La sanità non si vende. Si difende!

Se la salute e la sanità diventano terreno di speculazione e pareggio di bilancio, se le cure non sono organizzate in presidi territoriali ma gestite da aziende e se i cittadini divengono capri espiatori a cui addossare responsabilità e debiti, vuol dire che un cambiamento, profondo e radicale, si sta compiendo.

Oggi, a Roma e nel Lazio sono sotto attacco moltissimi ospedali: il commissariamento, ancora una volta tutt’altro che tecnico, si accanisce su un territorio già stato martorizzato dalla Presidente uscente con una serie di tagli che, in tutto il Lazio, hanno ridotto drasticamente la garanzia delle cure. Tutti i territori della metropoli romana sono alle prese con questa realtà; anche a Garbatella- San Paolo, l’ospedale CTO che è storicamente e visceralmente parte del tessuto sociale rischia la definitiva chiusura.

Per noi rappresenta qualcosa di più di una struttura sanitaria, con camici bianchi, lastre e odore di medicinali; per noi rappresenta il primo punto di riferimento per gli infortuni della squadra di rugby All Reds e i numerosi danni che si producono coscientemente per la scelta di uno sport bello con qualche controindicazione; rappresenta le visite fatte ad un nostro compagno accoltellato dai fascisti dopo un’iniziativa per Renato Biagetti; rappresenta le cure per le emergenze e i mali che nella vita ogni tanto si è costretti ad affrontare.

Ma c’è anche qualcos’altro tra le mura di quell’ospedale: c’è la definitiva scelta di calpestare diritti universali che, la nostra società, è riuscita a conquistare in una trasformazione lunga più di mezzo secolo fatta di grandi lotte piccole battaglie.

L’abbiamo detto tante volte: la precarietà non è una cosa che riguardi solo il lavoro, la precarietà è il sistema di attacco alle nostre vite per metterle in produzione, sfruttarle ed indebitarle ben oltre il lavoro. La nostra generazione sarà la prima ad essere più povera di quella dei nostri genitori, la prima e forse non l’ultima. E non solo perchè il lavoro, appunto, è completamente precarizzato, ma perchè stiamo assistendo alla privazione della ricchezza condivisa, quella rappresentata dai servizi pubblici e dai beni comuni. La ricchezza di stare male ed essere semplicemente curato.

Non c’è nessuna retorica in questo ma la lucida consapevolezza che si sta cucinando una ricetta in cui privatizzazione, speculazione e profitto sono ingredienti fondamentali. Da domani se non ci sarà più un ospedale, un presidio sanitario territoriale, non sarà questione da trattati di politica economica ma una ferita aperta nella vita di tutti/e noi.

Il CTO, e la battaglia per la sanità Ri-pubblica (nuovamente e diversamente pubblica), rappresenta una barricata da cui non scendere e si trasforma in un trampolino per saltare verso qualcosa di diverso e nuovo.

Alle diecimila persone che hanno firmato contro la chiusura, a quelli che si sono incontrati ieri nell’aula magna manifestando con musica e parole la propria degna rabbia, a tutti noi, spetta il piacere e la fatica di riconoscersi in una comunità resistente…

…perchè non abbiamo un presente di precarietà da difendere ma un mondo nuovo da conquistare.

Lotte, nell’indipendenza, per la libertà

E’ arrivata anche la sentenza del tribunale dei diritti dell’uomo di Strasburgo a schiaffeggiare l’Italia davanti al mondo per la quotidiana vessazione in cui versano le decine di migliaia di prigionieri nelle carcere italiane piene di gente comune, spesso di esclusi, emarginati, immigrati, prigioni sovraffollate, dense di storie di vita, di ingiustizie, soprusi, pestaggi, quasi tutti detenuti in attesa di sentenza, vite vissute nell’inferno delle carceri italiane. Storie di precari nelle metropoli franate ai tempi della crisi economica.

E ultimamente, nuovamente almeno da quando era a regime lo stato di emergenza degli anni 70 e 80,  le carceri italiane cominciano ad essere riempite anche con decine di compagne e compagni, giovani, rivoltosi, presi durante scontri con la polizia, per occupazioni di case o sgomberi di centri sociali, per iniziative di antifascismo militante, per manifestazioni di riappropriazione o di contestazione alle politiche economiche o alle grandi opere come il Tav nella Val di Susa.  E’ da tempo che stiamo assistendo ad un evidente inasprimento delle misure repressive con un susseguirsi continuo di misure cautelari ogni qualvolta quel minimo di rabbia che portiamo dentro prova ad organizzarsi ed a scendere in piazza. Nella giornata dell’altro ieri pesantissime condanne sono state inflitte a 5 compagni (4 di Teramo ed 1 di Roma) per aver partecipato alla manifestazione dello scorso 15 ottobre 2011 a Roma contro le politiche di austerity. Sei anni di reclusione e trentamila euro di risarcimenti al comune di Roma che costituendosi come parte civile ha legittimato l’utilizzo del reato di devastazione e saccheggio come dispositivo di punizione contro ogni forma di dissidenza sociale in nome della sua essenza storicamente fascista.

Lo abbiamo detto più volte e lo ribadiamo con forza, come ricorda Davide Rosci nella lettera aperta scritta dopo la sentenza dell’altro ieri, non ci sentiamo dei perseguitati poiché da lunghe notti fatte di anni abbiamo scelto di configgere con lo stato di cose presenti e abbiamo messo in conto tutto nella nostra convinzione, anche quella della vendetta dello Stato che promuove impoverimento e tanta polizia come unico nuovo sistema di welfare ai tempi dell’austerity.

Uno su tre di noi è senza lavoro, senza casa e senza futuro, i due su tre che rimangono sono precari, spesso si trova il reddito nell’illegalità e in un paese di banditi in doppio petto, con 60 miliardi di euro persi nella corruzione della Pubblica amministrazione, con 120 miliardi persi nell’evasione dei grandi patrimoni, con il tasso di disoccupazione record e livelli di impoverimento della popolazione complessiva, mai vista dal dopoguerra ad oggi, ribellarsi è necessario, legittimo, per noi lecito. E a fianco di tutta la popolazione carceraria dobbiamo far vivere la denuncia della svolta autoritaria che aumenterà nei prossimi mesi come penalizzazione, delinquentizzazione, interdizione delle lotte sociali, che in questi anni hanno dato grandi prove di resistenza, dignità e determinazione.

Dobbiamo fare nostra senza bandiere di appartenenza dal basso la necessaria battaglia per il diritto di resistenza e coniugarla con la libertà di movimento che per essere affermata come diritto costituente deve necessariamente essere strappata. In tempi di elezioni e campagne elettorali, oggi più che mai dobbiamo tracciare una distanza necessaria con la rappresentanza politica per fare di ogni battaglia una sfida senza inganni e menzogne a partire dalla conquista di una piena e legittima agibilità politica. Se un’amnistia come chiedono tutte le associazioni di detenuti ed ex-detenuti sarà necessaria anche solo per cominciare ad immaginare un mondo diverso, sarà nostro compito farla vivere e sedimentare come una battaglia di principio non sindacabile, per la democrazia reale, per la libertà.

Nodo redazionale indipendente

15 ottobre: a ridere eravamo in tanti

di GIROLAMO DE MICHELE

La condanna a sei anni per devastazione, saccheggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravate di sei compagni imputati per l’assalto al blindato dei carabinieri in piazza San Giovanni, nel corso degli scontri del 15 ottobre 2011, segue ad analoghe condanne per gli stessi fatti, e merita alcune considerazioni. In primo luogo, è degno di nota che i compagni siano stati arrestati e sottoposti alla domiciliazione forzata non perché arrestati in flagranza di reato, ma perché

identificati dai video a disposizione delle forze dell’ordine. Vale a dire che per un reato di rilevante gravità quale “devastazione e saccheggio”, ma altresì per lesioni pluriaggravate, è sufficiente essere riconoscibile all’interno di una ripresa, non importa in quale posizione o ruolo: come nel caso di Davide Rosci, che non ha tirato una sola pietra o bottiglia, limitandosi ad osservare l’accaduto senza fuggire. E a ridere: …e l’infame sorrise, ci insegnavano un tempo alle elementari, è lo stigma dell’infame Franti, possibile alter ego di Gaetano Bresci. Ride mentre viene assaltato un blindato che, lanciatosi all’interno di piazza San Giovanni, si trova isolato e viene abbandonato dai suoi occupanti: in quel momento quel parallelepipedo di lamiere, usato per criminali caroselli contro una moltitudine di compagni che non accettavano di essere scacciati dalla piazza, diventa un simbolo dello Stato, e come tale meritevole di tutela giuridica ben maggiore di quei dimostranti che solo per la prontezza individuale e la capacità collettiva di improvvisare una resistenza comune non sono finiti sotto i pneumatici (come Carlo Giuliani, come Giannino Zibecchi).

Oltre allo sberleffo nei confronti del potere costituito, i sei condannati pagano la colpa di esserci. Quel pomeriggio la rappresentazione della rappresentazione di un movimento doveva consegnare a dirigenti politici e sindacali, a leader di partiti e di giornali-partito, la rassicurante parvenza di un movimento docilmente variegato, ironicamente innocuo, pronto ad avallare la rappresentazione di una radicalità in assenza di una reale, perturbante capacità antagonista: una rivoluzione dolce in diretta tv, introdotta da anchormen e anchorwomen, giornalisti d’inchiesta e politologi di fama. Com’è noto, non è andata così: e la spontanea, immediata resistenza, accresciutasi nel corso del pomeriggio, a piazza San Giovanni ha dimostrato l’impossibilità materiale di rinchiudere entro i limiti della rappresentanza la rabbia, l’indignazione, l’odio nei confronti del governo della finanza, dell’uso violento e disciplinare della crisi, dell’attacco alle condizioni minime di esistenza. Solo una lettura disincarnata del diritto e delle sue procedure, che ignora i corpi, le passioni e i desideri concreti che agivano quel pomeriggio può non vedere, dietro l’algido “fatto tecnico” dell’applicazione di un rodato articolo del codice penale – il 285, già sperimentato nelle condanne per gli scontri di Genova – non solo una risposta vendicativa, ma sopratutto un avvertimento nei confronti di quella resistenza collettiva che manifestava una pericolosa disponibilità a generalizzarsi. Che questa rabbia spontanea e irrappresentabile – dalla Val di Susa all’Ilva di Taranto, dai movimenti studenteschi ai lavoratori dell’Ikea – possa trovare un punto di coagulo è stata del resto l’ossessione degli yesmen e delle mosche cocchiere del “governo tecnico”: da cui la denuncia del rischio di “conflitto delegittimante”, o di un possibile “esito greco” della crisi.

In questa situazione i sei compagni colpiti da un reato da Codice Rocco sono, nella loro concreta esistenza, figure di soggettività della crisi: condividono, nelle personali biografie, l’essere precarizzati nei processi lavorativi e nelle esistenze, indebitati per effetto della crisi che utilizza la forma del debito come strumento di governance, mediatizzati perché ridotti a quei cliché e stereotipi – il “black bloc”, il “violento”, l’”ultras”, i “quattro stronzi” – con cui i media riconfigurano e ridefiniscono le identità, e infine securizzati nel loro essere usati come monito dai gestori delle politiche della paura e del panico sociale. Una sola figura di soggettività non si attaglia loro: quella del rappresentato. Ed è questa irrappresentabilità, questa indisponibilità a delegare ad altri la pratica attiva della cittadinanza e il desiderio collettivo della democrazia, ciò viene fatto loro pagare con sei anni di galera.

Dopo la fine della rappresentanza – Disobbedienza e processi di soggettivazione

di MAURIZIO LAZZARATO

Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68.

Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.

Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?

In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?

Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva». Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.

La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.

D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla «riuscita» individuale del modello imprenditoriale.

Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli «finanziari» a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del «capitale».

Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra «produzione» e «produzione di soggettività» si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in «creditori» e in «debitori». Fallimento economico e fallimento nella produzione delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire «capitale umano», e nella crisi, rifiuto di divenire «uomo indebitato».

A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalista, i partiti e i sindacati di «sinistra» non forniscono alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.

Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?

Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del «rapporto con il sé» come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita dall’impasse in cui siamo impigliati.

Per Foucault partire dalla «cura di sé» non significa inseguire l’ideale «dandy» di una «vita bella», ma porre la questione di un intreccio tra «estetica dell’esistenza» e una politica che le corrisponda. I problemi di «una vita altra e un mondo altro» si pongono insieme, a partire da una vita militante, la cui premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.

I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione di rottura e di divisioni politiche tra «riformisti» e «rivoluzionari».

Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le «guerre di soggettività» (Guattari) a cui ha portato. «Il tipo di operaio della Comune di Parigi è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy». I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.

Interrogare i processi di soggettivazione politica partendo dal mettere in luce la dimensione della «micro-politica» (Guattari) e della «microfisica» del potere (Foucault) non esonera dalla necessità di attraversare e riconfigurare la dimensione macro-politica. «Di due cose l’una o l’altra: o qualcuno, chiunque, produrrà dei nuovi strumenti di produzione di soggettività che siano essi bolscevichi, maoisti o non importa chi; oppure la crisi continuerà ad accentuarsi».

Questo passaggio alla macro-politica che Guattari invoca in questa citazione, mi sembra tanto più necessario in quanto siamo in una situazione totalmente differente da quella degli anni Settanta. In quel periodo l’urgenza era piuttosto quella di uscire da una macro-politica pietrificata e sclerotizzata visibile nei programmi dei partiti comunisti e dei sindacati. Oggi, dato che queste forze sono o sparite o completamente integrate nella logica del capitalismo, quello che importa è inventare, sperimentare e affermare una macro-politica capace, da una parte, di farci uscire dalla democrazia rappresentativa (politica e sociale) e di collegarci a quella che Guattari definisce «rivoluzione molecolare». Dall’altra parte, bisognerebbe riattivare l’utilizzo della forza, di un potere di blocco e sospensione dell’assoggettamento e dell’asservimento, che possa giocare la stessa funzione dello sciopero nel capitalismo industriale. Senza questo la frangente neoliberale applicherà integralmente il suo programma: ridurre i salari al livello della sopravvivenza, ridurre i servizi dello Stato Sociale (Welfare Stare) al minimo, privatizzare tutto ciò che resta ancora nel dominio «pubblico», facendo scivolare la popolazione nel processo regressivo dell’uomo indebitato.

Guattari a suo modo, non è solamente rimasto fedele a Marx, ma anche a Lenin. Sicuramente, gli strumenti di produzione di soggettività che il leninismo ha creato (il partito, la concezione della classe operaia come avanguardia, il «militante di professione» ecc.) non sono più adatti alla composizione di classe attuale. Ma ciò che Guattari mantiene della sperimentazione leninista è la metodologia: la necessità di rottura con la «social-democrazia», la costruzione di strumenti di innovazione politica che si dispiegano sulle modalità di organizzazione della soggettività. Per Guattari l’affermazione di questa autonomia politica è stata, prima di tutto, espressa dalla rottura soggettiva praticata dalla Prima Internazionale che ha letteralmente inventato una classe operaia che ancora non esisteva (il comunismo ai tempi di Marx si appoggiava essenzialmente sugli artigiani e i «compagni»). Nel capitalismo, i processi di soggettivazione devono a loro volta articolarsi e liberarsi dai flussi economici, sociali, politici, macchinici. Le due operazioni sono indispensabili: partire dalla presa che l’asservimento e l’assoggettamento esercitano sulla soggettività e organizzarne la rottura, che è sempre un’invenzione e una costituzione del sé.

Le regole della produzione del sé sono quelle «facoltative» e processuali che inventiamo costruendo dei «territori sensibili» e una singolarizzazione della soggettività a livello micro-politico e delle disposizioni collettive di enunciazione a livello macro-politico. Da qui il ricorso, non tanto a degli strumenti e a dei paradigmi cognitivi, informazionali o linguistici, ma a degli strumenti e a dei paradigmi politici che sono etico-estetici, il «paradigma estetico» di Guattari e l’«estetica dell’esistenza» di Foucault.

Per produrre un nuovo discorso, una nuova conoscenza, una nuova politica, bisogna superare un punto innominabile, un punto di non-racconto assoluto, di non sapere, di non cultura, di non conoscenza. Da qui l’assurdità (tautologica) di pensare la produzione come produzione di conoscenza a mezzo di conoscenze. Le teorie del capitalismo cognitivo, della società dell’informazione, del capitalismo culturale, che si propongono come teorie dell’innovazione e della creazione, falliscono precisamente nel pensare il processo attraverso cui si fanno la «creazione» e l’«innovazione», poiché il linguaggio, la conoscenza, l’informazione e la cultura sono largamente insufficienti a questi fini.

La soggettivazione politica, per prodursi, deve passare necessariamente da questi momenti di sospensione dei significati dominanti e dalla neutralizzazione del meccanismo di asservimento macchinico. Lo sciopero, la rivolta, la sommossa, le lotte costituiscono dei momenti di rottura e sospensione del tempo cronologico, di neutralizzazione di assoggettamenti e di asservimenti, dove si manifestano, non tanto le soggettività vergini e immacolate, ma i focolai, le emergenze, le cariche di soggettivazione, la cui attualizzazione e proliferazione dipende da un processo di costruzione che deve articolare, senza passare per le tecniche di rappresentazione, il rapporto tra «produzione (desiderante)» e «soggettivazione».

Se la crisi non produce altro, d’ora in poi, che assoggettamenti e asservimenti negativi e regressivi (l’uomo indebitato), se il capitalismo è incapace di articolare produzione e produzione di soggettività in altro modo, se non riaffermando la salvaguardia dei titoli di proprietà del capitale, allora gli strumenti teorici devono essere capaci di pensare le condizioni di una soggettivazione politica che sia anche una mutazione esistenziale in rottura con il capitalismo, all’interno della sua crisi che è già divenuta storica.

* Pubblicato su “Alfabeta2″.

Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria

Quando diciamo che la Costituzione del 1948 è esangue e non restaurabile, ci trattano da nemici della patria. Recitate un De Profundis non solo di quella Carta ma della democrazia, ci ripetono. Davvero? Non sarà invece che proprio attorno al ripetersi di quelle difese (ormai puramente ideologiche) si consuma quel po’ di democrazia che resta in Italia?

Queste domande non ce le poniamo di fronte a dei residui cantori delle glorie della prima e della seconda Repubblica. Lo strazio che continuano a fare della Costituzione del ’48 è sotto gli occhi di tutti. Ce le poniamo piuttosto a fronte di compagni che, negli ultimi anni, hanno sostenuto le lotte per il comune e che (non si capisce se è perché credono piattamente nella “fedeltà” alla lettera o perché ritengano piuttosto la pragmatica dello “sfondamento” costituzionale l’arma di rinnovamento più efficace) continuano a rimproverarci perché non ci muoviamo sul terreno della legittimità costituzionale e rifiutano di condividere la nostra riflessione sul fatto che l’appello all’esercizio del potere costituente sia oggi essenziale e dirimente. Quei compagni si fanno forti di aver promosso e vinto il referendum “acqua-bene comune” e, soprattutto, di aver positivamente difeso davanti alla Corte costituzionale quel risultato. Si è trattato, in effetti, in entrambi casi, di successi eccezionali. A questi si aggiungono altre importantissime iniziative, qua e là in tutta Italia – centri sociali e teatri occupati promossi ad istituzioni del comune, assessorati municipali che cercano di leggere le attività dei servizi pubblici nella prospettiva di una politica del comune e una giurisprudenza (che sta elaborandosi e che ritiene la categoria dei beni comuni di grande utilità nel tutelare e garantire – e probabilmente trasformare? – la proprietà pubblica, oggi minacciata pesantemente dalle politiche neoliberali).

Non dubitiamo che tutto ciò costituisca un passaggio fondamentale e siamo orgogliosi di aver partecipato a quelle battaglie, sia sul terreno teorico che su quello direttamente politico.

Ciò detto, non vediamo perché l’appello alla critica della Costituzione del ’48 ed al rinnovamento del tessuto costituzionale sia dannoso o inutile. A noi sembra invece centrale ed essenziale. Riteniamo infatti che, nella lotta che si è finalmente aperta in maniera forte contro il neoliberalismo, la Costituzione del ’48 che (volente o nolente) ha con il neoliberalismo – formalmente e materialmente – convissuto, sia incapace di proporci uno sviluppo della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà (intesa come terreno di costruzione di istituzioni del comune), adeguato ai nuovi bisogni della moltitudine.

A questo proposito, riguardando i difensori della Costituzione del ’48, non vogliamo certo aggiungere che non vediamo diversità fra i sostenitori dei “beni comuni” e, ad esempio, i grillini: vogliamo solo dire che finché la tematica del “comune” non assuma una potenza costituente, anche i temi dei beni comuni rischiano di essere appiattiti in un populismo (per così dire) di sinistra. Difficile immaginare che si possa estrapolare, nel disegno costituzionale, un’idea ancora “virtuosa” di sovranità popolare, e farsi forza di quella come scudo contro il neoliberalismo: e ciò non solo perché sovranità “del popolo” e proprietà sono nella Costituzione difficilmente separabili, ma perché comunque oggi le categorie di sovranità e di popolo non possono che portare la lotta contro il neoliberalismo sulla strada di una vuota retorica, priva di possibilità di aggancio con le soggettività vive che animano la cooperazione sociale. I beni comuni hanno saputo evocare, per quelle soggettività, la forza della riappropriazione della ricchezza prodotta in comune contro i dispositivi proprietari. Come potrebbe mai l’idea di “popolo sovrano” rendere conto della ricchezza di quelle soggettività, della composizione di differenze e di singolarità che muove quella cooperazione sociale, senza ancora una volta imprigionarla in una omogeneità tutta forzosa e ideologica? Comune e sovranità popolare stanno su sponde diverse: in mezzo, ci passano tutte le metamorfosi soggettive di questi anni, le trasformazioni del lavoro e della produzione, la forza emergente del lavoro vivo, dinamiche che – già dagli anni Sessanta e Settanta – hanno messo attivamente in crisi il nocciolo della mediazione costituzionale. La forza di questo comune, che ha animato lo stesso movimento dei beni comuni, non può essere colta da nessuna possibile riabilitazione della “sovranità popolare”, categoria che di nuovo chiuderebbe nel già costituito la tensione dinamica e aperta del costituente. A non calcolare adeguatamente la propria distanza critica dalla retorica della sovranità popolare, è inevitabile poi che anche chi, con le migliori intenzioni e ragioni, ha animato le lotte sui beni comuni, rischi di incagliarsi periodicamente nelle nebbie dei populismi, degli autoritarismi e dei personalismi, che nelle retoriche sovraniste hanno sempre trovato alimento per bloccare le lotte e impedirne la generalizzazione moltitudinaria.

Bastano pochi esempi per chiarire questa irriducibilità del comune alle mediazioni costituzionali, sia pure a quelle a tinte popolari e più o meno “socialiste”.

In primo luogo, parliamo di libertà. Un solo esempio, ma crediamo suggestivo: dov’è più – sulla base della Costituzione del ’48 – la libertà di espressione quando ci si confronti alla prepotenza del potere finanziario e della proprietà privata nei media? Possiamo invece immaginare che l’informazione sia restituita al comune? A fronte della Costituzione del ’48, che cosa significa “libera” informazione, sottratta all’alternativa (per quella Costituzione solo possibile) del privato e del pubblico? E siccome chez nous, “pubblico” (nazionalizzazione dell’informazione, sostegno amministrativo ai media, ecc.) significa fascismo e/o corruzione, come ci aiuta la Costituzione del ’48 ad evitare che l’informazione sia sottratta ai poteri dei privati o a quello statale? Cosa significa “comune” nella Costituzione del ’48? Com’è possibile costruire un “luogo comune” dell’informazione, che sia sostenuto e viva di forza democratica?

In secondo luogo, sempre a mo’ di esempio, parliamo di uguaglianza. Un solo caso: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito della moneta? E cioè del mezzo attraverso il quale lo Stato manovra la produzione delle merci e la distribuzione dei redditi? La moneta – è noto – è diventata lo strumento attraverso il quale il capitale riproduce a sua misura la società dello sfruttamento: che cosa ci dice la Costituzione del ’48 a proposito del controllo dei “mercati” e dell’azione dei poteri finanziari globali, se non che lo Stato è sovrano in materia monetaria? Ma questo lo diceva anche lo Statuto Albertino! Se non ci scapasse da ridere, vorremmo chiedere ai nostri interlocutori, spesso su questo argomento prolissi, di declinare con noi “moneta-bene comune”: cosa concluderebbero? Che lo Stato-nazione va ricostruito oppure che la Costituzione del ’48 va trasformata? È evidente che se rispondessero nel primo modo, dovremmo chiamare il 118.

Ma, in terzo luogo, interroghiamoci su cosa possa più dire la Costituzione del ’48 a proposito di solidarietà (cioè del comune vero e proprio!). Sorge qui il sospetto che quando si pretende che il comune possa rappresentare una nuova forma di proprietà, si cerchi non di costruire ma di neutralizzare il concetto di comune. Recentemente (forse perché in periodo elettorale) abbiamo udito un autore come Ugo Mattei, solitamente molto determinato e preciso attorno al destino dei beni comuni e pragmatico difensore della Costituzione del ’48, sostenere che (dalle università – ma noi non pensiamo solo di lì) è partito un tentativo efficace di sminuire la portata “radicale” del tema “commons”. In quella prospettiva, essi sarebbero “scientificamente” sempre più limitati, circoncisi, privatizzati e sottoposti alla ristrutturazione istituzionale del neoliberalismo attraverso una critica che li costringe nel cognitivismo oppure nell’ideologia della sostenibilità, comunque ad un regime di enclosure, di restrizione. Si tratta di un vero e proprio détournement della forza costituente dei commons! Okay: ma allora perché non concludere che nella Costituzione del ’48 – come in tutte le costituzioni della modernità capitalista, come in tutte le riletture newdealistiche del costituzionalismo borghese e tanto più oggi nel regime globale del capitale finanziario – il comune non è giuridicamente pensabile? Perché pretendere la genuflessione dei “bene-comunisti” alla Costituzione del ’48? Per realismo politico? Ma che cos’è un realismo che non solo non riconosce la comune libertà di informarsi e di esprimersi ma neppure riesce a denunciare non tanto il “conflitto di interessi” di Berlusconi quanto quello del “Corriere della sera” e de “La Repubblica”, ecc., ecc.! E che non accetta di organizzare – fuori da ogni costituzione – una lotta per costruire una “moneta del comune” come unica forma nella quale l’uguaglianza può oggi proporsi (reddito di esistenza come nuova figura del salario relativo, welfare garantito, ecc.)? Fuori da ogni costituzione, dicevamo: perché organizzare istituzioni del comune, produrre le forme possibili di uguaglianza e libertà, non è un processo lineare, ma contiene in sé sempre elementi di rottura destituente e radicale con le forme istituzionali e costituzionali date – cosa che la tentazione sempre ricorrente di un ritorno all’istituzionalismo, anche quando è presentato, con qualche eccesso di retorica, come “diritto che nasce dalle lotte”, rischia di dimenticare.

Infine: il comune è comunismo più libertà. La Costituzione del ’48 è stata letta come un po’ di libertà e un po’ di socialismo: vivevamo in un mondo dove questa costituzione era forse la sola alternativa di pace alla guerra civile. Oggi la guerra, il capitale finanziario globalizzato ce la fa contro, ogni giorno. Perché non rispondergli, sottraendogli, attraverso la forza costituente del comune, questo potere?

da www.uninomade.org

 

Ciao Antò, oggi brindiamo alla vita!

 Ciao Antò, oggi brindiamo alla vita!

 

Antonio Salerno Piccinino è nato il 17 Dicembre 1977 all’ospedale
Fate Bene Fratelli di Napoli. Sua madre è Franca Salerno e suo padre è

Raffaele Piccinino. Dopo pochi giorni dalla nascita Antonio entra con
la madre a  Badu ’e Carros, il carcere speciale di Nuoro. Antonio i
primi tre anni di vita li passa in carcere, rompendo il silenzio
pneumatico e creando calore in quell’istituzione totale che si chiama
carcere speciale utilizzata dallo Stato per portare avanti la sua
guerra. Ma non è soltanto questa la sua storia. Antonio è forza viva,
energia sonora, lotta per la libertà. Oggi il 17 dicembre del 2012
avrebbe compiuto 35 anni, ma la sua vita è stata interrotta dalla
violenza della precarietà.
“Di lavoro si muore perché di precarietà si vive”  abbiamo scritto sui

muri di Roma quel maledetto 17 gennaio del 2006. Quel lavoro che ogni
giorno produce morte, malattie, ricatti, sfruttamento. Migliaia di

omicidi ogni anno vengo prodotti nella giungla del mercato del lavoro
in Italia, un lavoro che non è, non sarà mai un bene comune.
Sabato 15 dicembre una grande manifestazione ha percorso le strade di

Taranto contro il ricatto del lavoro che produce devastazione
ambientale e gravissimi danni alla salute. Al comitato cittadini
liberi e pensanti va il nostro più grande abbraccio e sostegno. Ci
accomuna il dolore e la rabbia che continuiamo a provare, ma soprattutto

la voglia di lottare per difendere la vita, la nostra nuda vita.
Antonio è un compagno del laboratorio Acrobax e nel nostro decimo
anniversario non smettiamo di credere che in ogni attimo di libertà
strappato lui è stato al nostro fianco.

Ciao Antonio, fratello e compagno!
Oggi brindiamo alla vita.

Con Antonio e Franca nel cuore!

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Ci riprendiamo tutto!

Il  giorno più freddo di questo inverno si è trasformato per i movimenti per il diritto all’abitare in una calda giornata di lotta e resistenza. Questa mattina davanti alle occupazioni di Ponte dei Nona, Torre vecchia, Anagnina, Viale delle Province abbiamo trovato un grande dispiegamento di forze dell’ordine  che annunciavano gli imminenti sgomberi. Anche davanti Alexis si sono presentate diverse volanti della polizia con la chiara intenzione di intimidire e bloccare quanti si stavano radunando, e di impedire lo spostamento a chi stava portando la propria solidarietà verso le occupazioni più a rischio.
In questo momento  alcune delle occupazioni di Ponte di Nona sono in corso di sgombero mentre altre si stanno barricando e preparando alla difesa degli spazi. La risposta della giunta in crisi ancora una volta è quella di affrontare con l’ordine pubblico il problema sempre più grave dell’emergenza abitativa di Roma. Esprimiamo il massimo del sostegno e solidarietà ai nuclei familiari sgomberati e continueremo la resistenza qui e per le strade della città.

Alexis resistente!
Studentato e casa dei precari

#6D a Roma: non ci bastano i palazzi del potere

Se il 14N aveva consegnato un punto di domanda: è possibile immaginare
obbiettivi diversi dai periferici palazzi del potere?, il 6D ci lascia una
parziale ma importante risposta.

Gli studenti medi, con l’occupazione simbolica di via Induno a Trastevere,
hanno dato importanza alla pratica della riappropriazione. Sperimentata nelle
scuole occupate e agita nei territori, come nel caso del Cinema America, la
riappropriazione degli spazi ha dato modo di comprendere la potenza della
relazione nel tempo della crisi. La stessa gioventù lidense di Ostia si è
nutrita in questa simile dimensione.

I movimenti romani per il diritto all’abitare hanno poi costruito un
ulteriore passaggio di qualità, dando un tetto a circa 3000 persone, colpendo
direttamente la rendita e chi vuole procedere con la svendita del patrimonio
pubblico. Da Ponte di Nona a Torrevecchia, da Prenestino ad Anagnina, fino al
quartiere San Paolo dove nasce lo studentato”Alexis Occupato”.

Nel #6D il rapporto centro-periferia è saltato nel migliore dei modi. Un
moltiplicarsi di luoghi dove pianificare nuove forme di attacco. Non
“assaltando” i palazzi del potere si è lasciato spazio alla possibilità di
costruire nuove istituzioni autonome che si contrappongano alla metropoli della
rendita. I germi della ribellione si piantano proprio in quelle disgregate
dimensioni di quartiere dove sono possibili nuove relazioni antagoniste.

Tornare nei territori quindi non vuol dire chiudersi nel mutismo per assenza
di prospettiva politica. Vuol dire piuttosto osservare meglio le contraddizioni
e le ambivalenze del rapporto centro-periferia, imparando ad agire in una
dimensione spaziale nuova che richiede maggiore capacità di radicamento.

Tornare nei territori vuol dire costruire nuove istituzioni autonome che
rendano obsolete le istituzioni che governano a colpi di austerity. Tornare nei
territori vuol dire evitare di essere ceto politico e sporcarsi le mani tra
l’autonomia possibile e la barbarie che avanza.

E’ possibile quindi immaginare obbiettivi diversi dai palazzi del potere
soltanto se, uscendo dalla dimensione centro-periferia, ci accorgiamo che
l’unico conflitto possibile è nella costruzione, nella relazione e nella
riappropriazione. L’attacco del capitale e dello stato sarà una conseguenza di
questo nostro lavoro, come ci insegna la Val di Susa.

E se per una giornata non si finisce sui giornali poco importa. Non sarà
certo qualche intervista in televisione a dare forma ad un movimento
generalizzato contro le misure di austerity.

da www.infoaut.org

 

“Strategie contro l’austerity: reddito di base e incondizionato per tutti” Video-intervista a Guy Standing

Pubblichiamo una video-intervista a Guy Standing membro fondatore e co-presidente del Basic Income Earth Network (Bien), autore del libro“The Precariat. The new Dangerous Class“. L’intervento  è stato realizzato nell’ambito dell’iniziativa organizzata dal C.s.o.a. Officina99 & dal Lab.Occ. SKa a Napoli presso l’Istituto Universitario Orientale.

 

 

 

 

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Contro la marcetta su Roma di Casapound, il 24N tutti in piazza per la liberazione di Roma

Il prossimo 24 novembre i fascisti di CasaPound hanno annunciato una  manifestazione nazionale a Roma.  In nome della memoria di questa città e contro ogni forma vecchia o nuova di fascismo impediremo questa manifestazione. I fascisti del terzo millennio dopo aver marciato a braccetto con Berlusconi, con la Lega e il Pdl, dopo aver votato e aver fatto votare  Polverini e Alemanno, ricevendo in cambio finanziamenti e patrocini, favori e posti di lavoro, tentano la carta dell’”anticasta” e “antisistema” convocando una manifestazione che vorrebbe essere “di opposizione”. CasaPound prova a scimmiottare le piazze dei movimenti e degli studenti che in tutta Europa e non solo, si stanno mobilitando contro i sacrifici imposti dalla Bce e contro la dittatura della finanza. Quella del 24 altro non è che una manifestazione di campagna elettorale di un partitino di estrema destra che prova a trovare un po’ di visibilità, nella difficoltà della crisi, per far passare le proprie parole d’ordine populiste e accaparrarsi così una fetta di potere. Come è diventato visibile il 14 Novembre, i movimenti sociali, i precari e gli studenti si stanno ribellando alle politiche d’austerity portate avanti dal Governo Monti, occupando strade, scuole e facoltà. Le risposte sono state cariche della polizia, pestaggi e arresti in tutta Italia e soprattutto a Roma. In questo quadro i fascisti fanno il solito vecchio gioco provando a provocare chi lotta tutti i giorni alla luce del sole in maniera determinata e radicale. Non è un caso che il 24 novembre sia indetto da tempo lo sciopero della scuola e che migliaia di persone dalla mattina torneranno a riempire le piazze di Roma e di molte altre città. Da più parti si sono levate proteste contro la decisione di autorizzare la marcia fascista del 24 nel cuore di Roma. Le risposte del sindaco Alemanno non stupiscono e confermano lo stretto rapporto tra i partiti neofascisti, il Pdl e la giunta del Comune di Roma. Mettere sullo stesso piano, come ha fatto il sindaco, movimenti e sindacati con organizzazioni dichiaratamente fasciste è inaccettabile. Per molti motivi è quindi importante mobilitarsi in tanti in quella giornata e invitiamo tutte e tutti a farlo anche in altre città in Italia. Mentre la Roma antifascista e antirazzista non permetterà ai fascisti > di sfilare!

★ NOI SIAMO IL 99% VOI NON ARRIVATE ALL’1% ★ > > Prossima assemblea > mercoledì 21 ore 17 Facoltà di Lettere della Sapienza > > Appuntamento per tutte e tutti > Sabato 24 novembre ore 14,30 > PIAZZA VITTORIO