperimento
di Ri_pubblica (www.ripubblica.org [1]) e dell’occupazione dell’ Ex
Cinema America.

Abbiamo riscontrato fin da subito un largo consenso sociale: nei
confronti di chi occupa oggi si moltiplicano gli applausi degli abitanti
dei quartieri lasciati al degrado, la solidarietà dei lavoratori che
non arrivano alla fine del mese, la richiesta di partecipazione e
attivazione ai processi di lotta e riappropriazione del patrimonio
immobiliare inutilizzato. Questo è solo l’inizio, la strada da fare è
ancora lunga ma l’esperienza che stiamo vivendo ci restituisce la
consapevolezza che pascolare nei recinti della politica istituzionale
non è sufficiente, che la mediazione al ribasso non ci appartiene.

Noi partiamo da qui, dall’ex acea occupato di viale Ostiense 124!

L’abbandono e il degrado di edifici dismessi e di intere aree sono la
norma in una città che non ha alcuna pianificazione urbanistica se non
quella degli interessi dei costruttori, re di Roma e che nel frattempo
vede grandi opere come il progetto della bretella autostradale di Tor
de’ Cenci ed il G.R.A.bis (per citarne una).
Il quadrante di Via Ostiense, in cui si trova l’ex Acea occupato, ha
perso la sua precedente vocazione operaia legata ai mercati generali,
alle sedi Acea ed Italgas. Ormai in pieno centro metropolitano l’intero
quartiere è oggetto di radicali trasformazioni che puntano a sviluppare
un’economia di servizi. Le luci dei locali notturni riempiono la via di
Libetta, e i cartelli di appartamenti in affitto sono ormai solo per uso
ufficio dove il margine di guadagno è tre volte più alto. Il processo
di gentrificazione, ovvero di espulsione dei ceti popolari in favore
delle fasce più abbienti è ormai largamente avviato.

Servizi pubblici svuotati di senso si accavallano con speculazioni
private in una risignificazione che vede il territorio e chi lo abita
solo in termini di profitto. A partire da quel mostro di fabbrica del
sapere chiamata “Università degli Studi di Roma Tre” che mette in
produzione tutto il territorio intorno alla propria esistenza con taciti
accordi con costruttori, imprenditori e impicciaroli vari realizzando un
modello di università da intendersi come “laureificio”, privato di
spazi di aggregazione, critica e discussione; che svuota del suo
contenuto essenziale il diritto allo studio non concependo o eludendo
servizi essenziali per gli/le student@, quali mense e alloggi. Non sono
da meno i progetti sugli ex Mercati Generali che dietro l’illusione
della riqualificazione e della fruibilità culturale diventerà
l’ennesimo centro di consumo di merci e servizi. Valanghe di soldi
pubblici (do you remember Italia ’90?) diventano oggi la base per nuovi
lucrosi progetti imprenditoriali come quelli di Montezemolo che si è
preso la fatiscente struttura dell’Air Terminal per farne la stazione
dei suoi treni privati o il nuovo costosissimo Eataly di Farinetti.

Non dubitiamo che la stessa sorte toccherà ad altri eclatanti esempi di
sprechi come la piscina dei mondiali di nuoto di Valco San Paolo per la
quale sono stati spesi 20 milioni di euro senza che sia stata utilizzata
neppure un giorno. Intorno a noi ancora i costruttori pronti ad inondare
di nuovo cemento l’area dell’ex fiera di Roma, il deposito Atac di San
Paolo e così via: decine di delibere urbanistiche pronte ad essere
approvate come ultimo, ennesimo regalo di Alemanno a chi gli ha pagato
la campagna elettorale e verosimilmente gli pagherà la prossima.Nel
frattempo i servizi pubblici fondamentali chiudono: prima la biblioteca
comunale, ora a rischio è un intero ospedale come il CTO di Garbatella.

Tra gli interstizi di questo enorme cantiere che coinvolge un intero
quartiere, l’edificio di Via Ostiense 124 viene regalato da Acea al
Comune di Roma: Acea non ha infatti i soldi per la ristrutturazione che
si rende necessaria dopo l’abbattimento di un palazzo adiacente
sostituito da un moderno palazzetto di uffici e residenze di lusso. Il
destino di questo palazzo sembra già scritto: il Comune che a sua volta
non ha soldi da investire a causa della spending review e dei tagli agli
enti locali dovrà necessariamente cedere l’edificio a chi potrà
permettersi di abbatterlo avvantaggiandosi così del piano casa
Berlusconi (implementato dalla Polverini nel Lazio) che prevede ingenti
premi di cubature per chi trasforma in case vecchi palazzi fatiscenti.
Il guadagno di chi ha già guadagnato tanto rischia di essere enorme.

Ma ora l’ex Acea è diventato Alexis occupato e con tutte le nostre
forze vogliamo opporci a nuove speculazioni per proporre invece un piano
di recupero dal basso, che ci restituisca un diritto all’abitare negato,
una partecipazione alla città da cui vogliono escluderci. Dopo una
tavola rotonda con un team di ingegneri strutturisti, architetti e
geometri siamo giunti alla conclusione che la messa in sicurezza dello
spazio necessita di lavori importanti e con spese altrettnto importanti.
Per giorni abbiamo ragionato sulle possibilità di prosecuzione del
progetto socio-abitativo. Abbiamo infine deciso di rilanciare attivando
una campagna pubblica sul recupero dello spazio. Mettendo in gioco tutti
insieme le nostre competenze e la nostra manodopera possiamo resistere
alla devastazione della città e alla cacciata dei suoi abitanti
realizzando il nostro desiderio di reinventare l’abitare e ridare
dignità agli spazi maltrattati dalla speculazione. Siamo convinti che
solo dal basso, in modo indipendente da promesse elettorali e interessi
specultivi, si possa proficuamente contribuire a salvaguardare i
territori.

Vogliamo costruire e animare un presidio “resistente”, che sia
osservatorio di questa devastazione urbanistica e che abbia
l’aspirazione di essere laboratorio per la costruzione di un’alternativa
a questo modello basato su processi di gentrificazione, dalla
cartolarizzazione della città alla precarietà generalizzata delle
nostre vite. Per questi motivi crediamo che abbia senso rimanere
nell’ex-acea nonostante la denuncia di inagibilità, portare avanti un
progetto di autorecupero partecipato dello stabile. Vogliamo che sia una
casa per uscire dalla condizione di perenne precarietà abitativa ma
anche un luogo di scambio, dibattitto e autoformazione, costruendo
all’interno una sala studio, laboratori che mettano in condivisione
saperi ed attrezzature con chiunque voglia sentire un po’ sua questa
esperienza e voglia sperimentarsi e cospirare ovvero respirare insieme.

Per farlo daremo vita ad una serie di iniziative di informazione ed
autofinanziamento, invitiamo tutt@ a portare le loro proposte e a
condividere questo percorso in un’assemblea pubblica che si terrà ad
Alexis, via ostiense 124 sabato 2 febbraio alle 17:00!

Alexis! Ex Acea Occupato