Riflession​i sul libro di Guy Standing “The Precariat. The new Dangerous Class”.

Qual’è la via d’uscita dall’inferno? Riflessioni sulla presentazione del libro di Guy Standing “The Precariat. The new Dangerous Class“.

 

Il precariato sperimenta le quattro A: acredine, anomia, ansia e alienazione (…). I precari vivono nell’ansia, uno stato di insicurezza cronico dovuto non solo a sintersi come sospesi a un filo, consapevoli che il più piccolo errore o malaugurato accidente può fare la differenza tra un tenore di vita accettabile e una vita sul marciapiede. Ma anche con la paura di perdere qual poco che
possiedono, in ogni caso percepito come ingiustamente inadeguato
” Guy Standing

Il percariato globale ci sta suonando la sveglia! Quel’è la via d’uscita dall’inferno? questa è la domanda che ci siamo posti il 9 novembre a Napoli durante la presentazione organizzata dai C.s.o.a.
Officina99 & Lab.Occ. Ska dell’ultimo libro di Guy Standing “The Precariat. The new Dangerous Class“.

La via d’uscita dall’inferno è un piano d’azione che rivendichi un “welfare del desiderio” che abbia al centro la rivendicazione di un reddito universale e incondizionato. Un piano d’azione che metta al centro della sua agenda il conflitto sociale. Dobbiamo essere sinceri e dirci che si è chiuso un importante ciclo di lotte per i movimenti contro la precarietà. Per questo dobbiamo passare da una fase di autorappresentazione della condizione di precarietà che ha segnato un’intera decade con importanti  mobilitazioni, “espressione di orgoglio della soggettività precaria” per dirla come Guy Standing, alla generalizzazione delle lotte contro i processi di precarizzazione che la crisi ha accellerato rendendo instabili anche i cosidetti lavoratori garantiti e praticando un livellamento verso il basso dei salari, in Italia tra i più bassi d’Europa. La crisi ha accentuato le dinamiche di frammentazione del lavoro, sia della sua forma giuridica, come estrema individualizzazione dei
rapporti di lavoro, sia delle conseguenti e molteplici narrazioni soggettive. Basta osservare il peggioramento degli indicatori sull’occupazione e sulle condizione economiche per comprendere la
gravissima recessione che sta vivendo il nostro paese. 8 milioni di cittadini italiani sono poveri, quasi il 14% dell’intera popolazione del nostro paese, il tasso reale di disoccupazione raggiunge il 20%, quella giovanile in alcune regioni sfiora il 50%, aumentano costantemente le ore di cassintegrazione, la durata media dei contratti a tempo indeterminato è di due anni ed oltre l’80% delle nuove assunzioni avviene con contratti precari, e questo non soltanto perchè i contratti a termine durano di meno e ricorrono più spesso. A questi dati, bisogna aggiungere un’altra importante area che è quella dell’economia sommersa. A partire dal 2008, a fronte di una
calo generalizzato dell’occupazione regolare, quella sommersa aumenta portando il livello di irregolarità nel lavoro a percentuali che superano il 12% .Oltre alla presenza strutturale nel nostro mercato del lavoro del sommerso, l’ulteriore spostamento di una quota importante di lavoro dai canali della regolarità a quelli dell’informalità testimonia come il sommerso abbia rappresentato negli ultimi quattro anni di crisi una sorta di camera di compensazione funzionale alle difficoltà occupazionali di un sistema in affanno. Lo stato di emergenza ha aumentato la ricattabilità di chi subisce i processi di precarizzazione ed impoverimento dei lavoratori. L’esercito di working poors in continua espansione non è formato unicamente da lavoratori con contratti atipici, ma anche da lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Ormai la precarietà è una condizione esistenziale, strutturale e colpisce in modo generalizzato e trasversale le diverse figure del lavoro vivo.
In questo senso il reddito è uno strumento di ricomposizione sociale nella frammentazione delle diverse figure del lavoro e del non lavoro. Per questo dobbiamo essere irriducibili alla logica del sacrificio, ad una sorta di “austerity di sinistra” proposta dalle forze socialdemocratiche che si preparano a governare. La logica di questa narrazione è chiara: di fronte al Capitale che si presenta come il Grande Creditore, siamo tutti debitori, colpevoli e responsabili (M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato). La traccia di questo discorso è già presente nei patti sottoscritti dalla coalizione di centro-sinistra. Per votare alle primarie, infatti, si deve sottoscrivere l’appello di sostegno al centro sinistra e la carta di intenti firmata dai tre leader dei partiti: Pd, Sel, Socialisti. Nella carta i tre leader si impegnano alla lealtà verso gli accordi internazionali e all’approvazione di tutte le misure che dall’Europa vengono indicate necessarie per salvarsi. In una parola fedeltà al fiscal compact e alle sue conseguenze, continuità assolutà con i provvedimenti del tecno-governo Monti. Per questi motivi respingiamo con forza la proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito proveninte dalla coalizione di centro-sinistra, che pone al centro del provvedimento un “welfare condizionale”. Tale iniziativa prevede una trasformazione delle politiche sociali in senso condizionale, subordinando l’erogazione dell’indennità pubbliche all’assunzione di comportamenti prescritti dallo Stato.

Siamo consapevoli che nonostante diversi documenti comunitari e riferimenti normativi (Carta di Nizza, Carta sociale europea e due Risoluzione del Parlamento europeo del 6 maggio 2009 e del 21 Ottobre del 2010) l’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa in cui non è previsto un
reddito di base come cardine del sistema di protezione sociale. Tra i 27 Paesi attualmente membri dell’Unione Europea la mancanza di una una forma di protezione sociale è circoscritta esclusivamente a Italia, Grecia e Ungheria. Il nostro paese ha un sistema di ammortizzatori sociali arretrato ed iniquo, che la riforma Fornero non ha minimamento trasformato: attualmente l’indennità di disoccupazione esclusivamente un quarto dei licenziati e la cassa integrazione (in particolare quella in deroga) crea sperequazione, clientelismo e riguarda solo una parte dei lavori.

 Ma non possiamo sostenere un autunno “caldo” di banchetti, con tutto il portato di interessi della campagna elettorale, in cui diversi partiti della sinistra, sindacati confederali uniti a realtà associative e di movimento racolgono firme per una legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito. Tali iniziativa creano inoperose storture in grado di aumentare aspettative nei precari e confusione sociale nei territori.

Andando ad analizzare alcuni nodi centrali della proposta di legge scopriamo che il sostegno economico (600 euro al mese) è più basso della soglia di povertà indicata dall’Istat. Occorre riflettere sull’evenienza che una prestazione così modesta possa comportare un effetto perverso a carico di lavoratori precariamente occupati: in casi di contrattazione diretta della loro condizione lavorativa, infatti, un rinvio al reddito garantito come risorsa complementare potrebbe diventare un escamotage per prospettare un mantenimento dell’occuazione nel sommerso con livelli di retribuzione ridotti. La conseguenza sarebbe l’istituzionalizzazione del”sotto-occupato” working poor (lavoratore povero) che non riuscirà a vivere con 600 euro al mese e dovrà accettare lavori al nero pur di non perdere il sussidio.  Sappiamo bene quanto il lavoro sommerso in Italia sia necessario in quanto camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso. Altro che dalla flex-security alla security-flex! Un’ulteriore perplessità  deriva dall’erogazione ancorata alla disponibilità al lavoro, legata alla “congrua offerta” (meccanismo
sanzionatorio predisposto dalla Strategia Europa per l’Occupazione) e quindi alla condizionatezza al lavoro precario e intermittente proposto dai centri per l’impiego che oltre ad essere inadeguati nel
realizzare le politiche formative/di orientamento e di inserimento lavorativo, ricevono esclusivamente offerte di lavoro con basse qualifiche professionali.
Negli ultimi anni le fallimentari leggi regionali per il reddito (impropriamente definite reddito di cittadinanza o reddito garantito) sperimentate  sia in Campania che nel Lazio si sono frantumate dietro le mediazioni politiche e le burocrazie incapaci.

Molto probabilmente la stessa fine farà il progetto di legge di iniziativa popolare che verrà ulteriormente modificato dal prossimo governo, costretto in ogni caso a produrre una legge di assistenza sociale come indicato da anni dalla governance europea.
In questo momento la rivendicazione di reddito deve essere intesa come dispositivo di rottura anti-capitalista e di attacco ai profitti ma anche come riconoscimento della produzione sociale permanenete continuamente appropriata dal capitalismo finanziario in forma di
rendita privata. Quindi non come strumento di neo-regolazione redistributiva della ricchezza o di lotta contro la povertà che ci farebbe cadere dalla” trappola dalla precarietà” alla “trappola del welfare to work” ( o del “labourfare”)  impementando attreverso la condizionatezza il controllo
sociale sulle nostre vite. Pensiamo al welfare to work, nella forme in cui è stato introdotto negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e in Germania. I disoccupati vengono costretti a scegliere se accettare uno dei posti di lavoro designati oppure rinunciare all’indennità. Riprendendo le
riflessioni di Guy Standing nel Regno Unito: “Il workfare realizzato nel Regno Unito può solo portare ad un’aumento del precariato (…) Il workfare non ha neppure una ricaduta positiva sulla spesa pubblica. Anzi, è pittosto costoso, sia sul piano amministrativo sia in generale, dal momento che i posti di lavoro in offerta sono a bassa produttività. L’esigenza principale a cui assolve è quella di falsificare il livello della disoccupazione operando una riduzione fittizia, senza creare quindi dei posti di lavoro, ma con il solo risultato di scoraggiare i disoccupati dal richiedere gli assegni assistenziali. In Germania sulla stessa traccia si inseriscono l’ aiuto sociale Hartz IV ed ai mini-job che sono diventati paradagmi della riforme del mercato del lavoro in atto in Europa.

 

Non è un caso che il 12 e il 13 novembre si svolgerà a Napoli la conferenza “Lavorare insieme per l’occupazione dei giovani. Apprendistato e sistemi di formazione duale” per il lancio di un progetto che vedrà la collaborazione tra il Governo italiano e quello tedeisco. Nella capitale italiana del lavoro nero e della disoccupazione i ministri andranno a raccontare che l’apprendistato è la nuova terapia per risolvere i probemi strutturali del mercato del lavoro.

Prenderanno parte all’incontro: il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali italiano Elsa Fornero, il Ministro federale del Lavoro e degli Affari Sociali tedesco Ursula von der Leyen, il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca italiano Francesco Profumo e il Direttore Generale per la Cooperazione Internazionale e Europea per l’istruzione e la Ricerca Volker Riecke.

 

A partire dalle mobilitazioni che si svolgeranno a Napoli in questi giorni che culmineranno nella giornata euro-mediterranea di sciopero sociale del 14 novembre pensiamo sia necessario costruire uno spazio di cooperazione delle lotte indipedenti partendo da una comune rivendicazione strategica: “Basic Income Strategy“, un piano di azione comune che contro le politiche di austerity, per ottenere un reddito di base, universale ed incondizionato per tutti i soggetti, nativi e migranti, che vivono in Europa.

Un piano d’azione che porti i precari e le precarie a diventare “a new dangerous class”.

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