Verso ed Oltre il 19 Ottobre 2013 – assemblea cittadina Roma

CASA E REDDITO PER TUTTI E TUTTE

Non solo ..Una Splendida Giornata!

 
Casa e reddito per tutt*, uno slogan che oramai passa di bocca in bocca, di città in città, risuona in tutto il paese alimentando processi di autorganizzazione sociale e nuove lotte. 
 
Lotte che si oppongono ai licenziamenti diffusi e di massa. Lotte per riconquistare diritti contro un lavoro sempre più sfruttato e precarizzato. Lotte per il diritto alla casa e all’abitare attraverso le quali ci si oppone allo stillicidio quotidiano degli sfratti e dei pignoramenti, oppure si riconquista direttamente la casa in cui vivere e con essa parte del reddito e della vita di cui siamo sempre più derubati. Lotte che devono crescere ovunque come virus conflittuale, che devono incontrarsi per mettere al centro l’idea e la materialità di una trasformazione radicale dell’esistente.
 
La due giorni nazionale di  ABITARE NELLA CRISI che si è tenuta presso l’ex caserma di via del Porto Fluviale  a Roma l’1 ed il 2 Giugno passati,  sulla scia dello “Tsunami Tour per il Diritto all’Abitare” e di tante lotte diffuse sul territorio nazionale, ha tracciato su questo terreno, un percorso chiaro sia nei contenuti che negli obiettivi.
 
Costruire una grande manifestazione nazionale per il 19 Ottobre, arrivando in corteo ad assediare i ministeri dell’economia, delle infrastrutture  e la cassa depositi e prestiti, per mettere in discussione le politiche di austerità imposte oggi da un “governissimo” che rappresenta l’estremo tentativo di una classe politica corrotta e subalterna ai poteri forti, di perpetuare se stessa insieme alle politiche neoliberiste che hanno già devastato il paese ed il pianeta.
 
Costruire la manifestazione del 19 Ottobre ne come testimonianza, ne tantomeno come evento che si esaurisca con la giornata stessa. Quindi arrivare alla manifestazione non attraverso una semplice sommatoria algebrica di organizzazioni e soggettività, ma attraverso un processo aperto e plurale di movimento e di conflitto.
 
Uno Tsunami nazionale delle lotte per il diritto alla casa e all’abitare, delle lotte contro la precarietà e per i diritti, delle lotte contro le grandi opere e la devastazione del profitto ai danni dei nostri territori.
 
Uno Tsunami, soprattutto, della riappropriazione. Riappropriazione di territori, di spazi, di beni comuni. Riappropriazione di case. Riappropriazione di reddito attraverso nuove pratiche di conflitto che mettano al centro le questioni delle bollette, dei ticket sanitari, delle tasse – delle mense – degli alloggi universitari contro la selezione e lo smantellamento progressivo dell’università e dell’istruzione pubblica.
 
Del resto molte sono le iniziative già realizzate e molte altre sono già in programma sul territorio nazionale. Anche qui a Roma siamo ripartiti con l’occupazione di ACEA e le iniziative di lotta contro gli sfratti ed i pignoramenti e non ci fermeremo certo ora.
 
Una inedita, meticcia, ribelle, incompatibile composizione sociale è oramai in movimento: niente e nessuno la potrà fermare.  
 
E’ un unico e forte grido:
Riprendiamocia la Città! Riprendiamoci Tutto!
 
Venerdì 21 Giugno ore 17.30
ASSEMBLEA CITTADINA
presso l’occupazione abitativa di viale delle Province n. 189
 
 
Tsunami Tour per il Diritto all’ Abitare

La lotta per la casa contro la legge dei padroni – assedio al Tribunale civile

Oggi, 18 giugno, aderendo a una giornata nazionale di lotta contro la crisi, gli sfratti e le politiche di austerità, i Movimenti per il diritto all’abitare di Roma stanno assediando il tribunale civile di viale Giulio Cesare per impedire il dilagare degli sfratti per morosità incolpevole.

Il tribunale di viale Giulio Cesare a Roma sommerso dalla marea della protesta: contro gli sfratti, gli sgomberi e i pignoramenti, per il diritto alla casa e al reddito, non un passo indietro
La polizia carica e usa i manganelli, ma non basta: il popolo resiste, determinato a riconquistare i propri diritti. 20 tra feriti e contusi tra i manifestanti.

Aggiornamenti:
La lotta paga! Una delegazione dei movimenti per il diritto all’abitare incontra Morelli, presidente della sesta sezione. La richiesta è semplice: vogliamo la messa al bando degli sgomberi, degli sfratti e dei pignoramenti ADESSO!

Il presidente del tribunale Mario bresciano si impegna a chiedere al governo una moratoria sugli sfratti:

Il Presidente del tribunale concorda pienamente con l’idea che la pressione sociale sta salendo proprio a causa del problema casa, ha promesso che scriverà una lettera alla prefettura e al governo, e per conoscenza anche a Comune e Regione, per chiedere un intervento normativo sulla questione.

Caserma Pound attacca e poi scappa – Trastevere *hic sunt leones

Casapound tenta l’assalto al Cinema America Occupato e scappa

 

Durante la notte di mercoledi, a seguito dell’iniziativa dei forum dell’Acqua Bene Comune in piazza San Cosimato, convocata per festeggiare i due anni dalla vittoria referendaria, un manipolo di militanti di Casapound ha assaltato il Cinema America Occupato, un’occupazione limitrofa alla piazza che partecipava attivamente alla costruzione della giornata.

Ma, per i “legionari combattenti” questa volta è andata male: gli occupanti del cinema presenti all’interno dell’edificio, quando si sono resi conto di essere sotto attacco, hanno messo in fuga la squadraccia, scendendo in strada a difesa di tutte le attività del cinema: centinaia di proiezioni cinematografiche ad offerta libera, un corso di teatro gratuito, laboratori di pittura, concerti di tutti i generi, giochi in piazza con i bambini, iniziative a difesa del territorio, incontri e dibattiti, eventi a sostegno dei collettivi delle scuole circostanti e la costruzione della prima aula studio di Trastevere.

In seguito al fallito assalto, la squadraccia ha pensato bene di aggredire un gruppo di ragazzi di ritorno da una serata a Trastevere: ma anche questa volta i fascisti del terzo millennio, rifiutati dalle persone che si trovavano a passare in quella via, sono stati costretti alla fuga.

Trastevere, quartiere di storica tradizione antifascista, rifiuta il fascismo in tutte le sue forme. Queste vili aggressioni sono messe in atto in un periodo difficile per il Cinema America, in quanto tentano di farne una questione di ordine pubblico per facilitarne lo sgombero. Ma chi frequenta l’occupazione di Trastevere sa bene che il Cinema America consiste in ben altro: non si fermeranno le iniziative in piazza, non si fermerà la programmazione, tanto meno i lavori di riqualifica e i progetti avviati in questi mesi.
Ci scusiamo con il vicinato per il chiasso in strada, che ovviamente non è dipeso da noi. Ringraziamo anche chi, svegliatosi nel cuore della notte e affacciatosi alla finestra, ha capito subito la situazione e ci ha aiutato nell’allontanare la squadraccia di Casapound.

Trastevere è antifascista!
HIC SUNT LEONES!
Cinema America Occupato

Contestato CDA della Sapienza, basta profitti sugli studenti

Udite, udite alla Sapienza stanno arrivando delle ingiunzioni di pagamento a più di mille studenti appartenenti alle fasce più basse di reddito, accusati di  aver dichiarato una fascia ISEE inferiore alla propria, e che quindi avrebbero pagato meno tasse rispetto a quelle dovute.

La cifra falsa e mendace corrisponde a 50 euro e la sanzione che gli studenti dovrebbero pagare per questo errore di dichiarazione è totalmente sproporzionata e ingiusta (multe che vanno dai 2000 ai 4000 €) : si basa sul calcolo del 50% della seconda rata della fascia massima (34esima fascia corrispondente a un ISEE maggiore di 99 000 euro) più una sovratassa pari al doppio della tassa universitaria totale annua , il tutto da saldare entro 30 giorni dall’arrivo dell’ingiunzione .

La pena in cui incorrono i presunti evasori fiscali, più volte minacciati di denuncia all’autorità giudiziaria, è il blocco della carriera universitaria, del recupero dei crediti e come se non bastasse l’esclusione per il futuro da agevolazioni allo studio come borse, riduzioni e calcolo delle tasse in base al reddito.

 

Dopo diverse settimane di proteste continue sotto al rettorato non abbiamo avuto risposte e cosi il 30 maggio abbiamo deciso di contestare il “Magnifico” Rettore Frati durante una delle ridicole e quasi provocatorie conferenze sui giovani nel mondo del lavoro .

Alla presenza di giornalisti, docenti ed altri illustri invitati, davanti alle nostre domande , il rettore non ha saputo dare risposte , contraddicendosi ripetutamente e cercando di sviare il discorso.

 

Peccato che, pochi momenti prima della conferenza, l’avevamo incontrato solo per i viali della Sapienza e, sollecitato a spiegarci la situazione , aveva iniziato ad inveirci contro tacciandoci di evasione e minacciando di chiamare la finanza.

 

Questa truffa ai danni di un migliaio di studenti della Sapienza sembra non volersi fermare, come se non bastasse le multe continuano ad arrivare inesorabili.

Tutto questo succede in un’ università martoriata da anni di tagli e riforme, dove viene smantellata ogni parvenza di diritto allo studio e in cui si mettono a valore saperi e persone in nome del profitto. Nel frattempo le risorse a disposizione dell’amministrazione universitaria vengono utilizzate per appalti milionari, stipendi vertiginosi e malagestione dei soliti noti, il tutto camuffato da un bilancio annuale indecifrabile e non trasparente.

Non accettiamo che all’interno dei numerosi CDA della Sapienza non si discuta mai dei  problemi degli studenti ma si trattino solamente le operazioni di facciata legate al feudo di Frati e ai suoi scagnozzi.

 

Chiediamo che vengano riviste le situazioni individuali di ogni studente , che vengano cancellate le multe erogate fino ad oggi e che vengano restituiti i soldi a chi per minaccia o disperazione è caduto vittima di questa truffa.

 

             Gli studenti e le studentesse della Sapienza

Il silenzio è dei colpevoli per un controdispositivo di liberazione dal sessismo

Spesso accade che migliaia di persone attraversino l’ex cinodromo occupato per una serata di musica e socialità. L’autogestione contamina lo spazio e la libertà produce liberazione. Ma a qualcuno di tutto questo non gliene frega un bel niente e, inconsapevole del pericolo che corre, può decidere di usare violenza per avvicinare l’”oggetto” del suo desiderio.

Vogliamo scrivere queste semplici riflessioni per non rimanere in silenzio di fronte ad episodi a cui non possiamo e non vogliamo assuefarci. Vogliamo rompere il silenzio con un urlo liberatorio contro il sessismo e la violenza di genere.

 

Non rimaniamo certo basiti del fatto che spazi occupati e liberati, come il nostro, non siano immuni da eventi di questo tipo. Come compagne e compagni di Acrobax ci rendiamo perfettamente conto (anche perché lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle) che il sessismo è interiorizzato, trasmesso e perpetrato nella società e quindi, purtroppo, anche in quel piccolo pezzetto di mondo che sentiamo nostro e che con impegno ogni giorno proviamo a stimolare, incitare, esortare e spronare verso un’alterità e una trasformazione dell’esistente fatta di autodeterminazione, solidarietà e lotte contro le ingiustizie sociali.

Non serve ricordare la gravità e il numero degli episodi di violenza di genere che si susseguono in Italia come in tutto il mondo. Ce lo ricorda ogni giorno una cronaca affamata di sensazionalismo e buona morale. La nostra rabbia cresce di fronte alle risposte false e ipocrite quali il braccialetto elettronico o l’aggravante del “femminicidio” da parte di una politica integralista che vieta le più banali libertà in tema d’interruzione di gravidanza, coppie di fatto, divorzio rapido per poi battersi il petto di fronte alle conseguenze di tanto oscurantismo.

Non esiste repressione che risolva la questione, non ci culliamo nell’idea che una nuova fattispecie di reato oggi tolga un “femminicidio” domani.

Pensiamo, piuttosto, che anche in questo caso dobbiamo e vogliamo partire dal basso: dai bisogni e dai desideri negati.

Quando occupammo il ministero della piangente ministra Fornero, l’8 marzo 2012, dicemmo chiaramente che “la crisi non è neutra”. C’è una questione di precarietà oggettiva, di vita, di affetti, di ansie e paura, di lavoro e reddito da risolvere. Reddito per tutt*, anche per le donne che denunciano abusi da cui spesso non riescono a staccarsi per le povere condizioni materiali che vivono. Sulla vita delle donne la crisi travolge i falsi miti del lavoro e della carriera come fattori di emancipazione sociale e lascia intorno il deserto, e la famiglia come cattedrale.

In mancanza di forti anticorpi sociali fatti di autodeterminazione e cospirazione, la crisi rischia di produrre, come in altri paesi europei, una deriva di destra, tradizionalista e conservatrice decisamente funzionale al necessario controllo sociale.

Un problema dunque sociale, culturale ed anche economico che attiene alle forme di sopraffazione su cui si fonda la nostra società. Un problema che deve essere messo al centro di quella critica costituente che portiamo avanti ogni giorno sforzandoci con sempre maggiore determinazione nel costruire insieme uno spazio di rottura e di liberazione, una risposta reale, concreta e solidale.

Partiamo da noi, dalle iniziative queer-gay-lesbo-trans, dallo sport popolare antifascista-antisessista-antirazzista, dai corsi di autodifesa femminile organizzati nella palestra La Popolare, fino ai percorsi di lotta per la libertà di movimento e il diritto ad un’esistenza degna oltre il capitale.

Partiamo da noi per organizzare la nostra rabbia…

A me, vittima non lo dici!

Ciao Clément, il miglior omaggio è continuare le lotte

“Bonheur à ceux qui vont nous survivre et goûter la douceur de la
Liberté et de la Paix de demain”

(Missak Manouchian)

 

L’omicidio di Clément  Méric, 18enne militante antifascista parigino, impone alla Francia una riflessione su quanto il vento della crisi stia portando la propria società sul piano inclinato dell’identitarismo e del consenso a proposte politiche autoritarie e nostalgiche.

 

Già il 15 maggio il presidente Hollande si è dovuto difendere dalle bordate mediatiche per i primi segnali di recessione (-0,2% del PIL), contestualmente alle critiche mosse all’esecutivo di centro-sinistra per la legge a favore del matrimonio “per tutti”, ovvero il riconoscimento delle nozze tra omosessuali. I due fatti non sono scollegati: da una parte abbiamo un paese che da decenni si confronta con tensioni interne fortissime, tra centri metropolitani eperiferie, tra cittadini di provenienze nazionali differenti e conflitti
interconfessionali. Fino ad ora il tradizionale centralismo e l’ipertrofico sistema di tutela pubblica avevano parzialmente alleviato le fratture, ricorrendo spesso e volentieri alla retorica legalitaria e all’uso della forza pubblica per limitare le emergenze al chiuso delle banlieues e dei ceti sociali più poveri.

Oggi, con la recessione alle porte, le vecchie paure della “France profonde”, di quella provincia bianca, cattolica e rurale, tradizionalista e xenofoba, entrano a gran forza nelle città: Parigi, Lione, Lille, Tolosa sono investite da una rinnovata fascinazione per i molti gruppi di estrema destra e per la figura decisamente carismatica di Marine Le Pen, a capo di un Front National il cui consenso, dopo gli anni di sussunzione “sarkozyana”, è arrivato ad oltre il 17% alle ultime presidenziali. Il miglior risultato di sempre. La cittadinanza impaurita dal possibile disastro sociale che già vede dispiegarsi tra i PIGS alza gli steccati dell’identità, cerca di blindare le risorse pubbliche a proprio favore, secondo i principi escludenti della preferenza nazionale.
L’approvazione di un importante diritto civile come quello al matrimonio gay viene messo in discussione tanto come attacco ad un principio di società eterocentrica e tradizionale, quanto come punto di agenda politica considerato non prioritario di fronte alle dismissioni industriali e ai primi tagli di spesa ai servizi.

Come ben sappiamo in Italia, quando l’austerity diventa governo della paura e l’estrema destra è in grado di assorbire parte del malcontento sociale, questa facciata pubblica crea l’ombra nella quale si rafforza il neofascismo. Le piazze contro il “matrimonio per tutti” si sono animate di una radicalità probabilmente in Francia assente dai tempi della guerra d’Algeria e dell’OAS. Con il suicidio il 21 maggio dell’intellettuale
nazista Dominique Venner, ricordato con affetto anche dagli italiani di Casapound, l’estrema destra ha goduto di una visibilità che ha speso
immediatamente negli scontri il sabato successivo in coda ad una partecipata mobilitazione sulla questione delle nozze omosessuali. Solo negli ultimi mesi a Parigi e in tutta la Francia gruppi più o meno organizzati di fascisti avevano attaccato compagni, omosessuali (è di ieri la notizia di un raid a Lille contro un bar gay-friendly) e riaperto le tensioni  islamofobe, con l’organizzazione Génération Identitaire che a Poitiers
in ottobre occupava il cantiere di una nuova moschea. A Tolosa un raduno neonazista è in programma per il prossimo fine settimana, con una mobilitazione antifascista già convocata.

Insomma, l’omicidio di Clément Méric non cade dal cielo. I suoi autori, militanti della Jeunesses Revolutionaires Nationalistes, fanno parte di una organizzazione storica, già attiva negli anni Ottanta e che oggi rappresenta il legame più forte con Casapound in Francia. Anche la Francia, come già avviene in Grecia e in parte in Spagna e Italia, sta cedendo alle pulsioni più basse della pancia del paese, legittimando una società fatta di recinti e discriminazioni, di prevaricazione e squadrismo fascista.

Ci troviamo a piangere un attivista di appena 18 anni, senza aver ancora asciugato le lacrime per Abdullah Comert, assassinato pochi giorni fa in Turchia dalla repressione:  a ucciderli per noi è stata la stessa mano, che abbia la divisa o una celtica al collo. A muovere entrambi era il nostro
stesso desiderio di libertà e dignità. Tutti o nessuno, tutto o niente. Il nostro miglior omaggio è continuare le lotte.

LOA Acrobax Project

All Reds Rugby Roma

All Reds Basket

La Popolare Palestra Indipendente

Antifascist* sempre

Intervista a Matteo Miavaldi autore del libro “I due marò.Tutto quello che non vi hanno detto”

Intervista a Matteo Miavaldi (www.china-files.com) autore del libro “I due marò.Tutto quello che non vi hanno detto”, ed. Alegre, 2013

 

 

 

 

 

 

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Per una rottura politica contro la governance neoliberista, video interventi

 

Presentiamo i video dell’incontro con Maurizio Lazzarato tenutosi ad Acrobax lo scorso 5 Aprile 2013 (http://www.indipendenti.eu/blog/?p=28505) introduzione a cura  del Lab Alexis, intervista a Lazzarato a cura del Lab Acrobax a seguire dibattito con interventi di:

 

 

 

 

 

Benedetto Vecchi del il Manifesto

Gianluca Pittavino del csoa Askatasuna Torino

Dario Lovaglio M15 Barcellona

Marco dello 081 Napoli

Federico Primosig attivista Stoccolma

 

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Giù le mani dal Cinema America

Abbiamo ricevuto da pochi giorni la notizia, da più fonti accertata, di un ordine di sgombero per il Cinema America. Il periodo a rischio andrebbe da giugno alla fine dell’estate. Ebbene sì: questi sei mesi di vita, di riappropriazione, di riqualifica di uno spazio abbandonato rischiano di essere prima bastonati dalle forze dell’ordine poi abbattuti dalle ruspe.

Nell’autunno scorso, mentre migliaia di precari, studenti, disoccupati e senza casa occupavano le strade della città, abbiamo riaperto il Cinema America per portare al centro di Roma le lotte di chi quotidianamente resiste ad una vita colpita dall’austerità.
Abbiamo riaperto un edificio fantasma e l’abbiamo reso vivibile, attraversabile dai bambini, colorato, animato e condiviso con i trasteverini che ogni giorno hanno riempito il Cinema del loro amore verso questo Rione.
Questa esperienza di sei mesi rappresenta per noi un modello di difesa del territorio: in armonia con i suoi abitanti e le loro esigenze, in lotta per la conquista di spazi d’espressione, in conflitto con chi vede i quartieri come una miniera d’oro da profanare a suon di palazzine.

Ma su qualche pezzo di carta depositato negli uffici del Comune c’è scritto che il Cinema America è stato acquistato da un costruttore che ora ne vuole fare una palazzina di mini-appartamenti, con due piani di garage interrato. E questo conta più della volontà di un Rione, delle esigenze dei giovani e degli studenti delle scuole di zona e di tutto ciò che il cinema rappresenta per molti.
Per loro. Per noi, di fronte a tutto ciò un pezzo di carta rimane tale, a prescindere dal denaro che il palazzinaro di turno può aver speso per speculare sul Rione di Trastevere.

Siamo pronti a difendere tutto ciò che abbiamo costruito: dichiariamo ufficialmente che in caso di sgombero siamo pronti ad occupare piazza San Cosimato a tempo indeterminato, per riempirla di tutte le iniziative in programma all’interno del Cinema America, senza rinunciare a nulla: proiezioni, corsi di teatro e di pittura, concerti, iniziative a sostegno dei collettivi, incontri, dibattiti, assemblee, nonché la prima sala studio di Trastevere.

Per dare un assaggio di cosa siamo pronti a fare, abbiamo indetto per venerdi 7 giugno una giornata di mobilitazione: occuperemo piazza San Cosimato dal pomeriggio fino a sera, riempendola dei nostri contenuti e delle nostre attività.

VENERDI 7 GIUGNO – PIAZZA SAN COSIMATO

 

ORE 16:30 ASSEMBLEA PUBBLICA

 


 

ORE 18:00 MUSICA LIVE FINO A SERA


Giù le mani dal Cinema America Occupato… HIC SUNT LEONES!

  

Political divide: il cinquanta per cento degli italiani se ne fotte dei partiti, vecchi e nuovi

di Lanfranco Caminiti

Di sicuro c’è solo che si è votato. Ma la fluidità del comportamento elettorale è ormai tale che diventa un busillis non solo predire con una qualche approssimazione politica quel che succede ogni volta, ma anche quel che succederà la prossima volta. Il cinquanta per cento degli elettori non va a votare. Dopo la Sicilia, dopo il Friuli, in questa tornata di amministrative il fenomeno si è esteso a livello nazionale, e a Roma sia per numero che per senso ha un significato macroscopico. Identificare il profilo di questo “non elettore” è davvero complicato, perché — è questo, a mio parere, il dato nuovo e perturbante del sistema — non è sempre lo stesso soggetto [sociale, economico, geografico] a andare a far parte di questo nuovo “blocco”. Qui il fenomeno, in un certo senso dato per scontato da sondaggisti e spin doctor, di quel venti per cento di resistenti e indifferenti alla liturgia democratica elettorale, quasi una “plebaglia elettorale” di chi scribacchiava un insulto o preferiva il mare se era la stagione buona o stiracchiarsi a letto se era una stagione fredda, si è modificato in uno “zoccolo politico”. Da un sistema politico congelato in due enormi blocchi, la Dc e il Pci — che era il “segreto” funzionamento della Prima repubblica —, siamo passati, attraverso il bipolarismo acciaccato di centrodestra e centrosinistra della Seconda repubblica che avrebbe dovuto ammodernarci nel normale ricambio di governo tra uno schieramento e l’altro, a una spaccatura tra chi vota e chi no, che sembra la formula nuova della Terza repubblica. Il cinquanta per cento degli elettori italiani non va a votare con una motivazione politica “forte”. Il “fattore A”, A come astensione, è andato a sostituire il “fattore K”, come Kommunismus, che era la “norma fondamentale”, la Grundnorme della Prima repubblica. Solo che il fattore K era un elemento di “stallo” e fu intelligenza comunista quella di governare dall’opposizione. Il fattore A è invece un elemento di instabilità e non si vede ancora chi riesca a governarla — mi sembra poca cosa il ragionamento di chi considera automatico un rafforzamento del governo Letta. «Uno vale uno», che sarebbe il principio democratico introdotto dal 5 stelle, non è più vero, perché uno non va a votare e se ne fotte.

 

La retorica del lavoro e quella di internet

Ci sono due fenomeni che in qualche modo si possono accostare, senza sovrapporsi, a questo, di una metà di elettori che non esercitano più il loro diritto/dovere di voto. Il primo è quello riguardante le persone che non cercano più lavoro, perché non lo trovano, e sono scoraggiati tanto da non mettersi più in fila, non consultare gli elenchi ai Centri per l’impiego, non mandare in giro curriculum, non bussare più ad alcuna porta, non chiedere neppure più alla cerchia degli amici e dei parenti; sommando i circa tre milioni di inattivi con i circa due milioni di disoccupati arriviamo a una cifra consistente che va vicino alla metà della forza lavoro disponibile, con grosse concentrazioni tra le donne e i giovani e nel Sud, quindi con notevoli squilibri nella distribuzione regionale. Detto tra parentesi, a guardare questi dati viene da pensare quanto sia ideologica e indecente la posizione di chi è contrario all’introduzione del reddito minimo di cittadinanza perché “scoraggerebbe” le persone dalla ricerca di un lavoro, acquietandole in un universo assistito, e in definitiva di parassitaria sopravvivenza. Ideologica perché sembra aggrappata a un universo di riferimento dell’occupazione di massa e della produzione affluente che nessuna ripresa e nessuna crescita potrà mai più garantire; e indecente perché hanno la faccia di tolla di dirlo con l’aria di chi di preoccupa per te e cerca il tuo bene, quando lo “scoraggiamento” da non lavoro è già un dato di fatto. L’altro fenomeno da accostare riguarda la diffusione di internet e della rete e dei social network, di cui si fa un gran parlare per la sua influenza politica e per la deliberazione democratica, e che in realtà resta confinato a ventinove milioni di italiani — peraltro in statistiche di ammucchiate comuni dove gli utenti più pervicaci stanno assieme a quelli che in rete ci vanno solo una volta al mese e magari solo per la posta elettronica —, con una distribuzione più intensa in alcune province e non in altre, diverse zone del Sud connesse poco e male, e con venti milioni che non frequentano la rete e che sembrano indifferenti, refrattari [non gliel’ha mica consigliato il medico, e non è mutuabile], ma continuano a vivere benissimo senza e, soprattutto, a poter mantenere, se si vuole, un buon livello di informazione sugli eventi attraverso strumenti più tradizionali: la radio, moltissimo, la televisione, i giornali locali. Potremmo dire — con beneficio d’inventario, certo — che metà del paese è “separata in casa” dall’altra metà. Non è propriamente una divisione geografica e non è neppure una divisione verticale, nel senso che non si riconoscono facilmente questioni di reddito, di sicurezze sociali, di appartenenza e identità, di ruolo, di età, che in qualche modo renderebbero similare una metà e altrettanto quell’altra. Invece, non è così. Le due metà non sono speculari, e alcuni caratteri di densità — per la mancanza di lavoro il fatto che la concentrazione più alta stia fra i giovani, oppure fra le donne e comunque dove bassa è la scolarizzazione, per la connessione il fatto che le persone anziane siano le più refrattarie e le aree metropolitane più periferiche come i comuni più piccoli, mentre invece scolarizzazione, età e status rendono più similari gli utenti forti, in generale perché nel Sud le negatività sembrano maggiori — contraddicono ogni semplificazione sociologica.

 

Political divide e implosione sociale

Mutuando un termine legato alla diffusione di internet, il digital divide, parlerei proprio di un political divide. È qualcosa di molto diverso dall’antipolitica, di cui si è tanto parlato e si continua a fare — io, poi, credo che il Movimento 5 Stelle, sempre tirato in ballo, rappresenti semmai l’arcipolitica — perché, come per quel fenomeno legato al lavoro, c’è uno scoraggiamento, perché, come per quel fenomeno legato alla connessione alla rete, c’è una indifferenza, o meglio: una consapevolezza dell’impossibilità di costruire una relazione qualunque di vantaggio fra se stessi e la rete. Una volta c’era “la maggioranza silenziosa”, non protestava, ma votava. E faceva pesare col voto le proprie opinioni, le proprie preferenze, le proprie ossessioni. In un tempo in cui “prendere parola”, scendere in piazza, protestare, lottare, era la democrazia, sottrarsi nel silenzio in penombra del voto era conservatore, reazionario. Qui invece sembra affermarsi qualcosa di diverso. Questo cinquanta per cento, che sembra refrattario alle battaglie di rinnovamento del Pd, sia in salsa liberale sia in salsa socialdemocratica, alle rifondazioni delle rifondazioni comuniste, alle sirene del berlusconismo, alle sfuriate e alle proteste del M5S, è una piaga o una riserva — come suol dirsi ripetutamente adesso a ogni piè sospinto — della democrazia e della repubblica? Non siamo gli Stati uniti, dove da tempo ben più della maggioranza degli elettori non si iscrive ai registri e non partecipa al voto. Tra una cosa e l’altra, un presidente americano — cioè il leader della più grande potenza della storia — è al comando con circa un venti per cento dei cittadini che lo hanno scelto. Ma a parte le differenze di grandezza e di storia, i partiti in Italia sono stati la grande scuola della democrazia, della partecipazione, della promozione sociale. E chi non faceva vita politica aveva mille altre occasioni per partecipare alla vita sociale. Da noi invece, la vita economica è strettissima e la vita sociale si è andata progressivamente sfaldando. E se le pulsioni sociali non hanno voice, non hanno exit, per riprendere le categorie di Hirschman, tendono a implodere anche drammaticamente.

 

Si può vivere senza partiti?

Daniel Cohn-Bendit, il ragazzo anarchico che partendo da Nanterre infiammò le barricate del Maggio francese, l’ebreo tedesco espulso dalla Francia che fece urlare nei cortei del 1968 «Nous sommes tous juif allemandes», il fondatore, con Joschka Fischer, del movimento dei Grunen, i Verdi tedeschi, i Realo pragmatici che hanno avuto un ruolo importante nella politica della Germania degli ultimi venti anni, l’europarlamentare che si è battuto per difendere e diffondere i temi ecologici in Europa, non si ricandiderà alle elezioni. Cohn-Bendit ha condensato in un piccolo libro — una cinquantina di pagine — da poco arrivato in libreria una serie di convincimenti maturati nel tempo: Pour supprimer les partis politiques!? Réflexions d’un apatride sans parti, Editions Indigènes, che è insieme una rapida autobiografia e un pamphlet contro il partito politico — qualsiasi, possiamo supporre anche il “suo”, dei Verdi —, questo artificio che dalla rivoluzione giacobina passando per la rivoluzione d’Ottobre e le riflessioni di Weber si è incistato nel continente. Il titolo del pamphlet di Cohn-Bendit riecheggia un altro piccolo grande libro, della filosofa e militante Simone Weil, scritto nel 1940: Note sur la suppression générale des partis politiques. Cohn-Bendit, che non ha alcuna intenzione di abbandonare la scena pubblica, pensa che siano necessarie piuttosto forme di cooperazione, di associazione fra cittadini per portare avanti proposte, proteste e per conquistare «l’autonomie». Per quanto possa essere interessante, e lo è, per quello che una biografia può raccontare di un periodo storico e del suo lascito, la dichiarazione di intenti di Cohn-Bendit sembra più una presa d’atto che un programma. Voglio dire: i partiti politici sono già soppressi, c’è poco da interrogarsene e agitarsene in merito. Non credo che la disaffezione quando non l’ostilità ai partiti politici — di cui l’Europa sta sperimentando varie forme, un po’ dovunque, dalla crescita dell’astensione al proliferare di movimenti apertamente contro i partiti alla rinascita di movimenti identitari, territoriali— sia solo una questione “politica”, dipenda cioè esclusivamente dalla crisi delle ideologie e degli orientamenti che hanno caratterizzato il Novecento. Credo piuttosto che la crisi dei partiti politici debba essere ricondotta alla crisi dell’universalità e alle modificazioni produttive. L’una e l’altra — universalità e produzione — sono le strutture della rappresentanza politica, della cittadinanza. La storia europea dal Seicento al Novecento è storia dello Stato, senza lo Stato — il suo monopolio della forza, il patto di obbedienza in cambio di sicurezza — saremmo condannati alla frantumazione, all’implosione, alla sopraffazione, alla guerra intestina. È in questa “visione” che sta la centralità dello Stato e trova ragione lo strumento del partito politico per conquistarlo o per mantenerne il comando. La storia dello Stato del Novecento è stata storia di conflitti tra partiti del proletariato e partiti della borghesia, tra partito del capitale e partito del lavoro. Ed è stata una storia grande. Era qui — capitale e lavoro — la materialità del partito politico. La materialità del conflitto e del compromesso. Si può ancora dire oggi che esista un partito del capitale, il “comitato d’affari della borghesia”? E, di converso, si può ancora dire che esista un partito del lavoro? Sembra piuttosto che capitale e lavoro siano senza un partito “proprio”, sembra anzi che ne facciano bellamente o mestamente a meno. Il capitale, inoltre, può fare a meno dello Stato, dello Stato-nazione, ha dismesso lo Stato, e per questa via il lavoro [il lavoro che produce] non può più usare lo Stato ai propri fini. Lo Stato è un involucro vuoto, o meglio un apparato privo di senso e di scopo — guardate com’è carta straccia la nostra Costituzione —, tranne la propria riproduzione. In questo “parassitismo” è rimasto intrappolato il partito politico. I processi multitudinari — la scomposizione della classe operaia dalla sua unicità in mille prestazioni d’opera, una volta che la fabbrica e il suo modello di produzione non è stato più il parametro delle relazioni sociali — hanno investito in pieno la “borghesia”, frammentandone a sua volta la sua unicità di comportamento, di status. Il comando dei processi come l’investitura di una missione sono passati direttamente alle nuove élite. Transnazionali come il denaro. L’atomizzazione, l’individualizzazione non sono stati processi che hanno colpito solo il “proletariato”, ma anche le classi medie. Per un verso si è tutti “ceto medio”, per un altro si è sempre tutti a rischio di scivolare dall’inclusione verso l’esclusione.

 

Riappropriazione del voto e critica della politica

Un comportamento sociale così massiccio come l’astensione al cinquanta per cento non può più essere letto solo come uno degli aspetti di liquidità sociale o di “crisi della rappresentanza politica”, che sposta l’attenzione e il focus sulle questioni dei partiti e dell’esercizio della trasmissione della delega, tralasciando la soggettività politica del soggetto che esercita il “non voto”. Piuttosto, sembra una “opzione politica”, cosciente e determinata: una critica della politica. Qui dunque stiamo: la politica, intesa come costruzione di un consenso e esercizio della sua forza non è certo scomparsa. Anzi, cresce la consapevolezza di questa necessità. È sui territori, nella vita quotidiana che si sperimentano forme nuove di associazione tra liberi e uguali. Tra movimenti e istituzioni si apre una dinamica nuova, di conflitto e compromesso quando necessario, che è tutta da costruire e scoprire.

 

29 maggio 2013