Lettera aperta al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, alla giunta e a tutti i neoeletti consiglieri regionali.

 

Dopo la scandalosa / fallimentare / drammatica esperienza dell’amministrazione Polverini, anche noi confidiamo che il rinnovato consiglio restituisca dignità a questa regione e renda giustizia a chi ne ha subito i torti più grandi.

Ci indirizziamo prioritariamente a Lei, Presidente Zingaretti, e alla sua squadra in quanto, nel ricco programma di governo emerge fin dai primi capitoli la volontà di un cambiamento radicale nel modo di lavorare della regione. Con un paragrafo dedicato all’utilizzo efficiente delle risorse, una indicazione chiara per la riorganizzazione  del sistema degli enti strumentali e un particolare riferimento al ruolo strategico di Sviluppo Lazio.

Siamo ex lavoratrici e lavoratori precari di questa agenzia, rimasti senza lavoro a causa di scelte incomprensibili e ingiustificabili di una amministrazione incapace e incompetente, che ha continuato a gonfiare le rendite parassitarie dei super-consulenti inutili e ha incassato come unico risultato lo spreco delle ingenti risorse dei fondi europei.

Siamo persone serie e qualificate che dopo aver lavorato per anni dentro Sviluppo Lazio, offrendo tutta la nostra competenza e disponibilità, malgrado rapporti di lavoro precari e illegittimi, definiti dalle forme contrattuali più odiose (lavoro dipendente mascherato da finte partite IVA, contratti a progetto, lavoro interinale e quant’altro) sono state lasciate a casa senza un futuro e senza dignità.

____ La nostra storia ____

Sviluppo Lazio svolge un ruolo strategico per lo sviluppo e l’attrazione degli investimenti, è il principale strumento regionale per l’attuazione delle politiche comunitarie, per la gestione dei fondi europei destinati all’innovazione, all’ambiente, alla cultura, alla coesione sociale, è interamente a capitale pubblico e riceve affidamenti in-house esclusivamente dalla Regione Lazio, che esercita sull’agenzia un controllo funzionale “analogo” a quello esercitato sui propri servizi.

Negli ultimi 2/3 anni, nel nome di una non meglio definita razionalizzazione delle risorse, decine di collaboratori precari di questa agenzia hanno perso il loro posto di lavoro entrando nel tunnel della disoccupazione, delle lunghe vertenze legali, della perdita di dignità e sicurezza.  Il lavoro precario si è trasformato in una vita precaria.

Con grande disinvoltura si è scelto di non rinnovare i contratti di collaborazione, che pure permettevano l’attuazione dei programmi finanziati con i fondi europei, mentre si è continuato impunemente ad affidare consulenze d’oro a pensionati e ad ex dirigenti fallimentari e a sperperare risorse in inutili eventi autocelebrativi e altrettanto inutili consigli di amministrazione.

I programmi di sostegno alle piccole e medie imprese, agli Enti locali, alle scuole, agli ospedali, per la cultura, per la ricerca e l’innovazione, per lo sviluppo sostenibile restavano al palo mentre l’azienda navigava a vista, senza un organigramma, senza una visione, senza strategie, e mandava in fumo milioni di euro dei fondi strutturali europei.

Sviluppo Lazio adesso è una società dove il numero delle figure apicali (dirigenti e quadri di 3°/4° livello) è superiore a quello dei dipendenti, con un consiglio di amministrazione eccessivamente numeroso e retribuito e con risultati di spesa sulla programmazione europea 2007-2013 tra i peggiori d’Italia e d’Europa.

La classe dirigente di Sviluppo Lazio e della passata amministrazione regionale, ha preferito dover affrontare decine e decine di cause e vertenze legali, con costi imprevedibili, piuttosto che razionalizzare realmente l’azienda e affrontare seriamente i propri compiti e i propri obiettivi.

____ Le nostre istanze ____

Alla nuova classe politica chiamata a governare la Regione Lazio

chiediamo che sia ristabilita giustizia ed equità:

–        attraverso il reintegro immediato di tutti i lavoratori e le lavoratrici espulsi senza motivo, ponendo fine a tutte le vertenze legali in corso;

–        attraverso l’individuazione delle gravi responsabilità del ‘servizio acquisti e risorse umane’ e dei vertici della società nella gestione del personale, nell’uso improprio di contratti di lavoro autonomo per attività di routine e negli inutili sprechi di risorse per consulenze altamente remunerate non giustificabili per lo svolgimento delle attività aziendali.

Proponiamo inoltre l’attuazione di una reale razionalizzazione delle risorse che comprenda:

–  una attenta e puntuale valutazione delle responsabilità dirigenziali nella mancata attuazione dei programmi europei e nella perdita di gran parte dei contributi relativi alla programmazione 2007-2013;

–  l’accorpamento di tutta la rete delle agenzie strumentali partecipate da Sviluppo Lazio (BIC, FILAS, Unionfidi ecc.) e lo spostamento in un’unica sede di proprietà regionale;

–  la riduzione del numero di consiglieri di amministrazione di Sviluppo Lazio e la soppressione dei compensi e del gettone presenza come previsto dalla normativa vigente (L 122/2010 art.6 co.2)

–  la pubblicazione on-line delle retribuzioni annuali e di tutte le informazioni previste dalla L.69/2009 art.21, di tutti i dirigenti, in quanto società interamente a capitale pubblico;

–  l’imposizione di un tetto massimo al reddito dei dirigenti, nonché un tetto massimo per la variabile “ad-personam” dei  quadri direttivi.

Il merito al futuro passa per l’idoneità alla lotta. L’università verso il #19A


“Odio e sovrastruttura, ma non lenisce il sale, che dio vi maledica, eroi della carriera,
limone asfalto sputo, mai più io sarò saggio … il mondo si è fermato, mò ce lo riprendiamo”

Partiamo da qui.

Mentre scriviamo Napolitano si affretta a capire egli stesso come finirà il suo neo-nato governo(?), guidato dai dieci “celeberrimi” saggi, che si annuncia in partenza in crisi, debole e lacerato da contraddizioni che probabilmente verranno acuite anche dall’azione dei grillini in parlamento.

 

Il governo del presidente è la denominazione scelta dai mass media per indicare la creazione da parte di Napolitano di un consiglio di dieci saggi, da cui dovranno uscire le nuove riforme di austerity imposte dall’Europa insieme a qualche altro provvedimento di facciata, ma da far passare ovviamente sotto la maschera dell’interesse prima nazionale e negli ultimi anni europeo,ovvero l’interesse di quelli che sono i ceti dominanti.

Tutto ciò in un quadro politico sempre più delegittimato con una crisi della rappresentanza sempre più acuita. Se poi entriamo nel dettaglio delle nomine va a cadere anche ogni velleità, per chi volesse farlo, di aggrapparsi alla parola saggi. Infatti risulta evidente come l’inserimento di Violante e Quagliarello sia il chiaro tentativo di far produrre a questi ultimi le riforme di austerity volute dalla governance europea, in modo tale da garantire a questi provvedimenti una maggioranza PD-PDL che i media definirebbero trasversale e che invece rappresenta solo l’espressione del ceto dominante. Insomma a parte che dare il senso del prestigio formale delle istituzioni volendo citare Onida, i saggi non servono a nulla, e se lo dice lui,che è uno di loro ci sarà da crederci.

L’aggravarsi della crisi ha accelerato negli anni i processi di aziendalizzazione dell’università, e la sua crescente dequalificazione non è per noi oggi un argomento nuovo, in quanto rientra nei progetti dei governi susseguitisi nel corso degli ultimi anni, da centro – destra a centro – sinistra, prospettandoci univocamente quel passaggio strategico di mutamento e trasformazione del mondo della formazione adesso materializzatosi, dall’università d’élite all’università di massa, dall’università di massa all’università del merito; Con tutto ciò che questo comporta: aumento progressivo delle tasse, tagli violenti alle borse di studio ,meccanismi di esclusione differenziale con facoltà universalmente a numero chiuso (con test d’ingresso ovviamente a pagamento), accelerazione dei tempi universitari, produttori da una parte dell’affanno per il presente per una sorta di debito morale nei confronti della famiglia che mantiene gli studi, dall’altra parte dall’affanno per il futuro, per il fantasma del fuoricorso accompagnato dall’incubo fittizio della decadenza degli studenti; l’incubo dello status di fuori corso si costituisce così quasi come una “strategia della tensione” dentro le facoltà, in quanto strumento che impone dall’alto ritmi serrati e irriducibili di produttività, stress, scarsa socialità, vita frenetica e volta alla competizione, quasi fosse una guerra tra poveri per accaparrarsi … non si sa cosa, tra l’altro.

I serrati ritmi di studio frenetici e volti alla produttività obbligano lo studente a vivere le facoltà per intere giornate, con il carico di spese che questo comporta, dai trasporti ai pasti fuori casa (dato che anche la mensa sta per diventare un ristorante escludente e volto alla ricca clientela), dal caro libri alla possibilità di usufruire di mezzi di formazione, che facenti però parte di un mondo basato proprio sulla mercificazione della cultura e del sapere, offre un panorama di inaccessibilità, come ad esempio cinema, teatri, librerie, corsi di lingua, mostre, viaggi, erasmus, e tutti dispositivi simili; d’altra parte assistiamo a tentativi di “individualizzazione” della carriera accademica e della formazione degli studenti, educati sin dall’ingresso ad una prospettiva di precarietà, incertezza e subordinazione già durante il percorso formativo, con la conseguente speranza (imposta) dell’acquisizione di Skill individuali: diplomi, tirocini, svariate lauree, master, dottorati, corsi di lingue, corsi di formazione, attestati vari, salassi per gli studenti e meccanismi di indebitamento per il presente e per il futuro.

Oltre al danno la beffa: non solo la disillusione totale di un futuro nel mondo del lavoro tanto decantato, ma anche lo sfruttamento durante il percorso di studi, palesato e giustificato da non si sa quale legge superpartes; mettendo solo per un attimo da parte le migliaia di studenti che sono obbligati a cercare un lavoro precario, in nero e per paghe misere per mantenersi gli studi, ci riferiamo a tutti gli studenti e le studentesse (nessuno escluso, in quanto previsto dal proprio piano di studi) a praticare stage e tirocini per mesi, quello che si configura come Free Labor, lavoro assolutamente gratuito e di sfruttamento.

Ecco perché i dati elaborati dal CUN, seppur fornitori di un dato importante, quello del calo del 17% delle immatricolazioni negli ultimi dieci anni, non ha scandalizzato lo studente universitario: lo svuotamento progressivo delle facoltà e l’eliminazione strategica di spazi e tempi di socialità all’interno degli atenei sono dati con cui facciamo i conti da almeno due anni; si aggiunge la diminuizione del 5% del FFO (Fondo Finanziario Ordinario), taglio di personale docente del 22%, soppressione totale del tanto decantato welfare universitario e l’ennesima applicazione della riforma Gelmini, ovvero sistemi chimerici di proporzioni per occludere ancor di più non solo la didattica già dequalificata e il sapere tecnico e specifico, ma anche l’accentramento di potere, bypassando il vecchio sistema delle facoltà per i nuovi Deus Dipartimentis.

Per tutte queste ragioni ci è sembrato fondamentale affrontare un’inchiesta tra gli studenti e le studentesse universitarie, per capirne un po’ di più sulle condizioni di vita di uno studente, che sia o no uno studente fuorisede, che sia idoneo, vincitore o magari anche per chi il fantasma delle borse di studio e dell’idoneità è ormai lontano, che sia semplicemente uno studente la cui famiglia vive pragmaticamente i costi della crisi e non sa più come affrontare spese giornaliere per caro libri, mezzi di trasporto e mensa inesistente o non garantita.

Tra centinaia di studenti e studentesse intervistati, risulta che il 75% fa ancora riferimento al welfare familistico, vivendo spesso ancora in casa con i propri genitori, lamentando un’insufficienza (o un’inesistenza) di servizi e di aiuti da parte dell’istituzione universitaria, sia per ciò che concerne borse di studio o diminuizione delle tasse (nei casi di fasce di reddito basse), o per ciò che concerne libri, posti letto e accesso a percorsi formativi (sopra menzionati); quasi il 90% è concorde nell’affermare come debba essere la stessa istituzione universitaria a dover provvedere a situazioni di questo tipo ormai tanto diffuse, e nel caso in cui ciò non avvenga viene rituenuta legittima l’occupazione di posti abbandonati (presenti in grande quantità nel territorio siciliano) per garantire posti letto gratuiti e la conseguente creazione di welfare.

Collegando tutto alla fase politica del Bel Paese il quadro si fa interessante: si, perché tra i migliaia di licenziati per fallimento, tra le famiglie che devono scegliere se a fine mese fare la spesa o pagare le bollette, altrimenti Serit ed Equitalia attendono già dietro la porta con la falce in mano, tra le fabbriche che chiudono, o peggio, restano l’unica possibilità di sopravvivenza a cui aggrapparsi seppur dispositivi che pongono i lavoratori davanti al dilemma se scegliere di morire di fame o scegliere di morire di malattie per inquinamento (come l’Ilva di Taranto insegna); tra la cassa integrazione, che raggiunge i massimi storici, ammortizzatore sociale utilizzato tra l’altro come mezzo di controllo, discriminatorio e soprattutto disgregativo e atomizzante all’interno degli stabilimenti (vedi Fincantieri), e\o comunque destinato a breve vita in quanto ridotto al midollo e garantito sempre a breve scadenza per tentare di livellare il conflitto sociale(vedi Gesip);tra tutte queste situazioni si inserisce il grande dato della disoccupazione giovanile, questo 37% (che al sud raggiunge il 40%) di esercito di riserva, che si illude ancora che, seppur l’università abbia smesso da tempo di far da ascensore sociale, esista ancora qualche possibilità di futuro, magari all’estero (dato che l’Italia è il paese che spende meno nel mondo della formazione),o magari per chi si trova nelle fasce alte di reddito.

La soppressione di welfare studentesco e servizi universitari è sentito ormai da chiunque viva l’università: particolarmente da chi ha ricevuto l’idoneità ma non la borsa di studio, dunque nessuna retribuzione economica; da chi non è rientrato nelle striminzite graduatorie per i posti letto nel pensionato ed è costretto a pagare un affitto mensile pari a 200 euro e spesso costretto ad essere uno studente lavoratore; La “caccia al reddito” ci spinge a lavori sottopagati e precari che sottraggono tempo ed energia al nostro studio e alla nostra vita. Assistiamo di anno in anno alla continua chiusura di mense e studentati mentre i sindacati studenteschi restano aggrappati a battaglie(?) resistenziali soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza studentesca, triste strumento per accumulazione di tessere e finanziamenti.

Se il modello che ci viene imposto è questo, se davvero la formazione deve essere una corsa all’acquisto di competenze allora reclamiamo parità di diritti, in questo caso economici;

Nell’ultima fase della sua vita, Foucault porta la sua analisi del linguaggio da un ordine del discorso alla necessità di una costruzione di un linguaggio antagonista, che si inserisce nella vita” volta a dire il vero, la vita altra, quella della militanza rivoluzionaria”; ci siamo spesso ritrovati a discutere della mistificazione del linguaggio dalla controparte e della necessità di ribaltamento, attraversamento e ri – costruzione autonoma di questo, che deve proporsi come linguaggio diffuso e generalizzabile. A ciò si legano immediatamente i nostri strumenti nella lotta dei saperi, un’autoformazione che producendo saperi autonomi sempre al di là della barricata deve porsi come produttore di posizionamenti e resistenze popolari, ricomposizioni, ricombinazioni del lavoro vivo, e una conricerca che nel suo ruolo essenziale di rottura epistemologica deve volgersi a creare da una parte una visione materialistica dentro la composizione, dall’altra, consequenzialmente, a sviluppare forme di tendenza di rottura e forme di organizzazione politica delle lotte.

In campagna elettorale abbiamo sentito accennare dal movimento 5 stelle al ritorno sul campo di parole come “reddito di base”, “reddito garantito”, o “reddito di dignità”, nelle sue varianti; il passaggio dal ritorno in campo delle parole, all’azione politica nel campo dei territori sta a noi!

Lotta per il reddito si, ma come pratica di intervento sui territori e prospettiva di avanzamento e massificazione delle lotte e dei conflitti generalizzabili, attorno alla battaglia che abbiamo definito “per un welfare degli usi e delle riappropriazioni,cioè un movimento dei bisogni reali di parte” , per un soddisfacimento dei bisogni per contrattaccare nei territori dai movimenti.

Ecco dove c’entra il ribaltamento del linguaggio che citavamo poc’anzi; I discorsi della controparte, le norme, le retoriche e le logiche atte al nostro asservimento vanno ribaltate e usate per rilanciare percorsi di lotta e riappropriazione. La battaglia si gioca sulla loro scacchiera, siamo noi a schierare i pezzi e a dover fare l’ultima mossa.

Ecco perché riteniamo sia opportuno rilanciare rivendicazioni,riappropriazioni e riconquiste che si configurano così , dopo questa attenta analisi essenziali per la nostra vita , il nostro diritto alla felicità, ovvero alla liberazione dal giogo del debito e della precarietà che può e deve passare attraverso il rilancio di esperienze di autogestione, riappropriazione di welfare diretto e indiretto e la conquista di spazi in cui organizzare le lotte e i saperi di studenti e precari che attraverso il lavoro finanziano la produzione di un sapere merce che genera profitti per pochi a discapito di molti; siamo consapevoli che gli strumenti del welfare, fin dall’epoca keynesiana, hanno sancito l’accordo tra capitale e lavoro, e che hanno come caratteristiche intrinseche un ruolo di disciplinamento e una falsa promessa di emancipazione; è altrettanto vero che il reddito, come si è detto “è un tema che ritorna”, che va inchiestato, e continuamente, perché segue le mutazioni dei rapporti di produzione e i mutamenti degli scenari della crisi, quelli che a noi sta attraversare.

Riteniamo sia dunque indispensabile la realizzazione di pratiche tese alla riappropriazione di rendita finanziaria. Il nodo del reddito, della riappropriazione dal basso sono quelli attorno a cui costruire lotte, progettualità politica , organizzazione e massificazione del conflitto. A partire,perché no, da un 19 Aprile di lotta, che si prospetta un varco, un’occasione, uno scenario interessante, un momento di conquista.

Se è vero che “Grande è la confusione sotto il cielo…

Collettivo Universitario Autonomo – Palermo

 

http://www.infoaut.org/index.php/blog/saperi/item/7453-il-merito-al-futuro-passaper-lidoneit%C3%A0-alla-lotta-luniversit%C3%A0-verso-il-#19a

COLAZIONE RESISTENTE PART.2 @DEGAGE

Questo sabato siamo entrati in uno stabile vuoto della provincia mentre centinaia di famiglie, studenti e migranti facevano lo stesso in altri 11 edifici abbandonati sparsi nella città. In una città stuprata dal cemento dove si costruisce per costruire, vogliamo rimarcare ancora una volta come l’unica soluzione all’emergenza abitativa sia la riappropriazione diretta.  Il comune dichiara 260.000 case sfitte, la casa è un miraggio per decine di migliaia di persone costrette ad arrancare a presso alle rate del mutuo o all’affitto; è la città “reale” della gente che ci vive, ci lavora o ci studia che si scontra con la città degli amministratori e speculatori, sono i nostri bisogni che confliggono con le leggi dell’accumulazione e della rendita.

La storia dello stabile che abbiamo occupato è esemplare perché, attraverso la cessione di patrimonio pubblico e l’erogazione di lauti appalti, l’amministrazione di turno la provincia regala milioni di euro al palazzinaro di turno la famiglia Parnasi, con un metodo riproposto talmente tanto spesso da sembrare un modello.   vicenda è anche grottesca perché a coprire questa operazione speculativa non è un progetto di riqualificazione di un quartiere di periferia, la costruzione di infrastrutture per il trasporto pubblico o misure di contrasto all’emergenza abitativa ma bensì l’edificazione di una monumentale sede per la provincia un ente che non esisterà più, non provano neanche più a convincerci che le loro speculazioni possano avere una ricaduta positiva sulla città.

Abbiamo occupato perché siamo stanchi di pagare 500€ per una stanza singola, del ricatto del lavoro in nero, di una vita frenetica e precaria; vogliamo dare un’indicazione, un esempio di come, organizzandoci insieme, possiamo migliorare materialmente le nostre condizioni. Pensiamo che sia legittimo riappropriarsi di tutto quello che non abbiamo e non ci stiamo a rispettare i canoni del sentire comune che impongono di essere silenziosi ed obbedienti.

Se non lo facciamo noi nessuno lo farà per noi, infatti, le risposte che l’istituzione universitaria offre ai suoi iscritti sono a dir poco insufficienti, anzi non fanno altro che aggravare la situazione! A fronte dell’ aumento delle tasse universitarie, gli alloggi, lontani e troppi pochi per una città che accoglie più di 200000 studenti, e le borse di studio sono elargiti dall’università in base al merito, un merito “all’italiana” che esclude automaticamente chi non ha alle spalle una famiglia che può sostenerlo e gli studenti-lavoratori che, non solo non hanno nessun tipo di agevolazione ma, se fuoricorso, come spesso accade a chi lavora e studia, si vedono le tasse raddoppiate. La gestione mafiosa del nostro ateneo, come confermano le inchieste sul magnifico rettore Frati, è stata volta più al mantenimento del proprio potere e dei propri interessi che alle necessità degli studenti!

Sentiamo urgente il bisogno di una risposta concreta ed efficace all’ attacco che subiamo ogni giorno sulla nostra pelle, vogliamo sognare e iniziare a costruirci un’ipotesi di vita che vada oltre il termine del contratto precario e sappiamo che le uniche strade percorribili sono quelle della riappropriazione e della lotta.  Di studentati come il nostro ne nascano altri cento!

E’ NATO UN NUOVO STUDENTATO!!

CASA PER TUTTI, TUTTI A CASA!

Cosa c’è di meglio di un cornetto e un buon caffè per iniziare insieme una lunga giornata di lotta?!

Siamo entrati a via musa ieri mentre centinaia di famiglie facevano lo stesso in altri 11 edifici abbandonati sparsi nella città. Una marea di persone: famiglie, single, migranti, italiani, precari, disoccupati, studenti che hanno deciso di smettere di attendere, di riprendersi un diritto elementare come quello ad avere un tetto sopra la testa senza mediare i loro bisogni con i conti in banca dei palazzinari. In una città stuprata dal cemento dove si costruisce per costruire, in cui il comune dichiara la presenza di oltre 260.000 case sfitte, la casa è un miraggio per decine di migliaia di persone costrette ad arrancare a presso alle rate del mutuo o all’affitto.

È la città “reale” della gente che ci vive, ci lavora o ci studia che si scontra con la città degli amministratori, sono i nostri bisogni che confliggono con le leggi dell’accumulazione e della rendita.

La storia dello stabile che abbiamo occupato è allo stesso tempo esemplare e grottesca: esemplare perché attraverso la cessione di patrimonio pubblico, l’erogazione di lauti appalti e la costituzione di un fondo bancario ad hoc l’amministrazione di turno (in questo caso la provincia) regala milioni di euro al palazzinaro di turno (in questo caso Parnasi) con un metodo riproposto talmente tanto spesso da sembrare un modello. Grottesca perché a coprire questa operazione speculativa non è un progetto di riqualificazione di un quartiere di periferia, la costruzione di infrastrutture per il trasporto pubblico o misure di contrasto all’emergenza abitativa ma bensì l’edificazione di una monumentale sede per un ente che non esiste più, non provano neanche più a convincerci che le loro speculazioni possano avere una ricaduta positiva sulla città. Si saranno stancati anche loro di ascoltare bugie tanto spudorate.

Alle sei del pomeriggio sono arrivati blindati e polizia, hanno chiuso via musa e ci hanno intimato di lasciare lo stabile: volevano che uscissimo senza sapere cosa ne sarà di questa palazzina bellissima, senza conoscere i nomi degli ex consiglieri provinciali che tuttora gestiscono il fondo paribas incaricato di vendere lo stabile, senza che nessuno si prendesse la briga di spiegare il senso della chiusura di due studentati al centro di Roma in una città che ospita 200000 studenti universitari. La determinazione di chi era dentro lo stabile e di chi immediatamente è arrivato ad esprimerci solidarietà ha evitato che ciò fosse possibile. domani mattina vorrebbero chiudere questa esperienza sperando che nessuno metta più il naso nei loro affari. Noi saremo svegli ad aspettarli, chiunque voglia farci compagnia troverà caffè e cornetto, ci vediamo alle 7.00

Uno stabile che puzza di voti – Degage, nuovo spazio liberato a Roma

Eccoci qui! Ci siamo ripresi uno stabile pubblico al centro di Roma e questo è solo l’inizio! Non è una minaccia, non è una promessa è un AVVISO PUBBLICO: siamo decisi e determinati a riprenderci quello che ci viene rubato direttamente dalle nostre tasche .

Lo stabile, grazie al quale le nostre vite riprenderanno a respirare, è un edificio di proprietà della provincia di Roma attualmente in svendita al migliore offerente. Ma quale miglior offerente se non noi? Abbiamo intenzione di trasformare queste mura in alloggi per 30 studenti e studentesse che sono stufe di elemosinare un alloggio all’università o di pagare cifre salate ai proprietari della città. Questi mattoni, che prenderanno nuova vita e daranno nuove possibilità a chi vive nella precarietà, a chi non dovrà essere più sfruttato in lavori a costo bassissimo a chi potrà continuare gli studi senza sacrifici, nascondono i già noti affari del mattone che speriamo di intralciare con tutte le nostre forze per dire a tutti e a tutte riprendetevi ciò che è vostro! Lo stabile in via Antonio Musa 10, fa parte degli 11 stabili inseriti nel fondo Upside della Bnp Parsap, che una volta venduti potranno essere usati per costruire il palazzone unico della Provincia che sorgerà nella zona di Torrino-Castellaccio. L’ultima creazione della giunta Zingaretti, con il bene placido dell’opposizione, è stata quella di creare un fondo speciale nel quale accumulare i soldi pervenuti dalla vendita di questi 11 immobili, già di proprietà della Provincia stessa, al pro di concentrare gli uffici amministrativi in un unico stabile.  per migliorarne l’efficenza dei servizi e per risparmiare su tutti quegli stabili che sono attualmente in affitto. Il fondo Upside è necessario perchè le banche, che hanno vinto l’opportunità di finanziare la costruzione del nuovo stabile provinciale, hanno già anticipato 260 milioni di euro che verranno recuperati dalla vendita degli immobili tra cui quello di via Antonio Musa n°10. Stiamo parlando di banche “fortunate” come la Bnp e la Finemiro e di aziende come la  “fortunatissima” Parsitalia, di proprietà dei Parnasi, che hanno vinto l’appalto della costruzione! Quegli stessi costruttori che hanno avuto sempre la solita fortuna di gestire altri appalti nella zona Eur, Tor Marancia, Castellaccio e che concorrono alla costruzione dell’ambitissimo stadio della Roma a Tor di Valle. Ma perchè costruire un palazzo della provincia quando la provincia non esiste più? E perchè concentrare in un unico palazzo gli uffici di un ente, che in quanto provinciale, dovrebbe essere distribuito sul territorio? Le direttive della Spending Review sono state colte come nuova opportunità per distribuire ai poteri forti della città altri soldi in cambio di voti. Infatti, dietro la propaganda della razionalizzazione e delle campagne antispreco ci sono loschi affari, ci sono altri sprechi e ci sono i politici, i partiti e i palazzinari che giocano a carte sulle nostre teste. E che si può fare, denunciare la corruzione o peggio eleggere nuovi rappresentanti del mattone? Abbiamo capito da tempo che, nel paese della partitocrazia, andare al voto significa cambiare la faccia di una stessa medaglia e rimanere a guardare vuol dire pagare i costi della crisi. I partiti sono il pilastro del regime democratico e questi modi di agire dietro le quinte non sono nuovi a nessuno. La nostra denuncia non è uno scandalo da prima pagina di giornale, non ci interessa buttare fango su una parte per favorire l’altra.  Siamo in uno stato di completa ingovernabilità e noi vogliamo creare e soprattutto praticare una rottura con chi crea e approfitta della crisi. Non vogliamo portare avanti una rottura di testimonianza contro la corruzione vogliamo essere noi la testimonianza che una strada si può percorrere ed è quella dell’ autorganizzazione autonoma in difesa dei nostri territori, per la riappropriazione delle case, per la lotta contro lo sfruttamento sul lavoro e del lavoro. Oggi studenti, famiglie, migranti, disoccupati o semplicemente uomini e donne che non credono più nelle favole dello stato che ridistribuisce, nello stato del welfare, hanno occupato decine di stabili per ottenere qui e ora una vita migliore. Il mattone che ci siamo ripresi puzza di soldi marci e dato che noi soldi non ne abbiamo e quelli che ci chiedono tramite le tasse se li rubano ce li riprendiamo.

Eccoci qui noi choosy! Noi ci riserviamo una vita migliore. E voi?

 

 

DegageCasaxtutti                                                                                         http://degage.altervista.org

 

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CASA PER TUTTI, TUTTI A CASA!

Oggi, il progetto Degage! ha deciso di occupare uno stabile pubblico abbandonato, che sta per essere svenduto ai privati, per adibirlo a studentato. Nella giornata in cui i movimenti di lotta per la casa hanno occupato contemporaneamente decine di stabili vuoti, vogliamo rimarcare ancora una volta come l’unica soluzione all’emergenza abitativa sia la riappropriazione diretta. Le risposte fornite dalle amministrazioni comunali non sono mai state sufficienti né tantomeno -e volutamente- risolutive; facendo da sempre l’occhiolino ai palazzinari hanno permesso, al ritmo delle colate di cemento, uno smisurato ingrandimento della città e, allo stesso tempo, una speculazione sul costo degli affitti che oramai possono arrivare fino a 500€ per una stanza singola. Nella sola città di Roma, a fronte di un’emergenza abitativa che coinvolge 50.000 famiglie, gli stabili vuoti sono ben 260.000!

Un’ occupazione di studenti non vuole essere corporativa ma dare un’indicazione, un esempio di come, organizzandoci insieme, possiamo migliorare materialmente le nostre condizioni. La riappropriazione diretta, come mezzo e non fine ultimo, è infatti una pratica conflittuale facilmente realizzabile e, soprattutto, riproducibile. Ci auguriamo che di studentati come il nostro ne nascano altri cento! Pensiamo che sia legittimo riappropriarsi di tutto quello che non abbiamo, non ci stiamo a rispettare i canoni del sentire comune che impongono a un giovane di desiderare “ma non troppo”, di non essere “schizzinoso”, facendo così della retorica dei “sacrifici giusti” le catene della nostra generazione. Siamo convinti che solo insieme possiamo liberarci da queste catene!

Se non lo facciamo noi nessuno lo farà per noi, infatti, le risposte che l’istituzione universitaria offre ai suoi iscritti sono a dir poco insufficienti, anzi non fanno altro che aggravare la situazione! A fronte dell’ aumento delle tasse universitarie, gli alloggi e le borse di studio sono elargiti dall’università in base al merito, un merito “all’italiana” che esclude automaticamente chi non ha alle spalle una famiglia che può sostenerlo e gli studenti-lavoratori che, non solo non hanno nessun tipo di agevolazione ma, se fuoricorso, come spesso accade a chi lavora e studia, si vedono le tasse raddoppiate. La gestione mafiosa del nostro ateneo, come confermano le inchieste sul magnifico rettore Frati, è stata volta più al mantenimento del proprio potere e dei propri interessi che alle necessità degli studenti!

Abbiamo imparato che divenire autonomi, costruire la nostra vita e il nostro futuro, significa iniziare a lottare: riprendersi le strade, occupare uno stabile abbandonato o scioperare al lavoro. Sentiamo urgente il bisogno di una risposta concreta ed efficace all’ attacco che subiamo ogni giorno sulla nostra pelle e crediamo che solo riappropriandoci di tempo e reddito, possiamo conquistarci una vita dignitosa.

Mentre noi, sottoposti a ritmi frenetici, cerchiamo ogni giorno di cavarcela in qualche modo, ai piani alti del nostro paese si cerca, con fantasiosi stratagemmi, di uscire dall’empasse dell’impossibilità di costituire un governo, di questa ingovernabilità del paese. Roma, nel suo piccolo non è da meno, con il teatrino delle primarie e le future elezioni. Alla luce di ciò ripetiamo che non saranno il nuovo politico di turno né un rimpasto dell’attuale classe dirigente né tanto meno dieci “saggi” a risolvere la situazione. Vogliamo che se ne vadano tutti a casa, a tutti questi politicanti e ai loro lacchè urliamo Degage!, lo slogan che ha accompagnato la cacciata di Ben Ali in Tunisia. Vogliamo liberarci da questa schiavitù, vogliamo sognare e siamo qui e ora pronti per costruirci un’ipotesi di vita che vada oltre il termine del contratto precario e sappiamo che le uniche strade percorribili sono quelle della riappropriazione e della lotta.

 

ASSEMBLEA PUBBLICA h 17

a seguire aperitivo+djset

Via Antonio Musa, 10 (Piazza Galeno)

 Degage casaxtutti                                                      htttp://degage.altervista.org

LA LIBERTA’ NON CADE DAL CIELO – presidio sotto il Tribunale di Roma 11/4

Il 15 Ottobre 2011, come a Genova nel 2001, eravamo 300.000 a gridare per le strade di Roma la nostra rabbia contro le politiche di austerità, un grido che voleva risvegliare le coscienze di una Italia ancora assopita di fronte alla crisi economica provocata dalle grandi lobby del capitalismo globale e fatta pagare in maniera pesantissima,per intero, alle classi subalterne. Questo mentre in tutta Europa e nei Paesi arabi si sviluppavano mobilitazioni e rivoluzioni.

Una manifestazione che non poteva essere incastonata nelle logiche del corteo – parata  più affini alla rappresentanza politica sindacale. Le tante iniziative prodotte sin dalla partenza del corteo, infatti, hanno voluto segnalare simboli e responsabili della crisi, indicando nella riappropriazione diretta l’unica possibilità di porre le nostre vite “contro e  fuori” dalle politiche di saccheggio ed austerità che stiamo subendo.

Come tutti e tutte sappiamo, non si è fatto attendere l’intervento dei tutori dell’ordine, che hanno tentato di stroncare sul nascere la combattività di una manifestazione e di un possibile movimento attraverso una gestione di piazza letteralmente criminale, con caroselli di blindati lanciati a tutta velocità, utilizzo di lacrimogeni e idranti, cariche che hanno tentato di sgomberare piazza San Giovanni.
La resistenza della piazza, però,  è stata forte, partecipata e determinata, nutrita da una rabbia covata nella quotidianità per le condizioni di ingiustizia, sfruttamento, saccheggio dei territori che ci vengono consegnate ed imposte. Una resistenza ed una rabbia che rivendichiamo non solo come giuste, ma anche come necessarie  allo sviluppo di un processo di trasformazione radicale dell’esistente che ci porti a liberare le nostre vite dallo sfruttamento e dalle gabbie del capitalismo.
In quella giornata e nei mesi successivi si sono susseguiti arresti e processi, con condanne pesantissime. Oggi è arrivata a chiusura l’indagine che coinvolge 25 compagne e compagni accusati del reato di devastazione e saccheggio. Un nuovo processo sta così per cominciare. Si, perché ancora una volta proprio come a Genova 2001 lo Stato e i suoi magistrati hanno “tirato fuori dal cilindro” questo reato per affibbiare condanne pesantissime,un monito a chiunque pensi e provi a mettere il proprio corpo e le propria esistenza in gioco, partecipando a un processo di conflitto e di cambiamento. Una drammatica beffa visto che quel giorno, come altre mille e mille volte eravamo scesi in piazza proprio contro chi devasta e saccheggia quotidianamente le nostre vite!
Al di là della narrazione e delle valutazioni su quella giornata e delle sue conseguenze legali, sentiamo con forza la necessità di aprire, dentro ed oltre i recinti delle realtà di movimento, un confronto ed una discussione che non eluda il tema della repressione, ma che ci porti al contrario collettivamente a farcene carico e ad affrontarlo. L’utilizzo della fattispecie di reato di “devastazione e saccheggio” viene sempre più di frequente utilizzata per colpire ogni forma di espressione di rabbia e conflittualità. Le lotte sociali sono ridotte così a mero problema di ordine pubblico, additate come fatto delinquenziale.
Su questa base, vorremmo iniziare un ragionamento concreto, partendo da un confronto tra chi agisce le lotte sociali qui a Roma, città grande, difficile, complessa, ricca di storia, di esperienze e pratiche concrete dell’alternativa allo stato di cose presenti. Un confronto che sia in grado di superare i disperati ed isolati urli contro la repressione, che abbia la capacità di costruire un filo rosso che a partire della rivendicazione di una “libertà di movimento e di conflitto” riesca, quindi, a proiettarsi ben oltre la miseria del presente.
E’ in atto, infatti, un ampio processo di criminalizzazione sociale e di controllo sociale preventivo che colpisce chiunque non si piega alle leggi del mercato, marcando in forme diverse la propria alterità e/o incompatibilità. Pensiamo, ad esempio, a quei particolari laboratori della repressione che si sperimentano negli stadi, sui migranti, sul precariato delle periferie.
Non solo, va posta la giusta attenzione al tentativo di interdizione delle lotte sociali attraverso l’uso di dispositivi di controllo e repressione, il bavaglio mediatico imposto alle opposizioni, il controllo poliziesco sugli attivisti, l’uso della legislazione speciale antiterrorismo. Tasselli che, se considerati nel contesto politico e sociale nel quale si ascrivono,  contribuiscono a delineare uno scenario  a dir poco preoccupante ed allarmante, una vera e propria svolta autoritaria e liberticida degli apparati dello stato.
La proposta che lanciamo è quella di confrontarsi e  ragionareinsieme attorno a questi temi per costruire una campagna politica comune: perché se è vero che la migliore risposta alla repressione la si dà continuando a portare avanti e a sviluppare i propri percorsi di lotta giorno dopo giorno; è altrettanto vero che, per dare spazio allo sviluppo dei conflitti stessi, è necessario denunciare con forza che problemi sociali come la casa, il lavoro, la scuola, non possano essere trattati come questioni di ordine pubblico. Che si criminalizzano studenti, lavoratori, sfrattati, disoccupati che legittimamente protestano contro i tagli a scuola, sanità, la reforma pensionistica, lo smantellamento dei residui di welfare, la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro, le privatizzazioni, i licenziamenti, la devastazione dei territori in nome del profitto.
Questo, come abbiamo detto, in una fase in cui le condizioni di vita di larghe fasce di popolazione sono letteralmente in caduta libera,rappresenta un segnale chiaro e preoccupante rispetto al presente ed al futuro che la governance capitalistica vorrebbe cucirci addosso. Appare necessario e urgente, di contro, trasformare l’ingovernabilitàe la rabbia crescente, indicare la direzione di marcia collettivaverso un’altra idea di società, verso una nuova utopia possibile da immaginare e conquistare insieme.
Lanciamo già da ora un presidio per il 4 aprile prossimo, di fronte al Tribunale di Roma, per sostenetere i compagni e compagni che vedranno iniziare il processo contro di loro e proponiamo un’assemblea pubblica per il 12 aprile prossimo che, a partire dalla ineludibile solidarietà e complicità con gli/le compagni/e sotto processo, abbia la volontà diiniziare a tessere un ragionamento collettivo ed un percorso comune.
Inoltre in solidarietà con le/i compagn* di Teramo ed in particolar modo con Davide Rosci, attualmente detenuto nel carcere di Viterbo, invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio sotto al Tribunale di Roma l’11 aprile, giorno in cui si esprimerà il Tribunale del riesame.
Libere Tutte – Liberi Tutti


Compagni e Compagne di Roma

Il day-block della logistica

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

É iniziato prima dello scoccare della mezzanotte lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: depositi e magazzini della Tnt, della Bartolini, dell’Sda, della Dhl e delle altre imprese nelle principali città protagoniste delle lotte degli ultimi anni (Verona, Bologna, Milano, Piacenza) sono stati bloccati a partire dalla sera di giovedì. Al passare delle ore hanno iniziato a prendere corpo i numeri dell’adesione allo sciopero: si arriva al 100% o quasi, i principali poli della logistica per oltre 24 ore sono svuotati del lavoro vivo. Il dato di grande rilievo è che la giornata di mobilitazione è andata ben oltre gli ormai consolidati centri della mobilitazione, arrivando al centro-sud: a Roma, ad esempio, i livelli di partecipazione allo sciopero alla Sda e in altre imprese della logistica sono stati pressoché totali. Ciò permette il rafforzamento dei conflitti dove già c’erano e il loro esordio nei posti in cui finora erano assenti. Lo sciopero del 22 marzo segna quindi un fondamentale salto di qualità nel processo di accumulo di forza ed estensione di questo ciclo di lotte.

Ma il 22M non si è esaurito negli straordinari numeri di adesione allo sciopero. Prima che l’alba facesse capolino, sono cominciati i picchetti e i blocchi dei principali snodi della circolazione delle merci. A Bologna l’interporto viene completamente paralizzato, le file di camion fermi in entrata e in uscita vanno avanti per chilometri. La composizione è quella vista nella vittoriosa lotta all’Ikea e in altre occasioni: al fianco dei facchini ci sono studenti, precari e militanti. Poco prima delle 10 arriva la notizia di una prima violenta carica della polizia ad Anzola, tra Bologna e Modena, per provare a sgomberare i cancelli della Coop Adriatica (sì, non è un caso, il fiore all’occhiello della sinistra e ganglio nevralgico del blocco di potere politico-economico del modello di governo socialista emiliano-romagnolo). Anche qui tutti i lavoratori delle cooperative avevano incrociato le braccia. Il picchetto resiste con determinazione e occupa la via Emilia, arteria centrale della circolazione: intorno a mezzogiorno viene rimpolpato dai partecipanti al blocco dell’interporto, che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo. Nel frattempo, a Verona e a Padova vengono bloccate le tangenziali e le strade della zona industriale, a Roma è presidiata la sede dell’Sda, a Torino e Genova ci sono iniziative in imprese specifiche. Nell’area metropolitana di Milano sono tre i concentramenti principali: all’interporto di Carpiano, dove vengono bloccate l’Sda e la Dhl, nella zona strategica di Linate, infine a Settala, dove i lavoratori picchettano due grossi centri della Dhl. Qui il delegato della Cgil prova a sfondare i picchetti per portare dentro i crumiri, l’uno e gli altri vengono cacciati via dai lavoratori. I confederali sono complici dei padroni non solo in senso figurato. A Piacenza, dopo aver nuovamente bloccato il deposito Ikea a partire dalle 6 del mattino, nel pomeriggio si forma un corteo che invade le strade del centro cittadino.

Ma la giornata è lunga. Poco dopo le 14 poliziotti e carabinieri indossano nuovamente caschi, scudi e manganelli per sgomberare il picchetto davanti alla Coop Adriatica e Unilog. Le cariche sono ripetute e violente, lavoratori, studenti e precari resistono e occupano la via Emilia. Cercando di sfuggire alla brutalità poliziesca tre lavoratori vengono investiti da un camion, le loro condizioni sembrano critiche: arriva l’ambulanza, uno viene portato in ospedale, gli altri due vengono soccorsi e restano sdraiati a terra. La strada rimane bloccata. I manganelli tornano a inseguire i corpi dei manifestanti, che mantengono compatto il corteo, raggiungono un parco ai lati della via Emilia e si riuniscono in assemblea.

Le immagini dei poliziotti che scortano i camion carichi di merci sembra una fotografia del capitalismo contemporaneo e della violenza dei processi di accumulazione. Ma queste lotte, innanzitutto, ne indicano i livelli di fragilità e di possibile rottura. La ritualità dello sciopero è definitivamente infranta, questo viene reinventato e torna così a essere un’arma per fare male ai padroni. Anche il simbolico non è più finalmente quello dei media mainstream, ma appartiene alla comunicazione autonoma che – attraverso siti, twitter e social network di movimento – ha creato il tessuto connettivo della giornata di sciopero (l’hashtag #logistica è stato tra i principali “trending topic” in Italia). In molti luoghi lo sciopero va avanti fino al sabato mattina, alcuni lavoratori discutono della possibilità di protrarlo ulteriormente. Dunque, finita con un bilancio eccellente la prova di forza e generalizzazione del 22, il processo continua su nuove basi: oltre la logistica, ripetono tutti, qui vanno trovati i circuiti della ricomposizione. Qualcuno cita gli Iww: forse è solo una suggestione, o semplicemente serve per descrivere alcune caratteristiche (mobilità, eterogeneità, irrappresentabilità) che oggi, nel cuore del capitalismo cognitivo, descrivono la forza lavoro precaria. In ogni caso, le forme organizzative della nuova composizione di classe ora sembrano un po’ meno indecifrabili: un passo in avanti comune lo stiamo facendo, magari proprio verso i wobblies del XXI secolo.

* Pubblicato su “il manifesto”, 23 marzo 2013.

Non abbiamo bisogno di un governo, ma dei soldi che ci spettano #anzituttoredditopertutti

15 marzo si insediano le nuove camere. Non abbiamo bisogno di un governo, vogliamo un reddito per tutti

Tra i 27 Paesi attualmente membri dell’Unione europea la mancanza di un reddito di base è localizzata soltanto in Italia, Grecia ed Ungheria. L’Italia resta al di fuori dei parametri europei continuando a disporre di un lacunoso ed iniquo sistema di ammortizzatori sociali che esclude il variegato universo dei precari e dei soggetti non coperti da nessun sistema di protezione sociale. La crisi e le politiche di austerity adottate dietro il ricatto del debito hanno agito come un dispositivo di “livellamento verso il basso” – facendo regredire garanzie sociali e i diritti acquisiti – seppur con un
intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. Le riforme Monti-Fornero hanno ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro e tagliato i fondi del nostro sistema previdenziale e welferistico. Siamo da poco entrati nel sesto anno consecutivo di crisi e dal punto di vista delle condizioni materiali, stiamo assistendo a forme inedite di povertà. Il costante e drammatico peggioramento degli indicatori sull’occupazionee sulle condizioni economiche (e di indebitamento) dei soggetti e delle famiglie (erogatrici di cassintegrazione di ultima istanza) è inserito in un quadro di recessione globale che non tende ad arrestarsi. Il tasso di disoccupazione reale – non quello delle statistiche ufficiali – è schizzato alle stelle come mai era accaduto negli ultimi decenni. Durante la campagna elettorale la riforma del welfare e la garanzia del reddito sono state al centro della scena mediatica. Il reddito e i variopinti aggettivi per descriverlo sono
diventati mainstream, argomenti portanti utilizzati in maniera trasversale. Le classificazioni riempiono quotidianamente le pagine dei giornali: “minimo”, di “cittadinanza”, di “solidarietà”, di “ultima istanza” fino ad arrivare ad un non ben definito “salario sociale”. Ognuno di questi progetti ha il suo calcolo di spesa più o meno veritiero. Il dato fondamentale emerso è che l’erogazione di un reddito per tutti non è un problema di sostenibilità economica ma di volontà politica. Il susseguirsi di prese di posizione ha circoscritto l’importanza di una legge nazionale per il reddito ad una misura di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Lo spettro che si aggira dietro le solidaristiche intenzioni di equità sociale sono le nuove politiche di welfare to work (ovvero workfare, welfare condizionale, labourfare) che il nostro Paese sta predisponendo, importandole da altri stati europei. Partiti, sindacati e burocrazie di servizio stanno prestando il fianco a questa operazione.

L’obiettivo non dichiarato è la subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario. Ma il workfare non ha neppure una ricaduta positiva sulla spesa pubblica. Anzi, è piuttosto costoso, sia sul piano amministrativo sia in generale, dal momento che i posti di lavoro in offerta sono a bassa produttività. Le esigenze principali a cui assolve sono due: il controllo sociale sulla vita dei soggetti e la falsificazione delle statistiche sulla disoccupazione operando una riduzione fittizia, senza creare quindi dei posti di lavoro, ma con il solo risultato di scoraggiare i disoccupati dal richiedere gli assegni assistenziali. Ma non si tratta esclusivamente di redistribuire la ricchezza – il che non sarebbe poco in questo momento, se avvenisse senza il ricatto dell’impiego precario da accettare – ma si tratta di riconoscere – e quindi retribuire – la produzione sociale che avviene ogni giorno. Gli attori protagonisti di questa mobilitazione permanente per il capitale sono i milioni di precari che quotidianamente producono ricchezza. Il reddito di base e incondizionato è il riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione.

 Operazione chiarezza! Il decalogo ovvero i 10 punti del reddito che vogliamo:

1.      Per reddito intendiamo un intervento economico universale ed incondizionato, ovvero l’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perenne in grado di garantire la riproduzione delle vite singolari. Oltre al reddito diretto si devono garantire i bisogni comuni (formazione, comunicazione, mobilità, socialità, abitare) attraverso forme di reddito indiretto.

2.      Il reddito non è discriminante nei confronti di nessuno, quindi viene erogato a nativi e migranti a prescindere dalla cittadinanza perché concorre a definire la piena cittadinanza sociale e il pieno godimento delle libertà civili.

3.      Il reddito deve essere erogato a tutti i soggetti dal compimento della maggiore età fino al raggiungimento della pensione (che non avranno mai, quindi fino alla conclusione della vita terrena).

4.      Il reddito è un diritto fondamentale della persona (quindi soggettivo) che tutela il diritto ad un’esistenza autonoma, libera e dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata.

5.      Il reddito è il riconoscimento della produzione sociale permanente. Il reddito indipendente dalla prestazione lavorativa riconosce il concetto di produttività della vita sociale, dà valore al tempo di vita che è oltre il tempo di lavoro.

6.       L’istituzione di un reddito rappresenta un mezzo per lottare contro la precarietà (sociale e) lavorativa e il basso livello di remunerazione (in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa),
evitando che una parte crescente della popolazione – come è avvenuto nei 6 anni di crisi – cada nella “trappola della povertà”. Il reddito fornirebbe ai precari e ai precarizzati il potere di non accettare qualsiasi lavoro e di opporsi alla precarizzazione. Quindi il reddito è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro.

7.      Il reddito non è un sussidio di povertà, quindi non è una forma di salarizzazione della miseria e dell’esclusione sociale.

8.      Il reddito non è un sussidio di disoccupazione.

9.      Il reddito non è vincolato all’accettazione di nessuna offerta formativa e/o lavorativa, di conseguenza non ha un regime sanzionatorio. Ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito Minimo Garantito proposta da una rete di associazioni e partiti di sinistra, ispirata alla legge regionale del Lazio n.4 del 2009 (“Istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito in favore di disoccupati, inoccupati e precariamente occupati) prevede tra le cause di sospensione, esclusione e decadenza della prestazione, il rifiuto di una proposta di lavoro avanzata dal Centro per l’impiego comporta la decadenza del
beneficio, fatta eccezione per l’ipotesi della non congruità della proposta di impiego (art.6 legge regione Lazio n 4/2009). Una sorta di regime sanzionatorio che dovrebbe inserire degli elementi di condizionalità del beneficio o delle indennità godute dal soggetto inserito nei programmi di orientamento, formazione e attivazione, lasciando però in uno stato di indeterminatezza la questione dei doveri in capo alle amministrazioni deputate all’inserimento. Di conseguenza, un’ulteriore perplessità deriva dall’erogazione ancorata alla disponibilità al lavoro, la cosiddetta “congrua offerta” (meccanismo sanzionatorio predisposto dalla Strategia Europa per l’Occupazione) e quindi alla condizionatezza al lavoro precario e intermittente proposto dai centri per l’impiego che, oltre ad essere inadeguati nel realizzare le politiche formative/di orientamento e di inserimento lavorativo, ricevono esclusivamente offerte di lavoro con basse qualifiche professionali. Noi pensiamo che si possano coniugare strumenti universalisti di protezione sociale con politiche di attivazione, senza regime sanzionatorio.

10.     Il reddito non può essere “minimo”, perché è la configurazione di un nuovo diritto ed i diritti non sono né minimi né massimi. Per quanto riguarda l’importo della misura, per noi dovrebbero essere almeno 1000 euro al mese. Occorre riflettere, infatti, sull’evenienza che una prestazione modesta possa comportare un effetto perverso a carico dei lavoratori precariamente occupati: in casi di contrattazione diretta della loro condizione lavorativa un rinvio al reddito come risorsa complementare potrebbe diventare l’escamotage per prospettare un mantenimento dell’occupazione precaria con livelli di retribuzione ridotti. La conseguenza sarebbe l’istituzionalizzazione del ”sotto-occupato” working poor (lavoratore povero) che non riuscirà a vivere con 600 euro al mese e dovrà accettare lavori al nero pur di non perdere il sussidio. Sappiamo bene quanto il lavoro sommerso in Italia sia necessario in quanto camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso.

#anzituttoredditopertutti

Incontro con Maurizio Lazzarato

Per una rottura politica contro la governance neoliberista

Con il risultato elettorale abbiamo sicuramente un deposito di elementi contradditori, una dimensione politica complessa su cui ragionare e dispiegare una riflessione ad ampio spettro.

Innanzitutto sulla crisi irreversibile e verticale della rappresentanza dei partiti, praticamente tutti  in special modo di quelli per il governo autoritario dell’austerity, 9 ML i voti persi complessivamente da PD, PDL e Lega. Il partito del non voto (astensione, schede bianche, nulle o invalidate) si è affermato come il vero primo partito, l’affluenza rispetto al 2008 ha subito nei fatti un calo del 7% nonostante il tentativo di recupero sulla così detta antipolitica.

Poi l’ingovernabilità parlamentare secondo coalizioni di schieramento opposte e speculari in linea con la trojka e l’affermazione istituzionale, formalizzata, come già detto da più parti, rappresentata e contestualmente addomesticata attraverso il movimento 5 stelle di quelle istanze che i movimenti sociali hanno imposto in questi anni con il loro protagonismo, le rivendicazioni costituenti delle lotte: dai notav, ai comitati referendari contro la privatizzazione dell’acqua pubblica, dalla redistribuzione dei fondi e delle risorse – la semplificazione operata nella vulgata giustizialista contro la corruzione è stata nei fatti fin qui destituente – fino ai nuovi diritti per i precari come quella sul reddito di cittadinanza, sociale o garantito che dir si voglia. Temi sui quali dovremo concentrare le nostre riflessioni e strategie di conflitto se vogliamo poi imporre all’agenda di governo – qualunque esso sia – una mobilitazione di massa, una capacità d’urto, necessaria per qualsiasi ridefinizione dei nuovi diritti, figuriamoci poi per una trasformazione della carta costituzionale.

Una premessa politica è d’obbligo. Non intendiamo affatto il 5 stelle come la nuova rappresentanza dei movimenti. Al contrario l’ipotesi che si è aperta con l’affermazione dei cosi detti grillini rimanda all’incapacità da parte dei movimenti di farsi – almeno in questo frangente – conflitto non risolvibile e non addomesticabile, rottura costituente. Almeno per ora pare riuscita l’operazione di cattura e sussunzione della conflittualità e della stessa materialità dei movimenti proprio in questo farsi stato che il 5 stelle ha inteso avviare con il forte scossone di incursione parlamentare e di consenso elettorale.
In ogni caso anche solo temporaneamente – la finestra si chiuderà molto presto – si rompe il meccanismo della coazione a ripetere di un sistema bloccato di cui evidentemente la stessa governance comincia ad essere stanca e a sentirsi legata. C’è un blocco della valorizzazione capitalistica al centro della crisi che da anni sta segnando le politiche economiche e di governance, dove l’unico paradigma di governo si articola intorno alla misura del debito e dell’austerity come vero e proprio dispositivo di comando, di sottomissione di assoggettamento del lavoro vivo.

E sappiamo bene quanto possa tornare utile alla logica dei mercati e della speculazione l’instabilità che si è venuta determinando in questo difficile tornante nella storia del nostro paese. Ma, e lo affermiamo con forza, anche di quale grande opportunità si apre al cospetto dei movimenti, soprattutto su quei temi dove i movimenti stessi sono chiamati in causa dentro l’ingovernabilità formale che si è aperta con l’ultima tornata elettorale.
Le così dette riforme delle politiche del lavoro e del welfare, ciò che la tecnicalità di una certa dottrina dello stato chiama welfare per la protezione sociale o diviene un campo di forze, un terreno di scontro e di sperimentazione delle pratiche del conflitto oppure rimarrà semplicemente la cooptazione e la sottomissione, il controllo e disciplinamento sociale. Un movimento che spinge il reddito garantito come istanza minima di esclusivo contrasto della povertà assoluta e non come orizzonte del conflitto sociale nella densità delle sue pratiche riappropriative, si ridurrà alle già annunciate spirali di cattura e assistenza sociale così come si manifestano i progetti di workfare e di reddito minimo fin’ora conosciuti.

Sono anni che andiamo sostenendo la sproporzione percentuale inconcepibile che viene quantificata nel cosiddetto bacino di inattività che qui in Italia è considerato intorno ai quindici milioni di cittadini, formalmente indisponibili a lavorare e fondamentalmente impiegati invece nel lavoro sommerso che tiene peraltro ben ponderato al ribasso il formale tasso di disoccupazione. Una fetta enorme di lavoro nero che corrisponde al primato mondiale
del nostro paese sull’incidenza percentuale del sommerso sul PIL, ben il 18,1%. La tanto decantata riforma sul MdL dell’ultimo governo tecno-autoritario ha aumentato il lavoro sommerso e paradossalmente ridotto gli AA. SS. esistenti, come sappiamo già largamente insufficienti ed iniqui. Così come sono anni che andiamo chiarendo le distinte prospettive tra la flexicurity come politica di workfare, dalla proposta di un reddito universale e di esistenza.

Si diceva di reddito quindi e negli ultimi anni le moltitudini precarie si sono mobilitate con le tante iniziative promosse su tutto il territorio nazionale almeno nel biennio 2003/2004 fino ad arrivare ad imporre all’agenda politica il tema del caro vita, della precarietà, del sacrificio imposto e del ricatto sociale. Abbiamo organizzato insieme a tanti manifestazioni nazionali per il reddito garantito di decine di migliaia di persone, siamo entrati nei supermercati e nelle
librerie pur nei tanti limiti delle soggettività politiche coinvolte e l’impatto sociale della riappropriazione messa in atto con la campagna dello shop surfing servì indubbiamente a porre il reddito come istanza non più rinviabile in una paese dove solo insieme alla Grecia all’interno del quadro europeo non è presente a tutt’oggi alcun minimo elemento di protezione sociale, neppure di welfare to work. Poi seguirono tra gli appuntamenti del mayday milanese che negli anni cresceva nella densità della partecipazione, le tante lotte e vertenze, alcune anche vinte significativamente dalla cospirazione precaria che sotto la protezione di San precario ha difeso i devoti, sfruttati, ma disponibili a rovesciare il tavolo del padrone. Ci siamo messi contro Ministri, Pubbliche amministrazioni, Enti locali, perché la lotta di classe non permette giravolte e politicismi, quando rompi la compatibilità e il compromesso, saltano le mediazioni e la manifestazione autoritaria dell’austerity la tocchi con mano. Così siam giunti al biennio caldo delle lotte transnazionali 2010/2011 dove le moltitudini precarie hanno aperto e liberato il campo, hanno travolto gli accordicchi, subissato i politicanti, hanno sedimentato rivolta riprendendosi la piazza, del Popolo prima, di San Giovanni poi. E così è la lotta di classe, terribilmente oscena, a volte non proprio ordinata ma certamente densa della rottura costituente di cui abbiamo bisogno.

Dopo gli scontri di Genova, dopo la rabbia non solo per un compagno caduto, ma anche per l’insufficienza e totale incapacità di quei compagni che diressero quell’appuntamento, c’è stato tutto questo e molto altro: basti ricordare le battaglie campane contro gli inceneritori, quelle per il referendum vinto – cosa non da poco – contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e ovviamente non in ultimo la lotta NoTav. Oggi abbiamo un patrimonio sociale un’eredità di
conflitto e di trasformazione da incarnare, oggi se possibile più di ieri il disordine è tanto, molto, denso sotto il cielo e come qualcuno ricorda per noi è un’ottima prospettiva.
Non solo non veniamo dal nulla ma abbiamo un futuro da conquistare.
Dobbiamo quindi essere all’altezza della fase e sapere come orientarsi nella prateria per prendere posizione. Dobbiamo definire quindi con molta chiarezza per cosa ci mobilitiamo e come intendiamo oggi porre la questione del reddito.
La moltitudine precaria che vogliamo organizzare da dentro e dal basso rivendica reddito incondizionato dal ricatto del lavoro, precario o stabile, certamente impoverito, ridotto a mero strumento di controllo sociale.

Reddito garantito non come strumento di neoregolazione redistributiva ma come riconoscimento pieno della produzione sociale permanente continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di rendita privata. Lo intendiamo come salario estensivo e co-estensivo che corrisponda a tutte le forme della produzione sociale, affettiva, reticolare, immateriale, cognitiva, ben oltre i perimetri formalmente segnati dal comando capitalista e dall’espropriazione dei dispositivi di cattura e sfruttamento globali nella nuova organizzazione del lavoro.
Di questo e molto altro vogliamo parlare con Maurizio Lazzarato. Non ha bisogno certo di presentazioni, è prima di tutto un compagno oltre che un lucidissimo pensatore – magari l’etichetta di ricercatore o sociologo gli può stare stretta, vista la sua esperienza politica e di militanza nell’autonomia operaia – è tradotto ormai in molte lingue e apprezzato in diversi continenti. Possiamo ripercorrere alcune tendenze del suo pensiero come costituenti di tutto un dibattito politico e teorico che nell’ultimo ventennio ha caratterizzato non solo le trasformazioni del lavoro e della produzione – ricordiamo che già nei primi anni 90’ aveva rintracciato il contenuto immateriale del lavoro come egemone nei nuovi processi produttivi dispiegati nell’economica postfordista e nelle sue trasformazioni che hanno risignificato lo stesso processo di valorizzazione e che tuttora rimangono un terreno aperto d’inchiesta in continuo divenire. Ancor di più lo seguiamo fino ad oggi per la perfetta e calzante attualità della dimensione teorica di alcune ipotesi che vorremmo qui ricondividere.

Venerdì 5 Aprile h 17 Laboratorio Acrobax – Roma

intervista a Maurizio Lazzarato per www.indipendenti.eu con

*Gianluca Pittavino – Askatasuna Torino

*Francesco Festa – 081 Napoli

*Benedetto Vecchi – Il Manifesto

*Federico Primosig – attivista Stoccolma

*Sergio Bianchi – Deriveapprodi

*Dario Lovaglio – attivista 15M Barcellona

sono invitati ad intervenire: Laboratorio Alexis, America occupato, Degagè, Laboratorio Acrobax, collettivi e reti studentesche