Le nostre ragioni e quelle della legge. Riflessioni di un NoTav dal Carcere di Saluzzo

Di Giorgio Rossetto

Mi trovo rinchiuso in prigione da alcuni mesi per essermi opposto,
assieme a migliaia di altre persone, alla militarizzazione della Val
di Susa, la valle dove abito, e all’imposizione manu militari del
progetto tav. Avevo messo in conto la possibilità di un provvedimento
giudiziario, come molti altri che hanno partecipato alla lotta.
Talvolta le mobilitazioni sociali richiedono un impegno da parte dei
singoli che può pregiudicare la loro libertà (o mettere a rischio la
loro vita, come è accaduto a Luca che saluto); eppure sono convinto
che valga la pena affrontare queste conseguenze, perché non condivido
il dogma imperante secondo cui ciascuno deve sempre e soltanto  curare
il proprio interesse individuale.

Sto affrontando questo periodo di detenzione con serenità, nonostante
la direzione carceraria si stia prodigando affinchè la mia permanenza
qui sia la meno piacevole possibile. Dai primi di febbraio a Saluzzo
sono in un regime anomalo di isolamento, a causa della  denuncia mia e
di altri compagni, nel carcere delle Vallette, delle difficili
condizioni in cui si trovano i detenuti.  Nonostante la mia sia una
carcerazione cautelare e io sia quindi secondo il codice penale un
“indagato” lo stato impone a me e ad altri detenuti, anch’essi in
attesa di giudizio, questa condizione di fatto persecutoria.
Ulteriormente inasprita della censura per 6 mesi della mia posta.

Non è mia intenzione, tuttavia, descrivere la mia condizione come
eccezionale; al contrario, vorrei condividere alcune riflessioni su
ciò che di puramente procedurale c’è nella repressione del dissenso in
un sistema istituzionale come il nostro, prendendo in questione lo
stesso metro di giudizio che viene usato dai tribunali: la legge.

Il procuratore Caselli ha spiegato  i provvedimenti precisando che
obiettivo dell’operazione è stato isolare e colpire le condotte
illegali da altre, che non lo erano. Non mi dilungo sul “rigore”
intellettuale che lo ha portato a queste affermazioni: la condivisione
politica della resistenza delle giornate di giugno e luglio da parte
di tutto il movimento, è stata affermata allora, ribadita in occasione
dei nostri arresti, e praticata nei mesi passati durante le
mobilitazioni contro l’allargamento del cantiere.

Ciò che mi interessa discutere è l’idea che il dissenso sia legittimo
soltanto entro i confini della legalità, e non perché l’ha detto un
magistrato, ma perché sono consapevole non mancano coloro che sono
pronti a condividere questo presupposto.

E’ sotto gli occhi di tutti le maleodorante corruzione sistemica e la
naturale indignazione contro i suoi abusi, hanno condotto negli ultimi
anni all’equivoci secondo cui schierarsi contro l’oppressione equivale
a sbattersi per il rispetto delle leggi; mi sembra, del punto di vista
dei movimenti, un’idea piuttosto astratta, slegata dalla realtà e
totalmente subalterna allo “status quo” e ai rapporti di forza
dominanti. L’infrazione della legge da parte del potente non è analoga
a quella dell’oppresso; l’illegalità delle istituzioni, che violano i
principi giuridici da loro stesse sanciti, per regalare continuamente
appalti pubblici all’imprenditoria, non è equivalente a quella del
valligiano che resiste per difendere la sua terra da quelle stesse
imprenditorie (legali o illegali). Non si può giudicare astrattamente
un gesto,  quasi il contesto storico e politico fosse qualcosa che si
declina soltanto al passato, sui libri di scuola: ogni gesto
dev’essere compreso in relazione a un fine.  Forse la violenza usata
per impedire uno stupro ( di una persona come di un territorio) è
equivalente, dal punto di vista morale, a quella usata per
perpetuarlo? C’è chi ne è convinto: ad esempio Marco Travaglio, che
pure si è prodigato in più sedi per evidenziare l’irrazionalità e
l’illegalità del tav, ma che ha altrettanto volentieri difeso
l’operato di Caselli contro di noi, dicendo che se un magistrato
rileva ciò che tecnicamente è un reato, non può voltarsi dall’altra
parte.

Sarebbe facile fare dell’ironia su quanto e come vengono perseguiti i
reati della controparte (ditte appaltatrici e polizia; ma per questo
c’è già il movimento con le sue puntuali inchieste.

Più interessante è chiedersi dove saremmo ora se, in ogni epoca e in
ogni stagione storica, tutti avessero ragionato come Travaglio:
avrebbero dovuto i partigiani, ad esempio, cessare la resistenza,
essendo essa bandita  per legge? Avrebbero dovuto  gli ebrei  o i
palestinesi, accettare di buon grado la deportazione, visto che invece
essa era imposta per legge da istituzioni operanti sui loro territori?
Mi si dirà che non si può paragonare il Tav al nazifascismo o alla
Nakba, ed è vero: non è quello che sto facendo e non lo farei mai. Il
carcere di Saluzzo non è un lager e il fascismo come regime è tutta
un’altra storia. Ma si può paragonare la pochezza morale di chi
difende lo status quo in contesti tra loro diversi, se tale difesa
trova giustificazione nel principio, in se evidente e proprio perciò
così debole, che la legge è la legge. Questo principio si traduce: il
più forte ha sempre ragione. Non mi risulta nemmeno che Berlusconi sia
stato “cacciato” dalla tanto sbandierata legalità di Caselli e le
inchieste giudiziarie nelle varie procure si sono arenate sugli scogli
o hanno getta “l’ancora  nel porto delle nebbie”. Noi, in Valsusa non
possiamo lasciarci devastare dalla Tav, né attendere che ci venga data
ragione ex post, o che in un lontano futuro opere dannose siano
impedite dalla legge stessa. Allora nessuno ci ridarà la nostra
tranquillità, ne restituirà la valle ai nostri nipoti.

Non è affatto necessario avere Mussolini o Berlusconi come governanti
per  decidere di ribellarsi, anche se la foglia di fico
della”democrazia” fa sempre comodo ai tanti imprenditori che lucrano
in tempo di pace sociale, prontissimi a votarsi alla dittatura quando
la pace sociale finisce o sta per finire. In questo senso mi rivolgo a
tutti coloro che in questi anni hanno trovato un punto di riferimento
in Travaglio o Saviano: autori cioè che hanno impostato la loro
critica/carriera sul concetto di legalità, invitando a un
interrogativo: possono essere i carabinieri “nei secoli fedeli”, e la
magistratura gli agenti del cambiamento, in una qualsiasi società, e
tanto più nella nostra? In Valsusa gli agenti di polizia, più volte
messi dalla popolazione di fronte alle loro responsabilità si sono
limitati meccanicamente a rispondere: “eseguo gli ordini di servizio,
sono pagato per questo”. Lo stesso afferma ogni procuratore capo,
quando deve sbattere in cella chi porta vanti la propria battaglia per
la libertà e per il futuro della sua terra o, in generale, un’idea
incompatibile con l’ordinamento attuale. Il nostro pensiero deve saper
produrre qualcosa di più intelligente di un semplice: “un poliziotto è
un poliziotto, un giudice è un giudice”. Siamo uomini e donne: questo
non ci attribuisce soltanto valore, ma anzitutto responsabilità. Chi
sceglie di rappresentare un’istituzione ha il dovere di chiedersi che
cosa quell’istituzione incarni: corruzione, sfruttamento, privilegi,
volgarità, sopraffazione, disumanizzazione e devastazione, e riduzione
della natura, delle donne, degli uomini e dei bambini a semplici
merci, a numeri o grafici nelle carte della finanza e delle banche.

Non basta  questo per rifiutare, oltre all’occupazione militare, la
sua logica profonda? L’idea che nulla deve esistere oltre e al di
fuori di ciò che è previsto dalle regole stabilite? Io non mi limito a
dire: “un partigiano è un partigiano, un notav è un notav”; io
dico:”un partigiano è molto meglio di un fascista, un notav è meglio
di un poliziotto occupante”. Con tutto il rispetto che nutro per i
lupi, non li si può trasformare in agnelli.  Ho ragioni per
argomentarlo, non prendo ordini per sostenerlo e nessuno mi paga per
dirlo.

Le ragioni della legge valgono quel che valgono, e in ogni  epoca e ad
ogni latitudine esistono i filistei. Condividere le ragioni di chi ha
incarcerato significa piegarsi all’idea che il mondo non possa pensare
la resistenza a ciò che esiste o è stato deciso, né i soggetti possano
pensare la trasformazione in modo autonomo. Nonostante i nostri
avvocati siano pronti a mostrare quanto le nostre accuse siano
inconsistenti anche sotto il profilo della legge, vorrei che si
chiedesse quanto la legge è metro di giudizio adeguato di fronte alla
sollevazione di un popolo, di una classe o parte di esso. Come sempre
quando un “no” rifiuta di diventare un “si” o un “ni”, con noi il
tempo della democrazia è finito, è iniziato quello della
militarizzazione e delle manette. Forse la nostra battaglia servirà
anche a far comprendere che è assurdo anche soltanto pensare che il
dissenso sia qualcosa che si può delegare ai giudici o alle
istituzioni in genere; e spero che la nostra prigionia serva anche a
ricordare che le battaglie, da che mondo è mondo, si vincono o si
perdono in prima persona e non per delega. Il criterio per scegliere
da che parte stare lo determiniamo noi, in autonomia; noi che non
abbiamo scelto di essere ingranaggi di un meccanismo ma persone aperte
alla critica dell’ingranaggio stesso.

Nella resistenza popolare di massa in Valsusa, ma innanzitutto nella
capacità di essere proposta politico organizzativa nella metropoli
vive l’idea forza dell’Autonomia come motore di un agire diverso.

Ringrazio tutti e tutte per la campagna contro la censura che sta
inondando l’ufficio casellario con decine di lettere e cartoline che
arrivano quotidianamente da tutta l’Italia e persino dall’estero. Il
registro della censura è molto spesso, ma di questo passo lo
riempirete piuttosto in fretta.

Giorgio

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