Alcune questioni sullo stato dei movimenti di Toni Negri

da www.uninomade.org

Alcuni compagni americani ed europei mi chiedono: ma perché in Italia non c’è stata Occupy? Perché l’unica espressione della moltitudine in lotta rimane attualmente il movimento della Val di Susa? Con un paradosso evidente: i no TAV, se hanno certamente radicamento forte, se esprimono una tonalità originale di lotta di classe nella post-modernità, non possiedono le caratteristiche dei movimenti Occupy – un’espansività generale della proposta sociale, una potenza destituente delle vecchie gerarchie  della rappresentanza – e soprattutto non possiedono ancora realmente una dinamica allargata di costituzione politica “comune” che apra a radicali rivolgimenti politici…

 

Ora il paradosso è anche un altro. Perché porsi questa domanda proprio quando  la dinamica di Occupy sembra già esaurita? Più generalmente: quando le primavere arabe sono in buona parte terminate sotto il tallone dei militari, nella tragedia della guerra civile o, dulcis in fundo, hanno prodotto regimi islamici che sembrano annunciare restringimenti di libertà e di pratiche politiche appena riscoperte, restaurazioni del vecchio sotto gli orpelli, semmai più tremendi di quelli delle vecchie dittature, del teologico-politico? Quando i movimenti europei sono stati soffocati dalla mefitica atmosfera della crisi economica, e quelli americani sono li lì dall’essere assorbiti dalle macchine politiche che dominano ormai interamente le scadenze elettorali?

 

Ma forse la realtà può essere letta altrimenti. Il movimento Occupy, laddove è insorto, quand’anche fosse stato sconfitto, ha rinnovato l’orizzonte dell’azione politica, sconvolgendo il fondamento dei programmi costituzionali e imponendo una nuova immagine della democrazia, affermando il “comune” al centro – nel cuore, e all’orizzonte – di ogni progetto sociale. Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi: ha segnato un passaggio senza reversibilità alcuna; ha, fin dentro la sua sconfitta, spalancato un insieme di possibili che ridefinisce d’ora in poi il mondo che verrà. In questo senso, ha vinto: ha costituito nuova grammatica politica del comune. Da Occupy non si torna in dietro.

 

Torniamo allora al punto. Perché dunque in Italia non c’è stata Occupy? La questione è irrilevante dal punto di vista della tendenza; è invece importante se vogliamo capire localmente l’agenda politica che avremo da gestire nei prossimi mesi – un’agenda i cui effetti immediati, concreti, biopolitici, riscontrabili nella materialità delle esistenze, dei modi di vita, dei sogni e delle disperazioni, non possono – non debbono – essere ignorati.

In Italia, probabilmente, non c’è stata Occupy perché, in buona parte, i movimenti italiani non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco: questa loro continuità, ed il peso della loro tradizione, soffoca il nuovo regime dei desideri, delle aspirazioni, delle sperimentazioni – insomma di quello che abbiamo chiamato le nuove potenze costituenti del comune – che pure le nuove generazioni portano con se quando si aprono al politico. Quella continuità ha fatto dell’Italia un paese in cui la politica dei movimenti, nonostante le repressioni feroci, è sopravvissuta a se stessa e ha permesso la trasmissione di esperienze e saperi delle lotte essenziali; ma allo stesso tempo, ha paradossalmente impedito che nuove sperimentazioni si facessero strada. Il patrimonio delle lotte, cosi prezioso, non può diventare patrimoniale: se cede alla tentazione, diventa a sua volta ciò di cui tanto aveva sofferto in altri tempi: istanza di occultamento, obbligo di silenzio, volontà di cecità.

 

Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali.

Ora, però, nelle fabbriche sono spesso schiacciati da una improvvida alleanza che essi stessi hanno tentato con l’organizzazione socialista del mondo del lavoro. Solo raramente l’ideologia della produttività è stata assunta nelle fabbriche come il nemico da combattere; quando lo è stata, ce ne siamo scordati. La trasformazione del lavoro a cavallo fra XX e XXI secolo non è stata riflettuta per quello che effettivamente è (e che i movimenti, precisamente, trent’anni fa, hanno contribuito a rendere evidente): una trasformazione radicale – dall’operaio massa all’operaio sociale; dal lavoro materiale al lavoro “immateriale”, linguistico, cooperativo, affettivo; fino all’egemonia del lavoratore cognitivo. Sindacati socialisti e sindacatini fabbrichisti hanno troppo spesso continuato a considerare il lavoro “bene comune”, cioè niente di più – e niente di meno – che la “giusta misura” dello sfruttamento capitalista.

 

Nelle scuole e nelle università, poi, l’autonomia dei movimenti, anche quando ha contestato il “merito” – e troppo poche volte lo ha fatto in maniera realmente efficace e schietta  –  non è quasi mai riuscita a incarnare, materializzare e organizzare una vera domanda di libertà dei saperi. Raramente ha provato a costruire lotte attorno allo studio, alla formazione, alla qualificazione in quanto programmi di costruzione politica del comune. E spesso si è arenata nella strenua difesa di un “pubblico” ormai incapace di proteggere le scuole e l’università contro il loro smantellamento, e diventato strumento principe della messa al lavoro della produzione sociale. Il riformismo non è mai cosa bella – in alcuni casi, facendosi coraggio, lo si capisce quando, disperatamente, cerca di salvare il salvabile; ma lo si odia quando si fa complice delle politiche del peggio: assoggettamento, declassamento, disciplinarizzazione, sfruttamento, disprezzo – il tutto per salvare uno Stato che sembra poco preoccupato di salvare i suoi “cittadini”.

 

Quanto al modello dei centri sociali, che è stato fondamentale – in particolare nella fase post-repressione che ha caratterizzato il difficile guado dala fine degli anni ’70 ai primi anni dei ’90, ha troppo spesso perso ogni prospettiva politica che non fosse subordinata all’interesse della propria riproduzione, della propria sopravvivenza. I centri sociali sono stati, per la maggiore, luoghi, strumenti, prodotti di una stagione di lotte continuata con altri mezzi nonostante la sconfitta degli anni ’70; ma sono diventati, in tanti casi, il fine di se stessi – l’unico orizzonte di una realtà ormai ridotta al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo. Molti si sono dunque piegati alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica. Hanno smarrito ogni capacità di azione e non a caso stanno spesso, negli ultimi anni, ripiegando su linee istituzionali a livello locale e/o nazionale. Certo, localmente, l’analisi può sembrare ingiusta. In molti casi, lo è. Ma la domanda va posta lo stesso: siamo sicuri che il modello “slow food” sia davvero adeguato alle scommesse e alle sfide davanti alle quali la crisi ci mette? O che l’imprenditorialità “buona” basti a dimenticare il gioco al massacro che si sta svolgendo subito fuori dalle mura, nelle nostre vite?

 

Insomma: tre luoghi “storici” dell’autonomia sociale, che hanno reso possibile la resistenza e l’organizzazione, la sperimentazione di pratiche, l’invenzione di altri modi d’azione; ma tre luoghi che, proprio perché “storici”, sembrano oggi sempre più inadeguati. Tre luoghi che troppo frequentemente sembrano pezzi di modernariato della nostra memoria, ricchezze patrimoniali un po’ imbalsamate: foglie di fico ben leggere davanti all’incedere della realtà. Tre luoghi che sono diventati tre “beni comuni” come sempre lo sono stati nelle parrocchie, il lavoro, lo studio e il patronato – laddove bene comune significa solo bene vicino, locale, bene di condivisione, bene da condividere in famiglia. Il comune, se non è il prodotto di una dinamica costituente, si riduce a ciò: una serie di commons sicuri di suscitare consenso popolare – come non essere d’accordo con la difesa della natura, il buon vivere, la genuinità, il buon gusto -, e spesso immediatamente travisati da discorsi di elogio dell’Ancien Régime: quanto si stava bene prima – prima dell’Europa, prima delle macchine, prima della tecnica, prima della modernità, prima della globalizzazione, prima dell’operaio sociale, prima del consumo di massa. Evviva: torniamo a Peppone e don Camillo, alla dignità del lavoro operaio, all’Italia che vive di poco e lavora tanto, alle balere. Per carità, lasciamo alla Chiesa e alla Lega, o a quel che rimane del vecchio PCI che non finisce di sopravvivere alla propria morte, quella assurda e mortifera nostalgia.

 

Non contenti di questo, molti movimenti sociali si sono infilati in una strada contorta e buia, accettando i ricatti loro posti sulla questione della “violenza”, sulla valutazione della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni, sono stati colpiti di accecamento davanti alla corruzione che le infestava. Che ci volesse l’ultima sentenza su Genova per capire da quale parte stava la violenza? E quale giochetto infame avevano fatto e continuavano a fare tutti coloro che, di fronte ad un movimento in crescita (che andava di pari passo con crescita del disagio, della disperazione e della rabbia di tutti quelli che oggi, letteralmente, non ce la fanno più) ricattavano ad ogni motto “riottoso” – “violenza si, violenza no”?

Molti, nei centri sociali, hanno cercato alleanze politiche dentro un quadro parlamentare che andava disfacendosi ed hanno stretto alleanze sindacali che hanno avuto l’effetto opposto a quello che era realmente desiderato: hanno spinto i sindacati ancor più verso posizioni corporative, negando ogni tematica di reddito sociale o di alleanza con altri strati precari. In certi casi, hanno perfino considerato le rivolte arabe, i riots inglesi, e alcune forme di auto-organizzazione come passaggi negativi, come regressioni politiche, come pure “spontaneità” infra- o impolitiche.  Siamo sicuri che provare a capire prima di giudicare non ne valeva la pena? O si era talmente ossessionati dalla propria sopravvivenza che tutto il resto diventava secondario?

Fino agli ultimi  capovolgimenti in data: sentiamo tanti, oggi, piagnucolare sul fatto di non aver ragionato abbastanza sul ricatto “a proposito di violenza” che hanno subito; si lamentano del fatto  che la loro presunta internità alle dinamiche sociali non è riuscita a trasformarsi in una estraneità attenta e critica agli sgambetti ed alle inerzie continuamente subite – sicché ora si chiedono se doversi richiamare niente di meno che all’“illegalità di massa”…. Ci sembra solo un lamento, come l’altro che abbiamo inteso in questi mesi, e che ci lascia – anche questo – a non dir poco esterrefatti: Dio è violent!

 

Per chi ha vissuto tutto questo dall’interno dei movimenti, questa fase assomiglia molto a quella che seguì il disfacimento dei gruppi sessantotteschi nei primi anni ’70. Come per i centri sociali provenienti dal movimento no global, anche allora, nel 1973-74, i partitini sopravvivevano a se stessi. Alcuni, presentatisi alle elezioni, erano stati spazzati via, altri si erano barricati attorno a giornali ed iniziative sparse. Il mondo, quello delle lotte operaie e delle lotte sociali, andava ormai avanti senza di loro. Fu così che, a partire dal ‘73-‘74 l’autonomia emerse e mostrò improvvisamente la sua enorme forza di resistenza e di proposta (di resistenza: vale a dire di proposta) – almeno fino al ’77. Poi, ancora, sopravvisse come etica e come modello organizzativo alla sconfitta dei movimenti, e torniamo all’inizio della nostra analisi.

 

Oggi si tratta di rinnovare quel modello. I suo limiti di allora – troppa spontaneità dei singoli, troppa violenza di massa – sembrano già superati dalle attuali caratteristiche della composizione dei nuovi movimenti – spazialmente diffusi, culturalmente convergenti (non a caso è sul terreno dei lavoratori della cultura che in Italia c’è stato, da ultimo, qualche positivo fracasso), politicamente rivolti alla costituzione del “comune”. Questo è quello che vogliamo chiamare Occupy.

 

C’è bisogno di un nuovo protagonismo. Proponendo l’autonomia diffusa dei movimenti, sappiamo che la ricerca di nuovi obiettivi e la sperimentazione unitaria di nuove lotte sono il primo passaggio da realizzare. Lo “sciopero dei precari”, il “reddito di cittadinanza”, la riapertura urgente di forti lotte operaie sul salario, la pratica di risposte efficaci all’offensiva del capitalismo finanziario sul debito, la difesa sociale del Welfare ecc.: questi i passaggi principali sui quali la conricerca e la proposta di lotte unitarie debbono provarsi. Organizzare i poveri e gli operai insieme, non semplicemente per il salario ma per il Welfare; organizzare gli studenti e gli indebitati di tutte le categorie, non semplicemente per misure di sostegno ma per il reddito universale di cittadinanza; organizzare i migranti insieme ai pensionati perché non è solo la cittadinanza che interessa i primi  e la garanzia di diritti ormai maturati i secondi, ma l’organizzazione biopolitica dell’esistenza tutt’intera.

 

L’autonomia dei movimenti deve riportare le sue lotte verso un obiettivo politico di composizione. Ed esso non può consistere se non nell’espressione di un potere costituente che rinnovi radicalmente l’organizzazione della vita nel lavoro e nella società.

 

Toni Negri

 

19 luglio 2012

 

 

Roma non si vende!

 

La sentenza del Consiglio di Stato che ha bloccato la discussione in aula sulla vendita di ACEA è un risultato che si inserisce in un percorso lungo tre mesi, in cui abbiamo aperto un percorso pubblico nella città e bloccato e rallentato la discussione, con molta determinazione, fatica ma anche allegria.

Per questo è una vittoria che consideriamo di tutti/e noi, e ci fa gioire, nonostante oggi ci sia stato un brutto episodio in cui l’occupazione simbolica, che abbiamo contribuito a costurire, sia stata sgomberata.
Va detto, per onor della cronaca, che era un’iniziativa pacifica a cui si è risposto con un’ottusa prova di forza, tanto più che avveniva mentre arrivava la notizia dal Consiglio di Stato.

E’ chiaro però che la battaglia è ancora lunga e difficile, soprattutto per ottenere finalmente la ripubblicizzazione del servizio idrico ed iniziare così ad invertire la rotta.

Questo il comunicato di “Roma non si vende:

Per questo è importante fare in modo che l’assemblea di Mercoledì prossimo (il 18 alle 18 al Rialto) sia partecipata, perchè c’è bisogno dell’intelligenza, della forza e dell’entusiasmo di tutti/e noi per disegnare le prossime traiettorie del movimento.

Una prima vittoria contro la vendita di ACEA
Oggi attiviste e attivisti, cittadini e cittadine della rete “Roma non si vende” sono tornati per l’ennesima volta sotto al Campidoglio per dimostrare la loro contarietà alla delibera 32 voluta dalla Giunta Alemanno che mette in vendita il 21% di ACEA.

Dopo giorni in cui la maggioroanza ha ripetutamento messo in pratica forzature in Consiglio comunale, dopo aver calpestato la volontà popolare espressa con il referendum dell’anno scorso e aver impedito ai cittadini di entrare a seguire la discussione pubblica, abbiamo deciso di occupare simbolicamente l’entrata del Campidoglio.

La reazione è stata assolutamente in linea con quella delle ultime settimane e, dopo averci ignorato per due ore, hanno deciso di sgomberare con la forza un presidio assolutamente pacifico.

Ma la lotta di questi mesi iniziata con la grande manifestazione del 5 maggio ha prodotto i suoi risultati. Infatti, la notizia di oggi è che il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso fatto su tutte le forzature fatte dalla Giunta Alemanno e sospende la discussione sulla delibera 32.
Questa di oggi rappresenta, in primis, una vittoria della mobilitazione messa in campo da “Roma non si vende” da tre mesi a questa parte e sicuramente un duro colpo per la maggioranza.

L’acqua non si vende, l’acqua di difende!
Roma non si vende

Intervista ad Hanno Balz, professore di Storia contemporanea presso la Leuphana Universität Lüneburg (Germania)

Nel tuo lavoro sui movimenti sociali e culturali negli anni 80 ti concentri sulla diffusione di prospettive individualiste. Come si concilia questa tendenza con il cambiamento dei modelli di produzione, la frammentazione della classe operaia e la progressiva soppressione dei sistemi di welfare?

Prima di tutto dobbiamo distinguere: il più grande arretramento del regime neoliberale ha avuto luogo nel Regno Unito della Tatcher e nell’america di Reagan. In Germania, per esempio, il sistema di sicurezza sociale è rimasto relativamente intatto durante gli anni ’80, – qui l’agenda neoliberale è riuscita ad imporsi negli anni ’90. La ragione per questo è che, ad un meta-livello, la competizione tra Germania Est e Ovest imponeva al governo di Kohl di difendere un certo standard di sistema di welfare sociale e una classe relativamente privilegiata di lavoratori qualificati con lavori sicuri.

La diffusione della nozione di un primato dell’individuo dai tardi anni ’70 in poi ha espresso una cultura del soggetto post-moderno e certamente è stato un prodotto dei cambiamenti della società durante la crisi degli anni ’70. Non solo la Sinistra si è concentrata sempre di più sul personale ma anche la reazione politica che avrebbe trionfato alla soglia degli anni ’80 ci si riferiva sempre di più.

Margaret Thatcher, per esempio, ha ripetutamente asserito il primato dell’individuo e nella sua campagna, come fece Reagan subito dopo, ha usato un vocabolario che deve essere suonato familiare ai membri delle sub-culture: ora, autorealizzazione, libertà, fantasia e soprattutto avventura e rischio erano i concetti chiave della loro versione di un capitalismo indomito che divenne noto come neoliberismo.

La Tatcher espresse il credo della sua politica nel 1987: “Penso che abbiamo attraversato un periodo in cui troppe persone hanno creduto che se loro hanno un problema, è compito del governo risolverlo. ‘Ho un problema, prenderò un sussidio’, ‘Sono senza casa, il governo me ne deve dare una’. Loro stanno spostando il loro problema sulla società. E la società non esiste. Ci sono uomini e donne individuali, e ci sono le famiglie. E nessun governo può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono prima guardare se stesse

La parola chiave qui è “auto-determinazione”. Come un’ideologia post-materialista è stata adottata per la flessibilizzazione dell’accumulazione capitalista è stato mostrato dai lavori di Boltanksi e Chiapello, soprattutto nel loro libro: “Il nuovo spirito del capitalismo”. Questa flessibilizzazione nel luogo di lavoro (gruppi, gerarchie livellate, outsourcing) consisteva in una maggiore insicurezza e, in ultimo, a un maggiore sfruttamento del lavoro umano, mentre prometteva maggiore autonomia e autodeterminazione. Questo è ciò che Michel Foucault esaminò nei suoi lavori sulla governamentalità e chiamò “Tecnologie del sé”. Alla fine ci si sente meglio ad essere responsabili per il proprio sfruttamento che sentire la frusta del padrone sulla schiena. Questo è il capitalismo 2.0.

Il fascino verso la responsabilità individuale da allora è accompagnato da politiche di crescente pressione sociale nella forma di un sistema di welfare mutilato, alti tassi di disoccupazione, maggiore carico di lavoro. Non sorprende che in questo periodo la discussione su una “società del rischio” (Ulrich Beck), rispetto ai rischi individuali (sociali) che dovevi accettare, ha guadagnato importanza.

Certamente il collasso del socialismo Est-europeo si è aggiunto al processo che è evoluto attraverso gli anni ’80 ma è giunto a pieno compimento solo quando un tipo differente di società è scomparso dalle cartine geografiche.

Guardando al 2001 (G8 di Genova, la repressione brutale e l’inizio della politica della guerra al terrore), è possibile considerare questo evento come una sorta di pietra miliare per i movimenti sociali? In che maniera ha determinato una qualche sorta di discontinuità per la cultura politica autonoma dei due decenni precedenti?

Tra la “Battaglia di Seattle” 1999 e le dimostrazioni anti-G8 a Genova la sinistra transnazionale sembrava essere forte e crescente. Ma è ovvio che dopo il 2001 c’è stato un certo declino nelle capacità di mobilitazione di una sinistra radicale. Penso, che questo non ha necessariamente a che fare con la repressione, ma con il fatto che con la guerra in Iraq è sorto un grande movimento per la pace di carattere liberale. Come si può osservare in altri tempi, un movimento così vasto ha spesso l’effetto di emarginare le voci e i movimenti più radicali. Questo, ad esempio, è stato il caso durante il grande movimento per la pace nei primi anni ’80 in cui il movimento autonomo inizialmente è stato una parte importante ma poi è stato messo da parte dal movimento tradizionale tramite la negazione di solidarietà.

Inoltre ci sono stati cambiamenti interni nei movimenti, essendo spesso autocritici verso la scena e la sua storia, per esempio quando si tratta di relazioni di genere e di attitudini chauviniste. Forse in questo troviamo anche un cambio generazionale nei movimenti, con il vecchio attivista che lascia le nuove modalità della politica alle spalle.

La recente crisi economica è stata accompagnata da un’esplosione di dissenso in tutto il mondo: sembra che la scelta della “sottrazione” (“drop out”) stia venendo sostituita da rivendicazioni collettive di carattere sociale e politico. Che opinione ti sei fatto?

Tutto sommato, oggi sembra essere più duro “sottrarsi”, perchè il sistema di welfare, come “rete di salvataggio”, non è lo stesso degli anni ’80 e’ 70 per molte parti d’Europa. D’altra parte, il concetto di sottrazione si è trasformato se guardiamo alla scena techno (specialmente a Berlino).

Le droghe sono cambiate, ma c’è sempre una tendenza alla rinuncia in questa scena. Se parli con gli attivisti più anziani, spesso esprimono l’incapacità di comprendere la voglia che hanno le giovani generazioni di studiare, tendere ad una carriera accademica o cose simili.

In generale, una attitudine anti-sistemica degli attivisti è più difficile da trovare rispetto a 20 o 30 anni fa. Ciò è evidente se guardi alla generale ricerca di consenso del movimento “blockupy”, ad esempio, che potrebbe essere all’origine di una mancanza di analisi radicale in questo movimento. La storia mostra che i tempi di crisi di solito non conducono ad una crescente radicalizzazione piuttosto ad una svolta conservatrice nella società, espressione di incertezza o anche di paura. E’ ancora più chiaro se guardiamo alla Germania o alla Grecia.

I movimenti sociali devono confrontarsi con nuovi modelli politici e sociali. Nell’agenda politica dei movimenti è tornata centrale la prospettiva del futuro: non è riduttivo guardarla solo dal punto di vista della delega?

Al momento vedo una scarsità di ragionamenti utopici. Se si chiedesse agli attivisti, che parlano di rivoluzione, cosa succederà il primo giorno dopo questa rivoluzione, non si avrebbero molte risposte. D’altro lato ci sono stati modelli elaborati di politiche riformiste, come per la Tobin-tax e iniziative sulle politiche globali. Qui ci troviamo davanti ad una tendenza realista/riformista che rispecchia una cultura politica degli “esperti”. Abbiamo idea della società nella quale vogliamo vivere e come raggiungere questo obiettivo in un mondo globalizzato, complesso e altamente industrializzato?

I movimenti si sono sempre confrontati con un approccio duplice alla sua storia: prima cosa, nella dinamica a cambiare il movimento ed emanciparlo dal proprio passato, c’è una tendenza al “disapprendimento”, come possiamo vedere nella scena punk degli anni 70 e più tardi in quella “autonoma” (in senso tedesco, ndt). Dall’altra un movimento deve studiare le proprie origini e vecchie analisi per non fare gli stessi errori di 20 anni prima. Tra questi due aspetti dovrebbe manifestarsi un nuovo movimento.

In linea generale i movimento dovrebbero chiedersi: che impatto hanno le azioni, siamo in grado di disturbare l’ordine egemonico prevalente? Siamo in grado di persuadere porzioni sempre più ampie di popolazione o desideriamo essere un blocco nell’ingranaggio? Come possiamo evitare di essere sussunti?

Una lezione che è stata appresa negli ultimi 40 anni di movimento è che il capitalismo non è come immaginato dalla vecchia sinistra ortodossa, un colosso dai piedi d’argilla che basta spingere per farlo collassare in 100 pezzi. Per la capacità del capitalismo di assorbire o modificare una certa ampiezza della critica (come dopo il “1968”) dovremmo piuttosto parlare di colosso dai piedi di gomma (o anche di schiuma)-puoi spingerlo, ma assorbe la pressione…

Tenendo questo in conto, i movimenti odierni possono imparare (o disimparare) molto.

Cronaca in diretta dai boschi di Chiomonte (VIDEO+FOTO)

Circa cinquencento no tav questa sera hanno raggiunto in due momenti la val Clarea radunandosi attorno alla baita ora recintata. Da lì si sono poi mossi in vari gruppi percorrendo i sentieri che costeggiano le recinzioni del cantiere. Cantiere oramai enorme che già da subito ha dimostrato le sue debolezze, difficoltoso da difendere per chi oggi vuole iniziare i lavori del tunnel geognostico. In almeno tre punti sono state tagliate in modo considerevole le recinzioni. Immediata la risposta con idranti e gas lacrimegeni che non hanno però interrotto la pressione. Danneggiate anche due torri faro e numerose protezioni di cantiere.  Dopo due ore di tagli e resistenza il movimento ha poi ripreso la via di Chiomonte e Giaglione.

L’iniziativa, senza euforia fuoriluogo,  è da considerarsi riuscita, nata domenica sera in una assemblea popolare nell’ottica di continuare il boicottaggio attivo del cantiere, continuando il programma di iniziative apertosi con gli studenti no tav e che proseguirà tutta l’estate, luglio, agosto e settembre.  Sbraiteranno di nuovo i soliti sindacati di polizia, il noioso Esposito e il solito codazzo di giornalisti ruffiani, a loro diciamo di rassegnarsi, la lotta ha i suoi tempi e a rotazione la valle e i suoi comitati segneranno la loro presenza a Chiomonte, a Giaglione, a Venaus  e ovunque sarà necessario. Allo stesso modo si continuerà nella pressione alle ditte con le campagne aperte nei mesi passati. Nonostante i compagni in carcere, gli arresti domiciliari e le inchieste il movimento non ha paura, anzi, rilancia l’iniziativa e si rafforza.

Da notav.info

 

Cronaca della serata

 

Il movimento Notav si è trovato questa sera, ad un anno dallo sgombero della Libera repubblica della Maddalena, a Chiomonte nell’area archeologica distrutta dalle truppe di occupazione durante gli scontri del 27 giugno, giorno in cui il Movimento Notav si oppose con grande resistenza all’occupazione militare di cui oggi cade la ricorrenza.

Cena al sacco nell’ area archeologica, mentre altri Notav continuano ad arrivare.

Dallo stesso luogo di un anno fa, il Movimento Notav continua ad essere presente, nella lotta, attivi come sempre.

Aggiornamento ore 22

Centinaia di notav si sono ritrovati davanti alle reti del cantiere per dare inizio a delle azioni di disturbo. Inizia la battitura, alcuni cominciono a tagliare le reti, dopo aver messo fuori uso le torrete di illuminazione. Partono lanci di lacrimogeni sparati dalle truppe occupanti, uso di idranti, verso i notav che rispondono all’attacco delle forze dell’ordine.

In diretta dalla Maddalena, ascolta Gianluca Notav

 

Aggiornamento ore 23

Dopo aver resistito per due ore ai lanci di lacrimogeni e uso di idranti, con lanci di pietre, da parte delle truppe occupanti, i Notav, a poco a poco ritornano verso il campeggio.

Il Movimento Notav oggi celebra la lotta, la resistenza.

 

Da radioblackout, ascolta la diretta dalla Maddalena con Gianluca Notav

Perchè l’acqua continua ad essere un paradigma. La battaglia di Roma.


Da quasi 2 mesi a Roma si sta giocando un’importante partita sulla questione dell’acqua e dei beni comuni.
La cronaca è piuttosto semplice: Alemanno, decidendo di giocare una partita tutta elettorale e cercando di ingraziarsi uno dei poteri forti di Roma (vedi Caltagirone), ha presentato un bilancio in cui il punto forte è la vendita del 21% di ACEA, cedendo così la maggioranza in mano al Comune.
Facendo questo il Sindaco di Roma, e la sua maggioranza, aprono un cammino (che molte amministrazioni, in modo bipartisan, stanno guardando con attenzione) che ignora compleatmente il voto referendario di un anno fa e, anzi, va in senso diametralmente opposto.

Che questo avvenga a Roma non è casuale per una seri di motivi, tra questi: ACEA è una Società Per azione (già privatizzata dall’allora centrosinistra) che ha quasi 8 milioni di utenti e controlla in buona parte il servizio idrico del centro Italia. Oltre a questo i vertici di ACEA si sono spese ampiamente per combattere il fronte referendario contro la privatizzazione e ha speso, illecitamente, 250.000 euro dei soldi della società per farlo.
L’azienda è stata la prima a richiedere, subito dopo il voto, un parere all’avvocato Napolitano (figlio del Presidente della Repubblica) che, sostanzialmente, affermava con estrema tranquillità, e contraddicendo la corte costituzionale, che l’esito referendario non aveva nessun influenza sullo stato dell’arte.
Inoltre all’inizio di questa vicenda, i due maggiori azionisti, Caltagirone e GDF-Suez, cosa decisamente inusuale, prendevano una posizione pubblica per l’ulteriore privatizzazione.

Da 2 mesi gli/e attivisit* del movimento dell’acqua insieme ad una larga alleanza sociale, e coinvolgendo cittadini e cittadine, hanno dato vita ad una mobilitazione costante e capillare. A partire dai territori, dalle strade dei muinicipi romani fino ad arrivare in piazza del campidoglio, perennemente negata, e dentro le aule consigliari.
Hanno scelto di parlare, volantinare, organizzare manifestazioni e occupazioni. In una dinamica di crescita della battaglia di opposizione alla giunta capitolina.
Domani, 21 giugno, ci sarà l’ennesima tappa di un lungo percorso che non si chiuderà neanche con il voto in aula o con i termini obbligatori delle istituzioni.
Il cosiddetto popolo dell’acqua, non ha in mente solo la resistenza a questo progetto ma ha in testa la ripubblicizzazione dell’ACEA e del servizio idrico.
Così come ha ben chiaro quale strada si apra verso la privatizzazione di tutti i servizzi pubblici locali a partire dai trasporti e dalla gestione dei rifiuti e di come possa spaventare che un’idea alternativa di gestione del comune, di ciò che è di tutti, possa farsi largo; proprio per questo sta chiamando a raccolta tutti/e domani ma con la consapevolezza che sia un passaggio per una battaglia ancora lunga e di cui la fine ancora non si vede.

Ma questo contesto e questa breve ricostruzione evidenziano quella palese alleanza che unisce la vorace volontà dei poteri finanziari e quelli politici che, in un gioco sempre meno sotterraneo, palesano quella volontà per cui la privatizzazione e l’applicazione della ricetta del capitale neoliberista non è più la scelta migliore ma è l’unica possibile.
Si palesa, dunque, la necessità di dover approfondire quelle scelte che sono alla base della crisi economica che, ormai da 4 anni, si sta abbattendo su Europa e Stati Uniti.
E non crediamo che questa relazione sia eccessiva: effettivamente, come in altre parti di Italia e di Europa, si palesa un conflitto in merito alla messa a valore dei territori e dei beni ad essi legati.
Da qui nasce quel processo di difesa dei cosidetti “beni comuni”, ovvero di quegli elementi che sono patrimonio collettivo ed inalienabile che invece divongo terreno di conquista e quindi di scontro.

In quel conflitto che vedeva centrale la dicotomia capitale/lavoro si è innescato un nuovo elemento che, anni fa, ha iniziato ad erodere i diritti e le conquiste (si sarebbero dette di classe) ottenute in quel duro scontro. Quel processo, che per noi va sotto il nome di precarizzazione, ha innescato un’esondazione della precarietà dalle sole mura del posto di lavoro perchè ha esteso la produzione a tutta la nostra vita, compreso lo stesso ambiente in cui viviamo.
Si è messa in produzione la complessità della nostra quotidianità, delle nostre relazioni, delle nostre intelligenze e degli stessi elementi necessari alla sopravvivenza.

Nella battaglia di Roma è evidente di come la contesa sia tutta politica, senza nessun appiglio di concretezza logica. Ed è proprio qui che si apre l’altra centrale questione, anche questa già vista altrove: “chi decide su cosa?”
Perchè in queste settimane si è rotto chiaramente ed irremediabilmente quel meccanismo di democrazia rappresentativa in quanto, i rappresentanti stessi, ignorando la volontà espressa con i sempri più ridotti strumenti previsti come il referendum, scelgono le regole del mercato e di quelle si fanno garanti.
In aggiunta si forzano i regolamenti stessi delle istituzioni per poter portare avanti quelle decisioni; a questo punto i cittadini restano completamente sganciati, e la loro volontà ancor di più, dal contesto decisionale.
Rimangono soli ed esclusi dai luoghi della discussione potendo parlare solo con le forze dell’ordine perchè sono divenuti solo questo, un “problema di ordine pubblico”.

In questi giorni a Roma, in questi anni in Italia e in molte altre parti del globo, si è resa palese la rottura di un patto sociale; per questo riteniamo una volta di più paradignamtica questa battaglia, perchè offre una lente forgiata nella partecipazione e nella determinazione, nella relazione e nella contaminazione di diverse storie, nella radicalità dei contenuti e nella coerenza nel portarli avanti.
Una capacità conflittuale e costituente con cui leggere la nostra quotidianità che, per noi, vuol dire riuscire a vedere all’orizzonte anche una possibile alternativa di futuro.

Nodo redazionale indipendente

NO IMU – NO BANCHE

Oggi sono scesi in piazza i movimenti di lotta x la casa di Roma, bloccando ripetutamente la strada, in prima fila il Coordinamento cittadino di lotta x la casa e la cooperativa inventare l’abitare, prima soluzione nella città di Roma per l’innovativo progetto di autorecupero, i cui cantieri sono fermi tra rimpalli continui tra l’amministrazione comunale e la Bcc, banca coinvolta dai mutui concordati nel progetto di autorecupero strappato con anni di lotte. E’ stato ottenuto un primo incontro nel quale i movimenti hanno esposto le loro ragioni, per lo sblocco immediato dei progetti di autorecupero, contro l’emergenza abitativa ma anche contro l’IMU per il blocco degli sfratti e per un piano nazionale di edilizia residenziale pubblica. In corteo poi i movimenti si uniti al presidio dell’inquilinato e ad altri movimenti per l’abitare.

Questo il volantino distribuito oggi:

Lunedì 18 Giugno dalle ore 12
Protestiamo davanti alla sede dell’ABI in piazza del Gesù 49

Ancora una volta, come movimenti per il diritto all’abitare e realtà autorganizzate della città, abbiamo deciso di scendere in piazza e di dare vita ad una nuova giornata di mobilitazione. Abbiamo scelto il giorno 18 giugno non a caso: dopo le già innumerevoli stangate fino al’aumento del biglietto ATAC ad 1 euro e 50, in questa giornata milioni di persone che hanno acquistato una casa in assenza di qualsiasi alternativa, saranno costretti a pagare con l’IMU, l’ennesimo balzello imposto da una crisi dei mercati finanziari che si sta scaricando interamente sulle spalle di lavoratori e pensionati, producendo una valanga di precarietà e disoccupazione. 
Dal pagamento dell’IMU saranno esentati ancora una volta i poteri forti, le Fondazioni (in testa quelle bancarie), il patrimonio invenduto dei palazzinari (per tre anni) che continuano a speculare su un bisogno primario come quello della casa e a devastare il territorio, il Vaticano (proprietario del 30 per cento del patrimonio immobiliare in Italia) che nonostante i “solenni” impegni pubblici continua a non pagare un Euro.
Il governo Monti che ha sostituito il cialtronesco governo Berlusconi, ha tentato di illudere, dietro una facciata di efficientismo, gli italiani. Il risultato è la totale svendita del patrimonio pubblico, l’aumento delle tasse e delle tariffe, della disoccupazione soprattutto giovanile, del ricorso agli ammortizzatori sociali (finchè verranno contemplati e comunque insufficienti), la caduta della produzione, la creazione di un nuovo soggetto emarginato (gli oltre 300 mila esodati)… e già stanno preparando nuovi provvedimenti che colpiranno una realtà sociale ormai stremata da anni di sacrifici che presto si troverà, probabilmente, di nuovo a pagare per “salvare” le banche.
In questa giornata vogliamo ribadire la necessità di costruire un fronte comune che si opponga allo stato di cose presenti, affinchè il nostro grido di protesta sommerga chi ci vorrebbe schiavi obbedienti agli ordini dei poteri forti e della grande finanza. Vogliamo farlo a partire dalla nostra città, da una Roma già messa in ginocchio dai privilegi e dall’incompetenza, dai tagli e dalle privatizzazioni, dagli aumenti delle tariffe e dalle cementificazioni di Alemanno e della sua banda. 
 
NOI NON CI STIAMO
 
Lunedì 18 Giugno torniamo, quindi a prendere parola nella città contro l’aumento del biglietto del Trasporto Pubblico Locale e le logiche privatistiche e di privatizzazione che stanno mettendo in ginocchio questo servizio pubblico essenziale. Produrremo iniziative diffuse nei nostri quartieri. Metteremo in campo di fronte alla sede dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), una iniziativa di protesta contro lo strapotere delle banche e della finanza sulle nostre vite. All’ABI siamo stati circa due mesi fa per rivendicare che venissero sbloccati i progetti di autorecupero abitativo fermi oramai da troppo tempo.  Nonostante le tante promesse sia dei funzionari dell’ABI che del gabinetto del sindaco di Roma nulla è accaduto. Evidentemente si vuole fermare perché fa paura, un percorso che porta che porta centinaia di persone e nuclei familiari a presidiare stabili abbandonati, a sottrarli alla vendita e a recuperarli producendo alloggi sociali a 200 o 300 euro al mese e spazi pubblici a disposizione dei nostri quartieri. Ma noi non molliamo..stiamo per tornare!
 
Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa
Cooperativa “Inventare l’Abitare”
Comitato Romano per le Autoriduzioni

FIRMA LA PETIZIONE PER LA LIBERAZIONE DI LANDER!

APPELLO PER LA LIBERAZIONE DI LANDER FERNANDEZ

 Ci appelliamo alle forze politiche e sociali democratiche italiane per richiedere l’immediata scarcerazione di Lander Fernandez, attivista basco arrestato questa mattina a Roma, dopo un anno di domicilio pubblico continuato nella Capitale.

Segue descrizione dell’accaduto e il riferimento al blog in costante aggiornamento.

Mercoledì 13 giugno, verso le 8:30 di mattina, Lander Fernandez è stato arrestato con una spropositata operazione di polizia: circa 20 agenti della digos romana, coperti da passamontagna e armati di pistola, lo hanno prelevato dalla sua abitazione, portato in Questura e in seguito tradotto nel carcere di Regina Coeli. Su di lui pesa un mandato di cattura internazionale spiccato dal governo spagnolo.

E’ evidente che si tratta dell’ennesima operazione politica, volta a colpire coloro che si battono per i diritti sociali e politici del popolo basco; l’arresto di Lander si verifica in una fase di grande avanzamento del processo di pace sostenuto da personalità e organizzazioni internazionali. Rigettiamo con forza tutte le accuse mosse nei confronti di Lander, poichè viveva a Roma da circa un anno alla luce del sole e senza nascondersi.

Denunciamo inoltre la persecuzione a cui è sottoposto già da qualche anno, da parte delle forze di polizia basche e spagnole. Lander infatti è stato oggetto di un sequestro nella sua città natale e di pedinamenti sia in Italia che nello stato spagnolo.

Chiediamo che:
– sia immediatamente scarcerato e che cada la folle accusa di appartenenza a ETA;
– che i media italiani non si appiattiscano sul processo mediatico che è già iniziato in Spagna, e che informino in modo serio e corretto;
– che lo Stato italiano non sia subalterno alla legislazione speciale spagnola, che è in contrapposizione con le nostre norme costituzionali;
– che le forze che nel nostro Paese si battono per il rispetto dei diritti umani promuovano e si facciano carico del processo di pace nei Paesi Baschi come richiesto, tra l’altro, da Kofi Annan, Gerry Adams e altri mediatori internazionali con la Dichiarazione di Aiete.

LINK ALLA PETIZIONE

 

http://uncasobascoaroma.noblogs.org/

 

 

 

 

 

il video della conferenza stampa con il racconto dell’accaduto:

http://www.youtube.com/watch?v=HGAdyZGQeUQ&feature=player_embedded

La valle e il nostro tempo. Autonomi in Val Susa

Il 27 giugno, quando la polizia ha attaccato la Libera Repubblica della Maddalena, ero a Manhattan, dove abitavo da qualche tempo. Ho ascoltato la diretta dello sgombero in streaming, in una casa di Chinatown. Pochi giorni dopo ho preso un aereo e sono tornato in Italia, in quello che oggi è il Kiomontistan, territorio impervio per i difensori del neoliberismo in crisi, gli stessi che fanno i conti con Occupy Wall Street. Passare dai grattacieli al fogliame e alle fronde mi ha fatto davvero l’effetto di essere un soldato partito per il Vietnam, anche perché ho condiviso con i miei compagni ogni minuto della lotta nel nuovo scenario dell’occupazione militare: dalle ferite riportate sul campo agli arresti, dagli assedi al non-cantiere alla caduta di Luca, fino alla rabbia che ne è seguita. Essere No Tav è, per me, uno dei mille modi di essere ciò che sono: ho sempre vissuto tra le persone, nei luoghi più diversi, con il sogno di distruggere il mondo che ho ricevuto in eredità; ed è da loro, dai miei compagni, che ho imparato che un sogno simile, per divenire realtà, deve sapersi calare in ogni situazione e in ogni luogo in modo nuovo, misurando il peso delle scelte sulla bilancia dell’efficacia.

La polizia, i giornalisti, i leader di partito si interrogano su chi siamo noi, gli autonomi della Val di Susa, con differenti livelli di stupidità. Il nostro identikit sociale è semplice: precari, studenti-lavoratori, disoccupati ad intermittenza. Non versiamo contributi, non abbiamo né avremo tutele. Salariati in nero o in forma atipica nella ristorazione, nell’informatica, nella comunicazione, nell’industria della conoscenza, ci consideriamo i prototipi più azzeccati della nostra generazione e, al tempo stesso, i suoi nemici mortali; non per la presunzione di voler essere meglio del nostro tempo, ma per essere il nostro tempo al meglio: combattiamo, a nostro modo, la passività congenita a ogni classe oppressa. Siamo tanti, organizzati. Tra la nebbia dei lacrimogeni sappiamo orientarci giorno e notte, nei boschi o sulle autostrade, in inverno o in estate, con il sole o con la pioggia. Quando l’assemblea decide il grande corteo popolare, contribuiamo alla sua riuscita; quando decide di arrivare alle reti, non ci spendiamo con minor sacrificio. Imprevedibilità e flessibilità ci caratterizzano, nel tentativo di conciliare la morale irreprensibile del rifiuto con il pragmatismo della sua declinazione diretta. Allergici alla retorica e ad ogni fanatismo, siamo lontani dall’individualismo ipocrita del liberalismo quanto da quello scolastico dell’anarchismo. È l’interesse comune, quello che si definisce in autonomia dalle istituzioni e dalle dinamiche di sfruttamento, il cavallo di Troia che abbiamo nascosto nel futuro.

Partito di massa e di opinione convivono, in essenza, nella nostra forma di organizzazione agile, figlia della critica della forma-partito come tale. Radicamento sociale e strategia mediatica si uniscono in un abbraccio scandaloso, nell’equilibrio millimetrico che sappiamo di dover trovare per non cedere spazi di linguaggio e di immaginario al nostro nemico. Il tutto con un unico, ossessivo obiettivo: valorizzare e organizzare il conflitto sociale, aggregare nuove ragazze e nuovi ragazzi, riprodurre ed estendere l’insubordinazione, allargare la critica. Perché? Perché il futuro, se vuole essere diverso dal presente, deve costituirsi sul nuovo. Senza l’autonomia sociale, politica e culturale dal potere non si vince, dura legge della storia, spietata con chi non la impara. Siamo militanti politici, una forma di essere umano sempre e necessariamente in guerra, anzitutto in tempo di pace, ma non abbiamo forze armate né piani militari; semmai, attraversiamo in modo conflittuale una miriade di piani sociali, tra metropoli e montagna. Incarcerati, ci mettono in isolamento; seguiti e pedinati, ci danno il foglio di via; allergici alle carriere e alle divise, ci muoviamo come volontari agli antipodi del volontariato.

Abbiamo fondato il primo comitato popolare contro l’Alta Velocità dodici anni fa e, da allora, nella corsa del movimento a diventare sempre più grande, non ci siamo mai fermati. I governi vanno e vengono, noi siamo sempre qui, per vincere. Qualcuno si meraviglia di come siamo visibili e irriconoscibili a un tempo; ma è normale per chi, come noi, si compiace di tentare la declinazione post-postmoderna del bolscevismo più originario. Allora dicono che siamo “nascosti” dentro il movimento, ma è l’esatto opposto: scriviamo sui siti e compariamo in televisione; venite a trovarci nelle assemblee, nelle feste popolari, nelle conferenze stampa. Non siamo una corrente interna, ma soggetti votati al potenziamento dell’insieme, del tutto; l’autonomia non è una fazione, è una necessità. Tra i fuochi delle barricate ci muoviamo senza ideologia. Quando i Cattolici per la Valle hanno voluto costruire una statua di Padre Pio accanto al nuovo presidio, dopo che la polizia ha loro sottratto il pilone votivo alla Madonna, non abbiamo obiettato: sappiamo quanto la fede può essere importante per una resistenza. Persino quando i leghisti venivano alle assemblee, anni fa, non li abbiamo cacciati; era chiaro fin da allora che avrebbero abbandonato in massa il loro partito.

E se una valligiana mi parla di energia della terra, di magia dei luoghi e dello spirito che abita le montagne, io – scettico per indole, materialista per vocazione – la ascolto pieno di fascino. Imparo da tutto e da tutti, in questo scenario folle e bellissimo, dove paganesimo e cristianesimo si incrociano con l’identità occitana e montana, mentre ragazzi di stadio della cintura torinese incrociano i destini dei pensionati di montagna e dei reduci della guerra, che a loro volta ascoltano rapiti le storie delle studentesse emigrate a Torino dalla Sicilia e dal Salento. Il potere organizza la tutela disciplinata e astratta delle differenze, noi ne coltiviamo il potenziale reale. Le vediamo crescere e rafforzarsi contro l’uniformazione coatta prodotta da un potere decrepito, lo stesso che ho visto all’opera nei quartieri di New York. Mi è costato abbandonare l’America, ma la valle è legata alla mia vita non meno della Grande Mela, e allora soffoco la nostalgia della giungla d’asfalto ammirando i colori della foresta reale, la poesia dei ciglioni dopo la nevicata, o respirando l’aria inconfondibile di cui vivono – e dovranno continuare a vivere – i nostri castagneti.

Pubblicato su “Alphabeta2”, 6 giugno 2012

da quieteotempesta.blogspot.it

Trast Invaders* l’invasione della metropoli è appena cominciata

CONTRO LA CRISI INVADIAMO TRASTEVERE

La notte del 2 Giugno più di 1000 trast invaders hanno invaso il quartiere di trastevere. Partiti da piazza san calisto ci siamo diretti verso piazza santa maria in trastevere, dove degli artisti di strada si sono esibiti in una performance artistica per protestare contro l’ordinanza di alemanno che limita e reprime la possibilità di espressione e produzione culturale. Abbiamo continuato il percorso per il quartiere oscurando le telecamere per liberare il rione dalle asfissianti dinamiche di controllo. Continuando ad invadere trastevere siamo arrivati a piazza trilussa, simbolo del tentativo di militarizzazione del territorio. Continuando a girare per le vie del quartiere abbiamo sanzionato della banche chiudendo simbolicamente le loro porte con del silicone e riaperto simbolicamente il CINEMA AMERICA, uno spazio abbandonato da oltre dieci anni. Questo luogo è stato sottratto al quartiere, un’importante occasione di produzione e diffusione culturale è in totale stato d’abbandono e forse verrà completamente distrutto per far spazio ad appartamenti o ad un centro commerciale. Oggi l’invasione è appena cominciata, nei prossimi mesi invaderemo tutta la città, occuperemo case, studentati, spazi di aggregazione e produzione culturale, ci rivedremo nelle piazze e nelle strade, nelle scuole e facoltà. Dobbiamo riappropriarci di pezzi di libertà, per inceppare il meccanismo di sfruttamento sulle nostre vite. Non vogliamo più essere soggetti al ricatto di un lavoro da sfruttato a vita e per la vita. Vogliamo strappare spazi per costruire nuove esperienze comunitarie. Riprenderci il tempo che ci stanno rubando, per non regalare il nostro valore alla loro sete di profitto.

Dobbiamo prenderci tutto:

il loro predicare austerità è la nostra dichiarazione d’indipendenza.

L’invasione della metropoli è appena cominciata.

25/26/27 Maggio | I. MUSIC FESTIVAL

i.music
indipendent festival
#reclaim the groove

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Il 25/26/27 Maggio si svolgerà a Roma, all’interno dell’ex-cinodromo occupato, i.music festival.
Un festival di musica dal vivo, con performance suonate, immaginato come strumento e veicolo di cultura indipendente.

Saranno tre giornate ognuna con un suo colore musicale ma che sono intrinsecamente legate dalla ricerca del suono, dall’indipendenza di artisti, musica e contenuti.
Un’unico discorso che si svilupperà lungo tutto il fine settimana e che proporremo a tutta la metropoli romana e non solo.

Perchè la musica è per molti di noi una passione, per tutti/e un linguaggio e uno strumento politico.
Perchè vogliamo una presa di parola per affermare la nostra proposta politica nell’organizzazione dal basso.
Per dimostrare quale capicità ci sia nella nostra ricchezza sociale.
Perchè, fondamentalmente, non è l’unione di capitali e di star system per costurire una offerta commerciale ma la riappriazione e la produzione di cultura indipendente, di alterità e di conflitto.

Questa la scaletta
Venerdì 25 (ingresso 10€)
Into the groove

* Citizen kane (ITA)
* Rancore (ITA)
* Low frequency (ITA)
* Crome hoof (UK/USA)
* Asian Dub Foundation (UK)

Sabato 26 (ingresso 10€)
Let’s groove

* Monkey ceers (ITA)
* The singers ( ITA)
* Mombu ( ITA)
* Dub Inc. (FRA)
* Ojos de brujo (SPA)

Domenica 27 (ingresso gratuito)
Power groove

* Bonnot & M1
* Justacase
* Rico e Rocco Hunt
* ill nano
* SignorK