Per una riforma radicale degli ammortizzatori sociali

Una riforma radicale degli Ammortizzatori sociali non solo rimane oggi un punto dirimente per affrontare una qualsivoglia politica sociale e di welfare minimamente attestata sui livelli di protezione sociale richiesti dalla comunità europea, quanto ormai per il nostro paese, rappresenta una vera e propria emergenza sociale ineludibile e non più rinviabile. Il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è sotto molteplici aspetti iniquo, asimmetrico e carente praticamente in tutte le sue funzioni. Oltre ad affermarlo una infinità di ricerche accademiche di diverse sfumature teoriche e tendenze politiche, lo testimoniano le tante storie di vite precarie che in continui percorsi lavorativi instabili ed intermittenti non conoscono alcuna tutela e rete di protezione sociale, attraversando il mercato del lavoro come veri e propri schiavi o come li definisce l’accademia delle politiche del lavoro, come i neo – working poors.  Una riforma radicale del welfare-state e degli ammortizzatori sociali rappresenta oggi l’unica misura in grado di contrastare nell’immediato la ricaduta sociale della crisi finanziaria globale che nel breve periodo trasformerà le condizioni di vita di milioni di persone e provocherà l’accelerazione di un crescente e progressivo processo di precarizzazione ed impoverimento di quei settori sociali che hanno fin’ora costituito quella parte garantita e tutelata della popolazione attiva. Una crisi che viene da lontano e che rappresenta la più alta manifestazione del crollo verticale dell’intero modello neoliberista che oggi si trova decisamente sul crinale del baratro e della recessione economica. Facciamo riferimento alla crisi economica e finanziaria così come la stiamo progressivamente conoscendo nelle sue ricadute sull’economia reale, nel rallentamento e nel declino degli indicatori di crescita, produttività, sviluppo economico e cosa ancor più grave nel potere di acquisto dei cittadini e delle famiglie. Gli ultimi dati che emergono dalle ricerche statistiche e dalle previsioni economiche realizzate da alcuni centri studi come Banca d’Italia o Confindustria rappresentano già di per sé una base sostanziale di analisi e di riflessione sulle ricadute della crisi finanziaria sulla così detta “economia reale”. Il Centro Studi della Confindustria per esempio segnala che la produzione industriale su base nazionale è in continua e progressiva caduta. Rispetto al gennaio del 2008 per la produzione industriale si registra (nel gennaio 2009) un’inflessione dell’11,8%. Ma il dato ancor più preoccupante rispetto alla crisi profonda che sta attraversando il settore industriale lo rappresenta l’andamento degli ordini il cui calo per le aziende che lavorano su commessa e’ stato nell’ultimo anno (gennaio 2008-gennaio 2009) del -7.9%1. E quindi già da questi dati dietro la crisi del settore industriale (che comunque se vogliamo è anche interna ai processi di ristrutturazione economica degli ultimi trentacinque anni) traspare e s’intravede una crisi conclamata anche nei settori in espansione come il terziario e terziario avanzato. Secondo il Centro Studi di Banca d’Italia l’attività produttiva complessiva del sistema delle imprese si sta riducendo in tutti i comparti2 e tra il secondo e terzo trimestre del 2008 il nostro paese ha perso complessivamente quasi un punto del prodotto interno lordo (-0.4 nel II° trimestre ed un ulteriore -0.5 nel III° trimestre del 2008 di PIL) confermando insieme a tutti gli indicatori disponibili, un marcato deterioramento del nostro sistema produttivo all’interno della difficile congiuntura internazionale aggravata dalla crisi finanziaria: “La fiducia delle imprese si è deteriorata scendendo ai minimi storici e riflettendosi in piani di riduzione degli investimenti anche per l’anno in corso”3 . Complessivamente stante tale contrazione economica peggiora la redditività delle imprese mentre aumenta il loro fabbisogno finanziario, ma soprattutto e logicamente ristagnano i consumi delle famiglie. Sempre secondo la Banca d’Italia “è sempre più diffusa l’incertezza sulla durata e sulla profondità della fase recessiva e le crescenti preoccupazioni sull’evoluzione del mercato del lavoro hanno indotto le famiglie a rinviare le spese consistenti con un forte calo anche degli acquisti di beni durevoli”4. Viene da sé che se questa è la condizione in cui versa il sistema delle imprese, la conseguente e drammatica accelerazione di crisi nel mercato del lavoro appare ovvia e sotto gli occhi di tutti. Ma vediamo un po’ in un quadro panoramico di sistema, come sta evolvendo il mondo del lavoro.  In realtà dal 1995 l’occupazione in Italia è cresciuta con 3 ML di nuovi posto di lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso dall’11 al 5.5% circa, tutto questo mentre i tassi di crescita rimanevano progressivamente sempre più bassi. Ovvero in questi anni il lavoro è cresciuto più dell’economia reale e “i posti di lavoro si sono moltiplicati senza creare nuova ricchezza” ne complessiva e ne individuale, infatti il reddito medio pro capite è in Italia di 25.500€ contro i 27.500€ della media europea (sotto di noi ci sono solo la Grecia e il Portogallo)5. Tra dipendenti a termine, cocopro, consulenti, part-time e apprendisti si raggiungono nel 2007 circa il 20% degli occupati complessivamente attivi e contemporaneamente solo 1/3 delle assunzioni con meno di 40 anni riguarda i tempi indeterminati. Coesistono ormai quindi da anni due velocità all’interno del MDL quello del posto fisso e quello del lavoro temporaneo. Da un lato quello delle garanzie durante il rapporto di lavoro e dopo il licenziamento, e dall’altro quello della flessibilità che spesso si traduce in precarietà senza garanzie sia durante che dopo il rapporto di lavoro. La crescita del MDL in Italia è stata quindi costruita su questa base di forte squilibrio sociale attraverso una sostanziale asimmetria nel mondo del lavoro e negli ammortizzatori sociali. Una primavera del MDL come la definisce qualcuno, basata sulla precarietà o meglio sulla declinazione e trasposizione della flessibilità lavorativa nella precarietà sociale e del lavoro. Una primavera costruita come sappiamo attraverso i processi delle riforme legislative che negli ultimi dieci anni hanno ridisegnato i rapporti di lavoro e le forme di impiego, attraverso sia la riforma dei contratti di lavoro che dei Servizi per l’impiego. Una crescita che per giunta oltre ad essere stata debole e falsata si volge ora al termine, cominciando ad invertire la dinamica di segno “positivo” degli ultimi dieci anni e subendo le prime ripercussioni della crisi. Nello specifico delle immediate ricadute sul mondo del lavoro l’elemento qualitativo fornito dai dati disaggregati vede negli ultimi mesi crescere da un lato l’occupazione straniera, femminile e alle dipendenze, mentre vede invece calare decisamente l’occupazione maschile e complessivamente quindi il generale tasso di occupazione. Il dato ovviamente ci conferma la contrazione economica e i suoi riflessi sullo sviluppo del MDL e manifesta il progressivo deterioramento di una crescita dell’occupazione come abbiamo detto sostanzialmente “debole e falsata”, componendosi prevalentemente, la dimensione reale della crescita del tasso di occupazione, quasi esclusivamente con nuove forme di lavoro flessibile e temporaneo. Ora dopo anni di sostanziale crescita dell’occupazione, l’indicatore del tasso di disoccupazione è questa volta aumentato dello 0.5 nell’ultimo trimestre del 2008 attestandosi al momentaneo 6.1%. A questo si aggiunge che i dati di previsione forniti dall’OCSE nel breve periodo sulla disoccupazione per il 2009, sono più che preoccupanti ed indicano con l’acuirsi della recessione economica un aumento di 3 nuovi ML di disoccupati solo sul territorio della comunità europea, di cui in Italia almeno 1/5. In Italia quindi da un lato la crescita dell’occupazione si è basata su una debole leva di sviluppo che è quella della precarizzazione dei rapporti di lavoro  e quindi sull’abbassamento complessivo del costo del lavoro (anche a partire dallo storico accordo del Luglio ’93 che ha slegato definitivamente i salari dall’inflazione reale)  perseguito da aziende che hanno fin’ora basato il loro profitto non sull’innovazione di processo e di prodotto ma sul costo delle contrattualizzazioni e anche sullo sfruttamento del lavoro nero. Dall’altro la crescita dell’occupazione non essendo il risultato della crescita generale del tessuto produttivo non si è tradotta come confermano tutti i dati disponibili in una vera crescita produttiva, quanto in una continua e ripetuta espropriazione generalizzata non solo della forza lavoro ma anche delle risorse pubbliche ottenute con incentivi, sgravi fiscali, finanziamenti a pioggia che congiuntamente all’evasione fiscale hanno fatto la fortuna degli imprenditori e dei banchieri di questo paese, senza però far crescere ed innovare realmente il tessuto produttivo e la condizione nel mercato del lavoro. Per affrontare quindi il tema degli ammortizzatori sociali e della più complessiva riforma del welfare state è necessario oggi ripensare da capo il “modello”, non solo a partire dal ruolo e dal riconoscimento delle reti  della cooperazione sociale che sottende qualsiasi politica integrata di welfare e di servizi alla persona, al territorio e alla comunità, ma occorre anche ripensare e riconfigurare la relazione e l’integrazione tra le possibili forme di un nuovo welfare, il tessuto produttivo nelle sue continue evoluzioni e le trasformazioni della forma dello Stato a partire dalla riforma del Titolo V della costituzione. Sono tre ambiti che si dispongono come canali e spazi fin’ora formalmente separati ma realmente poi connessi solo dalle logiche del profitto, peraltro le stesse che hanno determinato la crisi epocale che stiamo attraversando e che fungono per la governance politica quasi ed esclusivamente come moltiplicatore dei centri di costo per il pubblico a favore della speculazione del privato. Quindi da un lato per ripensare il ruolo del welfare c’è da definire la complessità e nel contempo l’opportunità che porta con se il passaggio dal ruolo centrale dello Stato come grande “protettore” della comunità (che gestiva in forma centralizzata e accentratrice le risorse e i canali di distribuzione ed erogazione dei servizi) alla nuova governance regionale che ha assunto la forma dello Stato nel nostro paese a partire dalla già citata riforma costituzionale del Titolo V. Dall’altro lato c’è da ridefinire radicalmente il rapporto tra le imprese, il loro profitto e la comunità che risiede nello stesso territorio che viene quotidianamente attraversato dalla valorizzazione e dalla continua espropriazione di valore e di ricchezza socialmente prodotta. Quindi è necessario ridefinire con un’analisi coerente la lettura in contro luce delle trasformazioni produttive, nel processo lavorativo come nel processo di valorizzazione e quindi mettere nella giusta relazione le evoluzioni e le trasformazioni del tessuto produttivo con il tema del welfare state e della riforma degli ammortizzatori sociali. Proprio perché oggi le trasformazioni in seno al processo produttivo nel superamento del vecchio sistema industriale fordista hanno  spostato il baricentro della valorizzazione verso l’innovazione, la comunicazione e la cooperazione sociale sul territorio, lo stesso legame diventa inscindibile. Dalla grande industria la vecchia fabbrica fordista si è estesa al territorio, si è aperta all’economia della conoscenza, abbattendo le sue frontiere formali ed ha assunto il modello dell’esternalizzazione come fattore endemico, producendo però simmetricamente sul territorio il suo esatto contrario, ovvero immettendo nel territorio, l’internalizzazione del processo di valore: producendo i tanti indotti ormai sempre più articolati ben oltre i  vecchi distretti industriali. La produzione immateriale dell’economia della conoscenza si fonda quindi sulla valorizzazione del territorio e delle reti relazionali. Di quelle stesse reti cooperative e altamente produttive che in una diffusa produzione di skills formali ed informali costituiscono il nervo centrale dell’odierno processo di valore, interno e consustanziale all’economia della conoscenza. Lo sviluppo scientifico e tecnologico che va di pari passo con la valorizzazione del capitale sociale, pone il territorio al centro dell’odierno regime di accumulazione capitalistico che sviluppa nell’economia della conoscenza anche nuove filiere produttive (come ad esempio il marketing territoriale). Ne consegue che un necessario coinvolgimento del tessuto produttivo nel finanziamento dei sistemi di welfare e protezione sociale della cittadinanza dovrebbe essere non solo un prerequisito etico sociale indiscutibile, ma anche il giusto riconoscimento del processo di valorizzazione che il sistema delle imprese dispiega intensivamente sul territorio e sulle reti sociali che lo animano. Per dirla con altre parole qui in Italia a differenza di come avviene in altri virtuosi contesti nord-europei, il sistema delle imprese attinge costantemente dalla finanza pubblica un considerevole sostegno economico che passa attraverso molteplici canali e linee di finanziamento e nello stesso tempo non re-distribuisce nulla, o quasi, dei profitti e dei dividendi che va accumulando, soprattutto in alcuni settori strategici dell’economia immateriale della conoscenza. E’ un punto dirimente quello del profitto legato al welfare e nello specifico alla riforma degli ammortizzatori sociali. Lo è ancor di più poiché spesso nel dibattito politico si lega strumentalmente il tema del finanziamento delle risorse per il nuovo welfare al tema specifico della riforma previdenziale – cioè al vecchio welfare – aggirando e mistificando la realtà fattuale a favore di un tema caro alle destre e sinistre liberali, ovvero quello di fare le riforme sociali a costo zero rispettando supinamente i parametri stabiliti in sede comunitaria  come quello sul tetto al 3% del rapporto tra deficit e PIL non mettendo mai in discussione il rapporto cruciale che vi è invece tra i profitti e la re-distribuzione della ricchezza e del reddito. Quindi è ovvio poi aggiungere che anche quando si parla del regime attuale degli ammortizzatori sociali che abbiamo definito senza troppi compromessi di sorta, iniquo ed asimmetrico, si deve svelare il banale e contradditorio legame tra l’inconsistenza delle risorse fin’ora stanziate, l’inadeguatezza di copertura per tutti coloro che vivono una realtà lavorativa all’interno di un’azienda piccola o individuale (che va poi ben oltre le misure previste per le grandi dimensioni aziendali ed industriali come la cassa e la mobilità) e nel contempo la profonda ed inadeguata strutturazione dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro. Bisogna svelare la dimensione contraddittoria della tanto auspicata conciliazione tra le politiche attive e passive del lavoro, laddove in Italia la storpiatura e la disfunzione di entrambi gli istituti porta ormai da anni a fare male entrambe, così come bisogna svelare la prima contraddizione insita nel mercato del lavoro che è rappresentata dalla dualità e dal divario tra quella fascia di forza lavoro stabilmente contrattualizzata e regolata anche nell’eventualità di perdita e fuoriuscita dal mercato del lavoro e quella più precaria e precarizzata che invece come abbiamo detto, vive percorsi lavorativi intermittenti e precari e che rimane poi considerevolmente esclusa dai diritti sia durante che dopo il lavoro. Politiche attive che il più delle volte divengono un finanziamento a pioggia verso il sistema delle imprese piuttosto che un serio investimento sui diritti di cittadinanza delle persone che perdono il lavoro. Del resto quale lavoro? dovrebbe essere il tema legato a quale reddito e quali diritti? E su questo bisognerebbe interrogarsi nel presente politico e nel futuro prossimo. Anche perchè concentrandoci per un momento sugli squilibri del welfare e delle reti di protezione sociale esistenti e facendo una rapida panoramica di confronto con altri paesi europei su alcuni indicatori specifici del welfare e di welfare to work emerge per l’Italia secondo i dati forniti da Eurostat un quadro inequivocabilmente squilibrato. Sul sostegno alla famiglia e all’abitazione l’Italia spende sul complessivo della spesa sociale il 4.4% a fronte del 15.3% dell’Irlanda, del 15.0% della Danimarca, del 13.0% della Germania, dell’11.5% del Regno Unito e del 6.3% della Spagna. Sulla disoccupazione invece l’Italia spende 1.9% a fronte del 7.1% dell’Irlanda, del 7.0% della Danimarca, del 6.1% della Germania, del 2.4% del Regno Unito e del 12.2% della Spagna. Ne consegue che l’arretramento del nostro paese sulle politiche sociali e di welfare e il divario che si crea con altri contesti europei indica necessariamente l’urgenza di invertire radicalmente la dinamica in atto e costruire da subito il quadro di sistema  per una riforma radicale dei nuovi ammortizzatori sociali. Materia che non può essere più delegata al dibattito tra seminari , panel, interi PHD, libri bianchi, verdi e di tutti i colori dell’arcobaleno, quanto al contrario deve essere in capo all’immediata azione di governo. Così come del resto lo è da anni nell’agenda e nelle azioni dei movimenti sociali e sindacali di base che oggi più che mai hanno una legittimazione politica forte nel perseguire e continuare ad insistere nella battaglia per una nuovo ed innovativo welfare a partire dal reddito garantito e dai servizi e diritti di cittadinanza fino alle giuste rivendicazioni che le comunità attive producono già in tema di welfare locale. Un imprinting che devono assumere tali cambiamenti a partire dall’attivazione e dalla valorizzazione delle reti sociali e cooperative che producono sui territori quelle importanti azioni di welfare e di protezione sociale a base comunitaria che già esistono attivamente in molti ambiti metropolitani o a forte concentrazione urbana e che tracciano da tempo il nuovo corso per la strategia del benessere sociale e comune, come l’attitudine a ri-partire da se stessi e dalle proprie reti sociali, per invertire la dinamica assistenziale che si cela dietro le forme di protezione e di welfare calate solo dall’alto, senza nessuna connessione con il tessuto e il contesto sociale. Un tessuto connettivo di reti sociali che per bisogno e virtù già da tempo è orientato alla cooperazione proattiva e solidale. Dalle esperienze indipendenti dei movimenti di lotta per la casa e per il diritto all’abitare, agli spazi sociali, dalle associazioni e comitati di quartiere, alle cooperative di carattere autogestito e ai gruppi di acquisto solidali, che rappresentano il fulcro auto-organizzato per ripensare le forme di welfare locale e che andrebbero sempre più sostenute ed incentivate nella loro attitudine contro-assistenziale. Attitudine che muove le vere leve della sussidiarietà e della cooperazione solidaristica e che già traccia l’orizzonte per un innovativo concetto di benessere e protezione sociale dentro un processo costituente faticosamente costruito dal basso, dentro ed oltre la crisi.

Scenario della crisi

Introduzione sulla crisi economica USA

“La crisi finanziaria si sta ripercuotendo sull’economia mondiale generando – attraverso il calo della ricchezza e della disponibilità di credito e il deterioramento del clima di fiducia di consumatori e imprese – una contrazione del prodotto nelle economie avanzate a cui si associano ampie perdite di posti di lavoro, e un forte rallentamento in quelle emergenti colpite anche da una netta riduzioni dei flussi internazionali di capitale. Il commercio mondiale registra, per la prima volta dopo un quarto di secolo, una forte caduta che riflette anche la ridotta disponibilità di crediti commerciali”.[1]

Il rallentamento complessivo dell’economia mondiale è confermato dalla profonda ed inconfutabile contrazione del PIL statunitense che nell’ultimo trimestre del 2008 ha registrato un calo pari al 6,3% derivato dalla forte contrazione degli investimenti produttivi e delle esportazioni. Nei primi mesi del 2009 l’attività economica ha continuato a contrarsi, determinando un calo progressivo dell’occupazione. Infatti nell’area OCSE tra il 4° trimestre del 2008 e il primo trimestre del 2009 si sono persi complessivamente 2.000.000 di posti di lavoro. Lo stesso OCSE prevede una contrazione dell’attività economica per tutto il 2009 con una media di caduta tendenziale pari al 4%. A questa grave condizione strutturale in cui versa l’economia mondiale a partire da quella statunitense ha corrisposto un forte deterioramento della capacità di spesa delle famiglie stante anche la riduzione della disponibilità di credito bancario nei confronti del sistema dei consumi. “La ricchezza netta delle famiglie è scesa a fine dicembre del 2008 attorno al 480% del reddito disponibile, circa 50 punti percentuali in meno rispetto alla fine di settembre e 170 punti in meno rispetto al picco raggiunto nel giugno del 2007”[2]. Questo dato va unito e congiunto sotto un profilo di analisi ad altri due fattori specificatamente significativi per le famiglie ed il loro potere di acquisto. Ed è esattamente la percentuale di crescita progressiva dell’indebitamento delle famiglie a preoccupare gli analisti che con il progressivo aumento dei prezzi e con un ridotto potere d’acquisto del salario reale sottodimensionato alla media europea indicano la ricchezza netta delle famiglie verso una progressiva caduta.

Nell’area UE

Il PIL nell’area euro nel 2008 è cresciuto dello 0,8% contro il 2,6% del 2007. Nel primo trimestre del 2009 il quadro generale è in netto e progressivo peggioramento rispetto alle stime previste. Infatti “il calo rilevato pari all’1,6% rispetto al trimestre precedente rappresenta la variazione negativa più consistente da quando esiste l’Unione monetaria della UE”[3]. All’inizio di quest’anno le previsioni sull’andamento del PIL nell’area OCSE sono state tutte riviste al ribasso e le stime negative ormai comprendono anche tutto l’anno solare del 2010.

Nello specifico contesto italiano nel quarto trimestre del 2008 il PIL è diminuito dell’1,9% sul periodo precedente rappresentando il calo più forte dal 1974/75. “Le revisioni al ribasso delle prospettive di crescita mondiale e le incertezze sui tempi della ripresa economica alimentano il pessimismo delle imprese e deprimono l’attività di accumulazione. Le decisioni di spesa delle famiglie restano assai caute, riflettendo i timori di un ulteriore peggioramento delle condizioni sul mercato del lavoro”[4].

“Gli analisti intervistati a metà Marzo da Consensus Forecasts si attendono per l’Italia una contrazione media dell’attività economica del 2.8% nell’anno in corso (con rischi al ribasso) e una crescita appena positiva dello 0.3% nel prossimo; le previsioni dell’OCSE diffuse alla fine dello stesso mese indicano un calo del 4.3% nel 2009 (peraltro nell’ipotesi di una riduzione del commercio mondiale senza precedenti) e ancora dello 0.4% nel 2010”.

Il Mercato del lavoro

Nello specifico del MDL la contrazione economica ha avuto i suoi riflessi negativi a partire sia dalla riduzione delle unità di lavoro impiegate nell’industria come negli altri settori economici sia dall’aumento delle richieste d’indennità di disoccupazione presso l’INPS sia delle ore formalmente richieste per la Cassa integrazione guadagni ordinaria. Nello specifico, nel primo trimestre l’incidenza degli occupati equivalenti in CIG ordinaria sul totale ha raggiunto il 3.3%, ovvero il valore più elevato dal 1993.

Il MDL in Italia dopo una sostanziale crescita registrata negli ultimi dieci anni si trova per la prima volta in netto rallentamento contenuto solo da una crescita parziale del dato disaggregato dell’occupazione femminile che registra per i contratti a termine una lieve tenuta. Ma secondo una rilevazione fatta da Banca d’Italia e Sole 24 ore presso un campione rappresentativo di aziende con almeno 50 dipendenti è proprio la forza lavoro a termine la composizione che pagherà la recessione economica intermini inconfutabili: tra le aziende ben il 70% prevede di non rinnovare i contratti a termine di aumentare il ricorso alle ore di CIG ordinaria e straordinaria e che ben il 90% prevede un blocco delle assunzioni per tutto l’anno in corso.

In aggiunta basti pensare che i dati reali disponibili nella Provincia di Roma sulle assunzioni del 1° quadrimestre  del 2009 registrano sul totale delle 200.000 contrattualizzazioni avviate, ben il 75% come tempo determinato.

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[1] Bollettino economico della Banca d’Italia n° 56, pag. 7

[2] Cfr. Bollettino economico della Banca d’Italia n° 56, pag. 20-21

[3] Bollettino economico della Banca d’Italia n° 56, pag. 24

[4] Bollettino economico della Banca d’Italia n° 56, pag. 27

Risoluzione sul reddito del Parlamento Europeo

E’ stata promossa dal Parlamento Europeo e votata una risoluzione molto importante che si può trovare integralmente qui. Non è il reddito di cittadinanza per tutti, ma apre una serie di spiragli molto interessanti, molto di più che la legge regionale del lazio. Sia perchè è un livello europeo, quindi prevede un piano di intervento e di diritti che può essere reclamato da sud a nord del continente, sia perchè apre delle prospettive di iniziativa, ma anche di dibattito molto molto interessanti.
Qui di seguito una selezione di alcuni passaggi (quelli più centrati sul reddito)  molto vicini alle tesi del movimento. Il Parlamento Europeo oggi ha molti più poteri rispetto a dieci anni fa e se queste risoluzioni venissero richiamate dagli stati membri, come l’Italia, questi sarebbero obbligati a rispettarli (altro che libro bianco di Sacconi). Inoltre, siamo a ridosso del 2010, anno europeo di lotta alla povertà. Insomma gli ingredienti pare ci siano tutti…
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Alcuni passaggi:

– vista la decisione n. 1098/2008/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, riguardante l’anno
europeo della lotta alla povertà e all’esclusione
sociale (2010),

– considerando che il coinvolgimento attivo non deve
sostituirsi all’inclusione sociale, in quanto i gruppi
vulnerabili impossibilitati a partecipare al mercato del
lavoro hanno diritto a una vita dignitosa e a una piena
partecipazione sociale e, pertanto, chiunque deve poter
disporre di un reddito minimo e dell’accesso a servizi
sociali abbordabili e di qualità a prescindere dalla
propria capacità di partecipare al mercato del lavoro,

– considerando che la causa di un’apparente esclusione dal
mondo del lavoro può risiedere nella mancanza di
sufficienti opportunità occupazionali dignitose piuttosto
che nella mancanza di sforzi individuali,

– considerando che l’integrazione nel mercato del lavoro
non deve rappresentare un requisito necessario per il
diritto a un reddito minimo e l’accesso a servizi sociali
di qualità; considerando che un reddito minimo e
l’accesso a servizi sociali di qualità sono requisiti
necessari per l’integrazione nel mercato del lavoro,

– considerando che spesso le persone più vulnerabili sono
interessate dalla condizionalità delle politiche di
attivazione e che occorre monitorare gli effetti di tali
politiche ed evitarne le conseguenze negative per i gruppi
vulnerabili,

– considerando che il concetto secondo cui il lavoro è il
modo più efficace per affrancarsi dall’esclusione può
essere valido solo se tale lavoro è sostenibile, di
qualità e adeguatamente retribuito;

– considerando che i prestatori di assistenza familiare
forniscono servizi essenziali di assistenza, istruzione e
sostegno al di fuori del sistema occupazionale, senza alcun
reddito o diritto sociale, e non godono del diritto di
accedere nuovamente al mercato del lavoro e di ottenere il
riconoscimento delle competenze acquisite o sviluppate
durante i periodi di assistenza fornita ai familiari,

– riconosce il diritto fondamentale della persona a risorse
e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla
dignità umana e definisce i principi comuni per realizzare tale diritto; approva i
principi comuni e gli orientamenti specifici presentati
nella raccomandazione 2008/867/CE sulla strategia di
coinvolgimento attivo basata su tre pilastri,
contestualmente un adeguato sostegno al reddito, mercati del
lavoro in grado di favorire l’inserimento e l’accesso a
servizi di qualità; sottolinea, in particolare, che
qualunque strategia di coinvolgimento attivo deve essere
fondata sui seguenti principi: i diritti individuali, il rispetto per la
dignità umana e i principi di non discriminazione, le pari
opportunità e la parità di genere;

– concorda con il Consiglio che occorre migliorare
l’attuazione della raccomandazione 92/441/CEE per quanto
riguarda reddito minimo e trasferimenti sociali, che
l’assistenza sociale dovrebbe fornire un reddito minimo
consono a una vita dignitosa, quanto meno a un livello al di
sopra della soglia a rischio di povertà e sufficiente a
far uscire le persone dalla povertà e che occorre
migliorare l’utilizzo dei sussidi;

– invita gli Stati membri a realizzare un adeguato sostegno
al reddito al fine di combattere la povertà e l’esclusione
sociale; sottolinea la necessità di fissare un sostegno al
reddito di livello adeguato sulla base delle raccomandazioni
92/441/CEE e 2008/867/CE e che esso deve essere adeguato e
trasparente, accessibile a tutti e sostenibile nel tempo;

– sottolinea la richiesta posta al Consiglio di concordare
un obiettivo comunitario per i meccanismo di reddito
garantito e di reddito sostitutivo a base contributiva atto
ad assicurare un sostegno al reddito pari ad almeno il 60%
del reddito medio nazionale e, inoltre, di concordare un
calendario per il raggiungimento di detto obiettivo in tutti
gli Stati membri;

– evidenzia che i beneficiari di un adeguato sostegno al
reddito e le loro famiglie avranno la possibilità di
evitare il rischio di povertà e di divenire cittadini
attivi che contribuiscono alla vita sociale ed economica e
alla solidarietà tra le generazioni;

– siano personalizzate, mirate e orientate al
soddisfacimento delle esigenze;

– saluta con favore il riconoscimento della necessità di
garantire l’accesso universale a servizi sociali
abbordabili e di qualità quale diritto fondamentale e uno
degli elementi essenziali del modello sociale europeo
nonché per favorire la permanenza delle persone nel
mercato del lavoro e i principi stabiliti nella
raccomandazione 2008/867/CE; ritiene che per essere tali i
servizi sociali debbano includere un alloggio fisso e a buon
mercato, il trasporto pubblico accessibile, la formazione
professionale di base e l’assistenza sanitaria nonché
l’accesso a servizi energetici e ad altri servizi di rete a
prezzi convenienti;

– invita gli Stati membri a valutare l’introduzione di
tariffe sociali predefinite per i gruppi vulnerabili, ad
esempio nel settore dell’energia e dei trasporti pubblici…

Lo sciopero della celere

da Repubblica.it

L’iniziativa di un sindacato di destra: “Da cinque mesi senza straordinari”
L’agitazione al G8 dei ministri della Giustizia e dell’Interno che inizia domani

Roma, la rivolta della Celere

“Non ci pagano, scioperiamo”

di ALBERTO CUSTODERO e GIOVANNA VITALE

Roma, la rivolta della Celere "Non ci pagano, scioperiamo"

ROMA – I poliziotti del reparto Mobile hanno proclamato “il primo sciopero delle forze dell’ordine per sabato”. A ventiquattr’ore dal G8 dei ministri della Giustizia e dell’Interno, sono i “celerini” – proprio quelli che devono garantire l’ordine pubblico contro i disordini dei manifestanti – e non gli anarchici o i no global a creare il primo, serio problema per il Viminale. La protesta degli agenti dei 14 reparti Mobile italiani è originata dal mancato pagamento da gennaio degli straordinari. Ma a rendere ancor più imbarazzante la situazione per i ministri Angelino Alfano e Roberto Maroni che presiederanno il G8 è che la clamorosa forma di protesta degli agenti giunge da un sindacato di recente costituzione. Ma di ispirazione di centrodestra: si tratta del Movimento per la sicurezza affiliato al Coisp che, solo a Roma, ha mille iscritti, quasi tutti del reparto Mobile. E, non a caso, un segretario generale, Adolfo Guglielmi, con un passato nell’Ugl.

“Facciamo turni massacranti anche di 12 ore – tuona Gugliemi – ci spediscono come pacchi postali da una città all’altra per coprire i buchi degli organici. Ci fanno tornare a Roma dalle trasferte a Napoli o da altre città d’Italia perché è più conveniente pagarci 3 o 4 ore di straordinario piuttosto che il pernottamento in albergo. Poi, però, non ci pagano proprio quegli straordinari che ci obbligano a fare”. “Sono 5 mesi che non vediamo un centesimo – aggiunge Guglielmi – e intanto le ore di lavoro extra aumentano e i soldi non arrivano, mentre il governo continua a fare operazioni di facciata come quella dei militari e ora delle ronde”.

Ecco i conti secondo il segretario di Movimento per la Sicurezza: “Considerato che i “celerini” in Italia sono circa 5 mila, e che ognuno di essi ha un credito di 340 euro per straordinario arretrato non pagato, significa che il governo Berlusconi ci deve 8 milioni e mezzo di euro. Faremo causa al ministro Maroni perché ci paghi ciò che ci spetta”.


Lo sciopero, va detto, è vietato alle forze dell’ordine. “E’ vero – spiega Guglielmi – ma abbiamo visto a Torino, al G8 università, che è stato concesso ai manifestanti di portare in piazza caschi, mazze, scudi ed estintori. Se è concesso a loro fare un reato, allora perché non permettere a noi di scioperare per ottenere ciò che ci spetta?”. “La nostra – dice Guglielmi – naturalmente, è una provocazione. Ma sabato adotteremo una forma di “sciopero bianco”: useremo ogni modalità consentita dalla legge per esprimere la nostra protesta. Rispetteremo l’orario, oppure, se qualcuno sta male, si metterà in malattia. E se arriveranno sassi o botte, non faremo i martiri. E non ci immoleremo per il piacere di qualche politico, o la carriera di qualche funzionario”.

Ed ora il G8 di Luglio

Dopo le contestazioni al G20 sul tema delle politiche economiche e sul welfare state, dopo la giusta rabbia scoppiata a Torino contro il G8 dell’università, dopo le giornate di azioni e presidi e il corteo del 28, 29 e 30 Maggio, che hanno preso parola contro le politiche dei governi globali sull’immigrazione e la sicurezza…
Ora tocca al G8 di Luglio.
I grandi della terra si incontreranno ancora una volta per ratificare un ordine mondiale basato su guerra, crisi, sfruttamento.
Ancora una volta saremo nelle strade a esprimere il nostro dissenso.
A dire che non volgiamo essere complici di tutto questo.
A esprimere le nostre idee e la nostra rabbia, per immaginare un mondo diverso.

Il 5 all’ ex-cinema Volturno h.18.30 assemblea pubblica di confronto sulla costruzione delle contestazioni al G8 di Luglio a Roma.