L’incubo di una notte di mezza estate

Cosa avviene in questo squarcio di crisi dove al si salvi chi può dell’annunciata e probabile caduta dell’Euro si è passati ad un’apparente salviamo il salvabile, onoriamo gli interessi sul debito, calmieriamo lo spread? E in questa fase, che faranno i movimenti? attenderanno messianicamente l’autunno caldo come se fosse predestinato ad esser-ci, guradando il calendario e pensando magari che l’inarrestabile scorrere del tempo definirà un futuro ineluttabile? No, al contrario il calendario indica un forte abbassamento delle temperature nel periodo dell’autunno. Figuriamoci poi con la crisi. Quindi forse, è meglio partire da alcune “basi” certe del ragionamento e dipanare quindi una bozza, una traccia di lavoro politico, che possa essere utile nella futura e imminente stagione: se nei prossimi mesi non ci si mette un solido e determinato innesto di variabile indipendente, di conflitto sociale, di potere costituente, un buona quota di moover sociale nella forma delle forme costituzionale dei diritti, l’autunno che verrà, lungi dal ribollire, sarà freddo o comunque freddino, con buona pace dell’attesa condita dalle belle parole.

A partire da questa posizione, più che convinzione potremmo definirla decisione, procediamo da un lato a descrivere intanto, per usare vecchie parole, un’analisi di fase e dall’altro ad immaginarsi anche con nuove parole – diciamo, vecchia tattica per una nuova strategia – un cammino, un’opzione, un varco possibile, che possa spingere la nostra umanità a ripensare da capo il modello-mondo che vogliamo costruire e immaginare, senza la paura di affermarla, la necessità quindi sognatrice e rivoluzionaria di un’utopia concreta e transazionale, tutte parole peraltro femmine. La critica non può stare che sul  piano internazionalizzato dell’impero e l’azione politica non può che immaginarsi e assumersi dentro i flussi di movimenti transazionali che in ogni dove affermano le istanze del comune.

Quindi cosa avviene intorno a noi?

Fondamentalmente stanno ricontrattando i compensi e i profitti nel nuovo processo di valorizzazione. Il sistema capitalistico si assume nella crisi come trasformazione continua dei rapporti di potere tra lavoro vivo e capitale. Si dispongono così, nella grande transizione, a chiusura del ciclo fordista ma anche sulle ceneri del sistema welfaristico del defunto patto sociale, una nuova (possibile?) mediazione asimettrica, per rafforzare il proprio ruolo di supremazia anche attraverso il ricatto “globale” del debito –  ma certamente anche con una subdola e altrettanto incisiva forma di biopotere. Questo per contrapporsi permanentemente alla forma irrisolvibile di produzione biopolitica indipendente delle soggettività creative, cooperanti, antagoniste.

La finanziarizzazione ormai è un processo immanente al sistema produttivo e la dinamica continua della valorizzazione capitalistica è nuovamente ri-articolata e ridislocata su frontiere dell’innovazione, della sussunzione, cattura, cooptazione delle soggettività messe al lavoro dalle diverse e striate forme della produzione immateriale, cognitiva, relazionale, affettiva. Il processo di riorganizzazione del mondo del lavoro e del non lavoro procede sul passo spedito della riorganizzazione produttiva della grande trasformazione che qui vediamo incardinarsi tra un millennio e l’altro. Grande trasformazione produttiva per mezzo dell’inesauribile e inarrestabile processo di precarizzazione del lavoro e della vita, delle relazioni sociali e produttive.

Il fallito golpe planetario che gli Usa hanno provato a mettere in campo nel 2001 è servito comunque e fondamentalmente a dispiegare la nuova pressione del controllo e del ricatto globale neoliberista come dispositivo di potere sull’umanità, niente di meno che con la guerra globale come paradigma delle nuove relazioni internazionali, una nuova diplomazia della guerra preventiva. Del resto non potendo fare del giusto il forte, si fece del forte il giusto e si passò al paradigma della paura.

Il debito quello che per esempio in Equador definiscono immorale, da non onorare, perché accumulato da governi precedenti corrotti e criminali, è l’altro volto del ricatto. L’insostenibilità della moneta unica e della pressione delle norme di politica economica per sostenerla sono il corollario per questa piccola parte di mondo in declino chiamata Europa.

Siamo nel pieno di una grande transizione che s’incarna nel trapasso dei modelli, produttivi, economici, sociali. La fase attuale è quella dell’accumulazione originaria nel nuovo ciclo capitalista che nascendo sulle ceneri di una complessità di elementi, ormai superati che segnano la fine di una lunga fase dove da una lato l’economia della grande industria fordista e taylorita e dall’altro il nuovo – cioè ormai vecchio – patto sociale (new deal) tra i corpi intermedi – Stato, partiti, sindacati, chiesa, imprese – avevano permesso un pieno scambio, benessere (do you remeber welfare state? stato di benessere). Equilibrio e patto ovviamente ottenuto e continuamente mobilitato dal potere costituente del conflitto sociale.

Il passaggio che nelle trasformazioni produttive e lavorative si è consumato negli ultimi 30/40 anni dall’operaio sociale al precariato diffuso e metropolitano, è oggi in termini di soggettività antagonista ancora un territorio aperto di indagine, inchiesta militante, è ancora uno spazio non definito completamente nella sua composizione tecnica e politica ma sicuramente ineludibile ed irreversibile nel suo determinarsi nella nuova composizione sociale tra sussunzione formale del lavoro e nuovi piani della cooptazione, cattura e sussunzione reale della soggettività produttiva. Il focus di ragionamento che ci appare a questa altezza delle contraddizioni il nodo fondamentale della crisi è propriamente la crisi nella crisi, ovvero la crisi del processo di valorizzazione, come crisi specifica della misura del valore dentro le nuove trasformazioni avvenute in seno al processo produttivo e lavorativo. Dove si estrae valore oggi? quali sono i reali spazi della produzione contemporanea? Domande necessarie anche per capire dove colpire, non solo per capire chi siamo e come ci chiamiamo.

Nel postfordismo digitale salta il piano-sequenza lineare della misura del valore, della capacità/possibilità da parte del capitale di misurare la produzione immateriale. Ovvero nel capitalismo contemporaneo cognitivo e immateriale, è’ ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione nel diritto del conflitto di classe. Su questo piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Ora più che mai il reddito garantito deve essere posto sempre di più come rivendicazione di esistenza e di cittadinanza, così come abbiamo visto nelle giornate estive della lotta di Taranto, deve posizionarsi dentro questa contraddizione, come potenza aperta dai nuovi processi della valorizzazione, svincolandosi dalle mediazioni politiche o sindacali realmente tutte al ribasso. Rimane ciò che la precarietà e la precarizzazione ci lasciano sul terreno, un precariato sociale che dobbiamo rendere insorgente, indipendente, potente.

Come dicevamo prima siamo nel pieno della grande trasformazione. In un passaggio epocale, paradigmatico. Così come in altre transizioni, i passaggi furono lenti, ma inesorabili. Ora con alle spalle un novecento poco utile anzi in taluni casi dannoso per i movimenti che vivono e incarnano la contemporaneità – lo vediamo con la retorica del lavoro come bene comune o del bene-comunismo delle amministrazioni locali – ma tenendo un occhio critico e se possibile materialista sulla storia, ci pare cogente nella comparazione con il passato per costruire il futuro e l’immaginario dell’indipendenza un gioco con la storia che ci porta al secolo “lungo”, dove rotolò la prima testa coronata d’Europa, nell’Inghilterra del ‘600. Quel secolo intenso del processo di transizione dall’immagine feudale, all’immagine borghese del mondo. Allora come oggi nel pieno delle trasformazioni produttive si andava determinando una nuova composizione sociale che emergeva dentro il nuovo processo produttivo industriale che si andava affermando nell’Inghilterra degli Indipendenti e dei Levellers. Ieri, come oggi si affermava l’accesso incondizionato alla cittadinanza saldando il rapporto tra proprietà della terra e libertà comune un po’ come avviene oggi nelle montagne della Val Susa, si difendeva il nuovo spazio politico dell’enclousure pubblica. Oggi il precariato si trova un pò come i freeholders inglesi ai tempi dei Levellers, tra inclusione ed esclusione, tra auto valorizzazione e comando. E c’è un di più, oggi, il precariato nell’economia della conoscenza possiede i mezzi di produzione. Le sue macchine affettive, linguistiche e relazionali sono effettivamente in suo possesso. Come i freeholders in army così il precariato se sarà insorgente dovrà affermare nell’indipendenza – ieri della terra oggi del suo prezioso mezzo di produzione – la propria libertà. Indipendenza dal dispositivo del comando, dell’irrigimentazione e della cattura della nuova valorizzazione capitalistica.

Nodo redazionale indipendente

Agosto 2012

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