BCE, EURO, SCENARI: appunti di C. Marazzi

da www.uninomade.org

 

Il 2 agosto, la Banca Centrale Europea (BCE), malgrado le roboanti esternazioni
del suo presidente Mario Draghi sulla difesa ad oltranza dell’euro di pochi
giorni prima, ha in parte “deciso di non decidere”, almeno fino a metà
settembre, quando la Corte costituzionale di Karlsruhe emetterà la sentenza
sulla costituzione del Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS), che si sostituirà
all’attuale Fondo Salva-Stati, quest’ultimo dotato di 100 miliardi di euro, una
cifra irrisoria per poter intervenire efficacemente contro gli assalti ai
debiti sovrani dei paesi cosiddetti del Sud (ce ne vorrebbero 300 solo per
salvare la Spagna). Questo significa che nelle prossime settimane, in mancanza
di una autorità veramente in grado di “fare qualunque cosa per preservare
l’euro”, i mercati saranno probabilmente soggetti a forti oscillazioni
determinate dal “calcolo delle probabilità” sulla fuoriuscita o meno dall’euro
di Spagna e Italia. La questione di fondo è: quanta sovranità i paesi del Sud
sono di nuovo pronti a concedere per “tirare avanti” con i loro debiti
crescenti?

Prima
della riunione del board della BCE i paesi in sofferenza avevano chiesto che
l’istituto di Francoforte si mettesse ad acquistare direttamente e in modo
illimitato i titoli pubblici spagnoli e italiani in modo da favorire una
diminuzione dei tassi e evitare che il loro accesso al mercato fosse precluso.
Spagna e Italia non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di
solvibilità: l’intervento della BCE non dovrebbe essere solo quello di
calmierare i mercati  facendo scendere a
livelli sostenibili i tassi di interesse, ma anche quello di sostituirsi
eventualmente agli investitori che non vogliono più sottoscrivere questi stessi
titoli. Il che comporta un radicale cambiamento della natura della politica
monetaria della BCE. In sé, non si tratta di un fatto nuovo. Già nell’autunno
dell’anno scorso la BCE aveva acquistato direttamente sul mercato oltre 200
miliardi di euro di titoli dei paesi in difficoltà. All’inizio di quest’anno
aveva poi iniettato nel sistema bancario europeo oltre 1’000 miliardi di euro
che sono stati usati soprattutto nei paesi mediterranei per acquistare
obbligazioni dei loro Paesi. Pure, in seguito, seppure non sia stato ufficialmente
proclamato, gli interventi della BCE sono proseguiti soprattutto attraverso
cospicui finanziamenti delle banche spagnole e italiane. Col risultato di una
esplosione del bilancio della BCE, che sta diventando il principale detentore
di titoli statali dei Paesi in difficoltà o di obbligazioni in cui sono stati
cartolarizzati mutui ipotecari e altri crediti delle banche.

Ma l’appello al cambiamento della natura degli interventi della BCE – da
straordinari a ordinari – rappresenta una violazione dei suoi statuti, ciò che
provoca, come si è visto in questi giorni, l’opposizione della Bundesbank. Come
maggiore azionista della UE, per la Germania il salvataggio dell’Euro nella sua
forma attuale diventa sempre più proibitivo, al punto che l’agenzia di rating Moody’s
ha espresso un giudizio negativo sulle prospettive economiche della Germania.
Il salvataggio dell’euro a colpi di interventi disordinati e a costi crescenti
appare sempre più problematico. La prospettiva di una spaccatura dell’euro
comincia infatti ad essere esplicitamente evocata da molte personalità
tedesche. Essa appare come la soluzione più “ragionevole” ad una crisi che sta
distruggendo non solo l’economia della zona euro, ma soprattutto la credibilità
dell’ideale europeo. Come si dice in Germania, oggi è meglio un grande dolore
con una fine certa, che un dolore senza fine.

E’ alla luce di questo scenario (la spaccatura dell’euro) che va interpretato
quanto emerso il 2 agosto a Francoforte. E’ vero, come scrive il Financial
Times
(“Zen and the art of central banking”, 4 agosto), che sia Draghi che
Bernanke sono ormai entrambi impegnati nell’arte Zen della nientitudine:
“Strictly speaking, the Federal Reserve and the European Central Bank did
nothing. But their respective leaders, Ben Bernanke and Mario Draghi, showed how doing nothing is
far from being inactive”. Siamo, insomma, di fronte alle tipiche
virtù della performatività del linguaggio, il “fare cose con le parole”. Fare cosa? “The real message is that the peripheral
economies will not be given money for nothing. The pressure for meaningful
structural reform is to remain intense, and any short-term bailout will be
conditional and supervised by external agencies” (“Italy and Spain coy on
rescue fund move”, FT, 3 agosto). Ecco
la novità: la BCE è disposta ad agire solo se prima i paesi che chiedono un
intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni,
aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea. Le
parole della BCE, comunque, hanno disorientato i mercati, tanto che, dopo la
reazione catastrofista dei mercati del giorno seguente, c’è voluta una
spiegazione del Financial Times per ristabilire, in modo altrettanto
esagerato, la fiducia degli stessi mercati. Insomma, da un atto linguistico
all’altro. L’incertezza regna sovrana.

Ma procediamo con ordine: prima di tutto, con le “decisioni” della BCE di Draghi
siamo ancora lontani da quel cambiamento della politica monetaria auspicato da
molti prima del 2 agosto, ossia la trasformazione della BCE in una vera e
propria banca centrale che, intervenendo direttamente sui mercati con
l’acquisto di obbligazioni pubbliche (come fa la Fed o la banca centrale
giapponese, ecc.) si preoccupa non solo di combattere l’inflazione (ancora
l’unica vera priorità della BCE), ma anche di regolare in senso macro-economico
le variabili fondamentali della crescita economica (investimenti e occupazione,
in primo luogo). E’ vero che la BCE, oltre ad effettuare operazioni sul mercato
secondario di “importo adeguato”, potrebbe non sterilizzare gli acquisti di
titoli, lasciando in tal modo aperta la possibilità di un quantitative
easing
mirato, ossia la creazione di liquidità a mezzo di interventi sul
mercato dei titoli statali. Ma qui siamo ancora nell’ordine dei possibili. E’
stato invece deciso che la BCE interverrà solo dopo che sia stato concordato un
programma di assistenza tra il Paese che chiede aiuto e il
FondoSalva-Stati/Salva-Spread. E qui, apriti cielo! “Questa subordinazione ha
almeno due inconvenienti. Primo, la richiesta di aiuti all’Efsf è un’ammissione
di impotenza. Ciò ha ovvi costi politici, ma anche economici, perché rivela che
lo stesso Paese ritiene di non riuscire a farcela con le proprie forze.
L’esperienza (europea e internazionale) insegna che, quando un Paese chiede
prestiti a organismi sovranazionali, l’accesso ai mercati gli rimane poi
precluso a lungo. Secondo, la richiesta di aiuto è formulata prima di sapere
quali condizioni saranno imposte per ricevere assistenza. L’incertezza non è di
poco conto, perché l’intervento dei fondi europei deve essere approvato
dall’Eurogruppo. Le condizioni imposte sono quindi il frutto di un negoziato
politico e non solo tecnico. Un negoziato intergovernativo, condotto in
posizione di estrema debolezza contrattuale, potrebbe costringere il Paese a
subire condizioni fortemente pregiudizievoli dell’interesse generale dei propri
cittadini” (Guido Tabellini, “La BCE cerca scudi politici”, Il Sole 24 Ore,
4 agosto). Perché, allora, questa clausola della “sorveglianza speciale”, oltretutto
aggiuntiva a quelle già decise (e approvate dai Parlamenti)? Se lo
chiede addirittura Eugenio Scalfari: “Ho grandissima stima ed anche affettuosa
amicizia per Mario Draghi ma non mi impedisce di porgli la domanda: perché
l’acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev’essere autorizzato” (La
Repubblica, 5 agosto). Secondo Tabellini, “La vera ragione di questa pistola
puntata alla tempia è che la BCE ha bisogno di una copertura politica. Senza
l’accordo e la sorveglianza dei governi europei, non vi sarebbe una maggioranza
abbastanza ampia nel Consiglio della BCE per approvare gli acquisti di titoli
di Stato sul mercato secondario. Prendiamone atto, nella consapevolezza che i
governi delle banche centrali europee sono tutt’altro che indipendenti dal
potere politico”. E questa sarebbe la “vittoria” di Mario Draghi contro Jens
Weidmann, il presidente della Bundesbank “isolato” a causa della sua
testardaggine? Sembra di sognare! Di fatto, ha vinto l’ordoliberismo tedesco,
ha vinto cioè la politica del rigore e della disciplina politico-statale funzionale
al rafforzamento dell’economia di mercato. “Se, come probabile, saremo
costretti a chiedere lo scudo ‘anti-spread’, la campagna elettorale sarà un
inutile esercizio retorico: la politica economica italiana dei prossimi anni
verrà comunque decisa a Francoforte”. “Le varie road map elettorali dei partiti
rischiano di scomparire prima ancora di essere imboccate… Il ‘che fare’ sarà
l’agenda dell’Europa per salvare l’euro e l’Italia è il test più importante. Le
alleanze politiche dovrebbero seguire: pro o contro l’euro è la prima linea di
demarcazione. Una comoda terza via non esiste, fermo restando che si può essere
euro-ottimisti ma non euro-stupidi, ed euro-scettici ma non populisti
all’ultimo stadio” (Guido Gentili, “I compiti a casa, strada obbligata”, Il
Sole 24 Ore
, 4 agosto). Goodbye Mr. Socialism.

Siamo ormai in un “nuovo feudalesimo” basato sullo “Stato di eccezione” di Karl
Schmitt, come scrive Guido Rossi, “che comporta la rigida soggezione economica
della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o
burocrati, poco importa” (Il Sole 24 Ore, 5 agosto)? Sembrerebbe di sì,
con la (ovvia) differenza che nel feudalesimo criticato da Montesquieu il
comando gerarchico era basato sulla confusione tra ricchezza terriera e
autorità, mentre oggi la ricchezza finanziaria rimanda al comando sul comune,
al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine
attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso.
Privatizzazione dei beni comuni, smantellamento del Welfare State, dismissione
del patrimonio pubblico, costrizione al debito (in Italia, negli ultimi mesi,
il debito privato delle famiglie pare sia aumentato del 33%), sono le forme del
comando neo-feudale sulla moltitudine attiva, sul comune. Da soli, i mercati

finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di
feudalizzazione del comune. Per questo c’è bisogno delle istituzioni statali,
del sistema dei partiti, delle modifiche della costituzione (vedi, ad esempio,
il pareggio di bilancio o le varie spending reviews). La questione della
rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta
di classe “oltre la rappresentanza”.

Questo significa “lottare contro l’euro”, e a nulla serve l’illusione
(social-democratica) che, salvando l’euro, si salva la possibilità di aprire
spazi di resistenza sovra-nazionali. Questo euro sta di fatto de-europeizzando
l’Europa, la sta frammentando, balcanizzando, riproponendo concretamente un
sovranismo nazional-bancario destinato a restringere sempre di più gli spazi di
socializzazione-europeizzazione delle lotte sociali.

I dati sulla riduzione, a partire dal 2007, dei prestiti bancari cross-border di
Germania e Francia sono a questo proposito significatvi: una riduzione dei
prestiti alle banche dei paesi periferici e semi-periferici pari a oltre il
25%. Si tratta di una vera e propria “financial fragmentation and
nationalization”, conseguenza della paura che una spaccatura dell’Euro porti
all’introduzione dei controlli sui movimenti di capitale e all’aumento della
pressione per erogare crediti a partire dai depositi interni ai paesi deboli.
Ne consegue che al Nord le banche possono far crediti a costi ridotti, mentre
al Sud si assiste alla drastica riduzione della capacità creditizia (vedi
“German banks sound retreat. Net lending to
weaker eurozone nations falls. French groups also cut cross-border exposure”, FT,
30 luglio).

Non c’è quindi spazio per velleità sovraniste, di ritorno alla sovranità nazionale
per rompere la camicia di forza della moneta unica. Di fatto, il sovranismo
bancario è già in atto e non ci sembra che stia contribuendo a migliorare la
situazione. Una situazione, oltretutto, in cui la frammentazione è concretamente
all’opera all’interno degli stessi Stati nazionali, come sta accadendo in
Spagna, ma anche in Italia, con la crisi della Catalonia, di Valencia, ecc. (“Europe’s Brutual Game Of Dominos”, BloombergBusinessweek,
5 agosto). E, soprattutto, in una fase in cui “The stream of migrants is
the most eye-catching part of a larger trend – people from recession-hit
countries in the southern eurozone moving northwards to seek work”  (Gerrit Wiesmann, “Greek swap sun and
austerity for jobs in rainy Germany”, FT, 2 agosto). La
questione dei migranti torna ad essere fondamentale nella definizione degli
spazi di lotta.

C’è solo spazio per la costruzione di una moneta (del) comune che sappia dare
espressione materiale alla lotta di classe trans-nazionale. Una lotta che parta
da precise e concrete “soggettività migranti”, da forme di riappropriazione del
comune, del sapere (“Maybe it is easier to be European if you’re well
educated”, dice un emigrato greco), che su queste basi sappia ricomporre un
“sapere monetario condiviso”, in cui la moneta sia veicolo di ricomposizione di
senso, di autonomia sociale, non certo di esclusiva appropriazione di lavoro e
di vita altrui.

La tenuta sociale, interna ai vari paesi della zona euro, è il problema centrale
dei prossimi mesi. La moneta unica, con le riforme economiche che comporta, non
può reggere se cresce un movimento di rivolta contro il sistema dei partiti
chiamato ad implementare i Memorandum della troika. Di questo sono perfettamente consapevoli anche i
tedeschi. Hans-Werner Sinn e Friedrich Sell prongono sulle colonne del Financial
Times
la loro soluzione a questo problema politico-sociale: “The idea is to
allow countries leaving the euro to adopt their own currency temporarily with
an option to return later” (“Our opt-in opt-out solution to the eurozone
crisis”, FT, 1 agosto). Sinn è l’economista tedesco più
influente, colui che da tempo critica (ferocemente) i paesi periferici per il
loro lassismo, sostenendo l’insostenibilità economica per la Germania
dell’attuale sistema monetario europeo. L’idea di permettere ai paesi del Sud
di uscire “temporaneamente” dall’euro per riconquistare la loro competitività
(via svalutazione della loro moneta) e, soprattutto, il loro consenso
politico-sociale interno, la dice lunga su quel che i tedeschi hanno in mente,
e da tempo: la spaccatura dell’eurozona, né più né meno. Esiste già un accordo
(European Exchange Rate Mechanism) che permette ai paesi in attesa di entrare
nell’euro, come la Danimarca, la Lettonia e la Lituania, di “esercitarsi” per
un paio di anni (infatti, l’ERM II da loro proposto ai paesi deboli già
nell’euro dovrebbe essere una specie di “training space”) prima di entrare a
far parte dell’eurozona. Insomma, quel che Sinn e Sell propongono è una
spaccatura dell’euro in due aree monetarie (se poi la Grecia, la Spagna o
l’Italia ritorneranno nell’euro, dipenderà dalla loro capacità di sfruttare la
leva della svalutazione entro un margine di +/- 15%). Gli esempi storici di uno
scenario del genere non mancano: la separazione dal dollaro del D-Mark nel
1969, l’uscita della sterlina dallo SME all’inizio degli anni ’90, l’Argentina
e la rottura della parità col dollaro nel 2002.

E’, a suo modo, un’opzione sovranista (Jacques Sapir è ancora più radicale, ma la
direzione sembra la stessa) ma declinata su due aree monetarie. Si noti che
anche Michel Aglietta, che sostiene l’opzione federalista, non vede affatto
male l’uscita della Grecia dall’euro (Zone Euro. Eclatement ou fédération,
Michalon: Parigi, 2012). Chi, come noi, parte dalle lotte, dai movimenti, dalle
soggettività, non può sottrarsi dall’esprimersi politicamente su questi
scenari. Da una parte, è evidente che l’Eruopa monetaria sta sgretolandosi a
causa delle sue contraddizioni interne (monetarie e istituzionali). Personalmente
continuo a credere che la spaccatura dell’euro sia l’esito più probabile. Non
lo auspico, semplicemente mi sembra che sia “nelle cose”. Vedremo. Dall’altra,
il passaggio dalla moneta unica attuale alla moneta (del) comune è l’orizzonte
dei movimenti sociali, che sono apolidi (per definizione storica) e che quindi
devono sottrarsi a qualsiasi ripiegamento sovranista. La moneta (del) comune
sarà l’esito di questa tensione. E’ un processo materiale, costitutivo, aperto.

COMUNICATO STAMPA COMITATO DI LOTTA POPOLARE SULLE RESTRIZIONI AI 12 NO TAV

Oggi, 31 luglio, agenti della digos di Torino si sono
presentati presso le abitazioni di 12 No Tav e presso il campeggio No Tav di
Chiomonte per notificare altrettante denunce per resistenza aggravata e lesioni,
e alcune misure cautelari. I fatti contestati sono quelli dell’8 dicembre 2011,
quando, nel giorno dell’anniversario della cacciata delle truppe del 2005,
migliaia di persone si recarono in Val Clarea per ribadire la contrarietà più
ferma alla presenza in valle delle truppe d’occupazione presenti dal 27 giugno,
e alle recinzioni che delimitano l’area in cui dovrebbero svolgersi i lavori
preliminari per il tunnel geognostico di Chiomonte.

Fu una giornata di lotta, di sfida alle mafie Sì Tav e al loro apparato
militare, cui le FFOO risposero con violenza estrema, lanciando gas lacrimogeni
al CS non appena tentammo di avvicinarci alle reti, non senza cercare il ferito
e magari il morto tra i manifestanti (in particolare puntando ripetutamente alla
testa dei No Tav le granate lacrimogene). Un compagno perse un occhio per questo
motivo, mentre Yuri, 16 anni, del Komitato Giovani No Tav, oscillò tra la vita e
la morte per 24 lunghissime ore, per poi ristabilirsi soltanto parzialmente dopo
mesi di cure. Ha infine completamente perso l’udito da una delle orecchie.

Questa repressione fu brutale e premeditata, dimostrando ancora una volta
che, quando interessi troppo grandi sono in ballo, la democrazia dell’austerity
non esita a mettere a rischio la vita delle persone, pur di procedere nei suoi
intenti. Proprio in quei giorni, d’altra parte, si insediava il governo Monti
che, per voce del ministro Passera, ribadiva il carattere prioritario e
irrinunciabile del Tav: non ci stupimmo, visto che i tecnocrati che ci governano
hanno il compito preciso di scaricare i costi della crisi su tutti noi, per
massimizzare ancora una volta i profitti di una cricca di parassiti capitalisti.
Di una simile visione della società, e di simili interessi, il Tav è uno dei
costituenti esemplari.

Oggi, ancora una volta, la magistratura torinese si schiera contro la Val di
Susa, imponendo restrizioni ai movimenti di 12 compagni colpevoli soltanto, come
tutti noi, di avere difeso la nostra terra. Per l’ennesima volta, e a sette mesi
dall’operazione coordinata da Caselli il 26 gennaio, si mostra di credere che le
denunce e i processi possano fermare un movimento popolare di massa, un
movimento resistente, che non arretrerà di un metro dopo questa operazione, come
non ha arretrato dopo le precedenti. Operazione tanto più grave perché assume
carattere persecutorio nei confronti di un compagno del Comitato di Lotta
Popolare, Giorgio, che soltanto ieri aveva visto gli arresti domiciliari
commutati in divieto di dimora in alcuni comuni della valle; da oggi gli si
impone l’obbligo di dimora a Bussoleno e quello di permanenza presso la propria
abitazione tra le 21 e le 7. Provocazione tanto più evidente perché un altro
indagato, Max, è stato “prelevato” nella notte al campeggio di Chiomonte per la
notifica di un obbligo di dimora mentre Luca, giovane del Comitato, è stato
prelevato a casa sua, caricato in macchina e portato in Questura a Torino.

Nulla di tutto questo fermerà il movimento o incrinerà la sua convinzione
nelle proprie ragioni. Nulla di tutto questo cambierà la nostra opinione sul Tav
e sulla necessità di una resistenza aperta contro di esso. Nulla di tutto questo
cambierà la storia di vergognose violenze di polizia che ha contraddistinto la
giornata dell’8 dicembre 2011. Nessuna denuncia e nessun processo intaccherà la
fermezza del movimento nella lotta: ci vorranno tempo e sacrifici, ma infine una
per una le recinzioni del cantiere verranno giù.

Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno

Le carceri scoppiano!

Sono oltre 67.000 le persone rinchiuse nelle carceri del nostro Paese
in strutture che ne potrebbero contenere al massimo 42.000.

Il maggior sovraffollamento degli ultimi 60 anni. Un record.

Le condizioni di detenzione sono inaccettabili: mancanza di acqua e di igiene, di spazi per attività sportive o semplicemente per muoversi, docce
insufficienti, vitto immangiabile, assistenza sanitaria nulla ecc.
Amnesty International le definisce“trattamenti inumani e degradanti” e
“tortura”. Per questi “trattamenti” lo Stato italiano è stato
condannato più volte dalla Corte europea di Strasburgo.

 

Nel 2008 il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha sottoposto il nostro Paese
alla Universal Periodical Review, una procedura di revisione periodica
riguardante i diritti umani. Sull’Italia sono state emanate ben 92
raccomandazioni. Eppure si continua a torturare: alla Diaz, come a
Bolzaneto e in piazza a Genova nel luglio 2001. Non si tratta di
episodi isolati e straordinari: ma di pratiche ordinarie dello Stato,
delle classi dirigenti e delle istituzioni.

Qual è il motivo di questa “grande carcerazione” cosi come definita
dagli esperti? In questi ultimi decenni i reati gravi contro le
persone sono in diminuzione, e allora? La risposta è che in un momento
in cui l’Europa sta vivendo una delle più grosse crisi economiche, il
sistema capitalistico risponde con la repressione e la carcerazione
coatta per soffocare la nascita del conflitto sociale dove ogni
violazione dell’ordine pubblico deve essere sanzionata. In sostanza il
peso di questa crisi è scaricato sulle spalle, già massacrate, dei più
poveri, di chi lavora in modo precario, di chi non trova lavoro, di
chi con il magro salario non arriva alla terza settimana del mese. Le
carceri italiane non sono piene di potenti corrotti o inquisiti
eccellenti, ma di autori di piccole trasgressioni: oltre 25.000 sono
condannati a pene inferiori ai 3 anni (e per le leggi italiane
dovrebbero trascorrere la sanzione in “misura alternativa” non in
carcere). Negli ultimi decenni sono state create leggi liberticide
come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la ex Cirielli sulla recidiva,
che sostenute dalle campagne forcaiole della stampa nostrana hanno
alimentato un clima che rende sempre più difficile l’accesso alle
misure alternative. E’ con questa stessa repressione che per una
manifestazione si rischiano fino a 15 anni di carcere; ogni
mobilitazione, ogni lotta subisce l’aggressione delle forze
dell’ordine e la condanna della magistratura giunge puntuale con pene
altissime. In questo paese la cosiddetta “legalità” considera più
grave una manifestazione collettiva per un bisogno negato (lavoro,
casa, sanità, ecc.), piuttosto che l’azione criminale di chi devasta
l’ambiente, saccheggia
le nostre vite e riduce alla fame e/o uccide.

Le detenute e i detenuti si ribellano, a questo massacro non ci stanno!

Sono decine e decine le carceri in lotta.
Dal sud al nord Italia la protesta si espande: scioperi della fame o
del vitto, battiture delle sbarre e sciopero delle lavorazioni. I
detenuti e le detenute chiedono Amnistia, Indulto, accesso rapido alle
misure alternative, di uscire dal carcere, di mettere fine a quel
sovraffollamento spaventoso che rende, la già dura condizione di chi è
privato della libertà, del tutto inaccettabile e invivibile.

Siamo al fianco di chi lotta in carcere e vogliamo fare nostri gli
obiettivi di lotta della popolazione detenuta
Sosteniamo e diffondiamo in tutta la città la loro lotta!

Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare a un presidio giovedì
2 agosto davanti al Ministero di Giustizia in via Arenula a partire
dalle ore 17.00

LIBERE TUTTE LIBERI TUTTI

compagne e compagni contro il carcere

Sgombero del campeggio? I notav rilanciano con la marcia di sabato

In prefettura si è tenuta la riunione del comitato regionale per la sicurezza, nella quale il presidente della Provincia Antonio Saitta chiede lo sgombero del campeggio notav, definito dallo stesso Saitta “un campo militare”. È da qualche giorno che politici, sindacati di polizia, digos, giornalisti utilizzano vocaboli senza senso, lontani dalla realtà, usati solo per fare “scoop”, per non dover ammettere che in val susa c’è una resistenza popolare in atto, che risponde all’arroganza del potere, che si dice democratico ma che non ascolta una valle intera che si oppone contro una scellerata opera, Ovviamente Saitta non poteva esimersi dal non citare, nel suo intervento, la retorica della legalità tanto cara ai politici come ai magistrati, sapendo però bene che proprio il cantiere è illegale perché installato senza nessun progetto di lavori esecutivi. Allo stesso modo si comporta il siulp, sindacato di polizia, che chiede al ministro dell’interno l’intervento dell’esercito, sapendo bene che il cantiere illegale di Chiomonte è già sito strategico di interesse nazionale e che le forze militari, con reparti speciali stanziano da mesi al suo interno. La val di susa è già militarizzata e si è potuto appurare nuovamente a Bussoleno la notte scorsa durante il presidio notav- nonuk contro il passaggio del treno radioattivo. Quindi il siulp forse vuol lasciare intendere che di fronte ad una opposizione popolare ci vogliono i carri armati e fucili spianati? Alla richiesta di sgombero chiesta dai soliti Cota ed Esposito, quindi si aggiunge a gran voce Saitta al quale proprio non va giù sapere che a Chiomonte c’è un campeggio popolare, autogestito, dove si fanno dibattiti, incontri, spettacoli, dove si mangia bene e si sta tutti insieme, uniti dalla lotta contro il tav. Nessun campo militare, nessun sentiero ad ostacoli sul quale allenarsi alle pratiche di guerriglia, nessuna gerarchia militare. Nel campeggio notav ci sono donne e uomini, giovani e giovanissimi che non hanno bisogno di campi militare per sapere come si difende il proprio territorio, come circondare un cantiere che nessuno vuole e che tutti insieme si decide di smontare, riuscendoci anche molto bene… Questa è la val susa, questo è il movimento notav, che decide quando, dove e come fare le iniziative. Guarda la conferenza stampa di presentazione alla marcia popolare notav di sabato 28 luglio nella quale il Movimento invitata tutti a parteciparvi.

www.notav.info

www.infoaut.org

 

Alcune questioni sullo stato dei movimenti di Toni Negri

da www.uninomade.org

Alcuni compagni americani ed europei mi chiedono: ma perché in Italia non c’è stata Occupy? Perché l’unica espressione della moltitudine in lotta rimane attualmente il movimento della Val di Susa? Con un paradosso evidente: i no TAV, se hanno certamente radicamento forte, se esprimono una tonalità originale di lotta di classe nella post-modernità, non possiedono le caratteristiche dei movimenti Occupy – un’espansività generale della proposta sociale, una potenza destituente delle vecchie gerarchie  della rappresentanza – e soprattutto non possiedono ancora realmente una dinamica allargata di costituzione politica “comune” che apra a radicali rivolgimenti politici…

 

Ora il paradosso è anche un altro. Perché porsi questa domanda proprio quando  la dinamica di Occupy sembra già esaurita? Più generalmente: quando le primavere arabe sono in buona parte terminate sotto il tallone dei militari, nella tragedia della guerra civile o, dulcis in fundo, hanno prodotto regimi islamici che sembrano annunciare restringimenti di libertà e di pratiche politiche appena riscoperte, restaurazioni del vecchio sotto gli orpelli, semmai più tremendi di quelli delle vecchie dittature, del teologico-politico? Quando i movimenti europei sono stati soffocati dalla mefitica atmosfera della crisi economica, e quelli americani sono li lì dall’essere assorbiti dalle macchine politiche che dominano ormai interamente le scadenze elettorali?

 

Ma forse la realtà può essere letta altrimenti. Il movimento Occupy, laddove è insorto, quand’anche fosse stato sconfitto, ha rinnovato l’orizzonte dell’azione politica, sconvolgendo il fondamento dei programmi costituzionali e imponendo una nuova immagine della democrazia, affermando il “comune” al centro – nel cuore, e all’orizzonte – di ogni progetto sociale. Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi: ha segnato un passaggio senza reversibilità alcuna; ha, fin dentro la sua sconfitta, spalancato un insieme di possibili che ridefinisce d’ora in poi il mondo che verrà. In questo senso, ha vinto: ha costituito nuova grammatica politica del comune. Da Occupy non si torna in dietro.

 

Torniamo allora al punto. Perché dunque in Italia non c’è stata Occupy? La questione è irrilevante dal punto di vista della tendenza; è invece importante se vogliamo capire localmente l’agenda politica che avremo da gestire nei prossimi mesi – un’agenda i cui effetti immediati, concreti, biopolitici, riscontrabili nella materialità delle esistenze, dei modi di vita, dei sogni e delle disperazioni, non possono – non debbono – essere ignorati.

In Italia, probabilmente, non c’è stata Occupy perché, in buona parte, i movimenti italiani non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco: questa loro continuità, ed il peso della loro tradizione, soffoca il nuovo regime dei desideri, delle aspirazioni, delle sperimentazioni – insomma di quello che abbiamo chiamato le nuove potenze costituenti del comune – che pure le nuove generazioni portano con se quando si aprono al politico. Quella continuità ha fatto dell’Italia un paese in cui la politica dei movimenti, nonostante le repressioni feroci, è sopravvissuta a se stessa e ha permesso la trasmissione di esperienze e saperi delle lotte essenziali; ma allo stesso tempo, ha paradossalmente impedito che nuove sperimentazioni si facessero strada. Il patrimonio delle lotte, cosi prezioso, non può diventare patrimoniale: se cede alla tentazione, diventa a sua volta ciò di cui tanto aveva sofferto in altri tempi: istanza di occultamento, obbligo di silenzio, volontà di cecità.

 

Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali.

Ora, però, nelle fabbriche sono spesso schiacciati da una improvvida alleanza che essi stessi hanno tentato con l’organizzazione socialista del mondo del lavoro. Solo raramente l’ideologia della produttività è stata assunta nelle fabbriche come il nemico da combattere; quando lo è stata, ce ne siamo scordati. La trasformazione del lavoro a cavallo fra XX e XXI secolo non è stata riflettuta per quello che effettivamente è (e che i movimenti, precisamente, trent’anni fa, hanno contribuito a rendere evidente): una trasformazione radicale – dall’operaio massa all’operaio sociale; dal lavoro materiale al lavoro “immateriale”, linguistico, cooperativo, affettivo; fino all’egemonia del lavoratore cognitivo. Sindacati socialisti e sindacatini fabbrichisti hanno troppo spesso continuato a considerare il lavoro “bene comune”, cioè niente di più – e niente di meno – che la “giusta misura” dello sfruttamento capitalista.

 

Nelle scuole e nelle università, poi, l’autonomia dei movimenti, anche quando ha contestato il “merito” – e troppo poche volte lo ha fatto in maniera realmente efficace e schietta  –  non è quasi mai riuscita a incarnare, materializzare e organizzare una vera domanda di libertà dei saperi. Raramente ha provato a costruire lotte attorno allo studio, alla formazione, alla qualificazione in quanto programmi di costruzione politica del comune. E spesso si è arenata nella strenua difesa di un “pubblico” ormai incapace di proteggere le scuole e l’università contro il loro smantellamento, e diventato strumento principe della messa al lavoro della produzione sociale. Il riformismo non è mai cosa bella – in alcuni casi, facendosi coraggio, lo si capisce quando, disperatamente, cerca di salvare il salvabile; ma lo si odia quando si fa complice delle politiche del peggio: assoggettamento, declassamento, disciplinarizzazione, sfruttamento, disprezzo – il tutto per salvare uno Stato che sembra poco preoccupato di salvare i suoi “cittadini”.

 

Quanto al modello dei centri sociali, che è stato fondamentale – in particolare nella fase post-repressione che ha caratterizzato il difficile guado dala fine degli anni ’70 ai primi anni dei ’90, ha troppo spesso perso ogni prospettiva politica che non fosse subordinata all’interesse della propria riproduzione, della propria sopravvivenza. I centri sociali sono stati, per la maggiore, luoghi, strumenti, prodotti di una stagione di lotte continuata con altri mezzi nonostante la sconfitta degli anni ’70; ma sono diventati, in tanti casi, il fine di se stessi – l’unico orizzonte di una realtà ormai ridotta al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo. Molti si sono dunque piegati alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica. Hanno smarrito ogni capacità di azione e non a caso stanno spesso, negli ultimi anni, ripiegando su linee istituzionali a livello locale e/o nazionale. Certo, localmente, l’analisi può sembrare ingiusta. In molti casi, lo è. Ma la domanda va posta lo stesso: siamo sicuri che il modello “slow food” sia davvero adeguato alle scommesse e alle sfide davanti alle quali la crisi ci mette? O che l’imprenditorialità “buona” basti a dimenticare il gioco al massacro che si sta svolgendo subito fuori dalle mura, nelle nostre vite?

 

Insomma: tre luoghi “storici” dell’autonomia sociale, che hanno reso possibile la resistenza e l’organizzazione, la sperimentazione di pratiche, l’invenzione di altri modi d’azione; ma tre luoghi che, proprio perché “storici”, sembrano oggi sempre più inadeguati. Tre luoghi che troppo frequentemente sembrano pezzi di modernariato della nostra memoria, ricchezze patrimoniali un po’ imbalsamate: foglie di fico ben leggere davanti all’incedere della realtà. Tre luoghi che sono diventati tre “beni comuni” come sempre lo sono stati nelle parrocchie, il lavoro, lo studio e il patronato – laddove bene comune significa solo bene vicino, locale, bene di condivisione, bene da condividere in famiglia. Il comune, se non è il prodotto di una dinamica costituente, si riduce a ciò: una serie di commons sicuri di suscitare consenso popolare – come non essere d’accordo con la difesa della natura, il buon vivere, la genuinità, il buon gusto -, e spesso immediatamente travisati da discorsi di elogio dell’Ancien Régime: quanto si stava bene prima – prima dell’Europa, prima delle macchine, prima della tecnica, prima della modernità, prima della globalizzazione, prima dell’operaio sociale, prima del consumo di massa. Evviva: torniamo a Peppone e don Camillo, alla dignità del lavoro operaio, all’Italia che vive di poco e lavora tanto, alle balere. Per carità, lasciamo alla Chiesa e alla Lega, o a quel che rimane del vecchio PCI che non finisce di sopravvivere alla propria morte, quella assurda e mortifera nostalgia.

 

Non contenti di questo, molti movimenti sociali si sono infilati in una strada contorta e buia, accettando i ricatti loro posti sulla questione della “violenza”, sulla valutazione della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni, sono stati colpiti di accecamento davanti alla corruzione che le infestava. Che ci volesse l’ultima sentenza su Genova per capire da quale parte stava la violenza? E quale giochetto infame avevano fatto e continuavano a fare tutti coloro che, di fronte ad un movimento in crescita (che andava di pari passo con crescita del disagio, della disperazione e della rabbia di tutti quelli che oggi, letteralmente, non ce la fanno più) ricattavano ad ogni motto “riottoso” – “violenza si, violenza no”?

Molti, nei centri sociali, hanno cercato alleanze politiche dentro un quadro parlamentare che andava disfacendosi ed hanno stretto alleanze sindacali che hanno avuto l’effetto opposto a quello che era realmente desiderato: hanno spinto i sindacati ancor più verso posizioni corporative, negando ogni tematica di reddito sociale o di alleanza con altri strati precari. In certi casi, hanno perfino considerato le rivolte arabe, i riots inglesi, e alcune forme di auto-organizzazione come passaggi negativi, come regressioni politiche, come pure “spontaneità” infra- o impolitiche.  Siamo sicuri che provare a capire prima di giudicare non ne valeva la pena? O si era talmente ossessionati dalla propria sopravvivenza che tutto il resto diventava secondario?

Fino agli ultimi  capovolgimenti in data: sentiamo tanti, oggi, piagnucolare sul fatto di non aver ragionato abbastanza sul ricatto “a proposito di violenza” che hanno subito; si lamentano del fatto  che la loro presunta internità alle dinamiche sociali non è riuscita a trasformarsi in una estraneità attenta e critica agli sgambetti ed alle inerzie continuamente subite – sicché ora si chiedono se doversi richiamare niente di meno che all’“illegalità di massa”…. Ci sembra solo un lamento, come l’altro che abbiamo inteso in questi mesi, e che ci lascia – anche questo – a non dir poco esterrefatti: Dio è violent!

 

Per chi ha vissuto tutto questo dall’interno dei movimenti, questa fase assomiglia molto a quella che seguì il disfacimento dei gruppi sessantotteschi nei primi anni ’70. Come per i centri sociali provenienti dal movimento no global, anche allora, nel 1973-74, i partitini sopravvivevano a se stessi. Alcuni, presentatisi alle elezioni, erano stati spazzati via, altri si erano barricati attorno a giornali ed iniziative sparse. Il mondo, quello delle lotte operaie e delle lotte sociali, andava ormai avanti senza di loro. Fu così che, a partire dal ‘73-‘74 l’autonomia emerse e mostrò improvvisamente la sua enorme forza di resistenza e di proposta (di resistenza: vale a dire di proposta) – almeno fino al ’77. Poi, ancora, sopravvisse come etica e come modello organizzativo alla sconfitta dei movimenti, e torniamo all’inizio della nostra analisi.

 

Oggi si tratta di rinnovare quel modello. I suo limiti di allora – troppa spontaneità dei singoli, troppa violenza di massa – sembrano già superati dalle attuali caratteristiche della composizione dei nuovi movimenti – spazialmente diffusi, culturalmente convergenti (non a caso è sul terreno dei lavoratori della cultura che in Italia c’è stato, da ultimo, qualche positivo fracasso), politicamente rivolti alla costituzione del “comune”. Questo è quello che vogliamo chiamare Occupy.

 

C’è bisogno di un nuovo protagonismo. Proponendo l’autonomia diffusa dei movimenti, sappiamo che la ricerca di nuovi obiettivi e la sperimentazione unitaria di nuove lotte sono il primo passaggio da realizzare. Lo “sciopero dei precari”, il “reddito di cittadinanza”, la riapertura urgente di forti lotte operaie sul salario, la pratica di risposte efficaci all’offensiva del capitalismo finanziario sul debito, la difesa sociale del Welfare ecc.: questi i passaggi principali sui quali la conricerca e la proposta di lotte unitarie debbono provarsi. Organizzare i poveri e gli operai insieme, non semplicemente per il salario ma per il Welfare; organizzare gli studenti e gli indebitati di tutte le categorie, non semplicemente per misure di sostegno ma per il reddito universale di cittadinanza; organizzare i migranti insieme ai pensionati perché non è solo la cittadinanza che interessa i primi  e la garanzia di diritti ormai maturati i secondi, ma l’organizzazione biopolitica dell’esistenza tutt’intera.

 

L’autonomia dei movimenti deve riportare le sue lotte verso un obiettivo politico di composizione. Ed esso non può consistere se non nell’espressione di un potere costituente che rinnovi radicalmente l’organizzazione della vita nel lavoro e nella società.

 

Toni Negri

 

19 luglio 2012

 

 

Processo Notav: resoconto della quinta udienza preliminare

Da www.infoaut.org

Oggi venerdì 13 luglio si è svolta la quinta udienza preliminare del procedimento penale che vede imputati i 46 NO TAV per i fatti del 27 giugno e del 3 luglio avvenuti in Val Susa.

In aula hanno preso parola gli ultimi avvocati della difesa per discutere le posizione dei loro assistiti. Essi hanno fatto notare, con le dovute specificità individuali, come la riproduzione fotografica fornita dalla digos torinese ritraggano immagini statiche solo ed esclusivamente del soggetto sottoposto al presunto reato, decontestualizzate dal resto, con uno spazio temporale fra una foto e l’ altra di diverse ore. Nell’intenzione dell’accusa questo potrebbe far presupporre che l’imputato abbia perpetuato per diverse ore il reato contestatogli. Le foto che ritraggono quel singolo momento, in quella singola situazione fisica e temporale, non vengono interpretate come un momento unico, ma come una continuazione dell’azione nell’arco di un lungo tempo.

Ovviamente questa posizione dell’accusa viene contestata dalla difesa che ritiene invece quel momento un momento unico, specifico. In più ciò che manca assolutamente è la ricostruzione del comportamento di un altro importante attore in campo oltre i manifestanti, cioè quello delle forze dell’ordine che avrebbero, ad esempio, iniziato il lancio di lacrimogeni prima del lancio di sassi.

Alla fine della discussione degli avvocati difensori, i pm hanno fornito nuovi atti probatori, in riferimento al materiale sequestrato dalla digos durante le perquisizioni dei mesi precedenti, riconducibili ai soggetti interessati. Questa operazione viene immediatamente contestata dalla difesa, per difetto di procedura, poiché tutto il materiale probatorio deve essere consegnato prima della discussione in aula dell’udienza preliminare. Il gup Edmondo Pio, di fronte a tale obiezione, non ha potuto far altro che appoggiare la richiesta della difesa, rigettando il nuovo materiale fornito dai pm.
Terminata l’udienza preliminare gli imputati hanno voluto leggere un documento scritto e redatto collettivamente dai 46 imputati, di cui riportiamo il testo:

Noi, imputati Notav inquisiti in questo procedimento protestiamo contro la permanenza di misure cautelari che vedono tre di noi comparire ancora in stato di detenzione carceraria durante le udienze preliminari.

Ad un anno di distanza dai fatti contestati, dopo sei mesi dall’arresto, riteniamo un accanimento punitivo il mantenimento di queste misure nei confronti di tre imputati che, per posizione personale e per reati contestati, non sono diversi dagli altri a piede libero.

La loro permanenza in carcere riveste solo una funzione di immagine a fini puramente mediatici per rafforzare le tesi della procura torinese.

Lo stesso discorso vale anche per gli altri tre imputati ancora agli arresti domiciliari.

Noi tutti siamo parte di un grande movimento collettivo che si batte contro un’opera inutile, devastante e nociva per un intero territorio e la comunità che lo abita.
 

Si parte e si torna insieme!

org

Roma non si vende!

 

La sentenza del Consiglio di Stato che ha bloccato la discussione in aula sulla vendita di ACEA è un risultato che si inserisce in un percorso lungo tre mesi, in cui abbiamo aperto un percorso pubblico nella città e bloccato e rallentato la discussione, con molta determinazione, fatica ma anche allegria.

Per questo è una vittoria che consideriamo di tutti/e noi, e ci fa gioire, nonostante oggi ci sia stato un brutto episodio in cui l’occupazione simbolica, che abbiamo contribuito a costurire, sia stata sgomberata.
Va detto, per onor della cronaca, che era un’iniziativa pacifica a cui si è risposto con un’ottusa prova di forza, tanto più che avveniva mentre arrivava la notizia dal Consiglio di Stato.

E’ chiaro però che la battaglia è ancora lunga e difficile, soprattutto per ottenere finalmente la ripubblicizzazione del servizio idrico ed iniziare così ad invertire la rotta.

Questo il comunicato di “Roma non si vende:

Per questo è importante fare in modo che l’assemblea di Mercoledì prossimo (il 18 alle 18 al Rialto) sia partecipata, perchè c’è bisogno dell’intelligenza, della forza e dell’entusiasmo di tutti/e noi per disegnare le prossime traiettorie del movimento.

Una prima vittoria contro la vendita di ACEA
Oggi attiviste e attivisti, cittadini e cittadine della rete “Roma non si vende” sono tornati per l’ennesima volta sotto al Campidoglio per dimostrare la loro contarietà alla delibera 32 voluta dalla Giunta Alemanno che mette in vendita il 21% di ACEA.

Dopo giorni in cui la maggioroanza ha ripetutamento messo in pratica forzature in Consiglio comunale, dopo aver calpestato la volontà popolare espressa con il referendum dell’anno scorso e aver impedito ai cittadini di entrare a seguire la discussione pubblica, abbiamo deciso di occupare simbolicamente l’entrata del Campidoglio.

La reazione è stata assolutamente in linea con quella delle ultime settimane e, dopo averci ignorato per due ore, hanno deciso di sgomberare con la forza un presidio assolutamente pacifico.

Ma la lotta di questi mesi iniziata con la grande manifestazione del 5 maggio ha prodotto i suoi risultati. Infatti, la notizia di oggi è che il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso fatto su tutte le forzature fatte dalla Giunta Alemanno e sospende la discussione sulla delibera 32.
Questa di oggi rappresenta, in primis, una vittoria della mobilitazione messa in campo da “Roma non si vende” da tre mesi a questa parte e sicuramente un duro colpo per la maggioranza.

L’acqua non si vende, l’acqua di difende!
Roma non si vende

Noi senza lavoro voi senza vergogna – assemblea dei precari sotto la regione Lazio

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Giovedì 12 Luglio presidio-assemblea dalle ore 11.

Il consiglio regionale ha approvato il 28 giugno l’assestamento di bilancio confermando una manovra recessiva e non adeguata al contesto di sofferenza che stanno attraversando migliaia di soggetti: dall’emergenza abitativa e ambientale, alla precarietà, alla generale crisi occupazionale e allo specifico ed elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile. In questo contesto la Polverini conferma le politiche anti-sociali portate avanti dalla propria giunta con un provvedimento di assestamento del bilancio annuale e pluriennale 2012-2014 che vale 1,5 miliardi di euro. L’emorragia di posti di lavoro sta colpendo decine di migliaia di lavoratori che, se non già precari, vengono precarizzati dall’imposizione autoritaria di nuove condizioni di lavoro, generando una rincorsa al ribasso nella deprivazione di ogni diritto, sia nel comparto privato che in quello pubblico. Per questi motivi il 19 giugno con uno striscione che recitava “Il vostro sviluppo la nostra disoccupazione, noi senza lavoro voi senza vergogna” la rete dei precari indipendenti per la P.A. e i punti san precario hanno interrotto il convegno su etica e reti di impresa presso la sede della camera di commercio di Roma organizzato da Sviluppo Lazio con la presenza della presidente regionale Polverini. Il motivo della contestazione era la mancata stabilizzazione contrattuale per i precari a tempo determinato, ultimi di una serie di licenziamenti bianchi (mancati rinnovi) che ha coinvolto tutte le categorie contrattuali più deboli, dalle finte partite iva ai co.pro. ai tempi determinati. Sviluppo Lazio è un agenzia tecnica regionale per gli investimenti, la cui maggioranza delle azioni è della Regione Lazio. Come atto di rappresaglia, dopo il convegno, ha ‘esonerato’ quei lavoratori interni individuati come contestatori dall’attività lavorativa fino a scadenza di contratto. Atto, che riteniamo gravissimo, che è oggetto in questi
giorni di interpellanze regionali e parlamentari. Le condizioni di vita e di lavoro che vivono i precari di Sviluppo Lazio sulla propria pelle sono purtroppo comuni alle centinaia di migliaia di lavoratori che vivono in questa regione, dai precari delle agenzie tecniche della P.A. e degli enti di ricerca pubblici come l’Isfol, ai lavoratori dell’Ex Alitalia, dell’Argol, dellaTecnoindex, della Sigma Tau, dell’Ex Agile Eutelia, della Format, della Lighting Italia, della Teleperformance e di tantissime altre realtà lavorative, alle quali una gestione scellerata della crisi ha imposto senza margini di contrattazione un pesante tributo sacrificale di posti di lavoro. I lavoratori non solo hanno dovuto subire la perdita dell’occupazione, a cui negli anni avevano dedicato energie competenze e aspettative, ma anche la beffa di essere considerati costi insostenibili dentro un processo di ristrutturazione aziendale che colpisce oramai senza alcuna differenza sia il pubblico che il privato. Infatti nel caso dei precari di Sviluppo Lazio si è assistito ad una sorta di “spending review” regionale, che in modo del tutto arbitrario chiude gli occhi sugli stipendi di manager e consulenti, spesso con doppi e tripli incarichi, o sulle decine di milioni di euro di fondi strutturali europei persi per l’incapacità di assegnarli e spenderli adeguatamente. Mai come in questo periodo, nella nostra regione, tale situazione
mostra tutta la sua grottesca paradossalità: fondi che dovevano e potevano essere investiti in politiche
sociali, in politiche attive per il lavoro e a beneficio di tutti i soggetti che stanno pagando il costo della crisi e dell’austerity, vengono perduti per incapacità tecnica e politica. Evidentemente sostenere i soggetti in condizione di fragilita’ economica e sociale non e’ una priorità della Polverini, troppo impegnata invece a
finanziare provvedimenti di sostegno al credito delle imprese. Infatti, la giunta, all’inizio del suo mandato nel 2010 ha subito bloccato e de-finanziato la legge regionale per il reddito minimo garantito, ottenuta nel 2009 grazie alle importanti battaglie dei movimenti sociali. Tale dispositivo redistributivo aveva fatto
emergere 130 mila soggetti precari, disoccupati e inoccupati invisibili e senza strumenti di protezione sociale. Il contesto di crisi occupazionale sta diventando drammatico visto l’elevatissimo numero (circa 60 mila) di cassintegrati nella regione, che si unisce alle condizioni di estrema vulnerabilità in cui versano ampie fasce di popolazione. In questa condizione soltanto attraverso una larga coalizione sociale è possibile cambiare le politiche della Giunta regionale. Riteniamo necessario lanciare un presidio-assemblea per giovedì 12 luglio davanti alla Giunta regionale, via Cristoforo Colombo 212- dalle ore 11.00.
Una giornata di mobilitazione perché i precari di Sviluppo Lazio vengano reintegrati, per esprimere indignazione verso le politiche scellerate della giunta Polverini e per costruire un percorso di attivazione unitario contro la crisi, l’austerity e le politiche di precarizzazione.

Prime adesioni: Precari indipendenti per la p.a, Punti San Precario Roma, Comitato cassintegrati Alitalia “Overbooked”, Coordinamento lavoratori autoconvocati, Cub Trasporti, USB, USB-Isfol, Atdal Ass. Over 40

Intervista ad Hanno Balz, professore di Storia contemporanea presso la Leuphana Universität Lüneburg (Germania)

Nel tuo lavoro sui movimenti sociali e culturali negli anni 80 ti concentri sulla diffusione di prospettive individualiste. Come si concilia questa tendenza con il cambiamento dei modelli di produzione, la frammentazione della classe operaia e la progressiva soppressione dei sistemi di welfare?

Prima di tutto dobbiamo distinguere: il più grande arretramento del regime neoliberale ha avuto luogo nel Regno Unito della Tatcher e nell’america di Reagan. In Germania, per esempio, il sistema di sicurezza sociale è rimasto relativamente intatto durante gli anni ’80, – qui l’agenda neoliberale è riuscita ad imporsi negli anni ’90. La ragione per questo è che, ad un meta-livello, la competizione tra Germania Est e Ovest imponeva al governo di Kohl di difendere un certo standard di sistema di welfare sociale e una classe relativamente privilegiata di lavoratori qualificati con lavori sicuri.

La diffusione della nozione di un primato dell’individuo dai tardi anni ’70 in poi ha espresso una cultura del soggetto post-moderno e certamente è stato un prodotto dei cambiamenti della società durante la crisi degli anni ’70. Non solo la Sinistra si è concentrata sempre di più sul personale ma anche la reazione politica che avrebbe trionfato alla soglia degli anni ’80 ci si riferiva sempre di più.

Margaret Thatcher, per esempio, ha ripetutamente asserito il primato dell’individuo e nella sua campagna, come fece Reagan subito dopo, ha usato un vocabolario che deve essere suonato familiare ai membri delle sub-culture: ora, autorealizzazione, libertà, fantasia e soprattutto avventura e rischio erano i concetti chiave della loro versione di un capitalismo indomito che divenne noto come neoliberismo.

La Tatcher espresse il credo della sua politica nel 1987: “Penso che abbiamo attraversato un periodo in cui troppe persone hanno creduto che se loro hanno un problema, è compito del governo risolverlo. ‘Ho un problema, prenderò un sussidio’, ‘Sono senza casa, il governo me ne deve dare una’. Loro stanno spostando il loro problema sulla società. E la società non esiste. Ci sono uomini e donne individuali, e ci sono le famiglie. E nessun governo può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono prima guardare se stesse

La parola chiave qui è “auto-determinazione”. Come un’ideologia post-materialista è stata adottata per la flessibilizzazione dell’accumulazione capitalista è stato mostrato dai lavori di Boltanksi e Chiapello, soprattutto nel loro libro: “Il nuovo spirito del capitalismo”. Questa flessibilizzazione nel luogo di lavoro (gruppi, gerarchie livellate, outsourcing) consisteva in una maggiore insicurezza e, in ultimo, a un maggiore sfruttamento del lavoro umano, mentre prometteva maggiore autonomia e autodeterminazione. Questo è ciò che Michel Foucault esaminò nei suoi lavori sulla governamentalità e chiamò “Tecnologie del sé”. Alla fine ci si sente meglio ad essere responsabili per il proprio sfruttamento che sentire la frusta del padrone sulla schiena. Questo è il capitalismo 2.0.

Il fascino verso la responsabilità individuale da allora è accompagnato da politiche di crescente pressione sociale nella forma di un sistema di welfare mutilato, alti tassi di disoccupazione, maggiore carico di lavoro. Non sorprende che in questo periodo la discussione su una “società del rischio” (Ulrich Beck), rispetto ai rischi individuali (sociali) che dovevi accettare, ha guadagnato importanza.

Certamente il collasso del socialismo Est-europeo si è aggiunto al processo che è evoluto attraverso gli anni ’80 ma è giunto a pieno compimento solo quando un tipo differente di società è scomparso dalle cartine geografiche.

Guardando al 2001 (G8 di Genova, la repressione brutale e l’inizio della politica della guerra al terrore), è possibile considerare questo evento come una sorta di pietra miliare per i movimenti sociali? In che maniera ha determinato una qualche sorta di discontinuità per la cultura politica autonoma dei due decenni precedenti?

Tra la “Battaglia di Seattle” 1999 e le dimostrazioni anti-G8 a Genova la sinistra transnazionale sembrava essere forte e crescente. Ma è ovvio che dopo il 2001 c’è stato un certo declino nelle capacità di mobilitazione di una sinistra radicale. Penso, che questo non ha necessariamente a che fare con la repressione, ma con il fatto che con la guerra in Iraq è sorto un grande movimento per la pace di carattere liberale. Come si può osservare in altri tempi, un movimento così vasto ha spesso l’effetto di emarginare le voci e i movimenti più radicali. Questo, ad esempio, è stato il caso durante il grande movimento per la pace nei primi anni ’80 in cui il movimento autonomo inizialmente è stato una parte importante ma poi è stato messo da parte dal movimento tradizionale tramite la negazione di solidarietà.

Inoltre ci sono stati cambiamenti interni nei movimenti, essendo spesso autocritici verso la scena e la sua storia, per esempio quando si tratta di relazioni di genere e di attitudini chauviniste. Forse in questo troviamo anche un cambio generazionale nei movimenti, con il vecchio attivista che lascia le nuove modalità della politica alle spalle.

La recente crisi economica è stata accompagnata da un’esplosione di dissenso in tutto il mondo: sembra che la scelta della “sottrazione” (“drop out”) stia venendo sostituita da rivendicazioni collettive di carattere sociale e politico. Che opinione ti sei fatto?

Tutto sommato, oggi sembra essere più duro “sottrarsi”, perchè il sistema di welfare, come “rete di salvataggio”, non è lo stesso degli anni ’80 e’ 70 per molte parti d’Europa. D’altra parte, il concetto di sottrazione si è trasformato se guardiamo alla scena techno (specialmente a Berlino).

Le droghe sono cambiate, ma c’è sempre una tendenza alla rinuncia in questa scena. Se parli con gli attivisti più anziani, spesso esprimono l’incapacità di comprendere la voglia che hanno le giovani generazioni di studiare, tendere ad una carriera accademica o cose simili.

In generale, una attitudine anti-sistemica degli attivisti è più difficile da trovare rispetto a 20 o 30 anni fa. Ciò è evidente se guardi alla generale ricerca di consenso del movimento “blockupy”, ad esempio, che potrebbe essere all’origine di una mancanza di analisi radicale in questo movimento. La storia mostra che i tempi di crisi di solito non conducono ad una crescente radicalizzazione piuttosto ad una svolta conservatrice nella società, espressione di incertezza o anche di paura. E’ ancora più chiaro se guardiamo alla Germania o alla Grecia.

I movimenti sociali devono confrontarsi con nuovi modelli politici e sociali. Nell’agenda politica dei movimenti è tornata centrale la prospettiva del futuro: non è riduttivo guardarla solo dal punto di vista della delega?

Al momento vedo una scarsità di ragionamenti utopici. Se si chiedesse agli attivisti, che parlano di rivoluzione, cosa succederà il primo giorno dopo questa rivoluzione, non si avrebbero molte risposte. D’altro lato ci sono stati modelli elaborati di politiche riformiste, come per la Tobin-tax e iniziative sulle politiche globali. Qui ci troviamo davanti ad una tendenza realista/riformista che rispecchia una cultura politica degli “esperti”. Abbiamo idea della società nella quale vogliamo vivere e come raggiungere questo obiettivo in un mondo globalizzato, complesso e altamente industrializzato?

I movimenti si sono sempre confrontati con un approccio duplice alla sua storia: prima cosa, nella dinamica a cambiare il movimento ed emanciparlo dal proprio passato, c’è una tendenza al “disapprendimento”, come possiamo vedere nella scena punk degli anni 70 e più tardi in quella “autonoma” (in senso tedesco, ndt). Dall’altra un movimento deve studiare le proprie origini e vecchie analisi per non fare gli stessi errori di 20 anni prima. Tra questi due aspetti dovrebbe manifestarsi un nuovo movimento.

In linea generale i movimento dovrebbero chiedersi: che impatto hanno le azioni, siamo in grado di disturbare l’ordine egemonico prevalente? Siamo in grado di persuadere porzioni sempre più ampie di popolazione o desideriamo essere un blocco nell’ingranaggio? Come possiamo evitare di essere sussunti?

Una lezione che è stata appresa negli ultimi 40 anni di movimento è che il capitalismo non è come immaginato dalla vecchia sinistra ortodossa, un colosso dai piedi d’argilla che basta spingere per farlo collassare in 100 pezzi. Per la capacità del capitalismo di assorbire o modificare una certa ampiezza della critica (come dopo il “1968”) dovremmo piuttosto parlare di colosso dai piedi di gomma (o anche di schiuma)-puoi spingerlo, ma assorbe la pressione…

Tenendo questo in conto, i movimenti odierni possono imparare (o disimparare) molto.

Cronaca in diretta dai boschi di Chiomonte (VIDEO+FOTO)

Circa cinquencento no tav questa sera hanno raggiunto in due momenti la val Clarea radunandosi attorno alla baita ora recintata. Da lì si sono poi mossi in vari gruppi percorrendo i sentieri che costeggiano le recinzioni del cantiere. Cantiere oramai enorme che già da subito ha dimostrato le sue debolezze, difficoltoso da difendere per chi oggi vuole iniziare i lavori del tunnel geognostico. In almeno tre punti sono state tagliate in modo considerevole le recinzioni. Immediata la risposta con idranti e gas lacrimegeni che non hanno però interrotto la pressione. Danneggiate anche due torri faro e numerose protezioni di cantiere.  Dopo due ore di tagli e resistenza il movimento ha poi ripreso la via di Chiomonte e Giaglione.

L’iniziativa, senza euforia fuoriluogo,  è da considerarsi riuscita, nata domenica sera in una assemblea popolare nell’ottica di continuare il boicottaggio attivo del cantiere, continuando il programma di iniziative apertosi con gli studenti no tav e che proseguirà tutta l’estate, luglio, agosto e settembre.  Sbraiteranno di nuovo i soliti sindacati di polizia, il noioso Esposito e il solito codazzo di giornalisti ruffiani, a loro diciamo di rassegnarsi, la lotta ha i suoi tempi e a rotazione la valle e i suoi comitati segneranno la loro presenza a Chiomonte, a Giaglione, a Venaus  e ovunque sarà necessario. Allo stesso modo si continuerà nella pressione alle ditte con le campagne aperte nei mesi passati. Nonostante i compagni in carcere, gli arresti domiciliari e le inchieste il movimento non ha paura, anzi, rilancia l’iniziativa e si rafforza.

Da notav.info

 

Cronaca della serata

 

Il movimento Notav si è trovato questa sera, ad un anno dallo sgombero della Libera repubblica della Maddalena, a Chiomonte nell’area archeologica distrutta dalle truppe di occupazione durante gli scontri del 27 giugno, giorno in cui il Movimento Notav si oppose con grande resistenza all’occupazione militare di cui oggi cade la ricorrenza.

Cena al sacco nell’ area archeologica, mentre altri Notav continuano ad arrivare.

Dallo stesso luogo di un anno fa, il Movimento Notav continua ad essere presente, nella lotta, attivi come sempre.

Aggiornamento ore 22

Centinaia di notav si sono ritrovati davanti alle reti del cantiere per dare inizio a delle azioni di disturbo. Inizia la battitura, alcuni cominciono a tagliare le reti, dopo aver messo fuori uso le torrete di illuminazione. Partono lanci di lacrimogeni sparati dalle truppe occupanti, uso di idranti, verso i notav che rispondono all’attacco delle forze dell’ordine.

In diretta dalla Maddalena, ascolta Gianluca Notav

 

Aggiornamento ore 23

Dopo aver resistito per due ore ai lanci di lacrimogeni e uso di idranti, con lanci di pietre, da parte delle truppe occupanti, i Notav, a poco a poco ritornano verso il campeggio.

Il Movimento Notav oggi celebra la lotta, la resistenza.

 

Da radioblackout, ascolta la diretta dalla Maddalena con Gianluca Notav