Appunti per un’utopia concreta!

di Rafael Di Maio

L’indipendenza, tra sovranità politica, emergenza sociale e stato di eccezione.

La vita politica in Italia scorre nella crisi di sistema, insieme globale e locale, economica e culturale. Si moltiplicano e si addensano le contraddizioni sociali mentre le disuguaglianze e le nuove precarietà si riproducono in seno alle vite di milioni di persone, tra vecchi e giovani senza futuro, in una latente e dormiente guerra civile non dichiarata. In questo complesso tornante della storia, in questa fase di permanente eccezionalità, le decisioni e le scelte politiche che si producono non possono e non devono essere dettate esclusivamente dal freddo calcolo della tattica, distorcendo a proprio comodo il tempo e lo spazio.

Lo scenario politico che attraversiamo si ricombina su tutti i piani, quello economico, sociale e culturale. La crisi verticale del sistema finanziario, pubblico e privato, rappresenta la cornice di trasformazione epocale e strutturale e il nuovo paradigma di costituzione – narrazione – del potere. Una crisi che travolge il modello neoliberista che decade inesorabilmente verso il baratro, insieme ai suoi principi di sviluppo e di progresso. Siamo di fronte all’ultima crisi del fordismo e dell’industrialismo e alla prima grande crisi dell’economia della conoscenza. E’ una crisi di transizione – come nel 600’ agli albori della modernità dove la transizione si dava dal feudalesimo dei locali ed arbitrari centri di potere, alla statuale e moderna forma del potere governamentale, alla reductio ad unum della forma moderna dello Stato.

Oggi viviamo nella nuova transizione, quella dall’immagine del mondo moderno ed industriale alla forma contemporanea dell’economia immateriale e della conoscenza. Viviamo come il resto del pianeta in questa lunga fase di declino e crisi sistemica dell’opzione neoliberista, ma politicamente in una condizione particolare, specifica, locale. Quello italiano rappresenta il quadro politico d’insieme più inquietante nel territorio europeo: prevalentemente dominato dalle destre populiste, dal crollo delle sinistre istituzionali e da un governo conservatore e autoritario. Del resto è una consuetudine di alcuni paesi europei quella di istituire in risposta alla crisi economica un’opzione politica e di governo prevalentemente conservatrice e reazionaria, così fu in Italia, Spagna e Germania, negli anni trenta durante la grande depressione. Sovrano fu, chi decise sullo stato di eccezione. Ieri come oggi, eccezione e sovranità determinano lo spazio politico, irrigimentano con la paura lo spazio comune, la città e la sua vita sociale. Ieri come oggi, eccezione e sovranità costituiscono lo spazio urbano e metropolitano, ne compenetrano la sintesi istituzionale. Non a caso la poleis deriva dalla stessa radice etimologica dei due termini, politica e polizia, qui leggi, sovranità ed eccezione. La politica si afferma come polizia della città, nel controllo dei corpi e delle relazioni produttive che nella polis nascono e si riproducono. Il governo sull’eccezione è la forma pura del potere politico e nel contempo è l’esaltazione della beffa alla democrazia, maschera scomposta del sovrano e dei suoi sudditi. Sarebbe legittimo ora domandarsi, cosa ci sorprende ancora nella politica? Se il problema fosse solo il governo Berlusconi, saremmo dei pazzi a non aver ancora tentato di buttarlo giù in ogni modo! Ma appunto, per sostituirlo con chi? Con quali rapporti di forza e dentro quali assetti costituzionali? Se questa è una crisi di sistema, perché lo è? E’ una crisi che nasce solo da qualche speculazione finanziaria? O è forse l’intero sistema capitalistico ad essere ormai insostenibile e sempre più parassitario, intossicato, nocivo?

Nelle più “prestigiose” università, dove in passato si è studiato e ricercato molto per sostenere e poi esportare l’ideologia “mercatista” e neoliberista, oggi addirittura  sono attivi corsi, dottorandi e lectures  in nome del post-capitalismo. Cioè lo stesso sistema capitalistico occidentale si assume ormai come frontiera degli assetti di potere, decadenti, da ripensare, da reinventare. uello italiano infaqueE’ finita la mediazione politica insieme al modello sociale europeo e il suo processo welfaristico. Il patto, quello che era il “new deal” è diventata una vecchia mutanda. E’ terminata l’intima relazione tra conflitto sociale, relazioni sindacali e sintesi politica, insieme, alla rete di protezione sociale dello Stato moderno. E’ finita la stagione dove la stessa produzione industriale necessitava della politica come contrattazione: degli alti salari, della piena occupazione e della rete di welfare. Finisce anche l’idea stessa della mediazione e del dialogo sociale. Semplicemente, la coesione non è più necessaria. E ce ne stiamo accorgendo risalendo la mappa della crisi o meglio delle crisi industriali, delle vertenze e delle sofferenze del mondo del lavoro, l’unica vera controparte sono i reparti celere. L’unico nuovo welfare previsto dalla governance è la polizia. Lungi dall’essere stata una fase pre-rivoluzionaria, in ogni modo, la stagione del welfare state viene archiviata dai guardiani della globalizzazione in nome della stessa crisi di cui ci stiamo preoccupando.

Dobbiamo necessariamente ridefinire lo spazio politico, saper andare oltre, gettare lo sguardo verso un orizzonte comune. Bisogna lavorare con l’immaginazione. Un po’ come si fa con la musica e la letteratura, con il freestyle nell’hip hop o con il montaggio nel cinema. Per costruire l’alternativa politica e perseguire un cambio materiale, economico e sociale, non è sufficiente volare alto. Dobbiamo intervenire sulla sfera pre-politica o se si preferisce post-politica della trasformazione culturale, incidere lì dove sappiamo che si gioca la vera libertà, incidere sulla frontiera della conoscenza. Sul punto alto della contraddizione, dove si determina l’emancipazione e la libertà. Come sempre la fabbrica del consenso è prima di tutto fabbrica di ignoranza, a maggior ragione in una società dove sul piano culturale si sfiorano ormai livelli indecenti di istruzione – teniamo presente che un terzo degli italiani è pressoche analfabeta, a cui si somma un altro terzo, considerato analfabeta di ritorno. E non a caso sul crinale della libera condivisione del sapere, oggi, si nega l’espressione artistica e creativa dell’attività umana, troppo spesso compressa dalla precarietà, dai brevetti della proprietà intellettuale, dall’organizzazione gerarchica del lavoro, in una società dove la precarizzazione del lavoro e le filiere del consumo rappresentano le maglie dispiegate del controllo sociale. Nella complessità del ragionamento e nella sfiducia dilagante nei confronti della politica e dei partiti, dobbiamo avere dalla nostra parte quella lungimiranza visionaria del potere costituente, della politica come trasformazione della realtà.

Dentro la stessa oscura realtà che attraversiamo è necessario ricostruire quei legami sociali spezzati. Nella costituzione materiale  delle donne e degli uomini che la rendono attiva e propulsiva è possibile cambiare la politica. Difficilmente la si potrà trasformare nella svuotata rappresentanza formale o nella messianica speranza di un salvatore. Dobbiamo ri-significare la realtà, avendo consapevolezza dei centri di potere che siamo chiamati ad affrontare dentro l’attuale modello di società complessa, terziarizzata, separata ed individualizzata, finora prevalentemente sedotta dalla corruzione e dall’autoritarismo, ipnotizzata dal consumo. Ma nella strada obbligata di dover difendere con i denti il diritto di resistenza, dobbiamo poter coltivare una politica visionaria e costituente, a partire dai nostri territori dove è progressivamente cresciuto negli ultimi anni l’elemento della ribellione in nome della sovranità e della decisionalità dal basso. Un elenco sarebbe qui sminuente. Basti fare mente locale alle tante battaglie di resistenza in difesa dei beni comuni, contro le grandi opere e le speculazioni immobiliari, contro i grandi eventi e le speculazioni finanziarie, che dal nord al sud della penisola negli ultimi tempi si sono moltiplicate e rafforzate.

La potenza di fermare una decisione stabilita dai grandi tavoli e consessi del potere locale e transnazionale, è una delle forme del potere costituente di cui parliamo. Un potere che determina non solo nuova partecipazione popolare ma che irradia, con una logica rovesciata e sovversiva della sovranità, la decisione nello spazio politico. Chi decide su cosa? E’ un quesito che rappresenta la prima forma d’indipendenza delle comunità locali dalle nuove oligarchie e dai nuovi centri del potere. E’ la forma di vita che costruisce potere costituente. E’ l’alterità che sul territorio sedimenta indipendenza, che si fa potenza, nuova res-pubblica. 

In primo luogo indipendenza dal sovrano. E immediatamente dopo dal sistema capitalistico. Partendo da qui possiamo ripensare l’indipendenza anche sotto un profilo culturale, facendo crescere la prospettiva ideale e la praticabilità politica, necessariamente dentro e insieme, se lo si desidera ancora, a quella radicale visione alternativa della realtà sociale ed economica che vogliamo poter autogestire, immaginare, praticare. A partire dai grandi e piccoli NO che saremo in grado di far crescere, potremo immaginare le forme dei SI e delle alternative possibili. Anche a costo di rievocare fuori dalle mode, l’esercito di quei sognatori, di zapatista memoria, che hanno a metà degli anni 90’ umilmente riaperto alla nostra generazione la possibilità dell’autogoverno, il simbolo del conflitto e della degna alterità, per il cambiamento di un’opzione politica ancora possibile. Tutto sommato, a distanza di dieci anni, anche se “giocato” malissimo sul piano della politica, il movimento (quello giornalisticamente definito no-global) aveva ragione, ce lo riconoscono un po’ tutti! Oggi più che mai, quello che sostenevamo sulle barricate di Seattle, di Praga o di Genova nel biennio anticapitalista della transizione (1999/2001) si sta materializzando in un’imbarazzante crisi sistemica per il potere globale, insieme economica e politica. Quello che noi abbiamo continuato a dire anche negli anni recenti, purtroppo sempre più divisi, tribalizzati e in taluni casi anche banalmente regalati al politicismo nella “saga no-global alla italiana”, era corretto. Era ed è tutto vero. Il capitalismo neoliberista sta depredando il pianeta e la sua umanità, in un’ossessiva e compulsiva ideologia del profitto, fino a rendere il mare nero, fino a far dire a alla BCE e al FMI che la crisi appunto è sistemica e che il modello attuale, per l’appunto, non è più sostenibile. Alla crisi economica corrisponde il tracollo della politica e della sua rappresentanza formale.

Questo è un passaggio importante sul quale vale la pena di ragionare politicamente sotto il profilo dei movimenti indipendenti anche a partire da cosa, dentro, intorno e a sinistra, sta nascendo con le “Fabbriche di Nichi”. Sorvolando la prima critica, quasi scontata, che riguarda quello che si sente spesso da più parti, ovvero il tema dell’accentramento personalistico e del lìderismo – che indubbiamente rappresenta un limite del processo in corso, che ha un po’ il sapore amaro dei tempi odierni – la scelta messianica della figura religiosa del salvatore – fa emergere in realtà con grande semplicità i limiti evidenti per affrontare la difficile sfida in corso. Se a Niki malauguratamente gli casca un vaso in testa, che fa tutta la nuova sinistra mobilitata, aspetta che cresca da qualche parte un altro carismatico poeta? Invero per la sinistra radicale istituzionale così come per quella per l’autorganizzazione sociale, il temi reali rimangono sempre gli stessi: come si sostengono le lotte, come ci si radica sul territorio, come si condividono i saperi, come si coniuga alterità, immaginario e presenza reale, come si accumula credibilità politica all’interno delle alleanze sociali che si costruiscono nelle città, come si fa vivere il controllo democratico dal basso sul territorio contro le speculazioni, come si anima e si organizza la resistenza alle scorribande neofasciste. In sostanza come si accumula potenza per il cambiamento al di là di questa o quell’opportunità politica?

Osservando da vicino la fase post-ideologica dentro quello svuotamento dei corpi intermedi, rappresentati dai partiti di massa o dalle organizzazioni sindacali, c’è un punto dirimente, che vuole essere un invito alla riflessione intorno all’opzione che prende piede con l’imminente candidatura di Vendola al governo del Paese. Un’osservazione che non può sfuggire alla consapevolezza di chi da anni anima i movimenti sociali, radicali, indipendenti e alternativi che dir si voglia e di chi – suo malgrado – ha imparato a conoscere il sistema politico italiano, il Paese del Gattopardo, dove realmente tutto cambia, affinché nulla muti.

Con la crisi della rappresentanza politica nella crisi sistemica del capitalismo globale, si evidenzia un aspetto centrale del processo in corso che rafforza il seguente ragionamento. Vi è una macrofisica che potremmo sintetizzare con la fine della partecipazione di massa alla politica, la fine della fiducia nelle istituzioni corrotte, la fine della governabilità dall’alto, dell’azione governamentale top down. Ma scopriremo poi un successivo livello che è quello relativo al sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica, ovvero di quella crisi nella crisi: la fine del bipolarismo, il riemergere, contro le false credenze del partito liquido, della soggettività organizzata ed identitaria – la Lega Nord sta lì a dimostrarlo – una legge elettore antidemocratica definita “porcata” da chi l’ha redatta, dove in realtà considerando le astensioni prende la formale maggioranza in Parlamento,  quella che è una reale minoranza nel Paese.

E ancora, la forma bloccata della democrazia incompiuta degli ultimi quindici anni dove ogni spazio riformatore, ogni iniziativa di avanzamento e modernizzazione dei diritti ha dovuto fare i conti con i veti incrociati, i ricatti, i giochi di potere, le continue mediazioni al ribasso. Tutto ciò non accade per caso. Vi è una radicata e profonda strumentalità dietro questo schema. In Italia (e non solo!) vi sono gruppi di potere, lobby trasversali, corporazioni nel mercato e nello Stato che non hanno nessun interesse affinché muti la struttura sociale consolidata o l’iniqua divisione della ricchezza socialmente prodotta. Le oligarchie economiche al potere non hanno nessuna intenzione di mediare con i precari che crescono esponenzialmente, con i pensionati al minimo, con i cassaintegrati senza futuro, con i disoccupati di lunga durata. Non solo, le caste al potere sguazzano nella crisi, si rigenerano, mentre si appellano alle politiche dimagranti della Unione Europea, della BCE e dell’FMI. E non hanno nessun interesse a cedere le porzioni di privilegio accumulato, non hanno nessuna intenzione di pagare le tasse e di investire sulla conoscenza o sull’avanzamento culturale.

In definitiva alcuni gruppi di potere in Italia governano sempre, a prescindere dalle sfumature, determinando pesantemente qualsiasi esecutivo e azione di governo. Fino a quando non muteranno radicalmente i rapporti di forza economici e sociali nella costituzione materiale, taluni assetti di potere, incideranno più di qualsiasi scommessa ideale e finiranno per condizionare anche una “radicale sorpresa” come quella rappresentata per esempio dalle Fabbriche di Nichi. La governance locale e globale da un lato e le tecnostrutture dall’altro, occupate ad interim dalle figure apparentemente solo tecniche, bastano di per sé a rendere anche una maggioranza elettoralmente qualificata, incapace ed impossibilitata a dare seguito all’azione di governo preannunciata nella campagna elettorale. Basta un direttore generale non allineato a bloccare o ritardare le attività di un assessorato o di un ministero, con la burocrazia pilotata, i veti incrociati, i ricorsi e i piccoli cabotaggi. Anche laddove si è Presidente di Regione (e Vendola ne sa qualcosa) basta un ministro economico, come l’attuale, per essere imbavagliati e commissariati. E anche se il nuovo leader divenisse Premier, laddove volesse attuare una radicale riforma sociale dovrebbe stare dentro il patto di stabilità, all’interno dei parametri di Maastricht (o i nuovi vincoli che verranno), dentro la soglia del 3% sul rapporto deficit/pil, dovrebbe attenersi al rigoroso contenimento della spesa pubblica, alle direttive della Commissione europea e via discorrendo.

In definitiva la governance politica della globalizzazione economica ha determinato una stratificazione così articolata della complessità, che ai cittadini sfugge non solo il controllo della macchina, ma anche la conoscenza di come si accende il motore o si cambiano le marce. Per quello diciamo da anni che la rivolta o è globale o non è. Che il cambiamento o sarà radicale, o semplicemente non potrà essere. Ovviamente una spinta riformatrice coraggiosa, un ascolto disinteressato delle istanze sociali o una sensibilità istituzionale diversa dagli ultimi governi, non potrà che essere un passo di avanzamento complessivo, anche per i movimenti. Sotto questo aspetto non si possono avere dubbi. All’aumentare del peso della sinistra istituzionale, per esempio negli anni ’60/’70 – in cui il conflitto sociale rappresentava il motore della democrazia – aumentava anche il peso e il protagonismo politico dei movimenti rivoluzionari ed extraparlamentari – si pensi anche ad esperienze di governo molto avanzate in altre parti del mondo, come nel Cile di Allende. Tra l’altro anche lì c’era un poeta che fu candidato alle primarie del 1969, dal partito comunista cileno, si chiamava Pablo Neruda. Ma in Italia di quell’esperienza si fece una “confusione” tanto grande addirittura da chiamarla “sindrome cilena”. La questione rimane per come è stata fin qui descritta. Dal solo piano alto del governo, la trasformazione mediata, graduale e dall’interno del sistema-Italia, rappresenta una meta irraggiungibile, “un’utopia irrealizzabile”. Al contrario, ciò che sembra irrompere dai piani bassi, ciò che sembra uscire dal cassetto dei sogni, dal desiderio dell’assalto al cielo, apre la strada per “un’utopia concreta”, necessaria. Disvela un cammino di riscatto e di emancipazione, una via per la libertà e l’indipendenza da intraprendere umilmente, fino alla vittoria!

Bibliografia sragionata:

G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003

F. Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Il mulino, Bologna 1984

C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè editore, Milano 1998

A. Negri, Il potere costituente, Sugarco edizioni, Varese 1992

C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2003

I libri vanno letti per essere dimenticati” M. Montaigne, Essais

 *articolo uscito sul  X° numero di Loop (settembre/ottobre 2010)

Abitare nella crisi

ABITARE NELLA CRISI: TERRITORI E CONFLITTI

5-6-7 novembre incontro nazionale a Roma

fu-4b9bb103a8e5cIL CONFRONTO INIZIATO A MARZO in quel di Firenze e che ha dato vita alla rete nazionale di “Abitarenella crisi” ci ha consentito di approfondire molti aspetti legati alle battaglie che quotidianamente portiamo avanti sui territori e ai processi in atto in tema di politiche abitative, crisi e molto altro ancora.

CON LA CONSAPEVOLEZZA DELLA STRADA ANCORA DA PERCORRERE MA ANCHE DELLA GRANDE RICCHEZZA E POTENZIALITÀ DI QUESTO SPAZIO CI PREPARIAMO AD AFFRONTARE LA TRE GIORNI DI ROMA CHE SI SVOLGERÀ DAL 5 AL 7 NOVEMBRE 2010 in tre diversi luoghi simbolo delle lotte attive nella metropoli.

PROPRIO LA PREZIOSA SCORTA di ciò che abbiamo ricavato dagli incontri precedenti ci consente di non partire da zero ma da alcuni concetti portanti: le lotte per il diritto alla casa sono sempre più declinate come lotte per il diritto all’abitare; le lotte per il diritto all’abitare rappresentano uno territori centrali del conflitto, della riappropriazione di reddito e di vita che tutti in settori sociali colpiti della crisi sono chiamati oggi ad affrontare e ad agire, contro ed “oltre” la condizione di precarietà che pervade in maniera sempre più brutale ed aggressiva ogni aspetto delle nostre esistenze.

I CONFLITTI DAL BASSO DEL RESTO SONO MOLTI e ognuno di questi attraversa contesti urbani e territoriali diversi. RICERCARE FILI, OPERATIVI E CONCETTUALI, COMUNI E RICOMPOSITIVI,rappresenta un passaggio fondamentale per dare maggiore qualità e forza all’azione e ai conflitti stessi. Proprio per questo è urgente e necessario costruire una piattaforma ed una cassetta degli attrezzi condivisa e comune da spendere sui rispettivi territori.

I TAVOLI DI LAVORO PROPOSTI ALLA DISCUSSIONE GENERALE Spaziano dai grandi eventi, le grandi opere e i grandi piani, al concetto di comunità sovrana che disegna dal basso la città meticcia, esercitando un diritto di suolo che sottrae spazi al mattone ed alla rendita, alle nocività ed alle mafie, che ragiona nei termini della riappropriazione diretta di reddito, socialità, saperi, qualità della vita.

L’approfondimento necessario ci potrà anche dare la spinta in più per l’affermazione di una moratoria generalizzata degli sfratti e degli sgomberi, per una nuova e diversa stagione di lotta contro la rendita la speculazione privata che passa inevitabilmente per il rifiuto del libero mercato degli affitti e della corsa alla casa di proprietà, ma soprattutto per una stagione nuova e diversa di investimento sull’edilizia residenziale pubblica, sulla casa come bene comune.

Questa battaglia che accomuna centinaia di migliaia di persone deve essere assunta come obiettivo di fondo sul quale realizzare in ogni angolo del paese una nuova stagione di lotte e di protagonismo sociale.

Garantire un tetto a tutte/i del resto non ci basta e per questo ci opponiamo all’idea che siano il cemento e l’indotto economico che ne deriva a tracciare la strada maestra per uscire dalla crisi con continuo consumo di suolo, svendita del patrimonio pubblico e demaniale, semplificazione/facilitazione delle procedure edilizie, rafforzamento della rendita fondiaria, l’accentuazione dai dispositivi che producono controllo sociale e precarietà diffusa.

A QUESTO DISEGNO DI GOVERNO CONTRAPPONIAMO L’IDEA DELL’UTILIZZO DEL PATRIMONIO ESISTENTE E IL RECUPERO DI AREE DISMESSE, come le caserme o gli insediamenti industriali abbandonati da trasformare e valorizzare solo in termini sociali, di produzione di risposte e diritti. La testardaggine con la quale abbiamo proceduto, procedendo dal basso senza facili scorciatoie, sempre partendo dalla realtà concreta, mai dal cielo della politica, ci consente oggi di immaginare lo spazio pubblico di abitare nella crisi come luogo aperto in grado di narrare la nostra idea di abitare.

UN’ALTRA IDEA IDEA DI ABITARE, DI CITTÀ E DI TERRITORIO, che vogliamo contrapporre con sempre maggiori capacità di autorganizzazione minuto dopo minuto, metro dopo metro, all’arroganza “dei poteri forti” e di una “politica” sempre più lontana ed estranea ai nostri bisogni e ai nostri desideri. Gli esempi in campo sono già molti

dalle lotte contro discariche ed inceneritori, contro il nucleare e le grandi opere dalla TAV fino al ponte sullo stretto, dalle occupazioni di case e di aree abbandonate fino ai mille rivoli delle lotte dei precari dentro e fuori i posti di lavoro, le scuole e le università.

Mille rivoli, mille storie che dalla Nord al Sud, passando per certamente per Terzigno e Boscoreale, dovranno attraversare città e territori per diventare fiume in piena in grado di spazzare via i ladri del nostro presente e del nostro futuro.

PROGRAMMA:

VENERDÌ 5 NOVEMBRE 2010 PRESSO _L.O.A. ACROBAX_ – EX CINODROMO (PONTE MARCONI)

ORE 19.30: APERITIVO, DIBATTITO E PROIEZIONI

_L’ALTRA CITTÀ – SUGGESTIONI DAL MONDO_

Attraverseremo il racconto di città lontane che si confrontano con diverse dimensioni del potere, tutte però attaccate con l’espropriazione del territorio, il saccheggio dei beni comuni il depauperamento delle forme di vita urbana in generale. Dalla Colombia alla Palestina processi violenti di espropriazione totale, quali quelli che producono desplazados, terre sottratte, colonie e deportazioni. Fino alla doppia lezione del Venezuela, tra il conflitto delle comunità sovrane che abitano la città e una legiferazione alternativa emanata da un governo “anomalo” anche in supplenza dei movimenti.

Arriveremo al confronto con le trasformazioni più prossime, quelle di altre metropoli europee, come nella permanente “_crisis de la vivienda_” dello stato spagnolo, frutto di un modello socio-economico che espelle ed esclude sempre più persone dal diritto alla città.

Un viaggio con video e racconti per illuminare quei tessuti sociali che si autorganizzano dal basso e mostrare quegli incroci/angoli che si danno nelle strade dell’altra città, condividere le esperienze di legiferazione imposte dal basso o permeando nuovi spazi di governance indipendente.

Per arrivare ad afferrare che abitare non significa solo avere un tetto sulla testa ma vivere e difendere un territorio in ogni strada, in ogni mondo.

ORE 21: CENA SOCIALE

a seguire dj-set e video

SABATO 6 NOVEMBRE 2010 PRESSO _METROPOLIZ _(VIA PRENESTINA 913)

ORE 10: TAVOLI TEMATICI

*

1) GRANDI OPERE, GRANDI EVENTI: LA CRISI COME OCCASIONE PER LA RENDITA TRA EMERGENZA PERMANENTE E CONTROLLO.

_Olimpiadi, Expo, il ponte sullo stretto e altre grandi infrastrutture intrecciano grandi eventi e grandi opere con un’idea di città immaginata come nuova occasione di sviluppo urbano e di profitto. Dentro questa ipotesi di governo del territorio si disegna da un lato la new town, questa volta non generata da un disastro naturale come a L’Aquila ma pensata come soluzione alla crisi, e dall’altro il centro storico vetrina, securizzato e anestetizzato, pronto per essere venduto a chi offre di più. Nuove colate di cemento intorno alla città vecchia e nuove esclusioni dalla città esistente come opportunità da cogliere. Una sorta di emergenza generale, di catastrofe senza responsabilità definite, nella quale ognuno è chiamato a fare la sua parte. In questo senso la gestione del dopo sisma abruzzese, come l’attacco ai territori messi sotto scacco dalle nocività e colpiti dai grandi imbrogli ecoenergetici di inceneritori e discariche, vorrebbe essere un paradigma convincente che nasconde solo le bugie di una classe politica corrotta e incapace che utilizza forme di gestione della sicurezza e del controllo sociale negando diritti e militarizzando i territori._

Questo focus è chiamato ad approfondire la riflessione sulla trasformazione dei processi produttivi nelle città, di un’economia sempre più urbana e di una crescita dei valori immobiliari senza precedenti, con un nuovo orizzonte che passa dalle delocalizzazioni ai cambi di destinazione d’uso, fino al piano di “housing sociale” nuova fonte di incredibili guadagni per i soliti noti col pretesto di un intervento giustificato dall’ormai ineludibile sofferenza abitativa, dentro una cornice patinata fatta di grandi eventi e archistar._

_La sovranità sul suolo da parte dei cittadini diventa dirimente e l’esercizio di questa, si manifesta attraverso la sottrazione di aree e manufatti alla rendita e alle speculazioni, così come con i progetti di autorecupero e autocostruzione per contrastare dal basso nuovo consumo di suolo e di cielo. Allo stesso tempo l’autodeterminazione delle comunità territoriali che respingono l’arbitrio di un potere repressivo e oppressivo appaiono come l’unica soluzione di una gestione dei rifiuti che ha compromesso la vivibilità dei territori e il diritto alla salute di chi li abita. _

_2)_PRATICHE, STRUMENTI DI AUTORGANIZZAZIONE, TUTELA E IN/FORMAZIONE. SPORTELLI, SPAZI E TERRITORI.

_Le relazioni che si formano dentro i territori sono molteplici nella declinazione del diritto all’abitare. Si incontrano lo sfrattato e l’inquilina cartolarizzata, il migrante e la studentessa fuori sede senza casa, i comitati per la difesa del parco e quelli contro un’installazione nociva, le precarie di un call center e quelli dell’Ikea. Quelli che vogliono la fontanella funzionante e quelli che non vogliono l’antenna sul tetto. Una realtà che necessita di nuovi strumenti di comprensione, di nuove pratiche di conflitto, di informazioni aggiornate e consapevoli._

_Questo gruppo di lavoro vorrebbe definire la nuova cassetta degli attrezzi per affrontare la realtà ed essere capaci di produrre autorganizzazione e di formare nuovo attivismo metropolitano. La comune necessità di conoscere tanto le normative nazionali (vedi la 431/98 o quelle contenute nel Pacchetto Sicurezza) quanto quelle che definiscono quel poco di welfare locale che ancora esiste (dai bandi per le case popolari agli assegni del bonus casa) deve trovare in questo momento di riflessione e scambio di pratiche la forza di costruire nuove rivendicazioni sui territori e allo stesso tempo la capacità di superare il mero vertenzialismo. _

_3)_ DIRITTI DI CITTADINANZA E FORME DI WELFARE METROPOLITANO: LA CITTÀ METICCIA SI DISEGNA DAL BASSO.

_Esperienze comunitarie che si sviluppano nei luoghi occupati, comitati e reti in difesa dei beni comuni, spazi sociali, produzioni culturali indipendenti: l’incontro tra diversità non mercificato e mercificante produce spazio urbano alternativo? Le lotte per i nuovi e vecchi diritti di cittadinanza sono in grado di tracciare un welfare metropolitano?_

_Di questa scommessa sull’uso pubblico della città e del territorio occorre approfondire il senso, confrontare le esperienze, verificare i limiti. La soluzione abitativa dentro uno spazio urbano accogliente e solidale, prodotto dalle pratiche, dall’interazione, dalle relazioni tra chi lo vive, può e deve divenire la forma di riappropriazione del diritto alla città dentro la crisi, fondato sul rifiuto di qualsiasi forma di discriminazione, sulla libertà di sperimentare nuove forme di economia e di socialità, sulla cura dell’ambiente e il risparmio di risorse naturali._

ORE 16: TAVOLI TEMATICI A CONFRONTO.

Proponiamo un metodo di confronto che valorizzi le discussioni dei tavoli della mattina e lasci spazio alle esperienze e ai percorsi attivi nelle diverse città che parteciperanno senza però trascurare la necessità di giungere non già ad una sintesi bensì alla definizione di uno spazio d’iniziativa comune che sappia contrapporsi con forza all’entità dell’attacco che subiscono i diritti in questo paese. Il percorso sin qui maturato da Abitare nella crisi ha già posto come questione dirimente il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica, i cui finanziamenti sono fermi da anni con il conseguente blocco delle graduatorie e delle assegnazioni in molte città italiane, e l’opposizione all’housing sociale che non rappresenta una risposta in termini di diritto all’abitare ma solo un goffo tentativo di rispondere alla crisi globale con nuove colate di cemento per di più su aree e con finanziamenti pubblici. Accanto a questo sarà necessario confrontarsi sulla costante emergenza sfratti molti dei quali dovuti a quella che abbiamo cominciato a definire morosità incolpevole dovuta dal micidiale mix di un caro affitti senza precedenti e di una precarietà di vita che comporta discontinuità di reddito e retribuzioni sempre più basse come quelle di coloro che la sociologia ufficiale definisce _working poors_.

_ORE 22.30: CONTRO LA CRISI ACCENDI LA NOTTE_

Indo e dj Jack (from Junglabeat) presentano il video “Stato di minaccia”

a seguire contributi di:

Assalti frontali  Ill Nano

dj/vj set:

dj Toto | dj Hagga | Gigi&friends

DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 PRESSO OCCUPAZIONE _VIA DEL PORTO FLUVIALE_, 12

ORE 10: ASSEMBLEA PLENARIA CONCLUSIVA

TERRITORI E MOVIMENTI A CONFRONTO SU CONFLITTI, INDIPENDENZA, PROSPETTIVE DI ATTIVAZIONE COMUNE DENTRO E CONTRO LA CRISI

Le false virtù della Cassa Integrazione

link:  http://www.precaria.org/le-false-virtu-della-cassa-integrazione.html

Le false virtù della Cassa Integrazione

MicroMega – 19 aprile 2010

Abbiamo sentito spesso ripetere che la Cassa Integrazione italiana ha mostrato tutte le sue mirabolanti virtù nel far fronte alla crisi economica attuale.

In realtà, quello della Cassa Integrazione è uno strumento arcaico, nato vecchio, e del tutto lontano dalla logica europea, ma estremamente prezioso per mantenere lo status quo del potere italiano.

Qual è la differenza essenziale tra la Cassa Integrazione e il reddito minimo garantito in vigore in tutta Europa?

La differenza è racchiusa nella locuzione “diritto soggettivo esigibile”. Il salario di disoccupazione (chiamiamolo così, con formula generale) si ottiene nei Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria, Lussemburgo, Spagna, oltre che Danimarca, Svezia, Norvegia…) senza alcuna mediazione: è appunto un diritto soggettivo esigibile. Se si è maggiorenni e disoccupati, si entra in un ufficio, si riempie un modulo e si ottiene, oltre a una somma in denaro (determinata da parametri oggettivi), mensile o settimanale, anche un aiuto (sempre in base a parametri definiti e oggettivi) per l’alloggio. Tutto libero, senza mediazioni, con la possibilità potenziale di beneficiarne in modo illimitato.

Non così in Italia. La Cassa Integrazione italiana presuppone infatti una mediazione, sindacale e governativa. È uno strumento discrezionale. Qualcuno decide se erogarla, a chi concederla e per quanto tempo. E non ne beneficiano tutti i lavoratori.

La differenza, come si capisce, è enorme.

La discrezionalità fa sì che chi ottiene la Cassa Integrazione è di fatto condannato a dipendere dal sindacato e dalla politica.

Non solo. Rispetto al salario di disoccupazione europeo, la Cassa integrazione produce lavoro e nero e disoccupazione. Il cassintegrato che trova un lavoro, infatti, perde il diritto al sussidio senza la sicurezza di riaverlo se viene licenziato di nuovo; quindi non accetterà mai dei lavori temporanei o insicuri. Mentre accetterà di lavorare in nero.

Al contrario, il salario di disoccupazione europeo, proprio perché è un diritto e non presuppone alcuna “concessione”, mette chi ne beneficia nella condizione di accettare un lavoro temporaneo o insicuro. Se va male, si fa sempre in tempo a tornare nell’ufficio, compilare di nuovo il modulo etc.

Non solo, dunque, la Cassa Integrazione sperpera denaro, ma lo sperpera producendo una serie di danni aggiuntivi: incoraggia il lavoro nero e scoraggia la ricerca di un lavoro.

Ma allora perché se ne cantano le lodi?

Perché il bisogno crea consenso. La discrezionalità della Cassa Integrazione può essere piegata a varie esigenze di clientela e di potere. Al contrario, il diritto soggettivo esigibile rende il cittadino libero e indipendente da partiti e apparati.

In un recente articolo, Tito Boeri ha rilevato che la discrezionalità della Cassa Integrazione è stata ulteriormente piegata ad usi politici e clientelari: “La Cassa Integrazione in deroga, pagata da tutti i contribuenti e non dalle imprese ed erogata con discrezionalità quasi totale della politica, è, dopotutto, un’invenzione della Lega. Ha dato più risorse al tessile della bergamasca che a molte altre aziende che avevano altrettanto bisogno di aiuto (e un futuro meno improbabile) in altre parti del paese. Nelle province dove la Lega governava, vi è stato un ricorso massiccio a questo strumento: Brescia, ad esempio, ha raccolto il 20 per cento dei fondi stanziati in Lombardia quando il suo peso sull’occupazione della Regione supera di poco il 10 per cento. Ma ci sono tanti altri trasferimenti occulti, di cui non si ha traccia”.

La logica è la stessa che al Sud è stata utilizzata per le pensioni di invalidità, che in Italia vanno a comporre l’altra voce (clientelare) che sostituisce il salario di disoccupazione. La “rivoluzione” della Lega non si è proposta di cancellare gli sprechi in nome dell’equità; no, ha preteso che il Nord, o meglio, il bacino del proprio elettorato, ottenesse le stesse forme di elemosina statale del Sud. Non diritti, ma concessioni di appartenenza.

Pensioni di invalidità e Cassa integrazione sono due colonne importanti del “consenso” in Italia. E, manco a dirlo, costano molto di più del salario di disoccupazione europeo, producendo in più degli effetti disastrosi non solo sul piano civile, ma anche su quello economico. Mentre il salario di disoccupazione europeo crea maggiore disponibilità al rischio d’impresa, la cassa integrazione e le pensioni di invalidità producono parassitismo, furbizia e corruzione.

È facile capire che se si parla poco della differenza tra Italia ed Europa nel gestire la disoccupazione è perché i partiti, i sindacati, e anche parte dell’economia, ne traggono vantaggi.

Non è assolutamente vero che in Italia la crisi è stata più dolce che in altri paesi. È vero invece che la crisi è stata più dolce con il ceto politico. Per le ragioni dette.

In Italia la crisi crea “consenso”, perché l’unica salvezza alla miseria è il clientelismo. Del resto, il modello del consenso basato sul bisogno è quello secolare della Chiesa cattolica, grande ispiratrice, culturale e non solo, della politica italiana.

di Giovanni Perazzoli

Mappa della crisi e dei conflitti

waldoMa quale crisi? Non c’è più la crisi, e bisogna essere ottimisti. E’ verissimo, ma per essere ottimisti non bisogna rimuovere la crisi, come fanno i mezzi di informazione ufficiali, ma risolverla, uscirne, organizzarsi per una solidarietà attiva e mutuale. E’ per questo che vogliamo dare spazio ai conflitti, alle vertenze, alle lotte per i diritti, ma anche ad alcune informazioni utili. Cominciando da Roma certo, per costruire un quadro comune di uscita dalla crisi, perchè da soli non si va da nessuna parte. E per partire insieme bisogna iniziare da una narrazione comune.

Di seguito trovate dunque una serie di link ad articoli interni ed esterni al sito de*** indipendenti ma che, tutti insieme, iniziano a delineare una mappa della crisi e dei conflitti.

APPELLI E COMUNICATI

BLOGs

ARTICOLI

Crisi, conflitto, democrazia

img6594Le violente cariche di Mercoledì scorso 10 Febbraio 2010 davanti alla Prefettura di Roma hanno rappresentato l’ennesimo, gravissimo episodio di violenza poliziesca ed istituzionale. Di fronte alle cariche gratuite e ad un accanimento che ci ricorda le pagine buie di Genova 2001, nessuno può tacere. In gioco c’è la difesa delle legittime resistenze alla crisi e con esse degli spazi collettivi di agibilità democratica. Il rischio è che prevalga l’idea che dall’emergenza si esca con la sospensione dei diritti, la limitazione delle tutele, delle manifestazioni, del dissenso. Che la vera risposta alla crisi diventi la crisi della democrazia: un rapido declino verso l’autoritarismo e lo stato di polizia.

Il crescente numero di posti di lavoro a rischio, la crisi dei redditi, la devastante precarietà abitativa e sociale, la costante perdita di diritti in sempre più larghi settori di società, i meccanismi securitari e di controllo che indicano nel diverso e nel migrante le minacce da combattere, disegnano il panorama di una crisi profonda, di una caduta libera che sta trasformando il volto stesso del nostro paese. La risposta governativa alla crisi è il sostegno incondizionato a coloro che l’hanno generata, banche e grandi imprese, senza adeguati interventi a difesa dei posti di lavoro, misure reali per la garanzia dell’occupazione, dei redditi, del diritto alla casa. In un contesto in cui il tasso di disoccupazione supera ormai l’8.5% , dato sottostimato per via della casse integrazioni che ancora contengono il bacino della disoccupazione senza le quali avrebbe già superato il 10%, l’Italia e la Grecia, sono gli unici due paesi in Europa a non avere nessuna forma di protezione sociale e redistribuzione di  reddito per i disoccupati e i precari.

Una sudditanza istituzionale e politica verso i poteri forti e il loro denaro, mascherata con la giustificazione delle insufficienti risorse pubbliche, che continua a svuotare le tasche di tante donne e tanti uomini che provano a sopravvivere ai licenziamenti, alla cassa integrazione, al lavoro interinale, agli sfratti, allo sfruttamento e alle deportazioni.
L’assenza di risposte e provvedimenti reali, genera fenomeni di resistenza diffusa, lotte, spinge chi è costretto a sopportare condizioni di vita sempre più difficili e precarie ad organizzarsi, ad unirsi per reclamare una via d’uscita alla crisi, per riconquistare diritti.
Vite che non accettano di essere sacrificate sull’altare del mercato, che vogliono rimanere aggrappate al presente per immaginare ancora un futuro diverso e migliore. Storie a cui si risponde sempre più spesso con l’uso della forza pubblica, con l’oscuramento e la repressione.

Martedì 16 febbraio 2010
Ore 17.00
presso la Provincia di Roma (Palazzo Valentini – Sala della Pace – via IV Novembre)
ASSEMBLEA PUBBLICA

Hanno già dato la propria disponibilità a partecipare:

Luigi Nieri (Assessore Regione Lazio), Pancio Pardi (Palramentare), Massimo Rendina (ANPI), Ivano Peduzzi (Consigliere Regionale), Gianluca Peciola (Consigliere Provinciale), Massimiliano Smeriglio (Assessore Provincia di Roma),

Promuovono:
Lavoratori Eutelia, Precari Ispra, Lavoratori Italtel, Autoconvocati Sirti, Cassintegrati Alitalia, Lavoratori Telecom, Coordinamento Precari della Scuola, Comitati per il Reddito, Movimenti per il Diritto all’Abitare , Rete Romana Contro la Crisi

Contro la crisi, siamo tutti sullo stesso tetto!

Contro la crisi,
siamo tutti sullo stesso tetto!
Il 10 febbraio 2010 in Prefettura si affronterà il tema del lavoro. Lo faranno gli enti locali, il governo e parti sociali individuate per l’occasione. Come dire: un tavolo non si nega a nessuno. Ne sono stati fatti sull’emergenza abitativa, sull’immigrazione, sulla sicurezza e ora anche sul lavoro. In questo quadro il sindaco ha sparato le sue cifre: 100mila posti di lavoro, ripetendo un proclama che suonava pressappoco così alla vigilia della sua elezione, 40mila casa popolari. Nello stesso tempo Alemanno non ha detto una parola in difesa dei lavoratori delle aziende in crisi.
Le parole non si sono tramutate in fatti e temiamo che anche sul tema lavoro si andrà nella stessa direzione. Demagogia tanta concretezza zero.
Non sappiamo cosa diranno le parti sociali che siederanno al tavolo e per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutta la città che soffre la crisi a farlo.
Alle 15 di mercoledì 10 febbraio saremo in piazza SS Apostoli con gli inquilini resistenti, con i precari, con i disoccupati, con i cassaintegrati, con gli sfrattati, con chi non arriva a fine mese, con chi non ha un reddito, con i lavoratori in lotta dell’Eutelia e di altre decine di aziende che minacciano licenziamenti.
Roma contro la crisi e dentro la crisi deve diventare visibile e rompere con l’idea di città che ci vogliono propinare, dove la strada maestra immaginata dalla rendita ci condanna all’emergenza permanente e alla cementificazione selvaggia, dove l’unica prospettiva di lavoro è legata ad un pacchetto edilizio e ad eventuali possibilità occupazionali legate ad esso. In una città che sta subendo un aumento esponenziale della cassa integrazione ordinaria e straordinaria oltre che della disoccupazione non abbiamo bisogno di proclami elettorali in vista delle prossime regionali.
Non ci stiamo! Invitiamo tutti e tutte a mobilitarci per sostenere le proposte dei movimenti e delle reti sociali in lotta. Insieme con i migranti impegnati con i cittadini e le cittadine italiani/e in una battaglia senza precedenti contro il razzismo e la xenofobia, rivendicando diritti primari continuamente negati.
Se la città è di chi la abita, è arrivato il momento che questa voce inascoltata prevalga su quella dei costruttori, delle banche, degli speculatori come Bonifaci, Caltagirone, Santarelli, Toti, Mezzaroma. Gli amministratori devono segnare un significativo cambio di passo nella tutela della città come “bene comune” e nella difesa della qualità della vita nella sua interezza.
Saremo in piazza per rivendicare un reale piano anticrisi che passi attraverso la difesa, qui ed ora, dei posti di lavoro; la realizzazione di un piano straordinario di case popolari; un finanziamento adeguato alla legge regionale per il reddito che permetta di coprire le 120mila domande depositate e garantire a tutti i disoccupati e precari oltre all’erogazione monetaria anche il reddito indiretto (casa, trasporti, tariffe e formazione) previsti dalla legge.
Saremo in piazza con i migranti deportati e costretti alla fuga da Rosarno, abbandonati dalle istituzioni per le strade di Roma, per chiedere la realizzazione di un piano straordinario di accoglienza.
La mobilitazione del 10 febbraio deve diventare il punto di partenza verso una mobilitazione nazionale, che imponga al Governo misure economiche e di welfare mirate su chi paga la crisi e non più a sostegno delle banche e delle imprese.
Mercoledì 10 febbraio 2010
Dalle ore 15.00
Piazza SS Apostoli sotto la Prefettura
MANIFESTAZIONE
Prime adesioni: Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Precari ISPRA, Lavoratori Italtel, Movimenti per il diritto all’abitare, cassintegrati Alitalia, autoconvocati Sirti, lavoratori telecom, Coordinamento Precari Scuola, Comitati per il RedditoContro la crisi,
siamo tutti sullo stesso tetto!
Il 10 febbraio 2010 in Prefettura si affronterà il tema del lavoro. Lo faranno gli enti locali, il governo e parti sociali individuate per l’occasione. Come dire: un tavolo non si nega a nessuno. Ne sono stati fatti sull’emergenza abitativa, sull’immigrazione, sulla sicurezza e ora anche sul lavoro. In questo quadro il sindaco ha sparato le sue cifre: 100mila posti di lavoro, ripetendo un proclama che suonava pressappoco così alla vigilia della sua elezione, 40mila casa popolari. Nello stesso tempo Alemanno non ha detto una parola in difesa dei lavoratori delle aziende in crisi.
Le parole non si sono tramutate in fatti e temiamo che anche sul tema lavoro si andrà nella stessa direzione. Demagogia tanta concretezza zero.
Non sappiamo cosa diranno le parti sociali che siederanno al tavolo e per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutta la città che soffre la crisi a farlo.
Alle 15 di mercoledì 10 febbraio saremo in piazza SS Apostoli con gli inquilini resistenti, con i precari, con i disoccupati, con i cassaintegrati, con gli sfrattati, con chi non arriva a fine mese, con chi non ha un reddito, con i lavoratori in lotta dell’Eutelia e di altre decine di aziende che minacciano licenziamenti.
Roma contro la crisi e dentro la crisi deve diventare visibile e rompere con l’idea di città che ci vogliono propinare, dove la strada maestra immaginata dalla rendita ci condanna all’emergenza permanente e alla cementificazione selvaggia, dove l’unica prospettiva di lavoro è legata ad un pacchetto edilizio e ad eventuali possibilità occupazionali legate ad esso. In una città che sta subendo un aumento esponenziale della cassa integrazione ordinaria e straordinaria oltre che della disoccupazione non abbiamo bisogno di proclami elettorali in vista delle prossime regionali.
Non ci stiamo! Invitiamo tutti e tutte a mobilitarci per sostenere le proposte dei movimenti e delle reti sociali in lotta. Insieme con i migranti impegnati con i cittadini e le cittadine italiani/e in una battaglia senza precedenti contro il razzismo e la xenofobia, rivendicando diritti primari continuamente negati.
Se la città è di chi la abita, è arrivato il momento che questa voce inascoltata prevalga su quella dei costruttori, delle banche, degli speculatori come Bonifaci, Caltagirone, Santarelli, Toti, Mezzaroma. Gli amministratori devono segnare un significativo cambio di passo nella tutela della città come “bene comune” e nella difesa della qualità della vita nella sua interezza.
Saremo in piazza per rivendicare un reale piano anticrisi che passi attraverso la difesa, qui ed ora, dei posti di lavoro; la realizzazione di un piano straordinario di case popolari; un finanziamento adeguato alla legge regionale per il reddito che permetta di coprire le 120mila domande depositate e garantire a tutti i disoccupati e precari oltre all’erogazione monetaria anche il reddito indiretto (casa, trasporti, tariffe e formazione) previsti dalla legge.
Saremo in piazza con i migranti deportati e costretti alla fuga da Rosarno, abbandonati dalle istituzioni per le strade di Roma, per chiedere la realizzazione di un piano straordinario di accoglienza.
La mobilitazione del 10 febbraio deve diventare il punto di partenza verso una mobilitazione nazionale, che imponga al Governo misure economiche e di welfare mirate su chi paga la crisi e non più a sostegno delle banche e delle imprese.
Mercoledì 10 febbraio 2010
Dalle ore 15.00
Piazza SS Apostoli sotto la Prefettura
MANIFESTAZIONE
Prime adesioni: Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Precari ISPRA, Lavoratori Italtel, Movimenti per il diritto all’abitare, cassintegrati Alitalia, autoconvocati Sirti, lavoratori telecom, Coordinamento Precari Scuola, Comitati per il Reddito
tettoIl 10 febbraio 2010 in Prefettura si affronterà il tema del lavoro. Lo faranno gli enti locali, il governo e parti sociali individuate per l’occasione. Come dire: un tavolo non si nega a nessuno. Ne sono stati fatti sull’emergenza abitativa, sull’immigrazione, sulla sicurezza e ora anche sul lavoro. In questo quadro il sindaco ha sparato le sue cifre: 100mila posti di lavoro, ripetendo un proclama che suonava pressappoco così alla vigilia della sua elezione, 40mila casa popolari. Nello stesso tempo Alemanno non ha detto una parola in difesa dei lavoratori delle aziende in crisi.
Le parole non si sono tramutate in fatti e temiamo che anche sul tema lavoro si andrà nella stessa direzione. Demagogia tanta concretezza zero.
Non sappiamo cosa diranno le parti sociali che siederanno al tavolo e per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutta la città che soffre la crisi a farlo.
Alle 15 di mercoledì 10 febbraio saremo in piazza SS Apostoli con gli inquilini resistenti, con i precari, con i disoccupati, con i cassaintegrati, con gli sfrattati, con chi non arriva a fine mese, con chi non ha un reddito, con i lavoratori in lotta dell’Eutelia e di altre decine di aziende che minacciano licenziamenti.
Roma contro la crisi e dentro la crisi deve diventare visibile e rompere con l’idea di città che ci vogliono propinare, dove la strada maestra immaginata dalla rendita ci condanna all’emergenza permanente e alla cementificazione selvaggia, dove l’unica prospettiva di lavoro è legata ad un pacchetto edilizio e ad eventuali possibilità occupazionali legate ad esso. In una città che sta subendo un aumento esponenziale della cassa integrazione ordinaria e straordinaria oltre che della disoccupazione non abbiamo bisogno di proclami elettorali in vista delle prossime regionali.
Non ci stiamo! Invitiamo tutti e tutte a mobilitarci per sostenere le proposte dei movimenti e delle reti sociali in lotta. Insieme con i migranti impegnati con i cittadini e le cittadine italiani/e in una battaglia senza precedenti contro il razzismo e la xenofobia, rivendicando diritti primari continuamente negati.
Se la città è di chi la abita, è arrivato il momento che questa voce inascoltata prevalga su quella dei costruttori, delle banche, degli speculatori come Bonifaci, Caltagirone, Santarelli, Toti, Mezzaroma. Gli amministratori devono segnare un significativo cambio di passo nella tutela della città come “bene comune” e nella difesa della qualità della vita nella sua interezza.
Saremo in piazza per rivendicare un reale piano anticrisi che passi attraverso la difesa, qui ed ora, dei posti di lavoro; la realizzazione di un piano straordinario di case popolari; un finanziamento adeguato alla legge regionale per il reddito che permetta di coprire le 120mila domande depositate e garantire a tutti i disoccupati e precari oltre all’erogazione monetaria anche il reddito indiretto (casa, trasporti, tariffe e formazione) previsti dalla legge.
Saremo in piazza con i migranti deportati e costretti alla fuga da Rosarno, abbandonati dalle istituzioni per le strade di Roma, per chiedere la realizzazione di un piano straordinario di accoglienza.
La mobilitazione del 10 febbraio deve diventare il punto di partenza verso una mobilitazione nazionale, che imponga al Governo misure economiche e di welfare mirate su chi paga la crisi e non più a sostegno delle banche e delle imprese.
[embedit BmeyFZcEwC 466 400]
Mercoledì 10 febbraio 2010
Dalle ore 15.00
Piazza SS Apostoli sotto la Prefettura
MANIFESTAZIONE

Prime adesioni: Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Precari ISPRA, Lavoratori Italtel, Movimenti per il diritto all’abitare, cassintegrati Alitalia, autoconvocati Sirti, lavoratori telecom, Coordinamento Precari Scuola, Comitati per il Reddito

Reddito minimo garantito

di LUCIANO GALLINO

Ascolta audio di Gallino su reddito minimo garantito

reddSul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Reddito base e disoccupazione

LUCIANO GALLINO

Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Reddito base e disoccupazione

LUCIANO GALLINO

Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Reddito base e disoccupazione

LUCIANO GALLINO

Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Dentro la crisi contro la crisi

eutelia_A52L’assemblea riunita il 28 gennaio lo stabilimento di Eutelia e che ha visto la partecipazione di diverse realtà di lotta (Eutelia, ISPRA, Italtel, MVS ex-IBM, Coordinamento precari della scuola, Movimenti per il diritto all’abitare, Comitati per il reddito, Rete romana contro la crisi), lancia una prima giornata di mobilitazione comune per giovedì 11 febbraio sotto la Prefettura di Roma e  invita tutti e tutte a sostenere la manifestazione dei lavoratori di Eutelia prevista per il 1° Febbraio alle 20,30.sotto palazzo Chigi.

Nel confronto è emerso un filo comune che lega le mille facce e le diverse storie di chi subisce il vero prezzo della crisi. I lavoratori e i precari, italiani e migranti, che hanno perso, rischiano di perdere il posto di lavoro o finiscono in cassa integrazione, chi un lavoro nemmeno ce l’ha. Una crisi che investe ogni singola persona nella quotidianità e ne mina i diritti primari: la casa, la salute, lo studio, la dignità.

L’assemblea ha riconosciuto inoltre la necessità di costruire iniziative, incontri nei territori, nei quartieri di periferia, e una mobilitazione per respingere l’attacco al mondo della conoscenza, che colpisce particolarmente l’università, scuola ed enti di ricerca pubblica per mettere insieme lotte comuni che inchiodano alle loro responsabilità il governo ed enti locali.

Queste prime proposte sono il punto di partenza di un confronto utile per trasformare le decine di resistenze diffuse in una sola forte voce in grado di far cambiare passo alle amministrazioni comunale, provinciale e regionale, troppo subalterne agli interessi della rendita, delle banche e del padronato. La convocazione del consiglio comunale straordinario sull’emergenza abitativa viene così assunta come giornata di mobilitazione generale da proporre alla città intera.

Guarda il video dell’irruzione squadristica durante l’occupazione di Eutelia

[media id=163 width=280 height=210]

Roma si ribella alla crisi

Dietro i numeri drammatici − dei licenziamenti, della disoccupazione crescente, della cassa integrazione, della messa in mobilità, del mancato rinnovo dei contratti a termine e della miriade di contratti precari –  ci sono persone: lavoratici, lavoratori, giovani, famiglie che non hanno reddito sufficiente per pagare affitti, rate del mutuo, bollette, ticket; che non hanno risorse sufficienti per vivere una vita dignitosa.

Insieme alle disastrate condizioni economiche, alla crescente precarietà di vita,  nella nostra città dilaga l’emergenza abitativa: migliaia di famiglie sono sotto sfratto (la maggior parte ormai per morosità), gli inquilini degli alloggi degli enti previdenziali “irregolari” e quindi a rischio, oppure regolari ma oggetto delle nuove ondate di dismissione (ENASARCO). Altre migliaia sono le persone costrette a vivere nelle occupazioni o in residence privati pagati a peso d’oro dall’amministrazione. Questo mentre la Giunta Alemanno annulla la graduatoria delle case popolari cancellando i 40.000 nuclei familiari inseriti tra gli aventi diritto e riduce la previsione di nuove case popolari alle briciole, sole 1500 alloggi previsti nei prossimi anni, scegliendo ancora una volta di premiare la rendita e gli interessi forti del mattone privato.

I governi ed istituzioni locali hanno praticato per anni politiche liberiste, privatizzando servizi e beni comuni, alimentando la speculazione finanziaria insieme ad una deregolamentazione del mercato del lavoro che ha selvaggiamente precarizzato, minato alla radice conquiste e diritti del lavoro, generato una diffusa insicurezza sociale. Ed anche nel rispondere alla crisi, preferiscono sostenere banche, imprese, pescecani dell’edilizia, elargendo loro milioni di euro ed abbandonando lavoratori e le lavoratrici appesi ad indennità di disoccupazione e di cassa integrazione sempre insufficienti, lasciando completamente soli, senza alcun tipo di sostegno, centinaia di migliaia di precari.

Ora il razzismo di stato dilaga, come dimostra anche la vicenda di Rosarno, in un’oppressione senza confine che riduce i migranti a semplice merce, a forza-lavoro da sfruttare, senza nessun diritto; le politiche xenofobe del governo provocano ad arte tensioni che investono i settori sociali colpiti dalla crisi, per creare un’assurda guerra fra poveri.

Oggi a essere schiacciati ed espulsi dal lavoro non sono solo le fasce meno professionalizzate, sono lavoratori e lavoratrici del settore privato, ma anche di quello pubblico, con alte professionalità: si pensi alla scuola e all’universita’, colpite pesantemente da tagli complessivi per 9,5 miliardi di euro, che hanno espresso nei mesi trascorsi alti livelli di resistenza. Anche l’EUTELIA e l’ISPRA sono due centri altamente qualificati nell’informatica e nella ricerca. Insieme ad essi sono centinaia le aziende che chiudono o espellono manodopera.

Le lotte dei lavoratori di EUTELIA e di ISPRA, sono divenute per tutti un importante riferimento, simbolo della necessità di uscire dall’inerzia, di attivare forme di lotta ed un nuovo protagonismo per uscire dalla crisi con nuove  misure e diritti sociali, per nuova e buona occupazione che cambi il modello di sviluppo..

Dall’Eutelia, dall’Ispra, dai Precari della Scuola, dai Movimenti per il Diritto All’Abitare e da altre lotte che hanno avuto meno risalto mediatico,  sono venute resistenze forti, con l’occupazione degli stabilimenti, le manifestazioni, le tendopoli ed i presidi ad oltranza. Le proteste sui tetti, dall’ISPRA ai musei capitolini, hanno rappresentato anche simbolicamente le diverse facce della lotta alla crisi delle banche e dei padroni, ed evidenziato condizioni di vita e problemi del tutto simili, e la vicinanza delle lotte.

Una vicinanza che è divenuta in queste settimane contatto, capacità di attraversamento, che hanno le potenzialità per divenire incontro. Un incontro che mostri la possibilità di ricomporre il mosaico, i diversi frammenti e spaccati di chi vive la crisi e di chi contro la crisi ha iniziato o vuole ribellarsi.

Molte sono le comuni rivendicazioni e vertenze e possibili: dalla predisposizione di nuove misure di tutela del lavoro alla conquista di Tariffe Sociali (gas, luce, trasporti, asili nido e spese scolastiche etc.), dall’estensione e potenziamento finanziario del Reddito Minimo Regionale alla richiesta di una moratoria sui mutui, sulle imposte, sulla cessione del quinto dello stipendio (come avvenuto per i debiti delle imprese), fino alla conquista di un vero Piano di Casa Popolari per la nostra città.  Perché la lotta per il diritto all’abitare, la richiesta di sospensione degli sfratti, di case da pagare in proporzione alle proprie tasche, è domanda di investimenti pubblici, di “bene comune”, è richiesta di reddito.

Nella convinzione che il lavoro, il reddito, i servizi pubblici, il diritto all’abitare, i diritti di cittadinanza per i/le migranti possano rappresentare un comune oggetto del desiderio, il terreno di incontro delle nostre storie e di molte altre storie simili alle nostre, lanciamo questo appello aperto e alla città insieme all’ invito a partecipare all’ assemblea.

GIOVEDI’ 28 GENNAIO ORE 17.30 IN EUTELIA
(VIA BONA 50)

Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Movimenti per il diritto all’abitare, lavoratori ISPRA, Italtel, appalti Sirti, Almaviva Atesia, cassintegrati lav. Alitalia, coord. precari scuola

La polizia carica la manifestazione della rete contro la crisiLa polizia carica la manifestazione della rete romana contro la crisi

roma_polizia_caricaUn arresto, oltre dieci i feriti.

Lavoratori in lotta di Eutelia, MVS ex-IBM, Coordinamento precari della scuola, Movimenti per il diritto all’abitare, Comitati per il reddito, lavoratori africani cacciati da Rosarno: tutte le realtà della Rete romana contro la crisi che oggi manifestava davanti alla prefettura per chiedere di partecipare al vertice interistituzionale indetto da Sindaco e Prefetto sul tema della crisi nella città di Roma. Nonostante la piazza fosse autorizzata, improvvisamente ed inaspettatamente la polizia ha caricato i manifestanti che pacificamente gridavano i loro slogan dietro gli striscioni. Le persone sono state inseguite fin dentro i vicoli dove cercavano riparo, la violenza e la durata della carica ha provocato più di dieci feriti alcuni dei quali già portati in ambulanza nei vicini ospedali. Un arresto,  liberato oggi 11 febbraio attorno alle 11.

Crisi, conflitti, democrazia | Assemblea pubblica martedi 16 febbraio


Video

[media id=193 width=400 height=300]

–>Squaring up to the square mileMappa della crisi a Londra

Squaring up to the square mile!

questa e’ la mappa della crisi e delle azioni fatta dal climatecamp per le manifestazioni del 1 aprile nella city londinese.

http://www.indymedia.org.uk/images/2009/03/425120.jpg

A questo link invece altro materiale comunicativo:

http://www.g-20meltdown.org/sites/g-20meltdown.org/files/money.pdf

questa e’ la mappa della crisi e delle azioni fatta dal climatecamp x le manifestazioni del 1 aprile nella city londinese.

http://www.indymedia.org.uk/images/2009/03/425120.jpg

A questo link invece altro materiale comunicativo:

http://www.g-20meltdown.org/sites/g-20meltdown.org/files/money.pdf