Madrid 25S — La democrazia si apre il passo

di MADRILONIA.ORG

Ci hanno chiamati golpisti. Hanno detto che dietro questa manifestazione si nascondeva l’estrema destra. I mezzi di comunicazione hanno mentito per giorni e giorni. Hanno minacciato di mandarci in galera, hanno dispiegato oltre 1400 agenti di polizia, hanno identificato e denunciato molte persone solo perché esse si erano riunite in un parco pubblico a discutere sulla convocazione di questa manifestazione. Hanno provato a riempirci di paura, come mai era successo prima d’ora. Il risultato è che, nelle strade, eravamo in decine di migliaia, pronti a disobbedire allo stato di eccezione imposto dal governo. Ora tutti i media del pianeta stanno parlando di quanto successo a Madrid il 25S. E sappiamo bene che è solo l’inizio.

Il governo Rajoy è debole come mai era stato prima d’ora. E deve affrontare un problema di governamentalità politica su tre fronti, deve affrontare un problema di dimensioni totalmente nuove. In primo luogo, la forte crisi di legittimità presso la cittadinanza, non solo per le decine di migliaia di persone che si sono mobilitate durante il 25S, ma anche nei confronti del proprio elettorato. Il governo non ha in mente nessun piano di azione, a parte quello di continuare nella propria politica di tagli, accompagnati da una dinamica repressiva sempre più intensa, e sempre più inutile. La risposta al di là di ogni previsione alla mobilitazione lanciata ieri, la fuga clandestina degli “onorevoli”, le patetiche dichiarazioni della maggior parte dei deputati sono segni chiari di questo processo.

Vogliamo dirlo senza equivoci: un governo che si sostiene solo grazie al monopolio della violenza è un governo debole, moribondo e condannato.

Il secondo fronte aperto è quello di una grave crisi del modello territoriale dello Stato. Intrappolato tra il prostrarsi alla Troika (UE BCE FMI) – che si traduce nell’imposizione di politiche dettate dalle dinamiche finanziare – e lo smembrarsi del patto tra le élite – che ha permesso di sostenere la distribuzione della ricchezza tra le comunità autonome -, il governo centrale non è altro che uno spaventapasseri. Con grandi difficoltà è riuscito a mantenere una certa convergenza di azione con le varie élite territoriali, come ci dimostra la “minaccia” indipendentista del CIU (Convergenza e Unione, partito della destra catalanista al governo in Catalogna, ndt), capace di mobilitare una buona parte della società catalana nel nome di un progetto sfacciatamente neoliberale e oligarchico. In questo caso, la debolezza non è solo di questo governo. Siamo di fronte a una ristrutturazione generale delle istituzioni, ereditate dal processo della Transizione, che dimostra la necessità di costruire un nuovo modello di democrazia, tanto politica quanto economica.

Infine, il governo si è mostrato assolutamente incapace di imporsi di fronte alla Troika, di difendere gli interessi della propria popolazione e di allearsi con il resto dei paesi europei periferici. Detto in altro modo, il governo non ha smesso di obbedire agli ordini del potere finanziario che ci spinge verso un’intensificazione continua della crisi sociale. In questo quadro, non ci saranno altre via d’uscita se non la recessione e l’impoverimento. E su questo punto dobbiamo stare allerta perché venerdì o sabato sapremo quali sono le contropartite chieste dalla Troika per garantire il nuovo bailout: riduzione degli ammortizzatori sociali per la disoccupazione, aumento dell’età pensionabile, vendita di asset e beni comuni e nuovi tagli ai diritti dei lavoratori nel pubblico impiego.

Oggi, lo spread è tornato a salire rispetto agli ultimi giorni. Molto probabilmente è un avviso da parte della Troika – attraverso la sospensione dell’acquisto di buoni del tesoro – riguardo il fatto che il programma di contropartite imposto dalla finanza deve mantenersi inalterato, al di fuori da qualunque “concessione” alle richieste che provengano dalla cittadinanza.

Quello che abbiamo vissuto nelle strade di Madrid il 25S è stata la prima dimostrazione della potenza dell’organizzazione collettiva. Ci troviamo probabilmente all’inizio di un ciclo di mobilitazioni al quale tuttavia non si sono ancora uniti né i funzionari pubblici, né i pensionati. Dobbiamo riconoscerlo: la mobilitazione del 25S è stata segnata da un chiaro tratto generazionale. La generazione di chi non ha una casa, non ha un reddito, non ha un lavoro, la generazione di chi non ha votato la Costituzione del 1978 e non si sente garantito dai patti che negli anni Ottanta hanno dato corpo a questo modello di Stato.

Eppure, c’è da aspettarsi che le misure che il governo dovrà probabilmente approvare, spingeranno molte altre persone a unirsi all’assedio del Congresso. Il problema è politico e per questo il nostro compito continua a essere quello di riunire la potenza sociale necessaria a fermare il saccheggio del comune a cui stiamo assistendo. Il problema è politico e per questo dobbiamo riuscire a riprodurre quella alleanza che nelle giornate di Luglio aveva unito il 15M, i funzionari pubblici, i pensionati, i lavoratori dell’istruzione, della sanità e una moltitudine di persone che partecipavano senza altro nome che il proprio. Dobbiamo fare in modo che questa stessa alleanza torni a emergere e a mettere in evidenza la crisi dell’ordinamento costituzionale attuale, del bipartitismo imperante e delle istanze rappresentative. Per dire forte e chiaro che la democrazia è un’altra cosa e che questo paese, così come l’Europa, sono ancora da inventare.
La Delegación de Gobierno di Madrid può dire che c’erano seimila persone, parlare di golpismo e paragonarci al colonello Tejero e al suo golpe di Stato fallito nel 1981, però la “loro” realtà e la “nostra” camminano ormai lungo strade separate. L’intelligenza in rete possiede una capacità propria di auto-narrazione e non ha bisogno di meccanismi che la rappresentino. Si tratta di un esempio chiaro della crisi della forma Stato, uno Stato che assomiglia sempre più a una dittatura. Per questo dobbiamo gridare un’altra volta: non siamo spettatori, non ci rappresentate.

Il 25S è finito. Adesso viene il meglio. Il primo passo successivo al 25S è oggi [mercoledì scorso, 26 settembre, ndt] alle 19 a Nettuno, per dimostrare che seguimos adelante.

* Traduzione dallo spagnolo di Francesco Salvini.

Viva la costituente!

da www.uninomade.org

 

Liberare il campo. Questo è il problema che abbiamo posto e ci poniamo dentro il movimento italiano (ma in una prospettiva che guarda immediatamente al Mediterraneo e all’Europa), di fronte all’interrogativo su cui con insistenza è necessario arrovellarsi: perché non c’è stato in Italia l’insorgere di una composizione che di Occupy, degli indignados o delle “primavere arabe” non ripeta pappagallescamente slogan e simboli, ma ne traduca e dunque crei in forma specifica la potenza politica e di generalizzazione? Sia chiaro, sarebbe sbagliato dire che non ci sono conflitti. Questi non mancano e ogni giorno le cronache, sui mezzi di comunicazione di movimento e mainstream, danno conto della loro diffusione. Il punto è che queste lotte faticano a parlarsi, a generalizzarsi, a comporsi su un piano comune. La domanda sul perché ciò avvenga e, soprattutto, su come rompere i dispositivi di frammentazione, non può che avere differenti livelli di risposta: e tutti interpellano urgentemente gli sforzi di inchiesta militante. Lo scorso 15 ottobre l’iniziativa di un insieme di forze politiche, unitamente al ricatto dell’anti-berlusconismo, ha costruito una cappa sotto cui si è cercato di soffocare, dunque di rappresentare, quello che c’era o poteva esserci. Così, mentre in diverse parti del mondo si esprimevano in modo forte potenza e nodi aperti delle lotte globali dentro la crisi, in Italia il dibattito arretrava drammaticamente sui temi della violenza e della caccia agli untori.

Sarebbe ingenuo e improduttivo pensare che la soluzione all’interrogativo risieda semplicemente in una sorta di katechon interno ai movimenti, ovvero una forza che trattiene l’altrimenti inevitabile affermarsi dei dispositivi di ricomposizione delle lotte. E del resto le insufficienze di proposta e organizzative con cui tutti dobbiamo misurarci vanno al di là delle scelte opportunistiche. I punti di blocco sono evidentemente molteplici e consistono fondamentalmente nella tenuta di istituzioni della mediazione sociale (dai partiti e sindacati, fino ad arrivare alla Chiesa e alla famiglia) che, pur in crisi, riescono ancora a tamponare la generalizzazione di comportamenti sovversivi. Queste linee di ingombro, tuttavia, allungano le proprie articolazioni fin dentro i movimenti, e molte delle strutture che rappresentano un pezzo importante della riproduzione antagonista degli ultimi vent’anni (molti centri sociali, ad esempio) oggi appaiono svuotati di capacità espansiva. Liberare il campo, allora, significa non risolvere ma porre sulle corrette basi il problema di costruire nuove forme di organizzazione all’altezza dei compiti epocali che la crisi del capitalismo offre. É, per dirla in altri termini, una condizione necessaria ma non sufficiente, da cui partire per confrontarsi su elementi di programma e prospettiva.

Costituzione e costituente

Mai come oggi è apparso chiaro che nessun tipo di compromesso istituzionale può permettere di indirizzare i movimenti, meglio, di creare all’interno dei movimenti dispositivi di trasformazione efficaci nell’affrontare la situazione politica presente. Negli anni scorsi alcuni compagni hanno pensato di poter trovare una linea intermedia sulla quale coalizzare forze istituzionali (rappresentanti settori della produzione, sottoposti ad una forte pressione di riforma neoliberale) e movimenti di trasformazione sociale. Era facilmente prevedibile che questo tipo di alleanza non avrebbe potuto stabilirsi che in maniera “diplomatica”, qualora non fosse stata esercitata una pressione di base all’interno e all’esterno di quelle stesse forze istituzionali. Alcuni gruppi di compagni hanno invece privilegiato il terreno istituzionale, sia quello sindacale che quello parlamentare, finendo per subire totalmente quel terreno e per risultare subalterni alla sua agenda. Cosa ancora più grave: si è arrivati ad accettare la discriminazione tra compagni sulla base del bieco refrain socialista: “chi è per la violenza è un nemico”. Per questi comportamenti, la critica è necessaria e l’autocritica deve essere imposta.

Il tentativo di alleanza con la Fiom è stato in proposito un esempio classico di fallimento politico: perché? Perché non si potevano accostare funzioni separate, come quella della mera difesa “lavorista” di una classe operaia di fabbrica investita da una profonda ristrutturazione e quella della proposta di un reddito garantito di cittadinanza che trasforma la concezione stessa del lavoro produttivo. Ogni tentativo svolto su questo terreno senza l’accompagnamento di una forte coscienza teorica del passaggio che si sta compiendo, è opportunista se non cialtrona. Il risultato è che oggi la Fiom è su posizioni più arretrate e conservatrici di tre anni fa. La parola d’ordine della costituente può invece diventare un punto unificante, come già sta avvenendo in Spagna. Il problema oggi è quello dunque di costruire, sul livello generale, forme di contropotere che contrastino l’avanzamento delle proposte costituzionali (sia sul terreno della pratica giuridica, sia sul terreno delle riforme strutturali) che le élite neoliberali impongono. È su questo terreno che tutte le forze e i movimenti della trasformazione, presenti sui territori, possono e debbono muoversi. Queste indicazioni prevedono un’apertura sociale massima degli organismi di base alla discussione di indicazioni costituenti ed alla definizione di strumenti adeguati. Negli anni ’90 si diceva “uscire dal ghetto” e si occupavano i centri sociali; ora, se non si vuole rimanere intrappolati nella gabbia dell’autoreferenzialità, bisogna aprirsi organizzativamente alle iniziative di nuova istituzionalità autonoma, dalle occupazioni dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo a quelle di intere porzioni di territorio, trasformate in luoghi di contropotere costituente. Infatti, anche nelle lotte territoriali o per i beni comuni, così come per Occupy o le acampadas, il problema non è ripeterne slogan e icone da spendere sul mercato della politica: se non si comprende questo punto, non ci possiamo spiegare perché il movimento No Tav riesce a generalizzarsi e falliscono esperienze almeno potenzialmente analoghe. Il tema del comune, gli obiettivi e i programmi legati alle lotte sul comune e alla proposta costituzionale del comune sono dunque centrali.

Dentro/contro l’unità europea

Lo abbiamo detto e ripetuto: ogni illusione di poter scegliere lo spazio nazionale per portare avanti le lotte anticapitaliste è del tutto illusorio. Sul terreno europeo il capitale ha anticipato con enorme forza le politiche del riformismo socialista, le ha decisamente estirpate. Riconoscere questo ritardo, di venti-trent’anni, significa anche attribuirne la responsabilità a tutti quelli che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, hanno pensato che la forza del movimento operaio internazionale (o addirittura la lotta di classe) fosse definitivamente scomparsa. Affermare che la lotta di classe si svolge sul terreno nazionale è sempre stata un’infamia (ed oggi è un errore moltiplicato per mille). C’è chi ancora si stupisce che il rifiuto dell’Europa finisca per essere populista e/o fascista: questa non è una deriva ma uno sviluppo coerente per ogni atteggiamento e/o comportamento identitario. Quello che è successo nell’ultimo anno in Ungheria ne è una dimostrazione lampante.

L’Europa rappresenta il nostro destino: può essere un inferno ma è anche il terreno adeguato alle lotte di emancipazione nel mondo globalizzato. Interiorizzare il senso europeo alla lotta di classe, ovunque essa si svolga, nelle fabbriche, nei servizi industriali e sociali, nell’università, ecc., è assolutamente fondamentale. È chiaro che le politiche dell’Unione europea vanno fin da ora radicalmente modificate e che la preminenza dei vecchi trattati va combattuta: ma questo non è un passaggio entro il quale lo spazio europeo venga dissolto (e le singole nazioni lasciate ancor più in preda alle operazioni delle grandi multinazionali e dei poteri finanziari) – questo passaggio è costruttivo di organizzazione, di contropoteri, di nuove strutture costituzionali. Programma del comune e programma europeo vanno completamente unificati. Per dirla chiaramente: non c’è programma del comune se non su base europea. Non è un caso che dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia – per citare i tre maggiori esempi di mobilitazioni, di massa e radicali, contro l’austerity – i compagni più avvertiti pongano con insistenza la necessità di uno spazio europeo, pur nella consapevolezza della difficoltà di questo compito. Senza questa capacità di iniziativa politica europea, che è oggi innanzitutto mediterranea, quindi in grado di allargarsi alle “primavere arabe” sull’altra sponda, le lotte contro l’austerity rischiano di essere consegnate al rancore localista. La costruzione di una “leva meridionale” con cui riaprire la questione europea, a partire dai paesi membri della UE maggiormente investiti dalla crisi, ma con una capacità di collegarsi a quanto si muove sulla sponda sud del Mediterraneo, può diventare un realistico progetto politico in questa fase.

Al contrario, l’arretramento sul piano della difesa della rappresentanza e della sovranità nazionale è il frutto velenoso della cosiddetta “dittatura della Bce”: da un lato si intende la finanziarizzazione non come un processo reale ma come l’invenzione di una cricca di malvagi (i discorsi sulla casta, fonte dei populismi degli ultimi anni, hanno qui il loro presupposto); dall’altro, si consegnano i movimenti alla peraltro illusoria alternativa tra corruzione del sistema politico e risentimento giustizialista. Nei prossimi mesi, c’è da scommetterci, non mancheranno neppure in Italia grandi esplosioni di conflitto contro le politiche di austerity: la loro caratteristica sarà inevitabilmente spuria e perfino ambigua. Il nostro compito è quello di starci dentro, perché è la stessa condizione della crisi a essere spuria e ambigua. Ma se non vogliamo essere risucchiati nel vortice della demagogia o rinchiuderci nella pura testimonianza, dobbiamo costruire collettivamente la capacità di conquistare l’egemonia programmatica del comune. Ed è solo qui, sul piano dell’iniziativa costituente europea, che la trappola populismo-rappresentanza va rotta e l’ambiguità può essere rovesciata.

La lotta per il comune è una lotta per la pace

In questi anni, dentro la miseria della vita politica interna al paese, alcune componenti dei movimenti antagonisti hanno dimenticato la vocazione alla lotta per la pace che altre volte ne ha costituito il nerbo. La situazione nella quale viviamo, i rivolgimenti sensazionali del mondo mediterraneo e mediorientale e i tentativi di controllo e di moderazione della loro potenza rivoluzionaria, le lotte attorno al possesso delle materie prime energetiche, ecc., – tutto ciò porta precipitosamente verso contraddizioni ed antagonismi difficilmente regolabili se non attraverso opzioni belliche. Il fatto che l’egemonia americana nel Mediterraneo fino agli estremi limiti del mondo arabo sia in grave declino non allontana il pericolo ma lo rende ancora più vicino. Bisogna quindi che i movimenti si impegnino immediatamente sul terreno della pace in quanto processo costituente. Le lotte sociali per il salario, per il welfare, per la trasformazione della produzione, per una struttura costituzionale rivolta alla costruzione del comune non possono non avere al proprio interno un’istanza di lotta per la pace e per la giustizia nei rapporti tra le moltitudini.

Dentro la lotta per il comune la pace si spoglia così dei residui idealisti che l’hanno spesso caratterizzata nell’ultimo e importante ciclo no war, quando la lotta contro la guerra faticava a territorializzarsi nella quotidianità del conflitto sociale, finendo per consumarsi nel semplice richiamo alla coscienza civile o, in Italia, all’articolo 11 della Costituzione. Nella storia lunga e recente dei movimenti americani, ad esempio, la guerra è sempre stata un tema centrale, rischiando però spesso di essere il coagulo morale di un ceto medio che reclamava gli ideali del “sogno americano”, gridava al tradimento delle elite e marcava la separatezza dalle lotte contro i rapporti di sfruttamento. Nel momento in cui quel ceto medio è definitivamente declassato e l’American dream sprofonda nell’incubo della crisi permanente, Occupy lascia apparentemente sottotraccia la questione della pace, proprio perché essa comincia a vivere nella materialità delle lotte per un nuovo welfare e contro la povertà e il debito. Non c’è più tradimento, perché quelle elite – a cominciare da Obama – non rappresentano nessuno. E il tema della pace vive nelle “primavere arabe”, il cui processo è stato parzialmente interrotto ma resta completamente aperto, a dispetto delle retoriche – mainstream e di movimento – su un’inevitabile egemonia islamista. I partiti islamisti al governo hanno definitivamente gettato la maschera: infranta qualsiasi illusione di una funzione destabilizzatrice che la stupidità di un consunto anti-imperialismo continua ad attribuir loro, si rivelano per quello che sono sempre stati, cioè i migliori garanti di una prospettiva di stabilizzazione conservatrice. E in questo ruolo utilizzano salafiti e gruppi religiosi che, alla prova dell’insorgenza, si dimostrano nemici innanzitutto dei processi rivoluzionari.

Contro ogni minoritarismo

Liberare il campo, dicevamo. Cioè uscire dal minoritarismo, che non consiste in un puro dato quantitativo, di opinione pubblica, oppure – come pensano tutte le “terze vie”, quelle tragiche e quelle farsesche – moderare i contenuti per allargare il numero dei simpatizzanti: pensare questo, nell’accelerazione della crisi, è stupidità o malafede. L’uscita dal minoritarismo è una prassi politica, la capacità di essere all’altezza della composizione del lavoro vivo, della sua potenza di espressione e radicalità. Quando diciamo politica della composizione contro politica delle alleanze, dunque, non ci gingilliamo con le parole a effetto. Molto concretamente il problema è: perché si riempiono le sale degli incontri tra le supposte rappresentanze dei movimenti, degli studenti e dei lavoratori, e in piazza gli operai dell’Alcoa sono lasciati soli? Perché si constata l’esaurimento della forma-sindacato a Taranto e si consegna al sindacato la (mancata) iniziativa contro la riforma Fornero o per i referendum sul lavoro? Sono domande che interrogano tutti, nessuno escluso. Così, mentre in Italia si implorava la Cgil di convocare uno sciopero generale, a Oakland e nella MayDay questo veniva indetto direttamente dai movimenti, costringendo i sindacati americani, nazionalisti e corrotti, a confrontarsi con l’autonomia di programma e di agenda politica di Occupy. Insomma, è chiaro che processi di organizzazione unitari vanno privilegiati. Ma solo se sono espansivi, dunque con una vocazione maggioritaria e di classe, e non frontisti, cioè minoritari.

Il grado zero sul livello del mare, l’orizzonte del conflitto sociale

da www.uninomade.org

di RAFAEL DI MAIO

Nella crisi profonda si moltiplicano e si confondono un po’ ovunque figure di grigi funzionari della dialettica, da sempre schierati contro la liberazione dell’uomo dal lavoro. Avviene sovente anche nei sindacati e movimenti loro alleati quando s’improvvisano per i nuovi diritti, che peraltro la governance del bio-capitalismo tenta continuamente di catturare con riforme e sintesi normative – soprattutto nell’Europa lontana dagli interessi sul debito – per scandire la trasformazione continua del rapporto irriducibile tra lavoro vivo e capitale. Rovesciano e trasformano come un re Mida in un’alchimia negativa l’oro in merda, il reddito universale in sofisticati dispositivi di controllo sociale.

La finanziarizzazione definisce la sfera pubblica del capitale mettendoci davanti ad una crisi strutturale della governabilità, del valore e della sostenibilità stessa della moneta. Nella grande transizione dal fordismo al post-fordismo la crisi finanziaria diviene prima di tutto crisi sistemica del processo di valorizzazione. Nel bio capitalismo contemporaneo è ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione del lavoro nel diritto. Questa è ormai la tendenza costituente del profitto che diviene rendita. Sul piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Dentro le nuove striature del capitalismo digitale i colossi come Apple, Google e Facebook fungono come leve per la nuova misurazione del valore, come catalizzatori di informazioni sociali sui comportamenti della collettività che vengono continuamente ricombinate e analizzate  e che attraverso l’espropriazione del capitale sociale vengono monetizzate, senza nessun riconoscimento della effettiva ricchezza socialmente prodotta. Il lavoratore diviene una figura immersa nella produzione sociale. Gli utenti e il loro continuo interagire con i dispositivi  tecnologici in Rete operano sul campo immanente della produzione biopolitica che potremmo definire prod/utenza o co-creazione di valore.

Basti pensare ad esempio alle nuove sperimentazioni nel modello anglo-sassone di sostegno al reddito ai giovani tra i 15 e 24 anni. A questi viene erogato un sussidio minimo settimanale a fronte di prestazioni d’opera in lavori socialmente utili svolti in forma totalmente gratuita. Ragazzi giovani e giovanissimi che vivono tra la precarietà e la disoccupazione – del resto in Italia come sappiamo dalla pletora statistica è una condizione ancora più diffusa – che passano il proprio tempo su Internet e sui social network, dove lì si, lavorano permanentemente nella nuova accumulazione originaria che sulla rete poi si dispiega. Questo lato “estremo” del ragionamento sicuramente ancora tendenziale assume una centralità strategica se consideriamo le assurdità sulle quali misuriamo formalmente la composizione attiva e realmente occupata nel Mercato del lavoro. Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia viene considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il reale tasso di disoccupazione, che ovviamente viene calcolato solo sul bacino degli attivi e cosiddetti disponibili. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. Quale programma e quali “ricadute” possono misurarsi dentro tale contesto? A fronte della produzione sociale, dove il nesso si connette all’unica istanza possibile oggi, quella del reddito di cittadinanza – nel senso precipuo del reddito di esistenza, incondizionato, svincolato dal lavoro formalmente riconosciuto – quale dovrebbe essere se non il precariato metropolitano il referente, la soggettività produttiva emergente che rivendica i nuovi “claims”? E non dovremmo includere anche quella massa di operai precarizzati dalle crisi industriali, i lavoratori dei servizi e del pubblico impiego che in ogni dove moltiplicano le lotte e le forme di resistenza?

Le ricadute politiche divengono quindi macroscopiche e i nessi interni alla produzione sociale rompono anche il meccanicismo dell’organizzazione sindacale. Se nel capitalismo digitale il lavoratore diventa ibrido e doppio, da un lato costantemente attraversato dalle striature del comando centralizzato sulle infrastrutture informatiche e dall’altro, dall’auto-valorizzazione delle proprie attitudini, saperi, affetti e desideri, la forma della possibile organizzazione politica sposta completamente il suo asse dalla sottomissione formale del lavoro nel capitale, alla sussunzione reale del lavoro vivo nelle macchine e nelle maglie dell’irrigimentazione capitalistica. Dobbiamo quindi continuare ad approfondire la relazione tra i processi della nuova valorizzazione e la rivendicazione del reddito di esistenza, se su questo terreno ci si vuole effettivamente cimentare sul piano politico.

Dopo aver visto per mesi la rabbia trasformarsi in disperazione, salire sulle torri, sui tetti o scendere in fondo ad una miniera è tornato ora il momento – semmai si fosse perduta questa elementare bussola – di riportare il conflitto sociale sul livello del mare, dove i piedi tracciano il suolo e i corpi riemergono insieme per attraversare l’orizzonte “in pianura” li dove ti sfruttano, ti picchiano, ti deportano, lì dove si soffre e si gioisce, lì dove si può perdere tutto ma certamente si può tentare ancora di rimanere vivi. E’ lì e solo lì che si può costituire quella materialità della lotta, ben oltre la nuda sopravvivenza. E’ lì che la disperazione può trasformarsi nuovamente in rabbia, in conflitto sociale, sovversivo, creativo e decidere di non tornare più a casa. Così come è la disperazione che porta donne e uomini senza prospettive, futuro e garanzie a rivendicare il semplice lavoro, come se chiedessero ancora solo sfruttamento e sacrifici. Bel quadretto da presentare ai padroni grazie ai sindacati. Con loro mai la rabbia diventerà gioia e desiderio per la trasformazione del presente. La crisi picchia duro e la politica si nasconde, nega la realtà e allora anche quelle forze sociali, operaie, marginalizzate, rimangono politicamente confuse, senza legami, prospettive, senza rivoluzione. Rivendicano semplicemente il lavoro – sfruttato sottopagato, unica fonte di reddito e nella disperazione come non comprenderli – senza potersi spiegare, con le proprie parole, quando l’unica cosa che conta è la sopravvivenza. Dove anche un bambino leggerebbe reddito intero contro lo sfruttamento, in quel chiedere disperatamente lavoro, lavoro, lavoro. Gli opportunisti, sindacalisti senza arte e solo con la loro parte, possono oggi schiacciarsi su questa dimensione populista del lavoro. Del resto nella disperazione sociale avviene questo e molto altro. Si fa gioco forza poi a negare la cooperazione, la produzione sociale permanente,  le forme di vita costantemente a lavoro. Un lavoro sempre più invisibile, in nero, gratuito, non riconosciuto che però oggi costituisce quella condizione generalizzata della precarietà diffusa che è innegabile in quanto costituisce l’unica realtà materiale per un intera generazione di precari, studenti, disoccupati, lavoratori cognitivi e “nativi digitali”.  Così è possibile mistificare quella mobilitazione permanente continuamente appropriata dal capitale, imponendo ancora il paradigma del lavoro come traduzione dei diritti. E poi di quali? Quelli che puzzano di morte come a Taranto o nel Sulcis dove per il profitto dovremmo accettare supini le briciole in busta paga mentre il senato globale dei rentier del capitaliasmo finanziario globale se la ride, sapendo bene che è nel “comune immateriale”, nella “produzione sociale dell’uomo mediante l’uomo” che si crea oggi ricchezza e si estrae il reale profitto, quel plusvalore sociale appropriato dalla rendita finanziaria che da rendita privata deve essere riconvertita in rendita sociale per combattere le crisi e costruire il futuro estendendo le pratiche del comune. Vi è una costituzione biopolitica delle lotte da organizzare dentro la moltitudine, dentro la cooperazione sociale, dentro i flussi della nuova valorizzazione. Questa moltitudine precaria rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, sicuramente impoverito. Reddito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale (affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva) ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali della rete e della nuova organizzazione del lavoro. Reddito intero per far saltare i dispositivi del biopotere e della sua governance.

15 settembre in Portogallo: dichiarare vittoria?

da www.uninomade.org

di PASSA PALAVRA

Il contesto

Il 7 settembre, il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho tiene un discorso in diretta rivolto a tutto il paese, prima di una partita della nazionale di calcio. Durante il suo intervento, il primo ministro annuncia l’aumento del 7% del valore della tassa  sociale unica (TSU), che deve essere pagata dai lavoratori del settore privato, e la diminuzione del 5% della somma imposta alle imprese. Una misura che si va ad aggiungere al vasto pacchetto di austerità che si sta accumulando a partire dal primo intervento della Troika (FMI, Banca Centrale Europea, Commissione Europea) nel 2010.

Già al tempo del governo socialista (PS) l’applicazione della ricetta di austerità era stata caratterizzata dal congelamento delle entrate e degli avanzamenti di carriera negli uffici pubblici, dall’aumento delle imposte sui consumi, dai tagli agli stipendi dei funzionari pubblici superiori a 1 500 euro, dal congelamento delle pensioni e dall’aumento dei ticket negli ospedali.

A metà del 2011, di fronte ai costanti “avvisi alla navigazione” provenienti da autorità economico-finanziarie (dalla Troika alle agenzie di rating), la nuova coalizione governativa (Partito Socialdemocratico e Partito Popolare) rompe la promessa elettorale di non aumentare le imposte approvando un’imposta straordinaria sui rendimenti equivalente al 50% della tredicesima. Giorni dopo, è annunciato il taglio della tredicesima per i dipendenti statali. Parallelamente, si verificano aumenti dei prezzi dei trasporti pubblici nell’ordine del 15%, e si assiste all’aumento di gas ed elettricità.

Nel pieno di questa ondata di misure, il governo modifica le leggi sul lavoro facilitando i licenziamenti, in parte ampliando il principio di “non adattabilità” del lavoratore al suo posto di lavoro [condizione che si verifica quando il lavoratore non si adatta a cambiamenti introdotti nell’ambiente di lavoro Ndt], in parte diminuendo gli indennizzi per il licenziamento senza giusta causa. Questa ricetta, tuttavia, non ha dato risultati. Il fatto che l’austerità costituisca un paradigma di governo economico transnazionale ha fatto sì che la speranza nell’aumento delle esportazioni si fondasse soltanto su di essa. La crescita esponenziale dei prezzi e degli indici di disoccupazione ha finito per portare alla riduzione del potere d’acquisto, al fallimento delle piccole attività commerciali e, di conseguenza, a un aggravamento della disoccupazione. Un meccanismo che non accenna a fermarsi e che non ha risparmiato quella che, in teoria, dovrebbe essere la “pupilla” dei partiti di centro: la famigerata “classe media”.

Il caso portoghese rivela la natura ideologica del termine “classe media”. Il debole tessuto produttivo nazionale ha basato il proprio vantaggio competitivo sul prezzo e non sul prodotto, ottenendo lucri facili a partire da salari bassi e dai più svariati “contorsionismi” fiscali. L’iniezione di fondi strutturali a partire dal 1986, anno in cui il Portogallo entra nella Comunità Economica Europea (CEE), ha fatto sì, tuttavia, che un’importante fetta della popolazione portoghese si ritrovasse con case di proprietà, automobili e ferie una volta all’anno. Un insieme di benefit che hanno simboleggiato l’ascesa verso un nuovo status sociale.

Al contempo, e nonostante gli aiuti finanziari, le strutture produttive non hanno messo in questione i propri presupposti di funzionamento e le proprie aree di attività. Per loro la modernizzazione ha significato soltanto adottare nuove modalità contrattuali, più “flessibili”, continuando a scommettere sul fattore prezzo.

La fine del sogno della “classe media” iniziò precisamente alla fine degli anni 90, quando questa scoprì che gli investimenti fatti sui propri figli non avevano portato ai risultati sperati. Per quanto il Portogallo sia ancora distante dai livelli dell’Europa più “evoluta”, e seppur continui ad avere una percentuale di abbandono scolastico assai elevata, il paese ha assistito negli ultimi anni alla massificazione dell’insegnamento secondario superiore. Tuttavia, una volta usciti da scuola e dall’università, i giovani qualificati hanno trovato, nella migliore delle ipotesi, un lavoro precario in centri commerciali o in call-center, impieghi che vengono presentati come “un’alternativa migliore della disoccupazione”. La “classe media” si è così confrontata con la sua sterilità. Una frustrazione che, insieme al costante aumento dei prezzi, all’invenzione di nuove imposte, ai crediti da pagare e infine, alla perdita dell’impiego, l’ha costretta a fare i conti con la propria fragilità.

La manifestazione

L’annuncio dell’aumento della TSU ha suscitato fortissime critiche, anche da destra. Partendo da esponenti di punta del PSD, come Manuela Ferreira Leite, fino ad arrivare a presidenti di gruppi economici, come Belmiro de Azevedo, l’opposizione a questa misura è stata generalizzata, viste le conseguenze restrittive su un potere d’acquisto già di per sé indebolito. La manifestazione “Basta Troika! Vogliamo le Nostre Vite” ha finito quindi per assumere dimensioni fuori dal comune. Partendo da un discorso più ambizioso rispetto ai precedenti, la manifestazione ha preso le mosse da un gruppo di singoli firmatari, quasi tutti figure pubbliche di sinistra o leader di piccole organizzazioni. Svoltasi in concomitanza con le manifestazioni in Spagna, l’iniziativa si è diffusa in 40 città portoghesi e in alcuni consolati portoghesi all’estero, dando vita alla manifestazione forse più grande degli ultimi decenni. A Lisbona, centinaia di migliaia di persone sono partite da Praça José Fontana in direzione di Praça de Espanha, un percorso che voleva esprimere solidarietà alle manifestazioni in corso nel paese vicino. Circa due ore dopo, in Avenida da Repùblica, si sono verificati i primi momenti di tensione, durante i quali frutti, petardi e bottiglie sono stati lanciati contro la sede di rappresentanza della Troika. Una persona è stata fermata da alcuni poliziotti in borghese. Arrivate alla fine del percorso, migliaia di persone, soprattutto i più giovani, hanno deciso di continuare la manifestazione dirigendosi verso la sede del Parlamento. In poco tempo, la piazza di fronte all’edificio si è rivelata troppo piccola per quella moltitudine che, per più di un’ora, ha continuato ad aumentare. É qui che si sono registrati i momenti di maggiore scontro tra manifestanti e forze di polizia. Per circa due ore bottiglie, pietre e frutta sono state lanciate a mano a mano che la polizia aumentava i propri uomini sulla scalinata. La polizia, a sua volta, ha organizzato alcune piccole azioni, fermando, alla fine, quattro persone.

Il modo di agire della polizia è stato, tra l’altro, una delle novità di questa manifestazione. Al contrario di quanto avvenuto durante lo sciopero generale del 22 marzo, le forze di polizia hanno agito in modo più strategico: pur non abbandonando le dimostrazioni di forza, le loro azioni si sono rivelate tuttavia meno concentrate sulla violenza sproporzionata e piuttosto sull’identificazione delle minacce e sul ricorso ad agenti in borghese per procedere con i fermi.

E adesso?

Di fronte alla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, è facile cantare vittoria. Da spettatori passivi, i portoghesi si sono evoluti improvvisamente in grandi attori. Il ricorso all’essenzialismo, per convinzione o per scopi strategici, ci sembra tuttavia poco fruttuoso, dato il suo carattere astorico e dunque non strategico.

Una manifestazione che riesce a riempire le strade di svariate città del paese, dimostrando, a tratti, di potersi radicalizzare (a Porto alcune vetrine di banche e di società assicurative sono state danneggiate, ad Aveiro un giovane di 28 anni si è dato fuoco, riportando varie ustioni), costituirà sempre un dato importante. Tuttavia, esistono problemi strutturali difficilmente risolvibili in un solo giorno. In primo luogo, come si è potuto forse evincere da quanto detto fin qui, la manifestazione ha rivelato una mancanza di orizzonte politico. Una gran parte dei cartelloni e degli striscioni esposti dai manifestanti continua a essere riempita con sfoghi o con semplici negazioni: da “Sono stufo..” a “Basta” passando da “No a…”. Questi slogan segnalano l’inesistenza di un minimo progetto politico, senza il quale qualsiasi critica ai partiti politici e ai sindacati, per quanto precisa, corre il rischio di assumere una posizione meramente difensiva, facilmente manipolabile dai populismi e/o dai poteri carismatici. In secondo luogo, non solo Grandola Vila Morena (inno della rivoluzione dei Garofani) è stata meno cantata di A Portuguesa (inno nazionale), ma la bandiera nazionale è stata di gran lunga il simbolo più visto in tutta la manifestazione. Da questo punto di vista, sembra che venga dato più peso al fatto che le politiche di austerità risultino da un processo di ingerenza esterna, il cui scopo sarebbe la diminuzione del debito pubblico, piuttosto che all’aspetto internazionale di tale processo (realizzato con lo stesso tipo di diagnosi e di intervento in altri paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda).

Il 15 di settembre è stata, certamente, la prova che nessuno sta con le mani in mano. E tuttavia dimostra al contempo quanto lungo e tortuoso sarà il cammino da percorrere.

* Pubblicato su http://www.passapalavra.info Traduzione dal portoghese di Silvia Genovese.

Scuola Estiva UniNomade: Conricerca e biocapitalismo

 

 

 

Presentiamo a Roma la summer school di uninomade scegliendo l’università come terreno sociale di cooperazione e di confronto anche a partire dalla centralità che incarna nelle trasformazioni della
metropoli, nei suoi flussi produttivi, all’interno del suo continuo e
dinamico processo di valorizzazione. Uninomade rappresenta oggi un
prezioso spazio di elaborazione teorica e politica dove i movimenti
possono trovare le sintonie giuste per tracciare nel lingiaggio comune
anche un possibile spazio di riflessione politica e ed elaborazione
teorica comune: una sorgente alla quale abbeverarsi e contaminarsi, un
necessario contributo alla soggettivazione politica dei movimenti.
Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare all’incontro che si
terrà a Sociologia lun 3 h 17:00

Il Collettivo UniNomade propone per settembre una ‘scuola estiva’ a Passignano sul Trasimeno in Umbria. Per registrarsi e richiedere ulteriori informazioni scrivere a: summerschool@uninomade.org. I materiali preparatori si trovano su questa pagina (continuamente aggiornata). Per le soluzioni di alloggio consultare questa pagina.

 

 

UniNomade Summer School
Conricerca e Biocapitalismo
6-9 Settembre 2012

Auditorium Urbani, Via Europa [mappa]
Passignano sul Trasimeno, 06065 Perugia

 

Viviamo oggi in una fase segnata da continuità e discontinuità: la crisi si approfondisce e assume il profilo di condizione permanente del capitalismo contemporaneo, anche se a ciò non corrisponde in modo meccanico e sincronico il “ricomporsi” dei processi di conflitto. E tuttavia, quasi quotidianamente assistiamo al moltiplicarsi – dalle fabbriche alla metropoli, in Italia e in giro per il mondo – di movimenti e lotte che ci parlano del concreto rovesciamento della crisi in uno spazio di possibilità.

É in questo passaggio storico che il Collettivo Uninomade 2.0 propone quattro giorni di confronto e approfondimento sulla costituzione ‘biopolitica’ del presente e sulle modalità di attivazione di processi di conricerca. Indagare la produzione di soggettività e la potenza costituente dentro la nuova composizione del lavoro vivo, le forme di lotta e le temporalità differenziate, i luoghi e le dinamiche di connessione: ecco la sfida che collettivamente  abbiamo di fronte.

Vogliamo esercitare una critica dell’economia politica all’altezza del presente, cogliere le relazioni tra rendita finanziaria e potere sulle vite, sviluppare pratiche biopolitiche capaci di aprire nuovi spazi di cooperazione tra singolarità, trasformare in antagonismo il conflitto messo a valore dal capitale — e sperimentare, dunque nella crisi, processi costituenti per la riappropriazione del comune.

La “scuola estiva” di UniNomade vuole perciò essere un momento di confronto e discussione tra esperienze, uno spazio di elaborazione di linguaggi comuni, di condivisione di metodi e processi di conricerca. Si propone di contribuire, innanzitutto, alla creazione collettiva di una maniera di vivere la politica dentro la crisi, cioè di uno stile di militanza. Invitiamo perciò alla partecipazione compagni e compagne, collettivi, gruppi di inchiesta, reti, tutte e tutti coloro che sono impegnati nelle lotte e nella costruzione di un pensiero e una pratica all’altezza della trasformazione dell’esistente.

*  *  * 

Programma provvisorio

6 settembre

  • 17:00-19:00.  Toni Negri: Biocapitalismo e costituzione politica del presente

7 settembre 
Critica marxiana dell’economia politica e suoi sviluppi in epoca di biocapitalismo cognitivo

  • 09:00-13:00. Adelino Zanini, Toni Negri, Carlo Vercellone, Matteo Pasquinelli.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare sui processi di valorizzazione nel biocapitalismo: coordinano Gigi Roggero e Salvatore Cominu.

8 settembre
Rendita e biopotere: socializzazione del reddito e rifiuto del debito

  • 09:00-13:00. Christian Marazzi, Stefano Lucarelli, Maurizio Lazzarato.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare relativi ai processi di socializzazione del reddito e di rifiuto del debito: coordinano Andrea Fumagalli e Sandro Chignola.

9 settembre
Biopolitica: la fabbrica della strategia ai tempi delle moltitudini

  • 09:00-13:00. Cristina Morini, Tiziana Terranova, Toni Negri, Giso Amendola.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca su corpi, queer e (ri)produzione: coordinano Anna Curcio e/o Roberta Pompili.

http://uninomade.org/uninomade-estiva-2012/

 

L’incubo di una notte di mezza estate

Cosa avviene in questo squarcio di crisi dove al si salvi chi può dell’annunciata e probabile caduta dell’Euro si è passati ad un’apparente salviamo il salvabile, onoriamo gli interessi sul debito, calmieriamo lo spread? E in questa fase, che faranno i movimenti? attenderanno messianicamente l’autunno caldo come se fosse predestinato ad esser-ci, guradando il calendario e pensando magari che l’inarrestabile scorrere del tempo definirà un futuro ineluttabile? No, al contrario il calendario indica un forte abbassamento delle temperature nel periodo dell’autunno. Figuriamoci poi con la crisi. Quindi forse, è meglio partire da alcune “basi” certe del ragionamento e dipanare quindi una bozza, una traccia di lavoro politico, che possa essere utile nella futura e imminente stagione: se nei prossimi mesi non ci si mette un solido e determinato innesto di variabile indipendente, di conflitto sociale, di potere costituente, un buona quota di moover sociale nella forma delle forme costituzionale dei diritti, l’autunno che verrà, lungi dal ribollire, sarà freddo o comunque freddino, con buona pace dell’attesa condita dalle belle parole.

A partire da questa posizione, più che convinzione potremmo definirla decisione, procediamo da un lato a descrivere intanto, per usare vecchie parole, un’analisi di fase e dall’altro ad immaginarsi anche con nuove parole – diciamo, vecchia tattica per una nuova strategia – un cammino, un’opzione, un varco possibile, che possa spingere la nostra umanità a ripensare da capo il modello-mondo che vogliamo costruire e immaginare, senza la paura di affermarla, la necessità quindi sognatrice e rivoluzionaria di un’utopia concreta e transazionale, tutte parole peraltro femmine. La critica non può stare che sul  piano internazionalizzato dell’impero e l’azione politica non può che immaginarsi e assumersi dentro i flussi di movimenti transazionali che in ogni dove affermano le istanze del comune.

Quindi cosa avviene intorno a noi?

Fondamentalmente stanno ricontrattando i compensi e i profitti nel nuovo processo di valorizzazione. Il sistema capitalistico si assume nella crisi come trasformazione continua dei rapporti di potere tra lavoro vivo e capitale. Si dispongono così, nella grande transizione, a chiusura del ciclo fordista ma anche sulle ceneri del sistema welfaristico del defunto patto sociale, una nuova (possibile?) mediazione asimettrica, per rafforzare il proprio ruolo di supremazia anche attraverso il ricatto “globale” del debito –  ma certamente anche con una subdola e altrettanto incisiva forma di biopotere. Questo per contrapporsi permanentemente alla forma irrisolvibile di produzione biopolitica indipendente delle soggettività creative, cooperanti, antagoniste.

La finanziarizzazione ormai è un processo immanente al sistema produttivo e la dinamica continua della valorizzazione capitalistica è nuovamente ri-articolata e ridislocata su frontiere dell’innovazione, della sussunzione, cattura, cooptazione delle soggettività messe al lavoro dalle diverse e striate forme della produzione immateriale, cognitiva, relazionale, affettiva. Il processo di riorganizzazione del mondo del lavoro e del non lavoro procede sul passo spedito della riorganizzazione produttiva della grande trasformazione che qui vediamo incardinarsi tra un millennio e l’altro. Grande trasformazione produttiva per mezzo dell’inesauribile e inarrestabile processo di precarizzazione del lavoro e della vita, delle relazioni sociali e produttive.

Il fallito golpe planetario che gli Usa hanno provato a mettere in campo nel 2001 è servito comunque e fondamentalmente a dispiegare la nuova pressione del controllo e del ricatto globale neoliberista come dispositivo di potere sull’umanità, niente di meno che con la guerra globale come paradigma delle nuove relazioni internazionali, una nuova diplomazia della guerra preventiva. Del resto non potendo fare del giusto il forte, si fece del forte il giusto e si passò al paradigma della paura.

Il debito quello che per esempio in Equador definiscono immorale, da non onorare, perché accumulato da governi precedenti corrotti e criminali, è l’altro volto del ricatto. L’insostenibilità della moneta unica e della pressione delle norme di politica economica per sostenerla sono il corollario per questa piccola parte di mondo in declino chiamata Europa.

Siamo nel pieno di una grande transizione che s’incarna nel trapasso dei modelli, produttivi, economici, sociali. La fase attuale è quella dell’accumulazione originaria nel nuovo ciclo capitalista che nascendo sulle ceneri di una complessità di elementi, ormai superati che segnano la fine di una lunga fase dove da una lato l’economia della grande industria fordista e taylorita e dall’altro il nuovo – cioè ormai vecchio – patto sociale (new deal) tra i corpi intermedi – Stato, partiti, sindacati, chiesa, imprese – avevano permesso un pieno scambio, benessere (do you remeber welfare state? stato di benessere). Equilibrio e patto ovviamente ottenuto e continuamente mobilitato dal potere costituente del conflitto sociale.

Il passaggio che nelle trasformazioni produttive e lavorative si è consumato negli ultimi 30/40 anni dall’operaio sociale al precariato diffuso e metropolitano, è oggi in termini di soggettività antagonista ancora un territorio aperto di indagine, inchiesta militante, è ancora uno spazio non definito completamente nella sua composizione tecnica e politica ma sicuramente ineludibile ed irreversibile nel suo determinarsi nella nuova composizione sociale tra sussunzione formale del lavoro e nuovi piani della cooptazione, cattura e sussunzione reale della soggettività produttiva. Il focus di ragionamento che ci appare a questa altezza delle contraddizioni il nodo fondamentale della crisi è propriamente la crisi nella crisi, ovvero la crisi del processo di valorizzazione, come crisi specifica della misura del valore dentro le nuove trasformazioni avvenute in seno al processo produttivo e lavorativo. Dove si estrae valore oggi? quali sono i reali spazi della produzione contemporanea? Domande necessarie anche per capire dove colpire, non solo per capire chi siamo e come ci chiamiamo.

Nel postfordismo digitale salta il piano-sequenza lineare della misura del valore, della capacità/possibilità da parte del capitale di misurare la produzione immateriale. Ovvero nel capitalismo contemporaneo cognitivo e immateriale, è’ ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione nel diritto del conflitto di classe. Su questo piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Ora più che mai il reddito garantito deve essere posto sempre di più come rivendicazione di esistenza e di cittadinanza, così come abbiamo visto nelle giornate estive della lotta di Taranto, deve posizionarsi dentro questa contraddizione, come potenza aperta dai nuovi processi della valorizzazione, svincolandosi dalle mediazioni politiche o sindacali realmente tutte al ribasso. Rimane ciò che la precarietà e la precarizzazione ci lasciano sul terreno, un precariato sociale che dobbiamo rendere insorgente, indipendente, potente.

Come dicevamo prima siamo nel pieno della grande trasformazione. In un passaggio epocale, paradigmatico. Così come in altre transizioni, i passaggi furono lenti, ma inesorabili. Ora con alle spalle un novecento poco utile anzi in taluni casi dannoso per i movimenti che vivono e incarnano la contemporaneità – lo vediamo con la retorica del lavoro come bene comune o del bene-comunismo delle amministrazioni locali – ma tenendo un occhio critico e se possibile materialista sulla storia, ci pare cogente nella comparazione con il passato per costruire il futuro e l’immaginario dell’indipendenza un gioco con la storia che ci porta al secolo “lungo”, dove rotolò la prima testa coronata d’Europa, nell’Inghilterra del ‘600. Quel secolo intenso del processo di transizione dall’immagine feudale, all’immagine borghese del mondo. Allora come oggi nel pieno delle trasformazioni produttive si andava determinando una nuova composizione sociale che emergeva dentro il nuovo processo produttivo industriale che si andava affermando nell’Inghilterra degli Indipendenti e dei Levellers. Ieri, come oggi si affermava l’accesso incondizionato alla cittadinanza saldando il rapporto tra proprietà della terra e libertà comune un po’ come avviene oggi nelle montagne della Val Susa, si difendeva il nuovo spazio politico dell’enclousure pubblica. Oggi il precariato si trova un pò come i freeholders inglesi ai tempi dei Levellers, tra inclusione ed esclusione, tra auto valorizzazione e comando. E c’è un di più, oggi, il precariato nell’economia della conoscenza possiede i mezzi di produzione. Le sue macchine affettive, linguistiche e relazionali sono effettivamente in suo possesso. Come i freeholders in army così il precariato se sarà insorgente dovrà affermare nell’indipendenza – ieri della terra oggi del suo prezioso mezzo di produzione – la propria libertà. Indipendenza dal dispositivo del comando, dell’irrigimentazione e della cattura della nuova valorizzazione capitalistica.

Nodo redazionale indipendente

Agosto 2012

Quando la rottura è costituente – Riflessioni per i movimenti

di @angelobrunetti1

Spesso la retorica della  politica – anche di movimento  – salta a piè  pari la realtà sociale  producendo scollamenti  e divaricazioni  verticali tra governi e governati. Veri  e propri abissi.   Alla base di ciò che genericamente definiamo crisi economica – che la realtà sociale vive di riflesso spesso nella disperazione – vi sono elementi fondamentali che vanno ancora profondamente indagati e sui quali non ci concentreremo qui per necessità di sintesi.

Per riassumerle a grandi linee. Facendo  tesoro dell’analisi di Marazzi, cioè che nell’odierno  sistema di accumulazione vi è un  rapporto consustanziale tra produzione  e finanza, possiamo affermare  con certezza che oggi la finanziarizzazione,  pervasiva a livello dell’intero  ciclo economico, è divenuta parte  integrante della nostra vita quotidiana,  che le sua fonte di alimento è  la produzione di beni e servizi, ma  anche welfare, beni comuni, linguaggi, stili di vita.  La finanza si riproduce nella costituzione materiale dei corpi in quella che Marazzi definisce come: “la mobilitazione permanente per il capitale”.

Dentro tale dinamica, appare sempre più evidente un nesso indicibile, occultato e mistificato dal potere, quello tra crisi finanziaria e crisi del processo di valorizzazione. La “crisi nella crisi”, ovvero la crisi di tutti i metodi di misurazione del valore del lavoro, che fa saltare il banco delle formali regole economiche. Questo punto è politicamente dirimente.

In futuro, occorrerà inevitabilmente elaborare forme di sperimentazione politica da posizioni più avanzate e con traiettorie di più lungo respiro rispetto a quelle assunte fin qui dal movimento.

Se intendiamo la politica anche come costruzione dal basso di una nuova forma di organizzazione sociale, se siamo consapevoli che la “rottura” è necessaria per rendere costituente l’alternativa, allora dobbiamo fare un discorso di verità. I movimenti potranno cominciare a incidere sulla realtà politica solo una volta che avranno deciso cosa fare da grandi. Ciò prendendo atto dell’irreversibilità della crisi della rappresentanza politica, così come della svolta autoritaria in corso, necessaria all’instaurazione della dittatura dei mercati, i quali dettano ogni giorno di più le agende dei governi.

Se vogliamo costruire un’alterità che vuole riprendersi il protagonismo sociale, la capacità di  ristabilire gli spazi dell’autogoverno e rimettere in discussione le scelte operate sulle nostre teste, dobbiamo dissolvere l’intero quadro politico esistente, superando quel senso di impotenza che segna i limiti di un sistema bloccato e incancrenito. Ciò non significa esercitare lo scontro inseguendo un’estetica della violenza, ma rompere su tutti i piani, effettuando nell’immaginario e attraverso il desiderio collettivo una trasformazione prima di tutto culturale, che non può leggere il lavoro come bene comune e che non può partire dalle mediazioni al ribasso come quella sul reddito legandolo alla sopravvivenza del lavoro precario.  Almeno, non lo devono fare i movimenti. Questo nella piena consapevolezza della complessità, della stratificazione del rapporto di forza che si misura sui mille piani inclinati della società complessa che viviamo.

Dare respiro e “programma” alla protesta, alla rabbia sociale, renderla potere costituente – perché si tratta di riscrivere da capo la carta costituzionale, basti pensare per un momento a quanto è datato il primo articolo – sottraendola al nichilismo, significa dare un possibile senso comune all’alternativa che viene attraverso sempre più solide alleanze sociali.   Questo avevamo in mente quando, durante tutto l’anno passato, abbiamo lanciato in giro per il paese l’ipotesi (ancora in cantiere) di uno sciopero precario quale forma diffusa di rottura e iniziativa politica. Come sabotaggio, blocco dei flussi materiali e immateriali, attacco all’immagine e al brand dei precarizzatori. Il tema oggi rimane ancora quello, al di là del nome che potrà assumere nella prossima stagione politica.

Attraverso la materialità della lotta, si deve e si dovrà poter passare dal puro sfogo individuale della propria indignazione al pieno e reciproco riconoscimento collettivo. Si tratta di dare respiro alla soggettività precaria, per sottrarla alla dimensione individuale e confusamente spontanea, e di saper tessere una tela ricompositiva che ponga rimedio all’atomizzazione e alla frammentazione strutturale – del mondo del lavoro e del non lavoro e quindi delle relazioni sociali e produttive – in cui essa immersa.

Ma occorre farlo proprio lì, in quella stessa situazione frammentata, non altrove, con buona pace di tutti i sindacati. Tutto questo affinché si possa definire ciò che si annuncia come l’ipotesi di nuova ricomposizione di classe. A unire oggi i precari è semplicemente la rabbia. E questo ovviamente non basta. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia, intelligenza generale, mente collettiva, sovversiva, creativa. Quando diciamo di voler organizzare la nostra rabbia, ci disponiamo all’interno di questa opportunità di lavoro politico. Non si può continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano, quasi meccanicamente, l’uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassintegrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore.

Dentro le forme della lotta precaria può crescere un movimento realmente indipendente che tracimi oltre le risacche della routine militante e si ponga l’obiettivo di trasformare ra- dicalmente i processi di sfruttamento, accumulazione e valorizzazione capitalistici. Valorizzazione oggi dislocata nella co-creazione di valore, nella messa al lavoro reale delle soggettività che supera la messa a lavoro formale e che, nell’ambito dell’economia immateriale, si riproduce attraverso i servizi forniti da importanti multinazionali come Google o Facebook – con buona pace della fiom, con la sua metà degli iscritti informatici impropriamente inquadrati nel contratto dei metalmeccanici. Luoghi in cui l’utenza è prod-utenza, mentre il flusso della valorizzazione delega al lavoro formale il solo ed esclusivo ruolo di controllo sociale, nel tentativo di governare un disordine globale che ormai si esprime sotto tutti i cieli del vecchio patto atlantico. Se volete, ecco un altro punto dirimente, non scontato, impensabile fino a pochi anni fa: il mondo è nuovamente in rivolta.

E qui, volgiamo richiamare il contesto nostrano mettendolo per un momento in relazione con ciò che avviene in Europa e nel resto del mondo. Ci riferiamo alla stagione segnata dal 15 ottobre, che, a distanza di quasi un anno dagli eventi, richiede che vadano fatte ulteriori considerazioni.

Il 15 ottobre è andato ben oltre la finzione o la testimonianza. Ha sorpreso e travolto tutti. Noi compresi. Ma per una volta il programma era cambiato nella realtà così come era già accaduto l’anno precedente, il 14 dicembre. La dissociazione rancorosa nei confronti dei ragazzi e dei compagni che quel giorno hanno sfidato per ore lo Stato in piazza regalando la cartolina di un’Italia in crisi, arrabbiata e con la voglia di reagire – che sicuramente ha contribuito ad accelerare la caduta del governo – non solo è stata dolorosa, ma indegna; insopportabile poi se dettata da esigenze di compatibilità e mantenimento degli accordi che non tutti conoscevano. Dietro quella rivolta, un accumulo di forze, di tendenze e di processi sociali non codificabili per padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Ma anche per la generazione che aveva “diretto” il movimento a Genova. Non processi meccanici ma dinamici, processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavano di governare. E questo ovviamente vale anche per chi, nei movimenti, credeva di portare l’avanzo del banchetto del potere come premio ai più allineati alla governance, (quella buona eh!), quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune: eccoli tutti a braccetto a fare la fila per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato pure per loro. Non a caso dal 15 ottobre in poi tutte le posizioni politiche di movimento hanno sterzato, effettuando in taluni casi vere e proprie inversioni a U, arrivando addirittura a cercare altrove ciò che avevamo tentato di portare fin sotto casa loro, inseguendo ovunque, anche a Francoforte, il presente pur di non affrontare qui e ora il nostro futuro. Le lotte riverberate dalle comunità indipendenti che nel mondo si riproducono – e per fortuna si moltiplicano ovunque, da Occupy Wall Street in giù – e di cui noi facciamo pienamente parte, o trovano una sedimentazione materiale nei nostri territori a partire dalle nostre generazioni, o altrimenti saranno cicli di movimento vissuti da altri e scimmiottati da noi.

La strada da percorrere ci è indicata dalla straordinaria esperienza dei comitati per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni, come nella Val Susa, fondamentalmente la nuova dorsale dei movimenti sociali anticapitalisti, che, nel volgere di pochi anni, ha imposto al dibattito pubblico ciò che sembrava essere andato perduto per sempre. La radicale messa in discussione della categoria di profitto – categoria fondativa del capitalismo. Un altro dato dirimente nella complessità. E lo è ancor di più per il punto di vista precario se vuole poi essere anche il baricentro, il grand’angolo di qualcosa di più ampio ancora, per costruire l’alternativa come utopia concreta, in quella prateria sociale di cui spesso parliamo, che non deve più attendere la rigenerazione del cambiamento dall’alto, ma individuare il varco giusto per insorgere dal basso. Deve farlo, senza la paura di dirlo.

Roma, luglio 2012

Non ci avrete mai come volete voi, dalla Repubblica Indipendente di Taranto

Vogliamo vivere e non lavorare, non lavorare per morire.

Era abbastanza evidente da tempo ciò che sia andava
accumulando nel profondo meridione del nostro piccolo paese in declino ed era
abbastanza prevedibile che una scintilla avrebbe cominciato o meglio continuato
a incendiare quella prateria sociale che dopo il movimento dei forconi e degli
autotrasportatori in Sicilia, le battaglie dei contadini e pastori sardi,
avrebbe proseguito dalla Val di Susa in giù sulla strada tracciata dalle tante
resistenze sociali. E che quindi la scintilla nella prateria avrebbe continuato
la sua inarrestabile espansione e sedimentazione arrivando proprio a Taranto
non sorprende affatto soprattutto se un po’ si conosce la decennale battaglia portata
avanti dai comitati popolari e di quartiere che da anni denunciano in città ciò
che oggi anche la magistratura – fin’ora scimmietta sordomuta – ha
(finalmente!) evidenziato con la sentenza di chiusura immediata dell’Ilva.

Dopo decenni di inquinamento in nome del profitto come
forma dello Stato con il nome di Italsider, oggi una città risvegliata e mobilitata
dal basso di prima mattina ha radunato la migliore Taranto

in lotta che ha raccolto un dato politico così’
evidentemente nazionale che non a caso contestava con consapevolezza, chiarezza
e tanta forza proprio il governo Monti che guarda un pò, nella figura dei suoi
ministri, voleva venire ad imporre la legge del potere esecutivo, schierando la
politica e tante guardie, contro il potere giudiziario, contro una magistratura
che per una volta tanto ha

voluto perseguire i corrotti e criminali capitani d’industria, in questo caso
la Family Riva. Tirando le somme con un sol colpo il rispettabilissimo governo
Monti ha abrogato l’equilibrio fondamentale tra i poteri istituzionali della
formale democrazia che tanto vanno sostenendo a piè sospinto e
contemporaneamente decretato che l’unico possibile spazio produttivo e sito
lavorativo per i Tarantini rappresenti anche la loro eterna tomba.

Il governo dei professori senza provare questa volta
nessun rammarico, senza versare nemmeno una lacrimuccia, senza nemmeno battersi
un po’ il petto – quando si parla di soldini, di tanti soldini, non si scherza
più e si sa a quel punto le narrazioni vuote di contenuto si sciolgono come
neve al sole – ha niente di meno che posto in stato emergenza una città intera
minacciando decreti d’urgenza mettendosi frontalmente contro la magistratura
pur di difendere i padroni e un sito produttivo illegale come l’Ilva che nessun
altro paese europeo, permetterebbe di costruire con quelle dimensioni e tali
costi sociali. E non contento ha pensato bene per mezzo del questore e prefetto
di

vietare ogni manifestazione per non turbare la quiete
mortifera che padroni, governo e sindacati avevano ormai accordato. Dopo aver
mappato una nuova geografia dei conflitti ormai sempre più

estesi da una parte all’altra della penisola oggi
abbiamo toccato con mano una città ribelle e consapevole, arrabbiata e
politicamente intelligente pronta ad una lotta lunga, consapevole quindi di
dover resistere alla tentazione di chiudere la partita proprio come vorrebbero
le controparti politiche e aziendali. Rompendo il divieto della questura, la
piazza radunata già dalle prime ore della mattina

ha cominciato a riempirsi fino a tracimare nella
strada principale e in corteo ovviamente non autorizzato ha scelto di
riprendersi le strade per cominciare a riprendersi il proprio futuro.
Irrappresentabilità ed indipendenza della lotta sono state le parole che si
ripetevano maggiormente

dall’affollato palco e si riferivano tanto al governo nazionale che ai governi locali,
come quello del governatore Vendola che ha tradito la cittadinanza di Taranto
riempendosi la bocca fino a pochi mesi fa’ con la sua nuova narrazione ecologista.

Una moltitudine di precariato sociale, che lavora
anche dentro l’Ilva ma soprattutto fuori (ma qui conta poco, la retorica pseudoperaista
la lasciano agli apportunisti) o magari è disoccupato e magari non lavora da anni,
oggi si è incontrato con pensionati, casalinghe, ragazze madri, tifosi, sindacalisti
di base, insegnanti, immigrati, turisti solidali della costa, in migliaia a
rompere il divieto e a dire chiaramente che la lotta a Tanto continuerà fino a
quando l’Ilva non chiuderà. Troppi morti causa questo lavoro. E ovviamente non
sono morti “bianche”, neutre senza responsabili.

A Taranto il tema del reddito garantito, sociale di
esistenza, si respirava per strada e se ne dovranno accorgere anche coloro che uniti-uniti contro
la crisi chiamavano lavoro bene comune la loro istanza fondamentale.

Qui la vicenda del reddito è anche contro il lavoro se
necessario dirlo. Ma sicuramente nella sua funzione principale, è contro il ricatto
che esercita la pressione del ciclo capitalista nocivo e infame che trasuda nelle nostre vite. A Taranto la
ferita aperta dalla nocività, dalla boria padronale, dagli scondinzolamenti
sindacali apre le strada alla ricchezza della vita contro il profitto, si
costituisce movimento per rompere la gabbia, per lottare contro la corruzione
del lavoro. Noi vogliamo vivere e non lavorare per morire,
questo rimbombava nelle strade di Taranto, negli slogan di migliaia di ragazzi che aprivano la
manifestazione senza bandiere e simboli di partito.

Diventa quindi paradigmatica questa lotta perché
diviene comune, nella chiave di volta delle contraddizioni che incarna, al
centro della crisi di sistema, dentro il nervo scoperto della follia
distruttrice del capitalismo.

Ci rivedremo molto presto nelle strade di Taranto

e aridatece le cozze fresche!

Nodo redazionale indipendente – alto Jonio

Senza margini. Appunti per l’autunno

di SANDRO MEZZADRA e FEDERICO RAHOLA

Attorno alla Spagna, in queste settimane, stiamo assistendo al dispiegarsi di un nuovo capitolo del tentativo di costruire, con immane violenza, una nuova costituzione materiale dell’Unione Europea. All’ortodossia ordoliberale di stampo tedesco si associa una perentoria gerarchizzazione degli spazi, immaginata come al solito con poca fantasia: i margini dell’Europa sono la linea del fronte, e dal presunto centro si irradiano le linee guida di una terapia shock che punta a determinare una vera e propria trasformazione “antropologica”, secondo retoriche che ormai si incontrano negli stessi organi di stampa “liberal” dell’Europa settentrionale. Il neo-liberalismo mostra oggi interamente – a partire dalla generalizzazione del debito come principale dispositivo di governo – il suo fondo autoritario, punitivo e lavorista: ogni interstizio della vita va messo al lavoro, in un vero e proprio paradossale revival della teoria del valore-lavoro (si aumenta l’età pensionabile, si aboliscono le festività, si punta a far entrare prima possibile i giovani nel mercato del lavoro). Ma di quale lavoro stiamo parlando? Le statistiche sulla disoccupazione, in particolare giovanile, raggiungono soglie fino a poco tempo fa impensabili, le politiche di austerity hanno un effetto moltiplicatore sulla depressione economica, e ormai nessuno crede più davvero alla favola continuamente procrastinata di una ripresa di là da venire.

Davvero, come ha affermato in questi giorni Mario Draghi, l’euro è “irreversibile”? Il fatto stesso che sia il governatore della Banca centrale europea a dichiararlo suona sospetto. L’impressione è che di irreversibile ci siano solo il carattere generale e pervasivo della crisi e l’incapacità delle politiche messe in campo a prefigurare una effettiva via d’uscita. Queste politiche stravolgono la costituzione materiale dell’Unione Europea (e dei singoli Paesi membri), generalizzano povertà, precarietà e sofferenza sociale, seminano terrore, ma lasciano intravedere all’orizzonte soltanto una prosecuzione della crisi in funzione della sua gestione. La stessa alternativa tra neo-liberali e neo-keynesiani, su cui indulge molta stampa, appare da questo punto di vista a dir poco fuorviante, considerata la genericità e l’assenza di esemplificazioni politiche delle posizioni che si riconducono al polo neo-keynesiano. La situazione europea, mentre non va dimenticato che la dinamica della crisi si approfondisce a livello globale (con il “rallentamento” di essenziali poli di sviluppo, dagli USA al Brasile alla Cina), presenta oggi caratteri paradossali, di blocco: le stesse geografie che vengono immaginate e imposte, con la ricostituzione di situazioni “periferiche” in Paesi come la Spagna e l’Italia, non sembrano avere alcuna possibilità di funzionare, nella misura in cui l’attacco ai consumi finisce per essere una minaccia per gli stesse Paesi che si pretendono “centrali”. Se la crisi non ha margini, non si capisce quali dovrebbero essere i nuovi “margini”: all’orizzonte si profila così una propagazione della stessa crisi all’interno del presunto “centro” dell’Unione Europea.

Crediamo che su questo punto si debba essere assolutamente chiari: la cura imposta non fa che riprodurre la malattia. La linearità catastrofica della crisi e della sua gestione non può quindi che essere interrotta dalla generalizzazione di un movimento di rifiuto e di rivolta, che coinvolga l’insieme delle figure sociali che ne stanno subendo la violenza. Tanto il febbraio greco quanto il luglio spagnolo hanno prefigurato questa generalizzazione, che si è innestata in entrambi i casi su una temporalità di medio periodo delle lotte dentro e contro la crisi che – pur con caratteristiche diverse (anni di sollevazione permanente in Grecia, le acampadas in Spagna) – avevano materialmente costruito un terreno nuovo. Altrove (in Italia, ma anche ad esempio in Portogallo e in Irlanda) le forme di resistenza si sono dispiegate in una dinamica maggiormente frammentata, con difficoltà a determinare momenti realmente ricompositivi. Superare questa frammentazione non può che essere il primo obiettivo per i prossimi mesi, attorno a cui costruire la più ampia convergenza di forze. E’ sull’assunzione della priorità di quest’obiettivo, solo in apparenza scontata, che andranno anzi verificati i comportamenti di tutti coloro che si pongono oggi in una prospettiva di costruzione di una radicale alternativa all’esistente. Alcuni elementi essenziali di programma politico – dalla costruzione di nuovi elementi di welfare attorno alle forme date della cooperazione sociale alla combinazione della lotta sul salario e sul reddito, dalla centralità dell’autogoverno dei commons alla lotta contro le privatizzazioni – sono ormai dati. Per approfondirli e per renderli immediatamente praticabili è necessario tuttavia aprire un nuovo spazio politico, e questo è possibile solo attraverso la generalizzazione del movimento di rifiuto e di rivolta di cui dicevamo. A noi pare che si possa da subito cominciare a lavorare a un progetto articolato su tre dimensioni, distinte analiticamente ma da gestire in modo combinato.

In primo luogo, si tratta di approfondire un movimento in senso proprio destituente, puntando ad affermare il dato dell’ingovernabilità dei margini, e cioè delle società europee maggiormente colpite dalla crisi, dell’impossibilità di determinare un’uscita neo-liberale da una crisi che è anche crisi del neoliberalismo. L’obiettivo delle mobilitazioni deve diventare immediatamente la caduta dei governi dell’austerity, entro un processo di combinazione e aggancio tra le mobilitazioni che continueranno a determinarsi in Paesi come la Spagna e la Grecia e di quelle che non possono non aprirsi in un Paese come l’Italia. I punti d’attacco di queste mobilitazioni possono essere i più diversi: indubbiamente le esperienze di lotta più significative degli ultimi anni in Italia (dalle mobilitazioni dei precari della cultura e dello spettacolo al movimento NOTAV) potranno giocare un ruolo importante, così come la riapertura di un fronte di lotta nella scuola e nell’università potrà funzionare da elemento moltiplicatore della mobilitazione. L’attacco generalizzato al pubblico impiego, del resto, determinerà movimenti di lotta che dovremo essere in grado di far uscire immediatamente da un terreno di mera resistenza (più o meno corporativa), ponendo il problema più generale di attribuire un nuovo significato comune alla istituzionalità complessivamente considerata. Ma il problema fondamentale, su questa prima dimensione, rimane quello di indirizzare complessivamente la mobilitazione verso l’obiettivo dell’ingovernabilità, ovvero di quella soluzione di continuità senza la quale non è possibile aprire un ragionamento e sperimentazioni pratiche su una diversa uscita dalla crisi.

In secondo luogo, si tratta di cominciare a costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova “mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi. L’esperienza argentina del 2001-2002 (le assemblee di quartiere, la sperimentazione della gestione diretta di servizi sociali, la generalizzazione dello scambio non monetario) continua a offrire esemplificazioni profondamente suggestive in questo senso, ma esperienze significative si sono diffuse anche in Spagna e in Grecia. Al di là dell’impatto immediato di queste pratiche nel fronteggiamento della crisi, non va sottovalutato l’effetto di medio periodo che possono avere, sotto il profilo della materiale costruzione di una nuova solidarietà, capace di sostenere processi di ricomposizione tra figure sociale diverse. Da questo punto di vista, ci sembra che un ruolo essenziale, in Italia, possa e debba essere giocato da due dei movimenti più importanti di questi anni: quello dei migranti e quello delle donne, o meglio più in generale sulle questioni della sessualità. Si tratta di movimenti che hanno profondamente inciso sul terreno della “vita quotidiana”, che hanno accumulato formidabili esperienze nell’affrontamento appunto quotidiano di razzismo e sessismo, e che hanno la potenzialità di garantire quell’apertura delle sperimentazioni attorno al tema dell’autogoverno che costituisce un elemento essenziale nel momento in cui riprendono terreno retoriche e pratiche di chiusura populistica, nazionalistica e xenofoba.

In terzo luogo (ma, lo ripetiamo: da subito), si tratta di associare a questo elemento di apertura che possiamo definire “intensiva” (rivolto cioè verso l’interno del tessuto sociale) un elemento di apertura “estensiva”. Già abbiamo detto che soltanto la concatenazione e l’aggancio tra le mobilitazioni in diversi Paesi europei, partendo da quelli più direttamente colpiti dalla crisi ma allargandosi ad altri, può determinare la soluzione di continuità oggi necessaria. Ma al tempo stesso, nel momento in cui ci si pone l’obiettivo immediato di far saltare l’architettura dell’Unione Europea così come si è andata radicalmente ristrutturando dentro la crisi, non si può che insistere sul fatto che non vi sono oggi soluzioni costruite attorno al “ritorno” alla sovranità nazionale. E’ dunque di vitale importanza moltiplicare immediatamente momenti di confronto e iniziativa politica a livello transnazionale (anche in questo caso: partendo dai Paesi più colpiti dalla crisi) per rendere praticabile l’obiettivo della riconquista di uno spazio europeo liberato dallo spettro del debito e dai dispositivi di comando che attorno al debito si sono organizzati rendendo intollerabili le nostre vite.

da www.uninomade.org

BCE, EURO, SCENARI: appunti di C. Marazzi

da www.uninomade.org

 

Il 2 agosto, la Banca Centrale Europea (BCE), malgrado le roboanti esternazioni
del suo presidente Mario Draghi sulla difesa ad oltranza dell’euro di pochi
giorni prima, ha in parte “deciso di non decidere”, almeno fino a metà
settembre, quando la Corte costituzionale di Karlsruhe emetterà la sentenza
sulla costituzione del Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS), che si sostituirà
all’attuale Fondo Salva-Stati, quest’ultimo dotato di 100 miliardi di euro, una
cifra irrisoria per poter intervenire efficacemente contro gli assalti ai
debiti sovrani dei paesi cosiddetti del Sud (ce ne vorrebbero 300 solo per
salvare la Spagna). Questo significa che nelle prossime settimane, in mancanza
di una autorità veramente in grado di “fare qualunque cosa per preservare
l’euro”, i mercati saranno probabilmente soggetti a forti oscillazioni
determinate dal “calcolo delle probabilità” sulla fuoriuscita o meno dall’euro
di Spagna e Italia. La questione di fondo è: quanta sovranità i paesi del Sud
sono di nuovo pronti a concedere per “tirare avanti” con i loro debiti
crescenti?

Prima
della riunione del board della BCE i paesi in sofferenza avevano chiesto che
l’istituto di Francoforte si mettesse ad acquistare direttamente e in modo
illimitato i titoli pubblici spagnoli e italiani in modo da favorire una
diminuzione dei tassi e evitare che il loro accesso al mercato fosse precluso.
Spagna e Italia non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di
solvibilità: l’intervento della BCE non dovrebbe essere solo quello di
calmierare i mercati  facendo scendere a
livelli sostenibili i tassi di interesse, ma anche quello di sostituirsi
eventualmente agli investitori che non vogliono più sottoscrivere questi stessi
titoli. Il che comporta un radicale cambiamento della natura della politica
monetaria della BCE. In sé, non si tratta di un fatto nuovo. Già nell’autunno
dell’anno scorso la BCE aveva acquistato direttamente sul mercato oltre 200
miliardi di euro di titoli dei paesi in difficoltà. All’inizio di quest’anno
aveva poi iniettato nel sistema bancario europeo oltre 1’000 miliardi di euro
che sono stati usati soprattutto nei paesi mediterranei per acquistare
obbligazioni dei loro Paesi. Pure, in seguito, seppure non sia stato ufficialmente
proclamato, gli interventi della BCE sono proseguiti soprattutto attraverso
cospicui finanziamenti delle banche spagnole e italiane. Col risultato di una
esplosione del bilancio della BCE, che sta diventando il principale detentore
di titoli statali dei Paesi in difficoltà o di obbligazioni in cui sono stati
cartolarizzati mutui ipotecari e altri crediti delle banche.

Ma l’appello al cambiamento della natura degli interventi della BCE – da
straordinari a ordinari – rappresenta una violazione dei suoi statuti, ciò che
provoca, come si è visto in questi giorni, l’opposizione della Bundesbank. Come
maggiore azionista della UE, per la Germania il salvataggio dell’Euro nella sua
forma attuale diventa sempre più proibitivo, al punto che l’agenzia di rating Moody’s
ha espresso un giudizio negativo sulle prospettive economiche della Germania.
Il salvataggio dell’euro a colpi di interventi disordinati e a costi crescenti
appare sempre più problematico. La prospettiva di una spaccatura dell’euro
comincia infatti ad essere esplicitamente evocata da molte personalità
tedesche. Essa appare come la soluzione più “ragionevole” ad una crisi che sta
distruggendo non solo l’economia della zona euro, ma soprattutto la credibilità
dell’ideale europeo. Come si dice in Germania, oggi è meglio un grande dolore
con una fine certa, che un dolore senza fine.

E’ alla luce di questo scenario (la spaccatura dell’euro) che va interpretato
quanto emerso il 2 agosto a Francoforte. E’ vero, come scrive il Financial
Times
(“Zen and the art of central banking”, 4 agosto), che sia Draghi che
Bernanke sono ormai entrambi impegnati nell’arte Zen della nientitudine:
“Strictly speaking, the Federal Reserve and the European Central Bank did
nothing. But their respective leaders, Ben Bernanke and Mario Draghi, showed how doing nothing is
far from being inactive”. Siamo, insomma, di fronte alle tipiche
virtù della performatività del linguaggio, il “fare cose con le parole”. Fare cosa? “The real message is that the peripheral
economies will not be given money for nothing. The pressure for meaningful
structural reform is to remain intense, and any short-term bailout will be
conditional and supervised by external agencies” (“Italy and Spain coy on
rescue fund move”, FT, 3 agosto). Ecco
la novità: la BCE è disposta ad agire solo se prima i paesi che chiedono un
intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni,
aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea. Le
parole della BCE, comunque, hanno disorientato i mercati, tanto che, dopo la
reazione catastrofista dei mercati del giorno seguente, c’è voluta una
spiegazione del Financial Times per ristabilire, in modo altrettanto
esagerato, la fiducia degli stessi mercati. Insomma, da un atto linguistico
all’altro. L’incertezza regna sovrana.

Ma procediamo con ordine: prima di tutto, con le “decisioni” della BCE di Draghi
siamo ancora lontani da quel cambiamento della politica monetaria auspicato da
molti prima del 2 agosto, ossia la trasformazione della BCE in una vera e
propria banca centrale che, intervenendo direttamente sui mercati con
l’acquisto di obbligazioni pubbliche (come fa la Fed o la banca centrale
giapponese, ecc.) si preoccupa non solo di combattere l’inflazione (ancora
l’unica vera priorità della BCE), ma anche di regolare in senso macro-economico
le variabili fondamentali della crescita economica (investimenti e occupazione,
in primo luogo). E’ vero che la BCE, oltre ad effettuare operazioni sul mercato
secondario di “importo adeguato”, potrebbe non sterilizzare gli acquisti di
titoli, lasciando in tal modo aperta la possibilità di un quantitative
easing
mirato, ossia la creazione di liquidità a mezzo di interventi sul
mercato dei titoli statali. Ma qui siamo ancora nell’ordine dei possibili. E’
stato invece deciso che la BCE interverrà solo dopo che sia stato concordato un
programma di assistenza tra il Paese che chiede aiuto e il
FondoSalva-Stati/Salva-Spread. E qui, apriti cielo! “Questa subordinazione ha
almeno due inconvenienti. Primo, la richiesta di aiuti all’Efsf è un’ammissione
di impotenza. Ciò ha ovvi costi politici, ma anche economici, perché rivela che
lo stesso Paese ritiene di non riuscire a farcela con le proprie forze.
L’esperienza (europea e internazionale) insegna che, quando un Paese chiede
prestiti a organismi sovranazionali, l’accesso ai mercati gli rimane poi
precluso a lungo. Secondo, la richiesta di aiuto è formulata prima di sapere
quali condizioni saranno imposte per ricevere assistenza. L’incertezza non è di
poco conto, perché l’intervento dei fondi europei deve essere approvato
dall’Eurogruppo. Le condizioni imposte sono quindi il frutto di un negoziato
politico e non solo tecnico. Un negoziato intergovernativo, condotto in
posizione di estrema debolezza contrattuale, potrebbe costringere il Paese a
subire condizioni fortemente pregiudizievoli dell’interesse generale dei propri
cittadini” (Guido Tabellini, “La BCE cerca scudi politici”, Il Sole 24 Ore,
4 agosto). Perché, allora, questa clausola della “sorveglianza speciale”, oltretutto
aggiuntiva a quelle già decise (e approvate dai Parlamenti)? Se lo
chiede addirittura Eugenio Scalfari: “Ho grandissima stima ed anche affettuosa
amicizia per Mario Draghi ma non mi impedisce di porgli la domanda: perché
l’acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev’essere autorizzato” (La
Repubblica, 5 agosto). Secondo Tabellini, “La vera ragione di questa pistola
puntata alla tempia è che la BCE ha bisogno di una copertura politica. Senza
l’accordo e la sorveglianza dei governi europei, non vi sarebbe una maggioranza
abbastanza ampia nel Consiglio della BCE per approvare gli acquisti di titoli
di Stato sul mercato secondario. Prendiamone atto, nella consapevolezza che i
governi delle banche centrali europee sono tutt’altro che indipendenti dal
potere politico”. E questa sarebbe la “vittoria” di Mario Draghi contro Jens
Weidmann, il presidente della Bundesbank “isolato” a causa della sua
testardaggine? Sembra di sognare! Di fatto, ha vinto l’ordoliberismo tedesco,
ha vinto cioè la politica del rigore e della disciplina politico-statale funzionale
al rafforzamento dell’economia di mercato. “Se, come probabile, saremo
costretti a chiedere lo scudo ‘anti-spread’, la campagna elettorale sarà un
inutile esercizio retorico: la politica economica italiana dei prossimi anni
verrà comunque decisa a Francoforte”. “Le varie road map elettorali dei partiti
rischiano di scomparire prima ancora di essere imboccate… Il ‘che fare’ sarà
l’agenda dell’Europa per salvare l’euro e l’Italia è il test più importante. Le
alleanze politiche dovrebbero seguire: pro o contro l’euro è la prima linea di
demarcazione. Una comoda terza via non esiste, fermo restando che si può essere
euro-ottimisti ma non euro-stupidi, ed euro-scettici ma non populisti
all’ultimo stadio” (Guido Gentili, “I compiti a casa, strada obbligata”, Il
Sole 24 Ore
, 4 agosto). Goodbye Mr. Socialism.

Siamo ormai in un “nuovo feudalesimo” basato sullo “Stato di eccezione” di Karl
Schmitt, come scrive Guido Rossi, “che comporta la rigida soggezione economica
della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o
burocrati, poco importa” (Il Sole 24 Ore, 5 agosto)? Sembrerebbe di sì,
con la (ovvia) differenza che nel feudalesimo criticato da Montesquieu il
comando gerarchico era basato sulla confusione tra ricchezza terriera e
autorità, mentre oggi la ricchezza finanziaria rimanda al comando sul comune,
al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine
attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso.
Privatizzazione dei beni comuni, smantellamento del Welfare State, dismissione
del patrimonio pubblico, costrizione al debito (in Italia, negli ultimi mesi,
il debito privato delle famiglie pare sia aumentato del 33%), sono le forme del
comando neo-feudale sulla moltitudine attiva, sul comune. Da soli, i mercati

finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di
feudalizzazione del comune. Per questo c’è bisogno delle istituzioni statali,
del sistema dei partiti, delle modifiche della costituzione (vedi, ad esempio,
il pareggio di bilancio o le varie spending reviews). La questione della
rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta
di classe “oltre la rappresentanza”.

Questo significa “lottare contro l’euro”, e a nulla serve l’illusione
(social-democratica) che, salvando l’euro, si salva la possibilità di aprire
spazi di resistenza sovra-nazionali. Questo euro sta di fatto de-europeizzando
l’Europa, la sta frammentando, balcanizzando, riproponendo concretamente un
sovranismo nazional-bancario destinato a restringere sempre di più gli spazi di
socializzazione-europeizzazione delle lotte sociali.

I dati sulla riduzione, a partire dal 2007, dei prestiti bancari cross-border di
Germania e Francia sono a questo proposito significatvi: una riduzione dei
prestiti alle banche dei paesi periferici e semi-periferici pari a oltre il
25%. Si tratta di una vera e propria “financial fragmentation and
nationalization”, conseguenza della paura che una spaccatura dell’Euro porti
all’introduzione dei controlli sui movimenti di capitale e all’aumento della
pressione per erogare crediti a partire dai depositi interni ai paesi deboli.
Ne consegue che al Nord le banche possono far crediti a costi ridotti, mentre
al Sud si assiste alla drastica riduzione della capacità creditizia (vedi
“German banks sound retreat. Net lending to
weaker eurozone nations falls. French groups also cut cross-border exposure”, FT,
30 luglio).

Non c’è quindi spazio per velleità sovraniste, di ritorno alla sovranità nazionale
per rompere la camicia di forza della moneta unica. Di fatto, il sovranismo
bancario è già in atto e non ci sembra che stia contribuendo a migliorare la
situazione. Una situazione, oltretutto, in cui la frammentazione è concretamente
all’opera all’interno degli stessi Stati nazionali, come sta accadendo in
Spagna, ma anche in Italia, con la crisi della Catalonia, di Valencia, ecc. (“Europe’s Brutual Game Of Dominos”, BloombergBusinessweek,
5 agosto). E, soprattutto, in una fase in cui “The stream of migrants is
the most eye-catching part of a larger trend – people from recession-hit
countries in the southern eurozone moving northwards to seek work”  (Gerrit Wiesmann, “Greek swap sun and
austerity for jobs in rainy Germany”, FT, 2 agosto). La
questione dei migranti torna ad essere fondamentale nella definizione degli
spazi di lotta.

C’è solo spazio per la costruzione di una moneta (del) comune che sappia dare
espressione materiale alla lotta di classe trans-nazionale. Una lotta che parta
da precise e concrete “soggettività migranti”, da forme di riappropriazione del
comune, del sapere (“Maybe it is easier to be European if you’re well
educated”, dice un emigrato greco), che su queste basi sappia ricomporre un
“sapere monetario condiviso”, in cui la moneta sia veicolo di ricomposizione di
senso, di autonomia sociale, non certo di esclusiva appropriazione di lavoro e
di vita altrui.

La tenuta sociale, interna ai vari paesi della zona euro, è il problema centrale
dei prossimi mesi. La moneta unica, con le riforme economiche che comporta, non
può reggere se cresce un movimento di rivolta contro il sistema dei partiti
chiamato ad implementare i Memorandum della troika. Di questo sono perfettamente consapevoli anche i
tedeschi. Hans-Werner Sinn e Friedrich Sell prongono sulle colonne del Financial
Times
la loro soluzione a questo problema politico-sociale: “The idea is to
allow countries leaving the euro to adopt their own currency temporarily with
an option to return later” (“Our opt-in opt-out solution to the eurozone
crisis”, FT, 1 agosto). Sinn è l’economista tedesco più
influente, colui che da tempo critica (ferocemente) i paesi periferici per il
loro lassismo, sostenendo l’insostenibilità economica per la Germania
dell’attuale sistema monetario europeo. L’idea di permettere ai paesi del Sud
di uscire “temporaneamente” dall’euro per riconquistare la loro competitività
(via svalutazione della loro moneta) e, soprattutto, il loro consenso
politico-sociale interno, la dice lunga su quel che i tedeschi hanno in mente,
e da tempo: la spaccatura dell’eurozona, né più né meno. Esiste già un accordo
(European Exchange Rate Mechanism) che permette ai paesi in attesa di entrare
nell’euro, come la Danimarca, la Lettonia e la Lituania, di “esercitarsi” per
un paio di anni (infatti, l’ERM II da loro proposto ai paesi deboli già
nell’euro dovrebbe essere una specie di “training space”) prima di entrare a
far parte dell’eurozona. Insomma, quel che Sinn e Sell propongono è una
spaccatura dell’euro in due aree monetarie (se poi la Grecia, la Spagna o
l’Italia ritorneranno nell’euro, dipenderà dalla loro capacità di sfruttare la
leva della svalutazione entro un margine di +/- 15%). Gli esempi storici di uno
scenario del genere non mancano: la separazione dal dollaro del D-Mark nel
1969, l’uscita della sterlina dallo SME all’inizio degli anni ’90, l’Argentina
e la rottura della parità col dollaro nel 2002.

E’, a suo modo, un’opzione sovranista (Jacques Sapir è ancora più radicale, ma la
direzione sembra la stessa) ma declinata su due aree monetarie. Si noti che
anche Michel Aglietta, che sostiene l’opzione federalista, non vede affatto
male l’uscita della Grecia dall’euro (Zone Euro. Eclatement ou fédération,
Michalon: Parigi, 2012). Chi, come noi, parte dalle lotte, dai movimenti, dalle
soggettività, non può sottrarsi dall’esprimersi politicamente su questi
scenari. Da una parte, è evidente che l’Eruopa monetaria sta sgretolandosi a
causa delle sue contraddizioni interne (monetarie e istituzionali). Personalmente
continuo a credere che la spaccatura dell’euro sia l’esito più probabile. Non
lo auspico, semplicemente mi sembra che sia “nelle cose”. Vedremo. Dall’altra,
il passaggio dalla moneta unica attuale alla moneta (del) comune è l’orizzonte
dei movimenti sociali, che sono apolidi (per definizione storica) e che quindi
devono sottrarsi a qualsiasi ripiegamento sovranista. La moneta (del) comune
sarà l’esito di questa tensione. E’ un processo materiale, costitutivo, aperto.