25/26/27 Maggio | I. MUSIC FESTIVAL

i.music
indipendent festival
#reclaim the groove

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Il 25/26/27 Maggio si svolgerà a Roma, all’interno dell’ex-cinodromo occupato, i.music festival.
Un festival di musica dal vivo, con performance suonate, immaginato come strumento e veicolo di cultura indipendente.

Saranno tre giornate ognuna con un suo colore musicale ma che sono intrinsecamente legate dalla ricerca del suono, dall’indipendenza di artisti, musica e contenuti.
Un’unico discorso che si svilupperà lungo tutto il fine settimana e che proporremo a tutta la metropoli romana e non solo.

Perchè la musica è per molti di noi una passione, per tutti/e un linguaggio e uno strumento politico.
Perchè vogliamo una presa di parola per affermare la nostra proposta politica nell’organizzazione dal basso.
Per dimostrare quale capicità ci sia nella nostra ricchezza sociale.
Perchè, fondamentalmente, non è l’unione di capitali e di star system per costurire una offerta commerciale ma la riappriazione e la produzione di cultura indipendente, di alterità e di conflitto.

Questa la scaletta
Venerdì 25 (ingresso 10€)
Into the groove

* Citizen kane (ITA)
* Rancore (ITA)
* Low frequency (ITA)
* Crome hoof (UK/USA)
* Asian Dub Foundation (UK)

Sabato 26 (ingresso 10€)
Let’s groove

* Monkey ceers (ITA)
* The singers ( ITA)
* Mombu ( ITA)
* Dub Inc. (FRA)
* Ojos de brujo (SPA)

Domenica 27 (ingresso gratuito)
Power groove

* Bonnot & M1
* Justacase
* Rico e Rocco Hunt
* ill nano
* SignorK

La storia insegna, ma non ha alunni

Contributo da Villa Roth occupata di Bari

Noi, la rabbia, le lacrime e gli Altri
 
 
Abbiamo preferito tacere per qualche ora. Non volevamo scrivere un’ulteriore inutile lettera di sgomento, tristezza o vicinanza per la morte di una ragazza innocente. Né volevamo lanciare slogan o proclami più o meno ideologici sulla vicenda di Brindisi. Per noi Melissa rimarrà per sempre ragazza, e la rabbia per i suoi occhi strappati via alla vita non è esplosa in grida o giudizi dissennati. Non abbiamo voluto farlo per il rispetto del dolore, di quella soglia oltre la quale non vogliamo andare per “restare umani” (che è un imperativo difficilissimo da mantenere nell’Italia di oggi). Purtroppo Altri non hanno taciuto, Altri si sono avventati come sciacalli furibondi sui corpi delle vittime o nel fumo delle bombe di Brindisi. Lo hanno fatto lanciando proclami, costruendo parallelismi assurdi, promettendo militarizzazioni, strette poliziesche, invocando addirittura l’uomo forte al comando (quel coprofago di Storace ha dichiarato proprio questo un’ora, solo un’ora dopo, l’esplosione; per ricordare a tutti gli smemorati la passione dei fascisti nostrani per le bombe che esplodono e proprio in quella Brindisi in cui vive in libertà da anni Franco Freda questo dovrebbe essere un segnale politico chiarissimo). Gli Altri per noi sono quelli che, seguendo un copione cinico quanto scontato in questo terribile paese, mentre i genitori, gli amici piangono ancora, si sono chiesti come riuscire a sfruttare a proprio vantaggio quest’episodio folle. E allora l’attentato alla scuola Morvillo – Falcone di Brindisi diventa il pretesto utile per rispolverare il caro vecchio “uniamoci tutti a difendere le istituzioni”, “ci vuole prevenzione”, “l’esercito difenderà i cittadini dalla follia terroristico/mafiosa”. Il che sta a significare che da domani, chiunque scenda in piazza a manifestare contro la crisi, contro la casta politica, contro i suicidi (cfr. le dichiarazioni dello sciacallo Susanna Camusso su Equitalia di ieri), contro i tagli, per i beni comuni, rischierà di disturbare la “vita tranquilla dei cittadini” (citando le dichiarazioni di Bersani a due ore dall’esplosione), rischierà di disturbare il manovratore, rischierà di contribuire al “caos da cui solo lo Stato può difenderci”. Gli Altri insomma, quelli di ieri e quelli di oggi, proveranno a dare giudizi, proveranno a trovare i colpevoli in fretta e furia, oppure a trovarne diversi in modo rocambolesco per intorbidire ulteriormente le acque. Proveranno a utilizzare una strage fatta per uccidere, fatta per spaventare e fatta insomma per lanciare un messaggio. Una strage fatta in un modo che, per analogie storiche e di fase, riporta alla mente la strage di via dei Georgofili di Firenze del ’93, per analogie di obiettivi, ricorda le stragi che vengono compiute per militarizzare la Palestina, Gaza, l’Afghanistan o il Pakistan e, in generale, porta alla mente le tante, troppe stragi di Stato senza colpevole del nostro paese. Quelle stragi di cui tutti sappiamo i nomi dei colpevoli ma “senza le prove né gli indizi”.Immaginiamo gli Altri nei loro studi televisivi a studiare le dinamiche, le anomalie dell’attentato, magari con un bel plastico su una scrivania in ciliegio, qualcuno dirà è stata la mafia, qualcuno dirà “terrorismo politico”, qualcun altro il gesto di un folle o chissà cos’altro e si andrà avanti così come una normale partita di calcio, come un reality show, tutti inquirenti, tutti concordi con una soluzione possibile per accontentare tutte le ipotesi possibili “Stato più forte, polizia, esercito, telecamere, controlli, arresti, intimidazioni”.Gli Altri che fino al giorno prima avevano paura. Avevano paura perché vedevano il consenso sociale delle loro azioni ridursi di giorno in giorno; perché la rabbia degna in Val di Susa o il 14 dicembre o il 15 ottobre o contro le vessazioni di Equitalia o contro un Governo non votato da nessun cittadino e sostenuto da una classe politica corrotta e volgare, diventava ripresa della vita contro i manganelli, contro le prigioni, contro i fili spinati e (ora dobbiamo dirlo) contro le bombe. Perché sospesa la democrazia in nome dell’austerità e delle misure economiche da imporre “costi quel che costi”, la svolta neo-autoritaria diventa la seconda gamba su cui si fonda la nascente Terza Repubblica. E tra crisi infinita e autoritarismo si può rinchiudere la gente nella disperazione, nella propria solitudine, ricacciarla nelle case mentre le strade potranno essere militarizzate e controllate.Non è il nostro ruolo trovare chi ha piazzato a Brindisi la bomba, nostro ruolo è capire a chi può giovare questo atto. Chi ne può trarre vantaggi, chi può specularci sopra, chi può insomma sfruttare al massimo l’indignazione e la rabbia che da un gesto così infame può generarsi.Non abbiamo dubbi a tal proposito. Sono proprio gli Altri che abbiamo nominato prima.Proveranno sulle macerie fumanti insomma a ridurci al silenzio a spaventarci, a terrorizzarci.Il film in Italia è noto come anche il finale.Sta a noi adesso, l’altro nostro ruolo, se siamo stati bravi alunni della Storia, cambiare questo finale. Facendo esattamente quello che và nella direzione uguale e contraria a quella a cui loro, gli “Altri” appunto, vorrebbero spingerci. La piazza di Brindisi di sabato sera è stata importante per questo; una piazza rabbiosa, che ha fischiato tutti i sepolcri imbiancati della politica locale e non e anche le autorità religiose salite sul palco e ha invece applaudito con forza quando dal palco si è detto: “non vogliamo più esercito, non vogliamo più polizia, non vogliamo la militarizzazione delle nostre vite”.Per questo quello che ci consegna quella piazza è quello che dovremmo fare da subito. Dobbiamo riversarci nelle strade, noi, la moltitudine irrappresentabile che tanto spaventa gli “Altri”, dobbiamo riappropriarci degli spazi di discussione, delle piazze, dei luoghi abbandonati, rendere impossibile progettare attentati, rendere impossibile determinare l’esito del conflitto fuori dagli spazi di discussione, dobbiamo definire questi spazi come Comune, dobbiamo finalmente prendere la nostra storia nelle mani, per la prima volta da cinquant’anni a questa parte, senza delegarla a nessun apparato corrotto o assassino, e costruire un’esondazione sociale  ridandoci la possibilità di decidere noi contro la loro austerity, contro la loro crisi, contro la loro polizia, contro le loro bombe.

Lo specchio elettorale infranto e la torsione autoritaria dello Stato…

Ma l’amor mio non muore…

In questi giorni accadono cose che incidono sulla percezione collettiva della fase. Prendere parola è oggi la condizione necessaria per chi vuole continuare a riconoscersi dentro un movimento che non si lasci cucire il vestitino addosso da altri, che siano apparati e servizi dello Stato o nuovi spontaneisti armati.
L’Italia è più che mai in Europa, nel senso che oggi ne condivide pienamente la crisi, a partire da quella della rappresentanza politica. Anche in Italia, con le specifiche peculiarità, è posta terribilmente in discussione qualsiasi capacità di cattura del consenso nella macchina della politica rappresentativa ossia nella gestione del piano di comando che va sotto il nome di austerity. Questo non vuol dire che l’azione del governo tecnocratico-finanziario ne sarà indebolita: significa anzi – e si vede già – che si farà più arcigna perché più scopertamente senza mediazioni. Ma questo significa anche molte cose sul terreno della percezione sociale.
Tant’è che nessuno tra gli osservatori e opinionisti in voga scommette su un “rientro” del fenomeno del grillismo né può negare il carattere tendenziale e costante della crescita dell’astensione, accanto all’evidenza che viene punito chi è visto insieme come figura del sistema partitico e nel contempo corresponsabile dell’austerity (in particolare chi ha formalmente dovuto passare le consegne a Monti), tanto quanto è premiato chi a quel sistema si contrappone e dall’austerity anche solo formalmente si smarca. Certo questa fotografia, per non essere equivocata e per intenderne anche le potenzialità rischiose, va sovrapposta a quella del livello minimo raggiunto dal conflitto sociale come movimento reale: altrettanto certo è che c’è una percezione diffusa che vede la pace sociale come imposta e subita, per quanto ancora non se ne agisca un ribaltamento o meglio non si producano e non si incontrino dispositivi adeguati ad agirlo generalmente.
Ma questo è il punto di limite da affrontare senza facili scorciatoie.
Il risultato delle presidenziali in Francia era atteso. La novità però è determinata dalla simultanea circostanza delle elezioni politiche in Grecia. Qui dove di fronte alla débacle dei due tradizionali poli del consenso, ci troviamo a notare da una parte, è vero, l’obiettivo successo di Syriza, ma anche l’aprirsi di uno scenario da vera e propria Weimar post moderna: percentuali balcanizzate, minacce di rottura della zona euro, e, impossibile non vederlo, 21 parlamentari assegnati ad una organizzazione, Chrisi Avgi, letteralmente neonazista, che al contrario dei movimenti europei dell’ultimo ventennio non media con la propria identità, anzi la esalta. Siamo di fronte ad una novità e allo stesso tempo prossimi all’imponderabile: ulteriori limitazioni della sovranità nazionale o l’inizio di una spirale di conflitto tra poteri costituiti? Autonomie sociali dispiegate o pulsioni autoritarie  in un contesto dove oltre il 50% dei funzionari di polizia sembra che abbia dato il proprio voto ai neonazisti?
Il risultato elettorale in Grecia non solo induce la fibrillazione dei mercati ma soprattutto produce una totale revisione delle prospettive di governance della crisi e nella crisi dell’eurozona. Il piano B, specialmente tedesco, cioè la rottura dell’unità monetaria è ormai alle porte non come eventualità ultima ma come possibile necessità urgente. La caratteristica fondamentale del risultato greco viene non a caso taciuta nel dibattito italiota: essa risiede non solo e non tanto nella nettezza di quella fotografia di rigetto della cattura del consenso fra le burocrazie politiche serve della Troijka, bensì nel fatto che la moltitudine ha spazzato via ogni possibilità di “soluzione politica”, ad un tempo con l’astensione di massa e con l’aver premiato ogni forza vincolata alla promessa di non fare compromessi con il memorandum imposto da BCE-UE- FMI, non casualmente con l’enorme prevalenza dell’unica formazione capace di farsi tollerare nelle piazze del movimento di rivolta sociale ossia SYRIZA. Alla faccia di chi predicava sulle “rovine fumanti” dello scenario greco per assumerle a stigma negativo rispetto al quale agitare le magnifiche sorti e progressive di una “alternativa”.
Questo risultato greco – che riflette proprio i 3 anni di rivolta sociale – è quello che fa saltare i conti degli osti dell’austerity in Europa e ne rimette in discussione l’architettura di potere per il prossimo futuro. Non sarebbe (stato) possibile se non, come (è stato) riflesso d’un esodo diffuso dall’opzione della governance che, tra i rigori della disperazione sociale, ha stabilito già un flusso di pratiche alternative in termini di resistenza materiale e di autorganizzazione sin sul piano economico. Questa lezione è quella, sola, che dovrebbe interpellare chi abbia un vero assillo sull’alternativa al capitale e alla sua crisi, e non ne faccia invece una parodia opportunista.
Ma qui siamo in Italia, bruscamente risvegliati dall’incantesimo berlusconiano e precipitati nella più profonda crisi politica ed economica dal dopoguerra, senza neanche uno scudocrociato o una falce e martello a cui aggrapparsi. Lo spauracchio necessario, altro che il coraggio cui si appella Monti, a far da collante per continuare a sottoscrivere una sottrazione dietro l’altra, di diritti, di garanzie, di futuro ma sempre con una paternalistica pacca sulla spalla.
Dall’altra parte la FAI informale – Fronte rivoluzionario internazione  che si erge a guida per ogni forma di dissenso, per chiunque voglia seriamente e senza mediazioni produrre uno spazio di conflitto e di superamento delle attuali condizioni di precarizzazione e sfruttamento. Non avremmo sentito l’esigenza di rivolgerci a chi agita queste pratiche cui non riconosciamo neanche la dignità politica che in altri contesti ha la “lotta armata”. Perché con nessuna lotta reale si confrontano, piuttosto preferendo sfruttare la facile visibilità mediatica fine a se stessa di un gesto con lo stesso coraggio e la stessa maturità di quello di bambini che infilzino una rana con gli spilli.
Ma ci sentiamo chiamati in causa in quanto determinatamente ed ostinatamente attivi nella costruzione di conflitto in questa società, come siamo, maledettamente impegnati ad organizzare la rabbia, quella “perdente” s’intende, quotidianamente presi con tanti altri e tante altre a rivendicare quei diritti – vecchi e nuovi poco importa – il cui impianto e ragionamento sostanziale viene oggi messo sotto accusa presso il tribunale anarchico informale perché contribuirebbe, a loro dire, “al rafforzamento della democrazia!”
Questa l’accusa di fondo contenuta nel manifesto/documento degli anarchici Informali che hanno rivendicato la gambizzazione del “tecnocrate” Adinolfi, dirigente di Ansaldo Nucleare, episodio più che noto la cui cronaca giudiziaria si moltiplica e si diffonde con un esercizio di stile orwelliano, in una permanente dittatura mediatica postmoderna in 3d. E’ così che il banale e contemporaneamente complesso sistema dei media mainstream si presta volentieri a far da sponda agli anarco/armati con un’attenzione mediatica ossessiva, quasi paranoica nella costruzione della notizia, nella capacità di farla divenire opinione pubblica, coscienza collettiva.
Un certosino lavoro di costruzione del consenso attraverso la mediatizzazione, come vera e propria mobilitazione sociale per la nuova scelta del capitale nell’accumulo delle sue plusvalenze  e per l’ormai improcrastinabile passaggio da uno Stato che cerca una forma di consenso ad uno che, in crisi di legittimità e di senso, non ha più remore nel mostrare il suo volto antidemocratico e neoautoritario. Nella società delle informazioni e dei segni ambigui dello spettacolo, anarchici informali e Stato autoritario si spalleggiano uno con l’altro con due opzioni che procedono per luce riflessa, uguale e contraria, determinando il rigido quadro politico che ad oggi si deposita di fronte a noi e che molti poteri forti vorrebbero così schiacciato esclusivamente tra due polarizzazioni: l’austerity e i tecnocrati da un lato e la lotta armata dall’altro. E quello che rimane dello specchio elettorale infranto è solo il controllo, l’esercito e l’intelligence. Come rimangono i tanti silenzi sulle morti sul lavoro che quotidianamente si ripetono in questi anni o i suicidi che via via si sommano uno all’altro per colpa della crisi e le politiche di austerity. Una pistola puntata contro un signore particolare vale e azzitisce tutte le pistole puntate contro le tempie dei tanti disperati, precari e precarizzati. Vogliamo politicamente dire la nostra, affermare l’autonomia e l’indipendenza dei movimenti e delle lotte sociali anche da chi pretende di condizionarli usando una pistola idealizzata e feticisticamente coccolata: “azione che si fa idea”, in una retorica più futurista che altro. Come affermato più volte, e non solo da noi, qui non si tratta di dissociarsi o meno perché mai associazione si è data, mai nessuna condivisione con chi svilisce come “cittadiniste” le battaglie sociali e le rivendicazioni che quotidianamente portiamo avanti.
Ed è proprio sul movimento,  in Italia, che vogliamo portare una riflessione, sulla sua inquietante assenza, sul silenzio in cui esplode il colpo sparato a Genova.
Si può dire che niente come il discorso sull’indipendenza sia stato avvalorato in questi tempi, sia nell’oggettività della crisi di sistema sia nell’esperienza più arricchente delle soggettività, quella esibita dalle più innovative traiettorie di movimento nel panorama globale dell’anno di rottura, il 2011.
Esattamente l’esperienza che è stata praticamente quasi assente qui in Italia. Infatti se non fosse stato per l’accumulazione e la potenza della mobilitazione No-Tav con quella determinata e moltitudinaria resistenza sociale che ha saputo dispiegare il protagonismo politico della lotta e dell’opposizione, il nostro paese sarebbe stato completamente assopito nella sua vita quotidiana e risvegliato magari solo con qualche sobbalzo episodicamente determinato, da un 14 dicembre ad un 15 ottobre. E questo è il dato sul quale occorre fondare un discorso di verità. Riaprendo una sfida, anzi la posta d’uno spazio generale di movimento indipendente, che parta anche dallo sconvolgimento di proposte nostrane ripetitive quanto distanti dal vento della rottura che spira globalmente, spalancando le porte a pratiche di esodo dai meccanismi di rappresentanza, che diano forma di discorso, costituente, all’espressione del desiderio compresso di rivolta.Una seria condivisione di quello slogan “non ci rappresenta nessuno” che echeggia da una parte all’altra del globo; possibile che l’unica alternativa, qui, stia in Grillo o sfogatoi vari? Sembra mancare la volontà di confrontarsi, mischiarsi, fare un passo indietro per produrne cento in avanti sul piano dell’alternativa, non solo al governo Monti ma alle scelte di sistema che sono state compiute e si compiranno nel prossimo periodo.
Certo non mancano focolai di dissenso, prese di parola determinate né le ancora scomposte mobilitazioni dentro e a partire da quel sociale tanto bistrattato, costretto a riscoprire i nessi di cooperazione e la capacità di organizzazione nella frammentazione e in un’informalità, questa sì, fuori da ogni logica predeterminata, struttura di rappresentanza o orticello identitario da difendere. Accanto e dentro a questo processo, che si pone già di fatto nella condizione di superare definitivamente la precarietà e lo sfruttamento, vogliamo stare. Perché le lotte contro precarietà e austerity sono oggi le lotte per la libertà e l’autodeterminazione: non un gesto estetico, ma il movimento reale.

Nodo redazionale indipendente

Al fianco della Rimaia di Barcellona

…ogni sgombero dovrà diventare una barricata!

Con rabbia apprendiamo la notizia che questa mattina, verso le sei, un cospicuo e ingente dispiegamento di mossos d’esquadra ha sgomberato
uno degli edifici emblematici del movimento catalano:

La Rimaia.

 

Uno spazio occupato e autogestito nato tre anni fa in un contesto di
piena fermentazione delle lotte universitarie contro la, ormai
vigente, riforma Bologna. Uno spazio nato non solo con l’idea di voler
lottare contro chi ha voluto ridurre l’accesso ai saperi ad una logica
mercantile volta più a valorizzare i profitti piuttosto che la libera
conoscenza, ma anche uno spazio che ha saputo essere punto di
accumulazione, di espressione, di riappropriazione dal basso e di
presa di parola da parte di chi non solo questa crisi non la vuole
pagare, ma si propone, piuttosto, di superare le condizioni di
precarizzazione e frammentazione sociale in atto sulle nostre vite.
Lo sgombero è avvenuto senza preavviso, in mancanza di ordine di
sgombero e, soprattutto, nonostante il caso fosse già stato
archiviato, nel lontano 2008, dalle autorità giudiziarie. Durato più
di 5 ore e concluso con 14 denunce e un fermo. Dovremmo dunque
definirlo, come stanno facendo i media mainstream nella democratica
Catalunya, come sgombero illegale? No, noi questa la definiamo
retorica. Il quid non risiede nel concetto d’illegalità. Noi che
barcolliamo nell’incertezza costante e che, costantemente, facciamo
acrobazie per riprenderci quello che è nostro siamo ampiamente
coscienti che l’illegalità è un fattore che impregna la vita, un’arma
a doppio taglio che a volte ci si ritorce contro, dipende da chi la
usa e da qunato è potente, tutto qua.

 

Piuttosto dovremmo pronunciare
il più ben appropriato concetto d’illegittimità. Ma, nuovamente,
anche l’illegittimità è un principio duale, dicotomico che dipende
dal punto di vista. Per noi è illegittimo chi specula sulle nostre
vite e chi, in questo forte contesto di crisi, continua proponendo,
come unica soluzione, l’ingestione di pillole neoliberiste. Per noi è illegittimo
chi sgombera spazi pensando di annientare visibili segni di una
volontà diffusa di invertire la rotta e sottrarsi ad una speculazione
costante.
Inoltre a nessuno deve sfuggire la vicinanza con le date di
mobilitazioni del 12 e 15M che, proprio, a partire dai quei territori,
hanno assunto un carattere di spazio pubblico di cooperazione
internazionale. La logica filo-governativa dei buoni e dei cattivi ha
oggi provato a ripetere lo schema di sempre, definendo pericolosi e
violenti antisistema chi di fronte all’evidenza della catastrofe
sperimenta forme di autorganizzazione sociale volte a ribaltare lo
schema esistente.  La prossimità delle date di mobilitazione con
l’illegittimo sgombero di oggi convalida che il moralismo che
caratterizza questo genere di situazioni nel dibattito dei media non
regge piú facendo del conflitto sociale l’unica posizione e opzione
possibile.

Di fronte a questa società in sfacelo, c’è chi si indigna, chi
denuncia e chi si autorganizza. Noi siamo dal lato di quelli che si
organizzano. Solidarietà a La Rimaia, mai un passo indietro!

Laboratorio Acrobax

 

Le nostre ragioni e quelle della legge. Riflessioni di un NoTav dal Carcere di Saluzzo

Di Giorgio Rossetto

Mi trovo rinchiuso in prigione da alcuni mesi per essermi opposto,
assieme a migliaia di altre persone, alla militarizzazione della Val
di Susa, la valle dove abito, e all’imposizione manu militari del
progetto tav. Avevo messo in conto la possibilità di un provvedimento
giudiziario, come molti altri che hanno partecipato alla lotta.
Talvolta le mobilitazioni sociali richiedono un impegno da parte dei
singoli che può pregiudicare la loro libertà (o mettere a rischio la
loro vita, come è accaduto a Luca che saluto); eppure sono convinto
che valga la pena affrontare queste conseguenze, perché non condivido
il dogma imperante secondo cui ciascuno deve sempre e soltanto  curare
il proprio interesse individuale.

Sto affrontando questo periodo di detenzione con serenità, nonostante
la direzione carceraria si stia prodigando affinchè la mia permanenza
qui sia la meno piacevole possibile. Dai primi di febbraio a Saluzzo
sono in un regime anomalo di isolamento, a causa della  denuncia mia e
di altri compagni, nel carcere delle Vallette, delle difficili
condizioni in cui si trovano i detenuti.  Nonostante la mia sia una
carcerazione cautelare e io sia quindi secondo il codice penale un
“indagato” lo stato impone a me e ad altri detenuti, anch’essi in
attesa di giudizio, questa condizione di fatto persecutoria.
Ulteriormente inasprita della censura per 6 mesi della mia posta.

Non è mia intenzione, tuttavia, descrivere la mia condizione come
eccezionale; al contrario, vorrei condividere alcune riflessioni su
ciò che di puramente procedurale c’è nella repressione del dissenso in
un sistema istituzionale come il nostro, prendendo in questione lo
stesso metro di giudizio che viene usato dai tribunali: la legge.

Il procuratore Caselli ha spiegato  i provvedimenti precisando che
obiettivo dell’operazione è stato isolare e colpire le condotte
illegali da altre, che non lo erano. Non mi dilungo sul “rigore”
intellettuale che lo ha portato a queste affermazioni: la condivisione
politica della resistenza delle giornate di giugno e luglio da parte
di tutto il movimento, è stata affermata allora, ribadita in occasione
dei nostri arresti, e praticata nei mesi passati durante le
mobilitazioni contro l’allargamento del cantiere.

Ciò che mi interessa discutere è l’idea che il dissenso sia legittimo
soltanto entro i confini della legalità, e non perché l’ha detto un
magistrato, ma perché sono consapevole non mancano coloro che sono
pronti a condividere questo presupposto.

E’ sotto gli occhi di tutti le maleodorante corruzione sistemica e la
naturale indignazione contro i suoi abusi, hanno condotto negli ultimi
anni all’equivoci secondo cui schierarsi contro l’oppressione equivale
a sbattersi per il rispetto delle leggi; mi sembra, del punto di vista
dei movimenti, un’idea piuttosto astratta, slegata dalla realtà e
totalmente subalterna allo “status quo” e ai rapporti di forza
dominanti. L’infrazione della legge da parte del potente non è analoga
a quella dell’oppresso; l’illegalità delle istituzioni, che violano i
principi giuridici da loro stesse sanciti, per regalare continuamente
appalti pubblici all’imprenditoria, non è equivalente a quella del
valligiano che resiste per difendere la sua terra da quelle stesse
imprenditorie (legali o illegali). Non si può giudicare astrattamente
un gesto,  quasi il contesto storico e politico fosse qualcosa che si
declina soltanto al passato, sui libri di scuola: ogni gesto
dev’essere compreso in relazione a un fine.  Forse la violenza usata
per impedire uno stupro ( di una persona come di un territorio) è
equivalente, dal punto di vista morale, a quella usata per
perpetuarlo? C’è chi ne è convinto: ad esempio Marco Travaglio, che
pure si è prodigato in più sedi per evidenziare l’irrazionalità e
l’illegalità del tav, ma che ha altrettanto volentieri difeso
l’operato di Caselli contro di noi, dicendo che se un magistrato
rileva ciò che tecnicamente è un reato, non può voltarsi dall’altra
parte.

Sarebbe facile fare dell’ironia su quanto e come vengono perseguiti i
reati della controparte (ditte appaltatrici e polizia; ma per questo
c’è già il movimento con le sue puntuali inchieste.

Più interessante è chiedersi dove saremmo ora se, in ogni epoca e in
ogni stagione storica, tutti avessero ragionato come Travaglio:
avrebbero dovuto i partigiani, ad esempio, cessare la resistenza,
essendo essa bandita  per legge? Avrebbero dovuto  gli ebrei  o i
palestinesi, accettare di buon grado la deportazione, visto che invece
essa era imposta per legge da istituzioni operanti sui loro territori?
Mi si dirà che non si può paragonare il Tav al nazifascismo o alla
Nakba, ed è vero: non è quello che sto facendo e non lo farei mai. Il
carcere di Saluzzo non è un lager e il fascismo come regime è tutta
un’altra storia. Ma si può paragonare la pochezza morale di chi
difende lo status quo in contesti tra loro diversi, se tale difesa
trova giustificazione nel principio, in se evidente e proprio perciò
così debole, che la legge è la legge. Questo principio si traduce: il
più forte ha sempre ragione. Non mi risulta nemmeno che Berlusconi sia
stato “cacciato” dalla tanto sbandierata legalità di Caselli e le
inchieste giudiziarie nelle varie procure si sono arenate sugli scogli
o hanno getta “l’ancora  nel porto delle nebbie”. Noi, in Valsusa non
possiamo lasciarci devastare dalla Tav, né attendere che ci venga data
ragione ex post, o che in un lontano futuro opere dannose siano
impedite dalla legge stessa. Allora nessuno ci ridarà la nostra
tranquillità, ne restituirà la valle ai nostri nipoti.

Non è affatto necessario avere Mussolini o Berlusconi come governanti
per  decidere di ribellarsi, anche se la foglia di fico
della”democrazia” fa sempre comodo ai tanti imprenditori che lucrano
in tempo di pace sociale, prontissimi a votarsi alla dittatura quando
la pace sociale finisce o sta per finire. In questo senso mi rivolgo a
tutti coloro che in questi anni hanno trovato un punto di riferimento
in Travaglio o Saviano: autori cioè che hanno impostato la loro
critica/carriera sul concetto di legalità, invitando a un
interrogativo: possono essere i carabinieri “nei secoli fedeli”, e la
magistratura gli agenti del cambiamento, in una qualsiasi società, e
tanto più nella nostra? In Valsusa gli agenti di polizia, più volte
messi dalla popolazione di fronte alle loro responsabilità si sono
limitati meccanicamente a rispondere: “eseguo gli ordini di servizio,
sono pagato per questo”. Lo stesso afferma ogni procuratore capo,
quando deve sbattere in cella chi porta vanti la propria battaglia per
la libertà e per il futuro della sua terra o, in generale, un’idea
incompatibile con l’ordinamento attuale. Il nostro pensiero deve saper
produrre qualcosa di più intelligente di un semplice: “un poliziotto è
un poliziotto, un giudice è un giudice”. Siamo uomini e donne: questo
non ci attribuisce soltanto valore, ma anzitutto responsabilità. Chi
sceglie di rappresentare un’istituzione ha il dovere di chiedersi che
cosa quell’istituzione incarni: corruzione, sfruttamento, privilegi,
volgarità, sopraffazione, disumanizzazione e devastazione, e riduzione
della natura, delle donne, degli uomini e dei bambini a semplici
merci, a numeri o grafici nelle carte della finanza e delle banche.

Non basta  questo per rifiutare, oltre all’occupazione militare, la
sua logica profonda? L’idea che nulla deve esistere oltre e al di
fuori di ciò che è previsto dalle regole stabilite? Io non mi limito a
dire: “un partigiano è un partigiano, un notav è un notav”; io
dico:”un partigiano è molto meglio di un fascista, un notav è meglio
di un poliziotto occupante”. Con tutto il rispetto che nutro per i
lupi, non li si può trasformare in agnelli.  Ho ragioni per
argomentarlo, non prendo ordini per sostenerlo e nessuno mi paga per
dirlo.

Le ragioni della legge valgono quel che valgono, e in ogni  epoca e ad
ogni latitudine esistono i filistei. Condividere le ragioni di chi ha
incarcerato significa piegarsi all’idea che il mondo non possa pensare
la resistenza a ciò che esiste o è stato deciso, né i soggetti possano
pensare la trasformazione in modo autonomo. Nonostante i nostri
avvocati siano pronti a mostrare quanto le nostre accuse siano
inconsistenti anche sotto il profilo della legge, vorrei che si
chiedesse quanto la legge è metro di giudizio adeguato di fronte alla
sollevazione di un popolo, di una classe o parte di esso. Come sempre
quando un “no” rifiuta di diventare un “si” o un “ni”, con noi il
tempo della democrazia è finito, è iniziato quello della
militarizzazione e delle manette. Forse la nostra battaglia servirà
anche a far comprendere che è assurdo anche soltanto pensare che il
dissenso sia qualcosa che si può delegare ai giudici o alle
istituzioni in genere; e spero che la nostra prigionia serva anche a
ricordare che le battaglie, da che mondo è mondo, si vincono o si
perdono in prima persona e non per delega. Il criterio per scegliere
da che parte stare lo determiniamo noi, in autonomia; noi che non
abbiamo scelto di essere ingranaggi di un meccanismo ma persone aperte
alla critica dell’ingranaggio stesso.

Nella resistenza popolare di massa in Valsusa, ma innanzitutto nella
capacità di essere proposta politico organizzativa nella metropoli
vive l’idea forza dell’Autonomia come motore di un agire diverso.

Ringrazio tutti e tutte per la campagna contro la censura che sta
inondando l’ufficio casellario con decine di lettere e cartoline che
arrivano quotidianamente da tutta l’Italia e persino dall’estero. Il
registro della censura è molto spesso, ma di questo passo lo
riempirete piuttosto in fretta.

Giorgio

“Dove finisce Roma” incontro con l’autrice

Sabato 5 maggio 2012 ore 18.30

Dopo il corteo in difesa dell’acqua pubblica

Loa Acrobax e circolo ANPI “Renato Biagetti”

Presentano:

 Libere e liberi sempre: raccontare la Resistenza di ieri per costruire quella di oggi!
In occasione della festa di tesseramento del circolo Anpi Renato Biagetti vogliamo ripercorrere la storia che portò alla Liberazione. Vogliamo farlo a partire dalle metafore di un romanzo e dalla storia di vita di una staffetta, dalle note di una canzone e dai resoconti delle strategie di guerriglia partigiana. Un modo per riattualizzare la memoria viva della Resistenza e rendersi protagonisti di nuove lotte, come quelle in difesa dei beni comuni e degli spazi pubblici, spazi in cui si radicano nuove memorie collettive che risignificano quotidianamente la parola libertà! Introduce il circolo Anpi “Renato Biagetti”
Modera il dibattito Tabula rasa, trasmissione di Radio Onda Rossa
 
Intervengo:

Paola Soriga autrice di “Dove finisce Roma”
Marisa Ombra, partigiana e vice presidente nazionale dell’ANPI, autrice di “Libere sempre”, Einaudi stile libero 2012
Cristiano Armati, scrittore e curatore del “Libretto Rosso della Resistenza”, Red Star Press, 2012
Ilenia Rossini, dottoranda di ricerca e autrice di “Riottosi e ribelli. Conflitti sociali e violenza a Roma (1944-1948)”, Carocci 2012
Madri per Roma città aperta

Letture e musiche a cura del Reading Resistente
Con la partecipazione di Tuba libreria delle donne

Un’operazione di polizia ai tempi del burlesque

sexy&cool riot/art from London

Rivedendo le immagini usate dai media come feticcio della rabbia precaria che loro definiscono senza alcun segno politico, come violenza gratuita da sventolare e mostrare come giustificazione del linciaggio mediatico nei confronti di quei giovani e meno giovani che sono stati i protagonisti degli scontri di piazza san Giovanni o delle azioni più o meno efficaci della manifestazione del 15 Ottobre –  al netto della disinformazione di regime ci chiediamo retoricamente ma a ragione quale diritto di informazione possiamo ancora sperare in questa democrazia blindata dai mercati, piegata dal neoliberismo, umiliata dall’abuso di potere recidivo e dalla corruzione diffusa in una continua coazione a ripetere?

Una volta ancora ci dobbiamo chiedere cosa si aspettavano governanti, politici, controllori, editorialisti, ma anche quel popolo di sinistra “indignato” da anni assopito dal berlusconismo o ancor peggio da un certo antiberlusconiano atteggiamento, cosa si aspettavano e cosa credevano? che quelli che vivono in emergenza abitativa e precariamente tra una vertenza e l’altra o tra un contratto intermittente e l’altro, coloro che studiano e lavorano o studiano e lavorano nel “quarto settore dell’economia”, coloro che riempiono i numeri e le statistiche della disoccupazione giovanile – che poi fanno indignare tutti quanti nel crogiuolo del bel paese cattolico dove la condanna delle ingiustizie ha il sapore del senso di colpa universale – sarebbero stati zitti e sorridenti fino alla morte?

O magari pensano che coloro che vivono nella zona grigia dei milioni di inattivi siano veramente inattivi e non già schiavizzati nella voragine del lavoro nero, dove cari governanti, politici ed opinionisti veniteci voi a vedere come si vive con la testa dentro il cesso. Orbene questi sfruttati e disperati, precari e precarizzati un tempo garantiti, vanno compatiti e sono anime buone quando si lamentano della propria condizione e magari lo fanno li in cima ad una torre o sul tetto di un palazzo, salvo poi fottersene alla prima minaccia di spread, quando invece si organizzano per manifestare la propria degna rabbia e delle volte lo fanno in forma non propriamente dialettica e decidono di rappresentare magari quell’inferno che vivono tutti i giorni nella propria solitudine per una volta tanto collettivamente e in pubblica piazza, diventano i mostri neri, il nuovo pericolo pubblico, i marziani del teppismo urbano, i cavalieri del nuovo terrorismo, forse i veri eredi di Mefistofele chissà “hai visto, hanno distrutto e ucciso la madonna!” E magari mangiano pure i bambini. Forse allora i benpensanti vogliono dire che è meglio continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassa-integrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore? Strano il suicidio dovrebbe essere anch’esso contro la morale cattolica, eppure scandalizzano evidentemente più due banche rotte che i suicidi continui per colpa delle stesse banche.

Forse semplicemente la realtà del 15Ottobre è andata ben oltre la finzione o la testimonianza. Per una volta il programma è cambiato. Ed è stato un accumulo di forze, di coincidenze e di processi sociali incodificabili per voi, cari padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavate governare. E questo vale anche per chi nei movimenti pensava di portare l’avanzo riscaldato del banchetto dei politicanti come premio ai più allineati alla governance, quella buona eh! quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune, ecco tutti a braccetto con la minestra riscaldata per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato per tutti, pure per loro.

E  dopo aver già accumulato qualche prima condanna nei mesi immediatamente successivi a questa giornata del 15 Ottobre 2011 – considerata ormai all’indice degli annali neri della Repubblica, sempre quella Repubblica delle banane, delle stragi di Stato senza colpevoli, quella della Diaz e di Bolzaneto, sempre la Repubblica della P2, P3 e P4, insomma quella della mafia, e della mafia dell’antimafia – arriva la chiusura delle indagini, con un baccanale di Antiterrorismo, Digos e Ros – ma non litigavano tra di loro una volta? –

Nel buio dei tempi abbiamo, un piccolo lumicino che una volta tanto, succede, regola i conti all’interno degli apparati, governa la overbalance statuale e decide per un’altra opzione. Nel mandato il GIP respinge l’impianto dell’accusa, ridimensionando le misure cautelari e assumendo a tratti quasi il tono se non assolutorio quanto meno tendente ad attenuare gran parte delle accuse. In Italia tralaltro l’habeas corpus pare che ancora non l’abbiano del tutto abolito.

Addirittura per Acrobax c’è un sostanziale riconoscimento del lavoro politico svolto “al fianco dei poveri, per i diritti della classi meno abbienti a difesa dei più umili”, giusto, tutto vero, siamo quasi lusingati. Nella boria di questi tempi dove per mesi tra “la palestra del terrorismo” e l’isola ribelle della sovversione, tra il capo della Polizia e l’ex ministro degli Interni si sono moltiplicate e sprecate le definizioni del brand della paura appiccicato a noi come ai compagni della Val di Susa. Oggi abbiamo finalmente trovato una cosa veritiera tra tante menzogne e provocazioni.

Si, è vero, ci battiamo per i più poveri, siamo da sempre a fianco dei meno abbienti, dei più umili e un domani noi crediamo, saremo al fianco dei ribelli contro il neoliberismo che saranno meno poveri e più liberi, finalmente affrancati dalla vostra pietas, ipocrita e codarda. Si è vero ci battiamo da dieci anni contro la precarizzazione della vita e del lavoro, contro la precarietà che è sempre più un dispositivo complesso di comando, controllo e  disciplinamento dei nostri corpi, delle nostre vite, esistenze, passioni e desideri. Si è vero, contro la “corruzione” della precarietà, scegliamo la strada della lotta per la libertà.

Una precisazione, Acrobax non è un laboratorio né anarchico, né comunista, né libertario, forse è un pò di tutto questo, ma sicuramente e risolutamente è una piccola, ma insorgente, Repubblica Indipendente

Il passato conoscilo, il presente vivilo, il futuro (senza la lotta) dimenticalo!

Nodo redazionale indipendente

Scrivi a Giorgio, contro la censura, inceppiamo il meccanismo!

Giorgio Rossetto è un Notav, detenuto dal 28 Gennaio nel
carcere di Saluzzo nella sezione Isol.

Le sue lettere da dentro il carcere ci hanno fatto
conoscere la situazione di tutti i detenuti prima ancora della sua situazione
personale, attraverso una corrispondenza epistolare della quale abbiamo dato
sempre massima diffusione.

Da Saluzzo sono arrivate lettere e comunicati collettivi
che più volte hanno denunciato la situazione che la popolazione carceraria vive,
nella fattispecie i reclusii nel braccio Isol, esclusi dalla socialità e dalle
attività del carcere, costretti in celle cubicoli con persino l’aria isolata
dagli altri.

In seguito a queste denunce e alla campagna Freedom4notav,
l’oliato meccanismo del carcere ha iniziato a scricchiolare e per questo la
direzione tenta di ostacolare la campagna dei detenuti prendendo, di accordo con
la Procura, di mira Giorgio infliggendogli la censura
alla posta in entrata ed in uscita per 6 mesi
con l’accusa di
aver tenuto un comportamento di “istigazione alla
ribellione”
di altri detenuti, anche in accordo con soggetti esterni al
carcere
”.

Atto di insubordinazione massima agli occhi di chi vuole
gestire nel silenzio la vita di centinaia di persone costrette alla
detenzione.

Scriviamo a Giorgio, contro la censura, inceppiamo
il meccanismo!

Dobbiamo inceppare il meccanismo collaudato del
carcere e delle sue strutture, rendendo un normale servizio come quello della
corrispondenza, un lavoro “faticoso” per guardie ed addetti.

Possiamo farlo tempestandoli di lettere,
cartoline, riviste, pacchi per Giorgio e gli altri detenuti della sezione,
dimostrando che da fuori, quell’istigazione alla ribellione, è forte da tempo  e
non lascia da solo nessuno.

 

@Invitiamo tutti a scrivere
a:

Giorgio
Rossetto
Casa di reclusione di SALUZZO
Regione Bronda, 19/b
Località
Cascina Felicina
12037 – SALUZZO (CN)

Sul 15 ottobre: le lotte per i diritti non si possono fermare

Roma, 21 aprile. Ieri mattina all’alba un ingente spiegamento di Polizia e Carabinieri (Digos e Ros), ha fatto irruzione nell’occupazione abitativa di via del Casale De Merode a Tormarancia, nell’ambito di un’operazione su scala nazionale relativa agli avvenimenti di piazza del 15 Ottobre scorso.

Ne è seguita la notifica di due ordinanze di misure cautelari, nello specifico obblighi di firma, e perquisizioni in altrettanti alloggi all’interno dell’occupazione che hanno portato, come unico risultato, al sequestro di uno zainetto da bambino.

Nelle stesse ore in diverse città si svolgevano perquisizioni e si notificavano misure cautelari tra arresti domiciliari ed obblighi di firma che hanno raggiunto complessivamente 14 persone in tutta Italia.

Nelle ore seguenti altri tre occupanti ed attivisti del Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa e dei movimenti per i diritti sociali di Roma, vengono segnalati come coinvolti nelle indagini (con nomi e cognomi sbattuti in prima pagina senza che fosse stato notificato nulla di ufficiale), dentro un impianto accusatorio che per tutti appare a dir poco fumoso.

In realtà si colpiscono persone “colpevoli” soltanto di aver scelto di essere presenti in una piazza importante come quella del 15 Ottobre così come ogni giorno si ritrovano nelle tante e necessarie battaglie contro le grandi lobby del mattone o della finanza, per la difesa dei territori, contro la precarietà.

Probabilmente opporsi alle politiche neoliberiste dei governi che hanno guidato e guidano oggi il nostro paese è un reato insopportabile per chi difende le ingiustizie e le ruberie di una classe politica e dirigente che concentra nelle mani di meno del 10% della popolazione la maggior parte delle ricchezze da noi prodotte e che continua, con inaudita testardaggine e determinazione, a difendere i propri privilegi e a distruggere le condizioni di vita della stragrande maggioranza delle persone.

L’operazione di oggi va ad aggiungersi ai già numerosi arresti e ai procedimenti sommari che negli ultimi mesi hanno portato a condanne spropositate elargendo anni di carcere a ragazzi per lo più giovanissimi, ad uno stillicidio oramai quotidiano di fermi, denunce, negazione del diritto a manifestare. Nell’era Monti, le ricette neoliberiste destinate a portarci al vero default cui vogliono arrivare, quello dei diritti, vanno difese “manu militari” criminalizzando la rabbia e le lotte sociali, chiudendo ogni spazio di espressione del dissenso e di partecipazione, come sta accadendo con il tradimento dei plebisciti referendari che hanno portato 27 milioni di italiani ad esprimersi contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi essenziali.

Non accetteremo mai supinamente, i diktat imposti dai grandi gruppi dell’economia e della finanza globale e con essi il presente ed il futuro che ci vogliono consegnare: fatto di suicidi per motivi economici, sacrifici, precarietà infinita.

Per questo oggi abbiamo il dovere, tutti e tutte, di denunciare ciò che sta accadendo, di mobilitarci contro questo prepotente scippo di democrazia e diritti, di continuare a costruire dal basso processi di opposizione ed alternativa.

Rivendicare libertà di movimento per tutti e tutte significa affrontare con la più grande solidarietà e vicinanza la repressione che colpisce e con la più grande determinazione le tante battaglie di giustizia sociale che vogliamo continuare a sostenere ed alimentare… liberare tutti vuol dire lottare ancora!

Invitiamo tutte le persone interessate e solidali, le realtà sociali della città, gli/le attivisti/e del supporto legale e della comunicazione indipendente a partecipare ad un’assemblea presso il L.O.A. Acrobax Via della Vasca Navale, 6

lunedì 23 aprile ore 18.30

 

Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa

Laboratorio occupato e autogestito Acrobax

La riforma Fornero (da Uninomade)

di GIANNI GIOVANNELLI

Il disegno di legge governativo elaborato, dopo innumerevoli compromessi, dal ministro Fornero sarà esaminato dalla Commissione Lavoro del Senato a partire dal 18 aprile, in sede cosiddetta referente (e non deliberante, ovvero dovrà necessariamente passare al vaglio delle due Camere, con possibili modifiche: segnale questo, non equivoco, di un qualche conflitto, perché ove il tripartito che sostiene Monti fosse stato totalmente d’accordo si poteva procedere all’approvazione già in Commissione). La commissione è di 25 membri; ci sono tre sindacalisti di professione (e di lungo corso: Nerozzi, Troilo e Passoni), per il resto la rappresentanza imprenditoriale domina la scena (anche nel PD: Ichino è un avvocato delle grandi aziende; Rita Ghedini è una funzionaria di vertice delle cooperative emiliane; Adragna e Blazina sono dirigenti). Non potevano mancare in un simile consesso un vecchio industriale come Pininfarina, il consueto Sacconi e la mitica Rosi Mauro. Interessante è sapere chi siano i relatori nominati: Tiziano Treu (consulente datoriale oltre che professore) e Maurizio Castro (abile ed esperto dirigente d’azienda, la controparte storica dei lavoratori nelle trattative cui partecipava prima dell’elezione). I lavoratori italiani non possono certo dormire sonni tranquilli, fra le grinfie di costoro!

 

Oltre alle questioni continuamente dibattute (la cancellazione o meno dell’articolo 18) si celano dentro la riforma Fornero una serie di disposizioni sfacciatamente aggressive e volte a determinare un incremento geometrico del processo di precarizzazione e di controllo sociale dell’intera esistenza della fascia debole.

 

L’articolo 3 del Disegno di Legge (mantenuto nel silenzio) modifica la normativa che regola i contratti a termine e quelli di somministrazione (gli interinali per capirci) lasciando campo libero; in spregio delle regole comunitarie potranno essere arruolati mediante contratti da un giorno fino a sei mesi studenti, immigrati, giovani, donne, disoccupati ed emarginati, senza alcuna motivazione, senza limiti percentuali, senza prospettive e senza tutele, a totale discrezione e piacimento del più forte. La modifica tocca proprio il terreno in cui i precari avevano ottenuto i maggiori risultati (per esempio in Telecom, in DHL, nella logistica e nei servizi) e rade al suolo qualsiasi opposizione; qualche mese di sfruttamento intensivo e qualche lista di proscrizione contro i ribelli ottengono l’effetto di costruire un bacino di manodopera pienamente succube e costretta dalla necessità a piegarsi. Altro che contributo alla crescita e creazione di occupazione (come si legge nella premessa del ministro); questa è una delle modifiche più violentemente reazionarie (non solo ultraliberiste) che siano mai state concepite in danno dei lavoratori. La flessibilità in entrata viene concepita come un metodo che conduca a domare una popolazione giudicata riottosa e indocile; brevi contratti e apprendistato sottopagato (la percentuale fra apprendisti e stabili era di 1 a 1, ovvero al massimo un operaio poteva formarne un altro: con la riforma il rapporto è di 3 a 2, aumentando la quota a bassa retribuzione); riduzione dell’assistenza ai licenziati (a regime la quota massima di 48 mesi di sussidio scende a 18 mesi anche per l’accompagnamento alla pensione). Quanto ai lavoratori a progetto la riforma prevede un forte incremento del costo contributivo, a carico dei lavoratori, fino al 33% della retribuzione quando le modifiche andranno a regime. Ed anche la Cassa Integrazione (antico ammortizzatore sociale italiano fin dal 1944, con il Decreto Luogotenenziale Badoglio) viene drasticamente ridotta. Avevano cominciato sostenendo che la liberalizzazione del licenziamento sarebbe stata affiancata da un incremento della tutela di chi era colpito dalla crisi; mentivano (e, come teorizzava Joseph Goebbels, sapendo di mentire, con il fine di cancellare l’inevitabile dissenso connesso alla verità) e nel disegno di legge viene ridotta un’assistenza ai disoccupati che già era la più miserabile concessa ai lavoratori dell’area industrialmente avanzata (il G8). Al tempo stesso non vengono toccati i santuari del ceto che sostiene il potere (politico, burocratico, finanziario, militare). Non si tocca l’appalto illecito di manodopera, lasciato in gran parte alla criminalità organizzata; e nessuna norma sanziona il lavoro nero cui il capitale finanziario non intende certo rinunziare (e l’assenza di sanzioni incoraggia di fatto la sua diffusione). Le due omissioni rafforzano il disegno di precarizzazione a tappe forzate.

 

Come noto la tutela contro i licenziamenti, in Italia, riguarda una sostanziale minoranza della popolazione attiva. Sostanzialmente si limita ai dipendenti pubblici (compresi i dirigenti, ma esclusi i precari che sono in costante aumento percentuale) e ai dipendenti privati stabili che lavorano in società con oltre 15 dipendenti (purché non di cooperativa, grazie ad una brillante realizzazione del centrosinistra nel 2001). I giornalisti li hanno definiti privilegiati chiedendo a gran voce di mettere rimedio alla disuguaglianza. La campagna mi ha ricordato la celebre vignetta di Wizard of Id; il popolo chiedeva pane e lavoro ed il re, invocando il principio di mediazione al 50%, concede il lavoro (forzato e con le catene) ma non il pane! Nel nostro caso l’idea di Elsa Fornero (come mediazione, naturalmente) era quella di concedere la parità (tutti licenziabili) negando l’assistenza ai parificati (licenziati). Una soluzione cortese e sadica, secondo la tradizione sabauda piemontese; ma rivelatasi impraticabile a fronte di un necessario equilibrio fra le tre formazioni che appoggiano il governo.

 

Ovviamente la direzione del partito democratico sarebbe stata ben lieta di cancellare la protezione di stabilità; ma rendendo esplicita una simile posizione si sarebbe esposta a rischi seri di sconfitta elettorale, alla concorrenza di SEL e IDV. D’altro canto la guerra ideologica per imporre il controllo del sistema mediante l’abbattimento delle residue tutele è un punto irrinunciabile per l’intero assetto di comando. Lo stratagemma adottato, consueto peraltro nella nostra penisola, è stato quello di organizzare una rappresentazione della trattativa, a toni forti, con la costante minaccia della rottura. Camusso ruba il ruolo a Fiom annunciando lo sciopero generale; Bersani e Raffaele Bonanni si affrettano a mediare; Napolitano invia il fermo monito intimando l’accordo; il consiglio dei ministri approva il compromesso; Confindustria si indigna e chiama alla lotta. Nessuno fa sul serio; il compromesso era la partenza, non l’arrivo.

 

Per il momento non sono toccati dalla riforma i dipendenti pubblici (stabili ovviamente; quelli precari vivono una situazione che non era tecnicamente possibile peggiorare ulteriormente); Cisl e Uil vanno sostenute e quello è il loro bacino di tessere. Inoltre il rapporto fra ceto politico e dirigenza pubblica costituisce una rete clientelare che in questo momento è di grande utilità per l’avvento del pensiero-governo unico. E non si sfiora neppure il massiccio pacchetto che consente le maxiliquidazioni ai grandi dirigenti privati, ai protagonisti della comunicazione (stampata e radiotelevisiva); infatti il consenso alla riforma è plebiscitario, con uso disinvolto della menzogna per argomentarlo. Ci ricorda Bonanni (Il tempo della semina, pagina 142, Milano, 2010): “Non mi nascondo come forze disgregatrici da non sottovalutare siano al lavoro. Né mi sfugge di essere considerati nemici per la nostra volontà di non arrenderci al caos…..per salvare le imprese bisogna mobilitarsi anche per salvare l’Italia”. Questa è l’ideologia del consenso di cui il capitale finanziario ha bisogno; questa è la filosofia politica ed economica che ha portato al varo del Governissimo con il sostegno di destra e sinistra, ala scelta autoritaria di cui questa alleanza è portatrice con la benedizione del presidente della Repubblica e delle grandi banche.

 

Il bersaglio della riforma (oltre ai precari) sono i lavoratori stabili del privato ritenuti a profitto ridotto. Nelle grandi imprese (finanziarie, metalmeccaniche, siderurgiche, chimiche, farmaceutiche, della comunicazione, della logistica e del trasporto) vanno espulsi i cinquantenni ormai logori, troppo costosi e poco disponibili alla cessione del tempo di vita nella sua totalità; vanno sostituiti con giovani precari, ricattati e ricattabili, già espropriati delle loro speranze, senza sogni per il futuro. Ed ancora vanno eliminati, con interventi radicali, tutti i lavoratori che si presentano a capacità lavorativa ridotta per ragioni fisiche, psichiche o psicofisiche; mediante le modifiche si vuole facilitare questo processo che già da tempo era in atto, e non di rado con l’aiuto delle strutture sindacali interne, sempre più corrotte e/o indebolite.

 

Con le nuove norme sparisce (salvo che per i licenziamenti cosiddetti discriminatori) la certezza della reintegrazione, anche in caso di accertata illegittimità del licenziamento. Sarà il Giudice, di volta in volta, a decidere se reintegrare (ma con il limite di dodici mesi quanto al danno) o assegnare il solo risarcimento, cancellando il rapporto di lavoro (da 12 a 24 mesi); e lo potrà fare solo se il lavoratore dimostri (con prova a suo carico) che il licenziamento non solo sia illegittimo, ma che lo sia in modo davvero clamoroso (il disegno di legge recita: manifesta insussistenza). In buona sostanza si prepara il terreno (fertile) per rendere la reintegrazione una ipotesi soltanto residuale.

 

Mentre nei paesi industriali la prova della inesistenza della discriminazione è a carico delle imprese (il lavoratore deve solo affermarla), l’Italia è l’unico paese che impone alle vittime di provare di essere discriminate; e mentre in USA non esiste limite al risarcimento in caso di accertata discriminazione qui da noi si riduce in tutte le maniere il costo per le imprese. Anche i tempi della giustizia sono posti a carico del lavoratore; se lo Stato ci mette dieci anni ad accertare che ti hanno fatto un torto, se ne rifonde uno solo (due ma se perdi anche il posto, e devi anche provare di avercela messa tutta a trovarne un altro)!

 

Da ultimo. Il processo del lavoro dovrebbe durare circa sessanta giorni; sono vietati i rinvii che non abbiano un motivo. E’ un processo rapido, sulla carta. Ma, per esempio, a Matera una causa di licenziamento iniziata nel 2001 (esatto: 2001) non è ancora terminata in primo grado. Non ci sono sanzioni; al massimo è possibile (ma grazie all’Unione europea) ottenere un (modestissimo) risarcimento per denegata giustizia. La riforma Fornero (sempre senza sanzioni) introduce un rito processuale veloce che tutti gli addetti ai lavori non esitano a definire pazzesco, ingestibile, destinato ad una rapida abrogazione (come già era accaduto a suo tempo per il rito societario). Ma in questo caso siamo nell’ambito dell’incapacità e della follia; non sono solo governanti reazionari e autoritari, sono anche (come i generali fascisti della seconda guerra mondiale) inguaribili pasticcioni.

http://uninomade.org/la-riforma-fornero/