Uno dei modi con i quali si sta cercando da più parti di giustificare o razionalizzare quello che è
avvenuto a Roma il 14 dicembre è quello che consiste nel dire che in fondo è accaduto solo quello che è
già accaduto in Francia, in Grecia, in Spagna e in Inghilterra. Oppure, il ché è quasi lo stesso, che è un
effetto della crisi o della «assenza di futuro», qualcosa cioè di essenzialmente reattivo. In fin dei conti
definire la rivolta come pura “esplosione di rabbia” vuol dire relegarla nel purgatorio delle passioni
irrazionali. È un modo tra i tanti di relativizzare l’evento, un modo buono per tutti i gusti: sia per gli
“antagonisti” ossessionati da problemi di identità e che fino all’altro ieri dovevano accontentarsi di un
po’ di riotporn su youtube, sia per i “gestionali” i quali, dopo lo sbigottimento, per rimettere le cose a
posto ora possono dire con patetico understanding: «Abbiamo respirato un clima più europeo e meno
provinciale del solito» (ma il tizio avrà detto questa stupidaggine per apparire simpatico agli erasmini,
agli intellettuali cosmopoliti o semplicemente per diluire la singolarità della rivolta romana nella notte
dove tutte le vacche sono nere?). Contenti loro.
Certo, sarebbe da stupidi non vedere che in Europa negli ultimi quattro anni si è fatta avanti ed è venuta
facendosi sempre più comune una pratica del conflitto anticapitalista che fa rimbalzare enormi
sommosse da un paese all’altro. Anzi, ad avere l’occhio lungo si poteva prevederne la tendenza già da
tre o quattro anni almeno. Il testo maggiormente premonitore in questo senso, L’insurrection qui vient, è
del 2007. Ci sono stati diversi compagni e compagne che hanno provato per tempo a intercettare la
tendenza e a socializzarla, peccato che nelle nostre provincie venissero trattati peggio di come Saviano
oggi tratta i rivoltosi di Roma. In ogni caso, per quanto ci riguarda, crediamo ancora nella verità del
vecchio motto “prima le lotte, poi il capitale” e che la resistenza venga prima del potere. Crediamo
ancora che autonomia significhi capacità di determinare una propria temporalità e quindi saper
prendere e tenere l’iniziativa e non subire sempre e comunque quella del governo (o della bassa cucina
politica) per poi reagire. E non ci crediamo astrattamente, per noi è parte di una prassi. Piazza del
Popolo e tutto quello che è avvenuto attorno ha significato finalmente imporre il piano dell’iniziativa
autonoma a tutti. Al governo in divisa blu in primo luogo, poi alla politica e quindi a quei poveracci che
si sono illusi di poter ancora e per sempre condurre le danze con uno pseudo-assalto al Palazza in
perfetto stile “reality show”, a uso e consumo della miriade di fotografi e cameramen che già
conoscevano l’angolo di strada dove assieparsi. Il nodo che la rivolta romana ha sciolto con violenza sta
proprio in questa affermazione: all’esercizio comune di un rifiuto corrisponde la crescita dell’autonomia
e che la verità della lotta non poteva consistere né nella sua messinscena né nella finta assemblea
democratica che avrebbe dovuto chiudere la manifestazione ma nella frattura profonda con ogni
continuità e quindi anche con l’edulcorata grammatica della protesta che fino ad oggi ha potuto
egemonizzare i movimenti in Italia. E finalmente si è vista in azione un bel po’ di «rude razza pagana»!
Dire che quello che è accaduto è spiegabile, meccanicisticamente, come fosse una fatale prosecuzione
di ciò che è già avvenuto altrove non spiega granché, non spiega affatto come la rivolta si è fatta spazio
qui ed ora, in Italia, nel dicembre 2010. La dimensione globale della “crisi”, d’altronde, mostra come
funziona il capitale molto più che la fisica delle lotte. Sempre che il problema principale sia quello di
spiegare e noi, eterni scettici, non crediamo effettivamente sia la questione più urgente. Quello che
possiamo dire è che i politicanti, i gestionali, perfino molti tra i militanti più scaltri non se l’aspettavano
– «la situazione ci è sfuggita di mano», dice candidamente uno di loro – ma le cose sono andate come da
anni non ci stancavamo di ripetere, ovvero che l’accumulazione dei comportamenti di insubordinazione
doveva rovesciarsi in un momento di attacco complessivo, che come tale ha la capacità di spostare tutti
i termini della lotta politica in Italia. Chi riconoscesse qualcosa di familiare in queste parole non si
sbaglia: se la sovversione è una scienza vuol dire che ha le sue regolarità. Ma anche, come dice il
vecchio Kuhn, le sue rotture epistemologiche. La scienza della sovversione è la scienza di queste
rotture principalmente ma se non ci fossero delle costanti, delle continuità sotterranee, si tratterebbe
solo di caos.
La contraddizione più curiosa e, se vogliamo, rivelatrice nei “razionalizzatori” è da un lato nel dire
«non è altro che un punto in continuità con quello che è già accaduto altrove» e dall’altro «non ce lo
aspettavamo». Se alcuni di loro sono in buona fede, per altri si tratta di riportare a un ordine del
discorso accettabile l’emersione di ciò che avevano timore che accadesse. Il 14 dicembre ha tra le sue
virtù quella di aver finalmente rotto la credenza che ogni conflitto, ogni manifestazione e ogni corteo
debba essere governato: se ne facciano una ragione o si tolgano dalle strade invece di continuare a
delirare sulla “vera democrazia”.
Altra virtù è quella di far comprendere che è anche finito il tempo delle “azioni” fatte in pochi e
contenti di esserlo. Anche qui a buon intenditor poche parole. Quello che tutti, ma proprio tutti, hanno
dovuto riconoscere, nella rivolta romana come nelle altre sommosse europee, è che alle avanguardie,
che ci sono sempre, si sono immediatamente unite migliaia di singolarità qualunque. Migliaia di
singolarità che quando non partecipavano direttamente comunque tifavano rivolta, con buona pace di
chi pensa che questo bel sentimento comune sia un disprezzabile «esercizio apologetico» e che invece
adesso si tratterebbe di isolare l’evento, capitalizzarlo ed essere responsabili. Buttarla in politica cioè e
ritornare a essere cittadini. Perché i moti insurrezionali della contemporaneità sono anche la figura in
movimento dell’estraneità alla democrazia reale. È parte dello «sciopero infinito» nei confronti di ogni
identità a partire da quella più socializzata e scontata di tutte, ovvero quella del triste cittadino
planetario che non abita più nulla se non la sua alienazione dalla potenza.
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Esiste un modo e un sentimento dell’esistenza rivoluzionaria che diffida dei soggetti e delle ideologie
come mezzi per leggere le situazioni; esso invece vive e vede il mondo come un insieme di linee che si
incrociano e di piani che si intersecano, di masse di atomi che vengono a collisione e di esistenze che si
incontrano. Ogni linea, ogni piano, ogni atomo, ogni esistenza è una potenza e ogni scontro è scontro
tra potenze. Quello che viene detto il possibile è il prodotto estatico di questi incontri tra potenze, di
queste collisioni fatali dalle quali prendono il loro corso eventi che sono tali proprio perchè non sono
frutto del caos – solo degli ideologi del risentimento potrebbero pensarlo – ma dell’organizzazione che
degli esseri dotati di determinazione gli hanno conferito a partire da quel momento e quello spazio nei
quali l’incontro e poi la collisione sono avvenuti. Incontrarsi e comporsi, comporsi e aumentare la
potenza, aumentare la potenza e scagliarla intera contro il nemico: cosa altro è organizzarsi?
Comunismo non è altro che il nome di questi incontri insurrezionali a partire dai quali si costruisce un
mondo comune.
La calda scienza dell’insurrezione, la logica fredda della rivolta, la tagliente ragione rivoluzionaria sono
fatte di questi incontri, di questi piani di vita che vengono a disegnarsi nell’esistenza comune come in
un quadro di Malevich. L’intelligenza di una sommossa significa allora saper leggere le linee di
conflitto che si vengono a incrociare e organizzare nel panorama tanto rutilante quanto squallido della
metropoli. Guardie e giornalisti generalmente vedono in queste linee che diventano piano solo un
ammasso informe, una folla senza pensiero, uno strumento manovrabile composto da una plebe acefala,
delle vite infami. Per questi “analisti”, in genere, questa folla non è un soggetto e non è nemmeno
composta da soggettività politiche. Questo è il lavoro della desoggettivazione nemica. Si veda cosa ha
scritto il Corriere, ad esempio, il quale definisce tutti i partecipanti alla rivolta semplicemente come
«macchina della violenza», contrapponendola in questo modo ai veri soggetti politici. Il problema di
questi signori sarebbe infatti quello di evitare che la macchina divenga soggettività, o meglio ancora, lo
dicono loro stessi, che divenga partito. Macchina da guerra/partito immaginario: è il loro incubo
ricorrente.
I manager movimentisti non sono così lontani. Certo, sfumano i toni e cercano di vestire le linee e i
piani con dei predicati che ne possano fare immediatamente dei soggetti da unire/inglobare nel loro
maniacale sogno del Grande Soggetto alternativo alla crisi. Farne un buon soggetto da utilizzare come
massa di manovra nella contrattazione con i prossimi governanti. All’indomani della rivolta di Roma
abbiamo avuto abbondanti esempi di questi predicati: erano “ragazzini”, “precari”, “incazzati”,
“studenti”, “una generazione”, “giovani”… “persone”(sic). Un eguale cecità, un’eguale ignoranza che
agli uni fa dire che a scatenare la rivolta sono stati i “black bloc” e agli altri che è stata la passione
irrazionale di “giovanissimi” disperati per il loro futuro. Come dire che da un lato e dall’altro vedono
solo il nulla. Un nulla da dominare o a cui dar forma di Soggetto da dirigere. Chi sono allora i veri
nichilisti?
Ciò che davvero hanno in comune questi due soggetti politici è una paura: non quella della violenza ma
quella del vuoto. Vuoto politico s’intende. Un vuoto che si installa, separandoli, tra Palazzo e Piazza, tra
Politica e Autonomia, tra Governo e Ingovernabile. Per questo appaiono tutti affannatti nel cercare di
occupare l’abisso. Ma non c’è nessun vuoto. C’è solo la rottura di ogni possibilità di mediazione insieme
all’apparizione folgorante dell’indistinzione tra fuori e dentro, pubblico e privato, guerra e pace che
contraddistingue a ogni latitudine il governo dell’ordine imperiale. Per noi è evidente che si tratta di
rendere irreversibile la rottura.
Quello che abbiamo visto il 14 dicembre è anche lo scontrarsi all’interno di ciascuno e ciascuna delle
linee di soggettivazione con quelle di desoggettivazione ma per una volta lo scontro non dipendeva
dall’essere catturati in un dispositivo astratto, quando lo subisci senza nemmeno sapere cosa e come, ma
dall’essere avvolti in un sentimento comune. Perché è vero che c’erano studenti, ragazzi, artigiani,
precari, operai ma è vero anche che nel percorrere quelle linee che si confondevano con le strade della
capitale, tutti questi “soggetti” hanno sentito improvvisamente una profonda stanchezza per questa
sociologia da rapporto Censis e si sono scoperti a provare odio non solo per la polizia e per i dispositivi
di controllo disseminati sul percorso ma anche per se stessi in quanto dispositivi, per tutti questi sé
impacchettati dentro delle gabbiette pavloviane per cui ad ogni soggetto, a ogni identità, corrisponde un
comportamento standard.
L’odio per i padroni e per i poteri non prescinde da quello per ciò che di tirannico portiamo addosso e
dentro di noi. Per quella schifezza di produzione di soggettività postmoderna a cui tanti zombie della
politica di movimento si appassionano tanto. Ad andare distrutto nel riot oltre al mobilio urbano è stata
anche buona parte di quello che arreda questa gruccia concava chiamata soggetto a cui viene appesa la
vita per poi riporla nell’armadio del futuro. Se un tempo valeva per gli operai il “rifiuto del lavoro”
negli e contro gli stabilimenti industriali, oggi, che è la stessa soggettività metropolitana a costituire lo
stabilimento e il prodotto del lavoro, la sovversione prende sempre più spesso la forma del rifiuto
dell’Io e della metropoli: si sciopera contro le fabbriche dei soggetti così come si scioperava contro la
fabbrica di automobili. Gli operai dovevano rifiutare se stessi in quanto forza-lavoro, distruggere la
propria identità di classe operaia, per esprimere un livello di sovversione adeguato alla società
industriale. Così oggi sabotare la soggettività flessibile in ogni sua declinazione – precario, immigrato,
studente, terremotato etc – diviene un formidabile mezzo per attaccare il capitale. La rivolta fa paura
perché mentre essa ha corso il governo non trova più tutti quegli attributi attraverso i quali può
classificarti, frammentarti e ricomporti da qualche altra parte nel continuum metropolitano dello
sfruttamento. Riappropriarsi della potenza coincide con questa diserzione dell’Io. Una politica del nonsoggetto
contro la metropoli.
Dicono che la “rabbia” sia esplosa una volta che la folla ha saputo della fiducia al governo. Ci
permettiamo di dubitare di questa altra versione razionalizzante, tanto comoda alla politica e ai
recuperatori di ogni sponda. E non si tratta solo di temporalità dissonanti. Ciò che è andato fuori
sincrono sono proprio le misure e i tempi con i quali si è da troppo tempo abituati a circoscrivere i
conflitti e a riassobirli nella governamentalità. Qualcosa si è rotto, la separazione è avvenuta.
L’Ingovernabile è schizzato fuori dagli stretti interstizi che corrono tra un’identità politica e l’altra e si è
fatto gesto collettivo. Adesso si tratta di allargare e abitare quegli interstizi e farli divenire delle
Comuni, accoglienti e determinate.
Che un tamburo battesse feroce il tempo dell’insurrezione in Piazza del Popolo è certamente un segno
dei tempi. Che il buon Tano D’Amico abbia riconosciuto in quella potente immagine di rivolta una
fisionomia stranamente simile a quella dei moti parigini del 1848 non fa che darcene, benjaminamente,
un’ulteriore conferma.