Puzza di bruciato – Acrobax prende parola sul dibattito web

Che cos’è questa puzza di bruciato?
Qualcuno ha messo un fiammifero vicino a della pagliuzza secca e,
quella, ha preso subito fuoco!

Una volta erano i giornalisti mainstreaming i terroristi spacciatori
di calunnie e infamie oggi si annidano persino nelle “redazioni” di
autorevoli blog e siti di movimento. False notizie fabbricate ad
arte… è già perchè stiamo leggendo, in rete su diversi siti, di
una famigerata riunione ad Acrobax per organizzare il servizio
d’ordine alla manifestazione lanciata per il 27 ottobre prossimo.

Peccato però che questa riunione non ci sia mai stata, almeno non
qui: Acrobax non aderisce nemmeno al 27 ottobre figuriamoci fare un servizio d’ordine che comunque da queste parti abbiamo sempre usato solo contro guardie e fascisti.

Sia ben chiaro che questi giochetti di disinformazione e zizzania sono creati ad arte. Se poi per stupidità, per qualche strategia contorta o perchè stipendiati dallo stato questo, a noi, non è dato saperlo ma se lo venissimo a scoprire state pur certi che ve lo verremmo a dire di persona.

Agli amministratori dei siti e ai commentatori, ricordiamo che noi
non facciamo comitati per l’ordine e la sicurezza e tutte le cose che
facciamo e che diciamo sono pubbliche e alla luce del sole.
Tradotto: ci mettiamo sempre la faccia, anche se dobbiamo prendere la
paglia, impastarla con lo sterco e gettarla.

LOA Acrobax Project

Join the rebel: QUESTO NON E’ CHE L’INIZIO

Mentre dal resto d’Europa riceviamo, ormai da qualche mese, cartoline
che ampiamente dimostrano quali siano, nell’attuale contesto di
austerity, le uniche e vincenti forme di organizzazione del conflitto,
ieri tutto il territorio nazionale  è stato finalmente pervaso da parte
di quel protagonismo e attivazione sociale necessario per dimostrare che la soluzione alla crisi è ben lontano dalla compatibilità e dal biopotere della ormai decadente rappresentanza politica.

Ieri abbiamo avuto la dimostrazione che forme di sinergia possibili sono praticabili anche nel nostro paese. A partire da quei soggetti che innervano il mondo diffuso della precarietà giovanile che nella formazione scolastica toccano con mano le politiche di austerity. La crescita collettiva e la messa in condivisione di nuovi dispositivi autobiografici, capaci di narrare una lecita rabbia si è trasformato in un corteo partecipato, denso, consapevole, del precariato metropolitano che attraversando le strade del centro di Roma si è ripreso solo una piccola ma significativa parte, di quello che gli spetta, che spetta anche a tutte e tutti noi.

Dal nodo redazionale di indipendenti decidiamo diffondere il comunicato
degli studenti medi, con la speranza che la riproducibilità delle lotte
inizino ad estendersi anche in questo pezzo di euruolandia, rilanciando la data del 13 ottobre a piazza S. Maria in Trastevere per un’assemblea pubblica che guardi con intelligenza e dignità alla implementazione di reali possibilità di cambiamento e trasformazione.

Join the rebel

Oggi 5.10.12 la città di Roma è stata invasa dagli studenti dell’Assemblea Cittadina dei licei romani.
Questa data è nata dall’assemblea in Val di Susa, convocata dalla rete nazionale studaut, dove gli studenti di tutta l’Italia hanno sentito l’esigenza di scendere in piazza, per esprimere un’opposizione sociale reale al governo Monti e alle politiche di austerity che stanno sempre più strette a tutta la cittadinanza. Le istituzioni sottolineano continuamente la mancanza di fondi per l’istruzione mentre   lo stato spende 500 milioni per cacciabombardieri e 2 cm di Tav corrispondono a una borsa di studio universitaria, legittimando queste scelte come tecniche e non politiche.
In un quadro di drammatica trasformazione politica, la scuola rimane ancora una volta un luogo di costruzione e progettazione, opposizione e conflitto.
Gli studenti infatti contrastano le politiche di questo sistema scolastico e se ne riappropriano dall’interno vivendo le proprie scuole e creando dal basso controcultura attraverso cineforum, mercatini di libri a prezzi popolari, ecc… per dare una risposta concreta alla crisi, producendo momenti di riflessione e conflitto.
Queste iniziative si oppongono al progetto di scuola-azienda che questo governo, come il precendente, vuole realizzare attraverso il DDL Aprea e i test Invalsi, che mirano esclusivamente ad un’appiattimento culturale generale e alla costruzione di una scuola che premi il merito e ignori i problemi.

Il tentativo della questura di Roma, oggi,è stato quello di impedire che gli studenti raggiungessero  il centro storico per manifestare la loro rabbia davanti ai palazzi del potere, opponendosi fisicamente, con uno sproporzionato impiego delle forze “dell’ordine”, al regolare svolgimento del corteo.
Nonostante ciò, gli studenti non si sono arresi e fino all’ultimo hanno portato in piazza la loro determinazione. I manifestanti infatti, estenuati da una pessima gestione della piazza da parte della questura, che aveva il palese intento di emarginare e minimizzare la protesta, hanno tentato di riappropriarsi ancora una volta delle proprie strade. Nei pressi di Porta Portese, i soggetti che giorno dopo giorno militarizzano la nostra città hanno risposto all’iniziativa degli studenti non con semplici cariche di alleggerimento, inadeguate soprattutto contro un corteo costituito prevalentemente da minorenni, ma peggio,  con una vera e propria esplosione di violenza verso gli studenti, minacciando, picchiando, manganellando,  arrivando addirittura ad arrestare un quindicenne estraneo ai fatti,  trascinandolo per terra.
Dopo lo scontro e dopo essersi assicurati dell’imminente rilascio del ragazzo, il corteo non si è comunque arrestato ed ha ripreso il percorso fino a Piramide, dove al momento dello scioglimento ha pubblicamente denunciato la gravità dei fatti avvenuti in precedenza.

Gli studenti oggi non si sono fatti intimorire dalla gestione tirannica, del sindaco Alemanno, della città, ma anzi hanno avuto la dimostrazione del fatto che l’unica risposta che il governo e le istituzioni sanno dare è di tipo poliziesco e militare.

LA VOSTRA REPRESSIONE NON FERMERA’ LA NOSTRA VOGLIA DI LOTTARE, QUESTO NON E’ CHE L’INIZIO

Studenti Medi in Mobilitazione

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=296hrGT9Tjw

Ci Scusiamo Per Il Disagio!

Lo scorso fine settimana si è svolto, ad Acrobax, un festival che ha unito diverse espressioni artistiche. Installazioni, perfomance di danza, visual e musica elettronica hanno caratterizzato la terza edizione di “Provocazioni”, festival indipendente organizzato dal progetto Cromedrop. 7.000 persone in due giorni hanno potuto accedere ad un evento culturale poliedrico con un costo popolare, potendo usufruire di una ricca produzione culturale.

Nell’organizzazione di questa 2 giorni abbiamo avuto, purtroppo, una mancanza di attenzione tecnica per la gestione di uno dei 3 sound che suonavano; nello specifico venerdì notte. Il risultato è stato un volume troppo alto che sappiamo ha infastidito parecchie persone nel territorio. Di questo non possiamo che scusarci e assicurare che cerchiamo e cercheremo, sempre, di porre attenzione a questi aspetti. Tanto è vero che il sabato, la seconda giornata, è stato effettuato un intervento tecnico e di conseguenza, il suono non è stato più invasivo.

Scriviamo queste righe non perché dobbiamo convincere qualcuno o passare per bravi ragazzi. Sappiamo che, chi ha in testa preconcetti sulla nostra esperienza, difficilmente verrà convinto con poche righe. Quello che ci interessa è, invece, parlare a un territorio che ha imparato a conoscere la nostra esperienza, le nostre lotte e la nostra chiarezza. A loro vogliamo dire che noi non siamo un “divertimentificio”, che la nostra proposta culturale passa dalla musica al teatro, ha costruito negli anni un’importante attività sportiva, dal rugby alla palestra popolare fino al campo da basket. E molto altro passa negli spazi dell’ex-cinodrmo occupato, qualche centinaio di persone lo frequenta quotidianamente e lo fa vivere . Vogliamo ribadire che Acrobax è un’esperienza che ha liberato e restituito un pezzo di città, per tutti/e. Negli anni non abbiamo mai abbandonato la lotta contro la precarietà e la miseria sociale che produce. Non ci siamo mai sottratti e ci abbiamo sempre messo la faccia. Lo facciamo anche in questo caso.

LA NOSTRA ASSEMBLEA è IL MARTEDI’ ALLE 21.

CHI VOLESSE è INVITATO A CONFRONTARSI.

Luca Abbà ritorna in Clarea, la polizia usa idrante sui notav

da www.infoaut.org

Sotto una pioggia battente migliaia i notav che hanno accompagnato Luca Abbà
sotto quel traliccio dal quale cadde, per colpa della polizia, il 27 febbraio
scorso. Il ritorno di Luca in Clarea dimostra la sua tenacia, di chi da sempre
si oppone allo scempio di una valle, contro le lobby affaristiche del tav.

Una passeggiata pacifica ma determinata per dimostrare che il movimento notav
non si fa intimidire dai tentativi di criminalizzazione della magistratura, per
denunciare la militarizzazione della valle, contro un cantiere che ha devastato
un intero territorio.

Una volta giunti in Clarea, un primo momento fatto di interventi nei quali si
ribadivano l’importanza di continuare ad esserci, un momento per ribadire la
necessità di resistere e continuare a lottare; in un secondo momento i notav si
sono avvicinati alle reti del cantiere per l’ormai consueta battitura per
esprimere il dissenso verso un cantiere installato manu militare, contro la
militarizzazione della valle. Appena il movimento ha iniziato la battitura le
forze dell’ordine, in maniera gratuita, ha scaricato l’idrante addosso alla
gente rimasta ferma continuando, per quanto fosse possibile sotto i forti getti
d’acqua, la battitura alle reti del cantiere. Un’ azione quella delle forze
dell’ordine in linea con la loro vigliaccheria. Senza farsi turbare troppo da
questo gesto, il movimento notav è andato a posare, in prossimità delle zona
delle vasche, un menhir in pietra a perenne memoria di tutti i caduti della
resistenza partigiana nelle vallate alpine piemontesi.

Una giornata che seppur all’insegna del maltempo è stata molto partecipata,
un ritorno al futuro per Luca che in quel luogo a rischiato di non avere più, un
momento di rilancio per il movimento notav che si appresta ad affrontare un
altro inverno di lotta.

NO ALLA VENDITA DEL PATRIMONIO PUBBLICO 1.10.12 Manifestazione a Roma

NO ALLA
VENDITA DEL PATRIMONIO PUBBLICO

LUNEDì 1 OTTOBRE

ORE 13.30
CONFERENZA STAMPA
ORE 15.30 MANIFESTAZIONE IN
CAMPIDOGLIO

Il 1 ottobre sarà una giornata decisiva per il destino di Roma. In questa giornata,
infatti, il Campidoglio è chiamato a votare la delibera sulla vendita del
patrimonio pubblico: una lunga lista di beni comuni che rischiano di essere
sottratti alla collettività per essere (s)venduti al miglior offerente o a chi –
sull’onda lunga delle tante «parentopoli» romane – avrà meglio saputo
intrallazzare con i nostri amministratori.

manifestazione in campidoglioPurtroppo sia la maggioranza che l’opposizione sono convinte che
cedere il patrimonio comunale sia inevitabile per far fronte al disavanzo delle
casse romane, devastate dal malaffare e dal nepotismo. Invece si tratta di
un’idea inaccettabile, un insulto per tutti i cittadini e l’ennesimo regalo ai
«signori del mattone».

Con le
mille persone salite al Campidoglio giovedì 27 Settembre, i MOVIMENTI PER IL
DIRITTO ALL’ABITARE hanno già fatto sentire la loro voce, esprimendo il dissenso
nei confronti della giunta Alemanno e ottenendo un incontro con l’assessore al
Patrimonio e la maggioranza, fissato per LUNEDI 1 OTTOBRE alle 12, mentre alle
16, in aula, inizierà la discussione, con l’obbiettivo dichiarato di una veloce
approvazione di un provvedimento assolutamente antipopolare.

I
MOVIMENTI PER IL DIRITTO ALL’ABITARE si mobiliteranno ancora, sia per opporsi
con tutte le loro forze alla vendita incontrollata dei «gioielli di famiglia»,
sia perché – come confermato da un incontro con i rappresentanti
dell’opposizione, ottenuto giovedì scorso grazie alla pressione della piazza –
la novità di un fondo per l’edilizia residenziale pubblica da prevedere nel
bilancio deve assolutamente diventare realtà. Solo una simile voce, infatti,
potrebbe dare finalmente sostanza alle 6000 case popolari che, da marzo 2010,
esistono soltanto sulla carta di una delibera approvata dal consiglio comunale.
Perché non bisogna dimenticare che, con questi investimenti, si potrebbe tornare
a parlare di alloggi pubblici e di sostegno alle iniziative di autorecupero:
necessità vitali per una città sul quale aleggia minaccioso lo spettro della
perdita della casa per quote sempre più ampie della sua popolazione.

Siamo solo
all’inizio di un processo difficile, condizionato da una  campagna elettorale
alle porte. Dobbiamo strappare dentro il bilancio che sta per essere approvato
le risorse necessarie per finanziare politiche abitative degne di questo nome.
Per questa ragione i MOVIMENTI PER IL DIRITTO ALL’ABITARE torneranno in
Campidoglio LUNEDì 1 OTTOBRE ALLE
15.30 per manifestare i bisogni autentici di una Roma devastata dal cemento e
dalla precarietà.

Movimenti per il diritto all’abitare

Madrid 25S — La democrazia si apre il passo

di MADRILONIA.ORG

Ci hanno chiamati golpisti. Hanno detto che dietro questa manifestazione si nascondeva l’estrema destra. I mezzi di comunicazione hanno mentito per giorni e giorni. Hanno minacciato di mandarci in galera, hanno dispiegato oltre 1400 agenti di polizia, hanno identificato e denunciato molte persone solo perché esse si erano riunite in un parco pubblico a discutere sulla convocazione di questa manifestazione. Hanno provato a riempirci di paura, come mai era successo prima d’ora. Il risultato è che, nelle strade, eravamo in decine di migliaia, pronti a disobbedire allo stato di eccezione imposto dal governo. Ora tutti i media del pianeta stanno parlando di quanto successo a Madrid il 25S. E sappiamo bene che è solo l’inizio.

Il governo Rajoy è debole come mai era stato prima d’ora. E deve affrontare un problema di governamentalità politica su tre fronti, deve affrontare un problema di dimensioni totalmente nuove. In primo luogo, la forte crisi di legittimità presso la cittadinanza, non solo per le decine di migliaia di persone che si sono mobilitate durante il 25S, ma anche nei confronti del proprio elettorato. Il governo non ha in mente nessun piano di azione, a parte quello di continuare nella propria politica di tagli, accompagnati da una dinamica repressiva sempre più intensa, e sempre più inutile. La risposta al di là di ogni previsione alla mobilitazione lanciata ieri, la fuga clandestina degli “onorevoli”, le patetiche dichiarazioni della maggior parte dei deputati sono segni chiari di questo processo.

Vogliamo dirlo senza equivoci: un governo che si sostiene solo grazie al monopolio della violenza è un governo debole, moribondo e condannato.

Il secondo fronte aperto è quello di una grave crisi del modello territoriale dello Stato. Intrappolato tra il prostrarsi alla Troika (UE BCE FMI) – che si traduce nell’imposizione di politiche dettate dalle dinamiche finanziare – e lo smembrarsi del patto tra le élite – che ha permesso di sostenere la distribuzione della ricchezza tra le comunità autonome -, il governo centrale non è altro che uno spaventapasseri. Con grandi difficoltà è riuscito a mantenere una certa convergenza di azione con le varie élite territoriali, come ci dimostra la “minaccia” indipendentista del CIU (Convergenza e Unione, partito della destra catalanista al governo in Catalogna, ndt), capace di mobilitare una buona parte della società catalana nel nome di un progetto sfacciatamente neoliberale e oligarchico. In questo caso, la debolezza non è solo di questo governo. Siamo di fronte a una ristrutturazione generale delle istituzioni, ereditate dal processo della Transizione, che dimostra la necessità di costruire un nuovo modello di democrazia, tanto politica quanto economica.

Infine, il governo si è mostrato assolutamente incapace di imporsi di fronte alla Troika, di difendere gli interessi della propria popolazione e di allearsi con il resto dei paesi europei periferici. Detto in altro modo, il governo non ha smesso di obbedire agli ordini del potere finanziario che ci spinge verso un’intensificazione continua della crisi sociale. In questo quadro, non ci saranno altre via d’uscita se non la recessione e l’impoverimento. E su questo punto dobbiamo stare allerta perché venerdì o sabato sapremo quali sono le contropartite chieste dalla Troika per garantire il nuovo bailout: riduzione degli ammortizzatori sociali per la disoccupazione, aumento dell’età pensionabile, vendita di asset e beni comuni e nuovi tagli ai diritti dei lavoratori nel pubblico impiego.

Oggi, lo spread è tornato a salire rispetto agli ultimi giorni. Molto probabilmente è un avviso da parte della Troika – attraverso la sospensione dell’acquisto di buoni del tesoro – riguardo il fatto che il programma di contropartite imposto dalla finanza deve mantenersi inalterato, al di fuori da qualunque “concessione” alle richieste che provengano dalla cittadinanza.

Quello che abbiamo vissuto nelle strade di Madrid il 25S è stata la prima dimostrazione della potenza dell’organizzazione collettiva. Ci troviamo probabilmente all’inizio di un ciclo di mobilitazioni al quale tuttavia non si sono ancora uniti né i funzionari pubblici, né i pensionati. Dobbiamo riconoscerlo: la mobilitazione del 25S è stata segnata da un chiaro tratto generazionale. La generazione di chi non ha una casa, non ha un reddito, non ha un lavoro, la generazione di chi non ha votato la Costituzione del 1978 e non si sente garantito dai patti che negli anni Ottanta hanno dato corpo a questo modello di Stato.

Eppure, c’è da aspettarsi che le misure che il governo dovrà probabilmente approvare, spingeranno molte altre persone a unirsi all’assedio del Congresso. Il problema è politico e per questo il nostro compito continua a essere quello di riunire la potenza sociale necessaria a fermare il saccheggio del comune a cui stiamo assistendo. Il problema è politico e per questo dobbiamo riuscire a riprodurre quella alleanza che nelle giornate di Luglio aveva unito il 15M, i funzionari pubblici, i pensionati, i lavoratori dell’istruzione, della sanità e una moltitudine di persone che partecipavano senza altro nome che il proprio. Dobbiamo fare in modo che questa stessa alleanza torni a emergere e a mettere in evidenza la crisi dell’ordinamento costituzionale attuale, del bipartitismo imperante e delle istanze rappresentative. Per dire forte e chiaro che la democrazia è un’altra cosa e che questo paese, così come l’Europa, sono ancora da inventare.
La Delegación de Gobierno di Madrid può dire che c’erano seimila persone, parlare di golpismo e paragonarci al colonello Tejero e al suo golpe di Stato fallito nel 1981, però la “loro” realtà e la “nostra” camminano ormai lungo strade separate. L’intelligenza in rete possiede una capacità propria di auto-narrazione e non ha bisogno di meccanismi che la rappresentino. Si tratta di un esempio chiaro della crisi della forma Stato, uno Stato che assomiglia sempre più a una dittatura. Per questo dobbiamo gridare un’altra volta: non siamo spettatori, non ci rappresentate.

Il 25S è finito. Adesso viene il meglio. Il primo passo successivo al 25S è oggi [mercoledì scorso, 26 settembre, ndt] alle 19 a Nettuno, per dimostrare che seguimos adelante.

* Traduzione dallo spagnolo di Francesco Salvini.

Viva la costituente!

da www.uninomade.org

 

Liberare il campo. Questo è il problema che abbiamo posto e ci poniamo dentro il movimento italiano (ma in una prospettiva che guarda immediatamente al Mediterraneo e all’Europa), di fronte all’interrogativo su cui con insistenza è necessario arrovellarsi: perché non c’è stato in Italia l’insorgere di una composizione che di Occupy, degli indignados o delle “primavere arabe” non ripeta pappagallescamente slogan e simboli, ma ne traduca e dunque crei in forma specifica la potenza politica e di generalizzazione? Sia chiaro, sarebbe sbagliato dire che non ci sono conflitti. Questi non mancano e ogni giorno le cronache, sui mezzi di comunicazione di movimento e mainstream, danno conto della loro diffusione. Il punto è che queste lotte faticano a parlarsi, a generalizzarsi, a comporsi su un piano comune. La domanda sul perché ciò avvenga e, soprattutto, su come rompere i dispositivi di frammentazione, non può che avere differenti livelli di risposta: e tutti interpellano urgentemente gli sforzi di inchiesta militante. Lo scorso 15 ottobre l’iniziativa di un insieme di forze politiche, unitamente al ricatto dell’anti-berlusconismo, ha costruito una cappa sotto cui si è cercato di soffocare, dunque di rappresentare, quello che c’era o poteva esserci. Così, mentre in diverse parti del mondo si esprimevano in modo forte potenza e nodi aperti delle lotte globali dentro la crisi, in Italia il dibattito arretrava drammaticamente sui temi della violenza e della caccia agli untori.

Sarebbe ingenuo e improduttivo pensare che la soluzione all’interrogativo risieda semplicemente in una sorta di katechon interno ai movimenti, ovvero una forza che trattiene l’altrimenti inevitabile affermarsi dei dispositivi di ricomposizione delle lotte. E del resto le insufficienze di proposta e organizzative con cui tutti dobbiamo misurarci vanno al di là delle scelte opportunistiche. I punti di blocco sono evidentemente molteplici e consistono fondamentalmente nella tenuta di istituzioni della mediazione sociale (dai partiti e sindacati, fino ad arrivare alla Chiesa e alla famiglia) che, pur in crisi, riescono ancora a tamponare la generalizzazione di comportamenti sovversivi. Queste linee di ingombro, tuttavia, allungano le proprie articolazioni fin dentro i movimenti, e molte delle strutture che rappresentano un pezzo importante della riproduzione antagonista degli ultimi vent’anni (molti centri sociali, ad esempio) oggi appaiono svuotati di capacità espansiva. Liberare il campo, allora, significa non risolvere ma porre sulle corrette basi il problema di costruire nuove forme di organizzazione all’altezza dei compiti epocali che la crisi del capitalismo offre. É, per dirla in altri termini, una condizione necessaria ma non sufficiente, da cui partire per confrontarsi su elementi di programma e prospettiva.

Costituzione e costituente

Mai come oggi è apparso chiaro che nessun tipo di compromesso istituzionale può permettere di indirizzare i movimenti, meglio, di creare all’interno dei movimenti dispositivi di trasformazione efficaci nell’affrontare la situazione politica presente. Negli anni scorsi alcuni compagni hanno pensato di poter trovare una linea intermedia sulla quale coalizzare forze istituzionali (rappresentanti settori della produzione, sottoposti ad una forte pressione di riforma neoliberale) e movimenti di trasformazione sociale. Era facilmente prevedibile che questo tipo di alleanza non avrebbe potuto stabilirsi che in maniera “diplomatica”, qualora non fosse stata esercitata una pressione di base all’interno e all’esterno di quelle stesse forze istituzionali. Alcuni gruppi di compagni hanno invece privilegiato il terreno istituzionale, sia quello sindacale che quello parlamentare, finendo per subire totalmente quel terreno e per risultare subalterni alla sua agenda. Cosa ancora più grave: si è arrivati ad accettare la discriminazione tra compagni sulla base del bieco refrain socialista: “chi è per la violenza è un nemico”. Per questi comportamenti, la critica è necessaria e l’autocritica deve essere imposta.

Il tentativo di alleanza con la Fiom è stato in proposito un esempio classico di fallimento politico: perché? Perché non si potevano accostare funzioni separate, come quella della mera difesa “lavorista” di una classe operaia di fabbrica investita da una profonda ristrutturazione e quella della proposta di un reddito garantito di cittadinanza che trasforma la concezione stessa del lavoro produttivo. Ogni tentativo svolto su questo terreno senza l’accompagnamento di una forte coscienza teorica del passaggio che si sta compiendo, è opportunista se non cialtrona. Il risultato è che oggi la Fiom è su posizioni più arretrate e conservatrici di tre anni fa. La parola d’ordine della costituente può invece diventare un punto unificante, come già sta avvenendo in Spagna. Il problema oggi è quello dunque di costruire, sul livello generale, forme di contropotere che contrastino l’avanzamento delle proposte costituzionali (sia sul terreno della pratica giuridica, sia sul terreno delle riforme strutturali) che le élite neoliberali impongono. È su questo terreno che tutte le forze e i movimenti della trasformazione, presenti sui territori, possono e debbono muoversi. Queste indicazioni prevedono un’apertura sociale massima degli organismi di base alla discussione di indicazioni costituenti ed alla definizione di strumenti adeguati. Negli anni ’90 si diceva “uscire dal ghetto” e si occupavano i centri sociali; ora, se non si vuole rimanere intrappolati nella gabbia dell’autoreferenzialità, bisogna aprirsi organizzativamente alle iniziative di nuova istituzionalità autonoma, dalle occupazioni dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo a quelle di intere porzioni di territorio, trasformate in luoghi di contropotere costituente. Infatti, anche nelle lotte territoriali o per i beni comuni, così come per Occupy o le acampadas, il problema non è ripeterne slogan e icone da spendere sul mercato della politica: se non si comprende questo punto, non ci possiamo spiegare perché il movimento No Tav riesce a generalizzarsi e falliscono esperienze almeno potenzialmente analoghe. Il tema del comune, gli obiettivi e i programmi legati alle lotte sul comune e alla proposta costituzionale del comune sono dunque centrali.

Dentro/contro l’unità europea

Lo abbiamo detto e ripetuto: ogni illusione di poter scegliere lo spazio nazionale per portare avanti le lotte anticapitaliste è del tutto illusorio. Sul terreno europeo il capitale ha anticipato con enorme forza le politiche del riformismo socialista, le ha decisamente estirpate. Riconoscere questo ritardo, di venti-trent’anni, significa anche attribuirne la responsabilità a tutti quelli che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, hanno pensato che la forza del movimento operaio internazionale (o addirittura la lotta di classe) fosse definitivamente scomparsa. Affermare che la lotta di classe si svolge sul terreno nazionale è sempre stata un’infamia (ed oggi è un errore moltiplicato per mille). C’è chi ancora si stupisce che il rifiuto dell’Europa finisca per essere populista e/o fascista: questa non è una deriva ma uno sviluppo coerente per ogni atteggiamento e/o comportamento identitario. Quello che è successo nell’ultimo anno in Ungheria ne è una dimostrazione lampante.

L’Europa rappresenta il nostro destino: può essere un inferno ma è anche il terreno adeguato alle lotte di emancipazione nel mondo globalizzato. Interiorizzare il senso europeo alla lotta di classe, ovunque essa si svolga, nelle fabbriche, nei servizi industriali e sociali, nell’università, ecc., è assolutamente fondamentale. È chiaro che le politiche dell’Unione europea vanno fin da ora radicalmente modificate e che la preminenza dei vecchi trattati va combattuta: ma questo non è un passaggio entro il quale lo spazio europeo venga dissolto (e le singole nazioni lasciate ancor più in preda alle operazioni delle grandi multinazionali e dei poteri finanziari) – questo passaggio è costruttivo di organizzazione, di contropoteri, di nuove strutture costituzionali. Programma del comune e programma europeo vanno completamente unificati. Per dirla chiaramente: non c’è programma del comune se non su base europea. Non è un caso che dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Grecia – per citare i tre maggiori esempi di mobilitazioni, di massa e radicali, contro l’austerity – i compagni più avvertiti pongano con insistenza la necessità di uno spazio europeo, pur nella consapevolezza della difficoltà di questo compito. Senza questa capacità di iniziativa politica europea, che è oggi innanzitutto mediterranea, quindi in grado di allargarsi alle “primavere arabe” sull’altra sponda, le lotte contro l’austerity rischiano di essere consegnate al rancore localista. La costruzione di una “leva meridionale” con cui riaprire la questione europea, a partire dai paesi membri della UE maggiormente investiti dalla crisi, ma con una capacità di collegarsi a quanto si muove sulla sponda sud del Mediterraneo, può diventare un realistico progetto politico in questa fase.

Al contrario, l’arretramento sul piano della difesa della rappresentanza e della sovranità nazionale è il frutto velenoso della cosiddetta “dittatura della Bce”: da un lato si intende la finanziarizzazione non come un processo reale ma come l’invenzione di una cricca di malvagi (i discorsi sulla casta, fonte dei populismi degli ultimi anni, hanno qui il loro presupposto); dall’altro, si consegnano i movimenti alla peraltro illusoria alternativa tra corruzione del sistema politico e risentimento giustizialista. Nei prossimi mesi, c’è da scommetterci, non mancheranno neppure in Italia grandi esplosioni di conflitto contro le politiche di austerity: la loro caratteristica sarà inevitabilmente spuria e perfino ambigua. Il nostro compito è quello di starci dentro, perché è la stessa condizione della crisi a essere spuria e ambigua. Ma se non vogliamo essere risucchiati nel vortice della demagogia o rinchiuderci nella pura testimonianza, dobbiamo costruire collettivamente la capacità di conquistare l’egemonia programmatica del comune. Ed è solo qui, sul piano dell’iniziativa costituente europea, che la trappola populismo-rappresentanza va rotta e l’ambiguità può essere rovesciata.

La lotta per il comune è una lotta per la pace

In questi anni, dentro la miseria della vita politica interna al paese, alcune componenti dei movimenti antagonisti hanno dimenticato la vocazione alla lotta per la pace che altre volte ne ha costituito il nerbo. La situazione nella quale viviamo, i rivolgimenti sensazionali del mondo mediterraneo e mediorientale e i tentativi di controllo e di moderazione della loro potenza rivoluzionaria, le lotte attorno al possesso delle materie prime energetiche, ecc., – tutto ciò porta precipitosamente verso contraddizioni ed antagonismi difficilmente regolabili se non attraverso opzioni belliche. Il fatto che l’egemonia americana nel Mediterraneo fino agli estremi limiti del mondo arabo sia in grave declino non allontana il pericolo ma lo rende ancora più vicino. Bisogna quindi che i movimenti si impegnino immediatamente sul terreno della pace in quanto processo costituente. Le lotte sociali per il salario, per il welfare, per la trasformazione della produzione, per una struttura costituzionale rivolta alla costruzione del comune non possono non avere al proprio interno un’istanza di lotta per la pace e per la giustizia nei rapporti tra le moltitudini.

Dentro la lotta per il comune la pace si spoglia così dei residui idealisti che l’hanno spesso caratterizzata nell’ultimo e importante ciclo no war, quando la lotta contro la guerra faticava a territorializzarsi nella quotidianità del conflitto sociale, finendo per consumarsi nel semplice richiamo alla coscienza civile o, in Italia, all’articolo 11 della Costituzione. Nella storia lunga e recente dei movimenti americani, ad esempio, la guerra è sempre stata un tema centrale, rischiando però spesso di essere il coagulo morale di un ceto medio che reclamava gli ideali del “sogno americano”, gridava al tradimento delle elite e marcava la separatezza dalle lotte contro i rapporti di sfruttamento. Nel momento in cui quel ceto medio è definitivamente declassato e l’American dream sprofonda nell’incubo della crisi permanente, Occupy lascia apparentemente sottotraccia la questione della pace, proprio perché essa comincia a vivere nella materialità delle lotte per un nuovo welfare e contro la povertà e il debito. Non c’è più tradimento, perché quelle elite – a cominciare da Obama – non rappresentano nessuno. E il tema della pace vive nelle “primavere arabe”, il cui processo è stato parzialmente interrotto ma resta completamente aperto, a dispetto delle retoriche – mainstream e di movimento – su un’inevitabile egemonia islamista. I partiti islamisti al governo hanno definitivamente gettato la maschera: infranta qualsiasi illusione di una funzione destabilizzatrice che la stupidità di un consunto anti-imperialismo continua ad attribuir loro, si rivelano per quello che sono sempre stati, cioè i migliori garanti di una prospettiva di stabilizzazione conservatrice. E in questo ruolo utilizzano salafiti e gruppi religiosi che, alla prova dell’insorgenza, si dimostrano nemici innanzitutto dei processi rivoluzionari.

Contro ogni minoritarismo

Liberare il campo, dicevamo. Cioè uscire dal minoritarismo, che non consiste in un puro dato quantitativo, di opinione pubblica, oppure – come pensano tutte le “terze vie”, quelle tragiche e quelle farsesche – moderare i contenuti per allargare il numero dei simpatizzanti: pensare questo, nell’accelerazione della crisi, è stupidità o malafede. L’uscita dal minoritarismo è una prassi politica, la capacità di essere all’altezza della composizione del lavoro vivo, della sua potenza di espressione e radicalità. Quando diciamo politica della composizione contro politica delle alleanze, dunque, non ci gingilliamo con le parole a effetto. Molto concretamente il problema è: perché si riempiono le sale degli incontri tra le supposte rappresentanze dei movimenti, degli studenti e dei lavoratori, e in piazza gli operai dell’Alcoa sono lasciati soli? Perché si constata l’esaurimento della forma-sindacato a Taranto e si consegna al sindacato la (mancata) iniziativa contro la riforma Fornero o per i referendum sul lavoro? Sono domande che interrogano tutti, nessuno escluso. Così, mentre in Italia si implorava la Cgil di convocare uno sciopero generale, a Oakland e nella MayDay questo veniva indetto direttamente dai movimenti, costringendo i sindacati americani, nazionalisti e corrotti, a confrontarsi con l’autonomia di programma e di agenda politica di Occupy. Insomma, è chiaro che processi di organizzazione unitari vanno privilegiati. Ma solo se sono espansivi, dunque con una vocazione maggioritaria e di classe, e non frontisti, cioè minoritari.

Contro crisi e austerità riprendiamoci scuole e città

Questi ultimi mesi sono stati caratterizzati dall’avvento del governo Monti e dei suoi tecnici, che di fatto si è posto su una linea di continuità nell’ottica di applicare le politiche di austerity dettate dalla finanza internazionale.
In un quadro di trasformazione politica, in cui nei fatti l’iniziale fiducia nei confronti del governo Monti è completamente svanita e la crisi si fa sempre più sentire sulle spalle della gente, la scuola ancora una volta resta luogo di costruzione e progettazione, di opposizione e conflitto, contro un sistema economico e sociale che tenta di riprodursi a scapito di chi già sta pagando questa crisi.

La scuola, infatti con il carattere di comunità che l’accompagna, spaventa chi come il ministro Profumo mira a mettere in atto l’ennesima riforma per garantire privilegi ai soliti.
Con la parola d’ordine “meritocrazia” si vuole nascondere di fatti un progetto che ha come obbiettivo quello di far accedere ad un’istruzione di qualità soltanto chi dispone di un certo livello di reddito, al fine di preservare una società giá soggiogata dalle logiche di mercato, nella quale non c’e spazio per la libera scelta.
Molti aspetti sono in continua evoluzione e nel corso dell’estate molti scenari politici si sono definiti, ma la nostra opposizione a questo governo e a questo sistema di sviluppo resta forte e determinata. In quest’ ottica lanciamo la prima data di mobilitazione studentesca nazionale venerdì 5 ottobre.★Studenti Medi in Mobilitazione ★

Il grado zero sul livello del mare, l’orizzonte del conflitto sociale

da www.uninomade.org

di RAFAEL DI MAIO

Nella crisi profonda si moltiplicano e si confondono un po’ ovunque figure di grigi funzionari della dialettica, da sempre schierati contro la liberazione dell’uomo dal lavoro. Avviene sovente anche nei sindacati e movimenti loro alleati quando s’improvvisano per i nuovi diritti, che peraltro la governance del bio-capitalismo tenta continuamente di catturare con riforme e sintesi normative – soprattutto nell’Europa lontana dagli interessi sul debito – per scandire la trasformazione continua del rapporto irriducibile tra lavoro vivo e capitale. Rovesciano e trasformano come un re Mida in un’alchimia negativa l’oro in merda, il reddito universale in sofisticati dispositivi di controllo sociale.

La finanziarizzazione definisce la sfera pubblica del capitale mettendoci davanti ad una crisi strutturale della governabilità, del valore e della sostenibilità stessa della moneta. Nella grande transizione dal fordismo al post-fordismo la crisi finanziaria diviene prima di tutto crisi sistemica del processo di valorizzazione. Nel bio capitalismo contemporaneo è ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione del lavoro nel diritto. Questa è ormai la tendenza costituente del profitto che diviene rendita. Sul piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Dentro le nuove striature del capitalismo digitale i colossi come Apple, Google e Facebook fungono come leve per la nuova misurazione del valore, come catalizzatori di informazioni sociali sui comportamenti della collettività che vengono continuamente ricombinate e analizzate  e che attraverso l’espropriazione del capitale sociale vengono monetizzate, senza nessun riconoscimento della effettiva ricchezza socialmente prodotta. Il lavoratore diviene una figura immersa nella produzione sociale. Gli utenti e il loro continuo interagire con i dispositivi  tecnologici in Rete operano sul campo immanente della produzione biopolitica che potremmo definire prod/utenza o co-creazione di valore.

Basti pensare ad esempio alle nuove sperimentazioni nel modello anglo-sassone di sostegno al reddito ai giovani tra i 15 e 24 anni. A questi viene erogato un sussidio minimo settimanale a fronte di prestazioni d’opera in lavori socialmente utili svolti in forma totalmente gratuita. Ragazzi giovani e giovanissimi che vivono tra la precarietà e la disoccupazione – del resto in Italia come sappiamo dalla pletora statistica è una condizione ancora più diffusa – che passano il proprio tempo su Internet e sui social network, dove lì si, lavorano permanentemente nella nuova accumulazione originaria che sulla rete poi si dispiega. Questo lato “estremo” del ragionamento sicuramente ancora tendenziale assume una centralità strategica se consideriamo le assurdità sulle quali misuriamo formalmente la composizione attiva e realmente occupata nel Mercato del lavoro. Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia viene considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il reale tasso di disoccupazione, che ovviamente viene calcolato solo sul bacino degli attivi e cosiddetti disponibili. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. Quale programma e quali “ricadute” possono misurarsi dentro tale contesto? A fronte della produzione sociale, dove il nesso si connette all’unica istanza possibile oggi, quella del reddito di cittadinanza – nel senso precipuo del reddito di esistenza, incondizionato, svincolato dal lavoro formalmente riconosciuto – quale dovrebbe essere se non il precariato metropolitano il referente, la soggettività produttiva emergente che rivendica i nuovi “claims”? E non dovremmo includere anche quella massa di operai precarizzati dalle crisi industriali, i lavoratori dei servizi e del pubblico impiego che in ogni dove moltiplicano le lotte e le forme di resistenza?

Le ricadute politiche divengono quindi macroscopiche e i nessi interni alla produzione sociale rompono anche il meccanicismo dell’organizzazione sindacale. Se nel capitalismo digitale il lavoratore diventa ibrido e doppio, da un lato costantemente attraversato dalle striature del comando centralizzato sulle infrastrutture informatiche e dall’altro, dall’auto-valorizzazione delle proprie attitudini, saperi, affetti e desideri, la forma della possibile organizzazione politica sposta completamente il suo asse dalla sottomissione formale del lavoro nel capitale, alla sussunzione reale del lavoro vivo nelle macchine e nelle maglie dell’irrigimentazione capitalistica. Dobbiamo quindi continuare ad approfondire la relazione tra i processi della nuova valorizzazione e la rivendicazione del reddito di esistenza, se su questo terreno ci si vuole effettivamente cimentare sul piano politico.

Dopo aver visto per mesi la rabbia trasformarsi in disperazione, salire sulle torri, sui tetti o scendere in fondo ad una miniera è tornato ora il momento – semmai si fosse perduta questa elementare bussola – di riportare il conflitto sociale sul livello del mare, dove i piedi tracciano il suolo e i corpi riemergono insieme per attraversare l’orizzonte “in pianura” li dove ti sfruttano, ti picchiano, ti deportano, lì dove si soffre e si gioisce, lì dove si può perdere tutto ma certamente si può tentare ancora di rimanere vivi. E’ lì e solo lì che si può costituire quella materialità della lotta, ben oltre la nuda sopravvivenza. E’ lì che la disperazione può trasformarsi nuovamente in rabbia, in conflitto sociale, sovversivo, creativo e decidere di non tornare più a casa. Così come è la disperazione che porta donne e uomini senza prospettive, futuro e garanzie a rivendicare il semplice lavoro, come se chiedessero ancora solo sfruttamento e sacrifici. Bel quadretto da presentare ai padroni grazie ai sindacati. Con loro mai la rabbia diventerà gioia e desiderio per la trasformazione del presente. La crisi picchia duro e la politica si nasconde, nega la realtà e allora anche quelle forze sociali, operaie, marginalizzate, rimangono politicamente confuse, senza legami, prospettive, senza rivoluzione. Rivendicano semplicemente il lavoro – sfruttato sottopagato, unica fonte di reddito e nella disperazione come non comprenderli – senza potersi spiegare, con le proprie parole, quando l’unica cosa che conta è la sopravvivenza. Dove anche un bambino leggerebbe reddito intero contro lo sfruttamento, in quel chiedere disperatamente lavoro, lavoro, lavoro. Gli opportunisti, sindacalisti senza arte e solo con la loro parte, possono oggi schiacciarsi su questa dimensione populista del lavoro. Del resto nella disperazione sociale avviene questo e molto altro. Si fa gioco forza poi a negare la cooperazione, la produzione sociale permanente,  le forme di vita costantemente a lavoro. Un lavoro sempre più invisibile, in nero, gratuito, non riconosciuto che però oggi costituisce quella condizione generalizzata della precarietà diffusa che è innegabile in quanto costituisce l’unica realtà materiale per un intera generazione di precari, studenti, disoccupati, lavoratori cognitivi e “nativi digitali”.  Così è possibile mistificare quella mobilitazione permanente continuamente appropriata dal capitale, imponendo ancora il paradigma del lavoro come traduzione dei diritti. E poi di quali? Quelli che puzzano di morte come a Taranto o nel Sulcis dove per il profitto dovremmo accettare supini le briciole in busta paga mentre il senato globale dei rentier del capitaliasmo finanziario globale se la ride, sapendo bene che è nel “comune immateriale”, nella “produzione sociale dell’uomo mediante l’uomo” che si crea oggi ricchezza e si estrae il reale profitto, quel plusvalore sociale appropriato dalla rendita finanziaria che da rendita privata deve essere riconvertita in rendita sociale per combattere le crisi e costruire il futuro estendendo le pratiche del comune. Vi è una costituzione biopolitica delle lotte da organizzare dentro la moltitudine, dentro la cooperazione sociale, dentro i flussi della nuova valorizzazione. Questa moltitudine precaria rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, sicuramente impoverito. Reddito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale (affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva) ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali della rete e della nuova organizzazione del lavoro. Reddito intero per far saltare i dispositivi del biopotere e della sua governance.

15 settembre in Portogallo: dichiarare vittoria?

da www.uninomade.org

di PASSA PALAVRA

Il contesto

Il 7 settembre, il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho tiene un discorso in diretta rivolto a tutto il paese, prima di una partita della nazionale di calcio. Durante il suo intervento, il primo ministro annuncia l’aumento del 7% del valore della tassa  sociale unica (TSU), che deve essere pagata dai lavoratori del settore privato, e la diminuzione del 5% della somma imposta alle imprese. Una misura che si va ad aggiungere al vasto pacchetto di austerità che si sta accumulando a partire dal primo intervento della Troika (FMI, Banca Centrale Europea, Commissione Europea) nel 2010.

Già al tempo del governo socialista (PS) l’applicazione della ricetta di austerità era stata caratterizzata dal congelamento delle entrate e degli avanzamenti di carriera negli uffici pubblici, dall’aumento delle imposte sui consumi, dai tagli agli stipendi dei funzionari pubblici superiori a 1 500 euro, dal congelamento delle pensioni e dall’aumento dei ticket negli ospedali.

A metà del 2011, di fronte ai costanti “avvisi alla navigazione” provenienti da autorità economico-finanziarie (dalla Troika alle agenzie di rating), la nuova coalizione governativa (Partito Socialdemocratico e Partito Popolare) rompe la promessa elettorale di non aumentare le imposte approvando un’imposta straordinaria sui rendimenti equivalente al 50% della tredicesima. Giorni dopo, è annunciato il taglio della tredicesima per i dipendenti statali. Parallelamente, si verificano aumenti dei prezzi dei trasporti pubblici nell’ordine del 15%, e si assiste all’aumento di gas ed elettricità.

Nel pieno di questa ondata di misure, il governo modifica le leggi sul lavoro facilitando i licenziamenti, in parte ampliando il principio di “non adattabilità” del lavoratore al suo posto di lavoro [condizione che si verifica quando il lavoratore non si adatta a cambiamenti introdotti nell’ambiente di lavoro Ndt], in parte diminuendo gli indennizzi per il licenziamento senza giusta causa. Questa ricetta, tuttavia, non ha dato risultati. Il fatto che l’austerità costituisca un paradigma di governo economico transnazionale ha fatto sì che la speranza nell’aumento delle esportazioni si fondasse soltanto su di essa. La crescita esponenziale dei prezzi e degli indici di disoccupazione ha finito per portare alla riduzione del potere d’acquisto, al fallimento delle piccole attività commerciali e, di conseguenza, a un aggravamento della disoccupazione. Un meccanismo che non accenna a fermarsi e che non ha risparmiato quella che, in teoria, dovrebbe essere la “pupilla” dei partiti di centro: la famigerata “classe media”.

Il caso portoghese rivela la natura ideologica del termine “classe media”. Il debole tessuto produttivo nazionale ha basato il proprio vantaggio competitivo sul prezzo e non sul prodotto, ottenendo lucri facili a partire da salari bassi e dai più svariati “contorsionismi” fiscali. L’iniezione di fondi strutturali a partire dal 1986, anno in cui il Portogallo entra nella Comunità Economica Europea (CEE), ha fatto sì, tuttavia, che un’importante fetta della popolazione portoghese si ritrovasse con case di proprietà, automobili e ferie una volta all’anno. Un insieme di benefit che hanno simboleggiato l’ascesa verso un nuovo status sociale.

Al contempo, e nonostante gli aiuti finanziari, le strutture produttive non hanno messo in questione i propri presupposti di funzionamento e le proprie aree di attività. Per loro la modernizzazione ha significato soltanto adottare nuove modalità contrattuali, più “flessibili”, continuando a scommettere sul fattore prezzo.

La fine del sogno della “classe media” iniziò precisamente alla fine degli anni 90, quando questa scoprì che gli investimenti fatti sui propri figli non avevano portato ai risultati sperati. Per quanto il Portogallo sia ancora distante dai livelli dell’Europa più “evoluta”, e seppur continui ad avere una percentuale di abbandono scolastico assai elevata, il paese ha assistito negli ultimi anni alla massificazione dell’insegnamento secondario superiore. Tuttavia, una volta usciti da scuola e dall’università, i giovani qualificati hanno trovato, nella migliore delle ipotesi, un lavoro precario in centri commerciali o in call-center, impieghi che vengono presentati come “un’alternativa migliore della disoccupazione”. La “classe media” si è così confrontata con la sua sterilità. Una frustrazione che, insieme al costante aumento dei prezzi, all’invenzione di nuove imposte, ai crediti da pagare e infine, alla perdita dell’impiego, l’ha costretta a fare i conti con la propria fragilità.

La manifestazione

L’annuncio dell’aumento della TSU ha suscitato fortissime critiche, anche da destra. Partendo da esponenti di punta del PSD, come Manuela Ferreira Leite, fino ad arrivare a presidenti di gruppi economici, come Belmiro de Azevedo, l’opposizione a questa misura è stata generalizzata, viste le conseguenze restrittive su un potere d’acquisto già di per sé indebolito. La manifestazione “Basta Troika! Vogliamo le Nostre Vite” ha finito quindi per assumere dimensioni fuori dal comune. Partendo da un discorso più ambizioso rispetto ai precedenti, la manifestazione ha preso le mosse da un gruppo di singoli firmatari, quasi tutti figure pubbliche di sinistra o leader di piccole organizzazioni. Svoltasi in concomitanza con le manifestazioni in Spagna, l’iniziativa si è diffusa in 40 città portoghesi e in alcuni consolati portoghesi all’estero, dando vita alla manifestazione forse più grande degli ultimi decenni. A Lisbona, centinaia di migliaia di persone sono partite da Praça José Fontana in direzione di Praça de Espanha, un percorso che voleva esprimere solidarietà alle manifestazioni in corso nel paese vicino. Circa due ore dopo, in Avenida da Repùblica, si sono verificati i primi momenti di tensione, durante i quali frutti, petardi e bottiglie sono stati lanciati contro la sede di rappresentanza della Troika. Una persona è stata fermata da alcuni poliziotti in borghese. Arrivate alla fine del percorso, migliaia di persone, soprattutto i più giovani, hanno deciso di continuare la manifestazione dirigendosi verso la sede del Parlamento. In poco tempo, la piazza di fronte all’edificio si è rivelata troppo piccola per quella moltitudine che, per più di un’ora, ha continuato ad aumentare. É qui che si sono registrati i momenti di maggiore scontro tra manifestanti e forze di polizia. Per circa due ore bottiglie, pietre e frutta sono state lanciate a mano a mano che la polizia aumentava i propri uomini sulla scalinata. La polizia, a sua volta, ha organizzato alcune piccole azioni, fermando, alla fine, quattro persone.

Il modo di agire della polizia è stato, tra l’altro, una delle novità di questa manifestazione. Al contrario di quanto avvenuto durante lo sciopero generale del 22 marzo, le forze di polizia hanno agito in modo più strategico: pur non abbandonando le dimostrazioni di forza, le loro azioni si sono rivelate tuttavia meno concentrate sulla violenza sproporzionata e piuttosto sull’identificazione delle minacce e sul ricorso ad agenti in borghese per procedere con i fermi.

E adesso?

Di fronte alla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, è facile cantare vittoria. Da spettatori passivi, i portoghesi si sono evoluti improvvisamente in grandi attori. Il ricorso all’essenzialismo, per convinzione o per scopi strategici, ci sembra tuttavia poco fruttuoso, dato il suo carattere astorico e dunque non strategico.

Una manifestazione che riesce a riempire le strade di svariate città del paese, dimostrando, a tratti, di potersi radicalizzare (a Porto alcune vetrine di banche e di società assicurative sono state danneggiate, ad Aveiro un giovane di 28 anni si è dato fuoco, riportando varie ustioni), costituirà sempre un dato importante. Tuttavia, esistono problemi strutturali difficilmente risolvibili in un solo giorno. In primo luogo, come si è potuto forse evincere da quanto detto fin qui, la manifestazione ha rivelato una mancanza di orizzonte politico. Una gran parte dei cartelloni e degli striscioni esposti dai manifestanti continua a essere riempita con sfoghi o con semplici negazioni: da “Sono stufo..” a “Basta” passando da “No a…”. Questi slogan segnalano l’inesistenza di un minimo progetto politico, senza il quale qualsiasi critica ai partiti politici e ai sindacati, per quanto precisa, corre il rischio di assumere una posizione meramente difensiva, facilmente manipolabile dai populismi e/o dai poteri carismatici. In secondo luogo, non solo Grandola Vila Morena (inno della rivoluzione dei Garofani) è stata meno cantata di A Portuguesa (inno nazionale), ma la bandiera nazionale è stata di gran lunga il simbolo più visto in tutta la manifestazione. Da questo punto di vista, sembra che venga dato più peso al fatto che le politiche di austerità risultino da un processo di ingerenza esterna, il cui scopo sarebbe la diminuzione del debito pubblico, piuttosto che all’aspetto internazionale di tale processo (realizzato con lo stesso tipo di diagnosi e di intervento in altri paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda).

Il 15 di settembre è stata, certamente, la prova che nessuno sta con le mani in mano. E tuttavia dimostra al contempo quanto lungo e tortuoso sarà il cammino da percorrere.

* Pubblicato su http://www.passapalavra.info Traduzione dal portoghese di Silvia Genovese.