La crisi è la nostra università. Manifesto delle lotte transnazionali contro l’università finanziarizzata.

Noi, il Knowledge Liberation Front, siamo la rete transazionale delle lotte universitarie. Il punto di partenza della nostra esperienza è il meeting tenutosi a Parigi dall’11 al 13 febbraio 2011, “Per una nuova Europa: le lotte universitarie contro la crisi”. Siamo studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori precari di tutta Europa, del Nord Africa, del Nord America e dell’America Latina, dell’Asia.
Lo spazio della nostra azione politica è transnazionale, perché siamo uniti nelle nostre lotte comuni, e contro i nostri nemici comuni: le politiche di austerity e i tagli, l’aziendalizzazione e la finanziarizzazione dell’università, il sistema del debito, la precarietà. Stiamo lottando per una formazione gratuita e autonoma, per la libera circolazione dei saperi e delle persone, per la riappropriazione della ricchezza sociale e il welfare del comune.
Dopo il meeting di Parigi, abbiamo organizzato e partecipato alle giornate di azione contro le banche, i tagli e per il cambiamento globale, abbiamo preso parte alla costruzione dell’Hub Meeting di Barcellona e all’incontro transnazionale “Réseau de Luttes” in Tunisia. Abbiamo una lista per la discussione collettiva, il sito e il giornale Kafca.
Ma soprattutto, siamo tutti impegnati nel nostro principale obiettivo: la costruzione di un nuovo mondo e di una nuova università. Perché noi non vogliamo difendere lo status quo. Non abbiamo niente da perdere. Noi siamo il movimento globale del sapere vivo, e ci stiamo riappropriando del nostro presente e del nostro futuro!

Uniamoci nella lotta! Uniamoci nel Knolwdge Liberation Front!

La crisi è la nostra università!

Manifesto delle lotte transnazionali contro l’università (pubblica-privata) finanziarizzata.
Tesi #1: Il contrario di austerity non è essere contro la crisi, ma fare come in Tunisia.
Tesi #2: Il contrario di globalizzazione capitalistica non è Stato-nazione, ma globalizzazione delle lotte.
Tesi #3: Il contrario di debito non sono i sacrifici, ma diritto all’insolvenza per studenti e precari.
Tesi #4: Il contrario di selezione non è inclusione, ma critica dei saperi e riappropriazione della ricchezza comune.
Tesi #5: Il contrario di tagli non sono i soldi ai poteri accademici, ma fondi per l’autoformazione e l’autorganizzazione della produzione dei saperi.
Tesi #6: Il contrario di precarizzazione non è il lavoro salariato, ma reddito e nuovo welfare del comune.
Tesi #7: Il contrario della corruzione non è arrestare i corrotti, ma indignazione e insorgenza costituente.
Tesi #8: L’opposto della Banca centrale europea non è il sistema della rappresentanza, ma l’organizzazione a rete e l’autonomia del sapere vivo.
Tesi #9: Il contrario di università-azienda non è università pubblica/statale, ma università del comune.
Tesi #10: Il contrario della dequalificazione del sapere non è il mito della sua neutralità, ma il Knowledge Liberation Front.
Tesi #11: Non abbiamo nulla da difendere, un intero mondo comune da costruire

link: http://www.knowledgeliberationfront.org/about-klf.html

Di cosa scriviamo quando scriviamo di crisi. Breve saggio.

di lanfranco caminiti

* Nella Compagnia degli uomini, Edward Bond, drammaturgo inglese, mette in scena il conflitto tra padre e figlio nella cornice di uno spietato gioco di finanza. Il figlio, disprezzato dal padre contro cui trama e complotta, viene aggirato e schiacciato dagli intrighi degli altri personaggi e finisce per impiccarsi. Colpisce – il testo è del 1990 – il riverbero nella storia reale di Bernard Madoff, l’uomo della più clamorosa e colossale truffa americana ai danni di investitori che si erano fidati di lui, esplosa nel dicembre del 2008 con il suo arresto, inchiodato dalle accuse del figlio, Mark, che, tormentato, ha finito proprio per impiccarsi. I giochi e gli intrighi del denaro sono altamente drammaturgici, tragici e grotteschi nello stesso tempo. Non è una scoperta del teatro contemporaneo: in fin dei conti, cos’altro è Il mercante di Venezia di Shakespeare se non la riflessione tragica e grottesca su un’obbligazione, sulla riscossione di un’assicurazione su un credito, su – diremmo oggi – un Cds? C’è un momento in cui le navi di Antonio sono date per disperse forse naufragate, la sua ricchezza è sfumata, lui è in bancarotta: la libbra di carne richiesta da Shylock non è come uno swap?

 

* Recentemente la rete televisiva americana HBO ha prodotto Too big to fail, un film per i circuiti televisivi internazionali con un cast stellare: ci sono William Hurt, James Woods, Bill Pullman, Paul Giamatti, Matthew Modine e tanti altri, che interpretano Henry Paulson (allora, Segretario del Tesoro), Ben Bernanke (capo, allora e oggi, della Federal Reserve), Tim Geithner (allora, presidente della Fed di New York, oggi Segretario del Tesoro), Warren Buffett, e vari membri del Congresso. Il film ricostruisce nel dettaglio i retroscena del fallimento della Lehman Brothers dopo il salvataggio della banca Bear Sterns, di Fannie Mae e Freddie Mac, della Aig. Il crollo della Lehman Brothers è considerato ormai universalmente il topos della crisi finanziaria del 2007-08. Senza cedere a alcun manierismo, nel film quel momento cruciale è ricostruito nel maggior dettaglio possibile, per quanto oggi ci è noto da audizioni, inchieste giornalistiche, memoir: il conflitto tra Tesoro americano e privati, le contraddizioni sul piano normativo, le pressioni debite e indebite, l’azzardo morale, il bazooka del quantitative easing, cioè dell’immissione di liquidità senza limite, la dura divergenza con gli inglesi e la sfiducia dei fondi sovrani (i coreani, nel caso). I dialoghi sono fulminanti: uno dei personaggi, il capo di un’importante banca privata di investimenti, precettato, come gli altri, per essere coinvolto nel tentativo di salvataggio della Lehman, viene tratteggiato da Paulson così: «Quando eravamo assieme in Goldman Sachs, ogni tanto lo si sentiva gridare nei corridoi: “C’è del sangue oggi nell’acqua, andiamo a azzannare”. Uno squalo». La società, il mondo degli uomini e delle donne, rimane sullo sfondo, evocato ma mai visibile. Eppure, la certezza che qualsiasi decisione, qualsiasi mossa accada dentro quel mondo chiuso, quell’inner circle fatto di incarichi pubblici che sono stati Ceo di grandi fondi privati e viceversa, avrà effetti enormi sulla vita degli uomini comuni è chiarissima. Davvero, una narrazione notevole.

Anche Margin call, con uno strepitoso Kevin Spacey e Paul Bettany, Jeremy Irons, Stanley Tucci, tra gli altri, è un film sulla crisi finanziaria. Margin call, in finanza, è il margine di garanzia richiesto da un broker (un dealer, una banca) a un investitore per operare sul mercato dei futures o delle opzioni. Dall’andamento del mercato il broker accredita o addebita i guadagni o le perdite giornaliere su un conto. Ma se il conto su cui opera il broker scende sotto una soglia minima, il broker farà un margin call, cioè un ordine perentorio di ricostituzione del margine originale di un future, pena la chiusura del contratto. Succede, spesso, che il broker operi in perdita coi soldi dei clienti. Ed è qui che succedono i pasticci. Il film inizia con il licenziamento di uno dei capi servizio di una grossa banca di credito finanziario. Prima di andare via l’uomo lascerà nelle mani di un giovane analista una chiavetta usb contenente dei dati allarmanti. A causa di un folto pacchetto di azioni virtuali e tossiche la banca è destinata a fallire nel giro di 24 ore. Da quel momento il film si svolge nel corso di una sola notte in cui viene organizzata una riunione d’urgenza per cercare di trovare una soluzione al problema. Si scontrano le vite e le idee di persone completamente diverse tra loro. Ci sarà chi si preoccuperà solo del proprio tornaconto, chi della propria dignità professionale e chi del futuro dei colleghi destinati a perdere il lavoro. Una materia ostica, difficile, specialistica, diventa un dramma straordinario. Magnificamente scritto. Mi è venuto in mente il David Mamet di Americani [Glengarry Glen Ross, 1992], sulla prima grande crisi immobiliare americana e le trasformazioni del mercato e dei venditori. L’ultima grande performance di Jack Lemmon, Shelley «The Machine» Levene. Con la sua frase memorabile contro il nuovo dirigente che vuole rendimenti più alti a qualunque costo, pronto a far firmare contratti di mutui anche ai morti, che aizza i venditori l’uno contro l’altro, facendo le pagelle e mettendo in palio una Cadillac: «In questo mondo non c’è più posto per gli uomini. Questo non è un mondo per gente come noi. È un mondo di passacarte, di burocrati, di mezzemaniche. Non fa per noi. Non c’è più gusto. Siamo alla fine. Ecco cosa siamo, noi siamo una razza in estinzione!» Beh, dieci anni dopo, i mutui erano ormai solo un derivato finanziario e i subprime non li facevano firmare ai morti, ma poco ci mancava.

Il capostipite di questi film recenti sulla finanza è Wall Street di Oliver Stone, del 1987, con al centro la figura di Gordon Gekko, spietato giocatore della finanza. Peraltro, dopo il crollo e il carcere, Gekko è tornato, con Wall Street. Il denaro non dorme mai, del 2010, dove Michael Douglas fa prima a pezzi il giovane broker Jacob che si è intanto fidanzato con sua figlia, che lo odia imputandogli il suicidio del fratello più giovane e fragile, poi riconquista il suo tesoro nascosto e mentre il mondo finanziario crolla, con la crisi dei subprime, riprende a guadagnare alla grande, proprio perché aveva intuito quello che stava per accadere. Alla fine però, un certo sentimento prevale. L’avidità – la greed, osannata per anni dalla politica americana prima con Reagan e ora con più prudenza dal partito repubblicano e con misticismo dal Tea party – si arrende davanti a un’ecografia, il bimbo che sta per nascere ai due giovani. Quanto era cinico e convincente il primo film, è debole e speranzoso il secondo.

 

* Il mondo anglosassone ha da tempo messo in scena il mondo finanziario, ne ha fatto drammaturgia, e negli Stati uniti – come potrebbe essere altrimenti, visto che buona parte dell’immaginario occidentale si costruisce là – sono stati lesti nel trasformare la crisi dei subprime e la crisi finanziaria in sceneggiature. Se per un qualsiasi spettatore è difficile riconoscersi nei personaggi, a meno di non essere un broker di Wall Street o il gestore di un hedge fund, queste sceneggiature hanno svolto una funzione didascalica, utile e nient’affatto catartica, molto più che un docufilm di Michael Moore o il pur bello The Corporation [entrambi canadesi, come la rivista «Adbusters» che ha inventato lo slogan Occupy Wall Street]. Perché i crolli della Borsa, i fallimenti dei fondi pensione, il gioco degli swap e di una infinita varietà di derivati fino a diventare incomprensibile, fino a perderne il conto e la ragione, vengono ricondotti a quello che effettivamente anche sono: azioni umane, volontà soggettive, passioni, desideri, lotte di potere, frustrazioni. La crisi, cioè, si capisce narrativamente come non succede altrimenti.

Il circuito finanziario era già entrato di recente nel cinema con un personaggio di La 25a ora di Spike Lee: il broker, amico del pusher (Edward Norton) che ha ventiquattr’ore di tempo per salutare il suo mondo prima di andare in prigione, che ha giocato allo scoperto milioni di dollari di un fondo pensione e, mentre il suo capo gli intima di richiamare gli ordini e coprirsi, continua imperterrito e ormai fuori da ogni regola la sua scommessa che si fonda su un solo dato in arrivo su un monitor, il numero trimestrale dei disoccupati. È agghiacciante: il mondo del lavoro, uomini e donne, ridotto a un dato sul monitor per inventare denaro. Il film è del 2002, ma il romanzo di David Benioff, da cui il film è tratto, era stato scritto prima dell’undici settembre, mentre Lee decide di proiettare sul racconto il fascio della luce della tragedia proiettato verso il cielo. È una delle scene più angoscianti: gli amici, raccolti in un appartamento che affaccia su Ground Zero, guardano l’enorme voragine dove le ruspe lavorano senza sosta sotto i riflettori. Questa era l’America di quei giorni: una voragine, uno smarrimento. E un vitalismo senza regole, senza prospettive, senza senso, avvitato su se stesso: fermo sul posto. Una simile voragine, un simile smarrimento si riaprì con la crisi del 2007-08.

 

* Negli Stati uniti la crisi finanziaria del 2007-08 è stata un’esperienza di vita personale – la crisi dei subprime ha significato la perdita della casa per centinaia di migliaia di mutuatari, la crisi della Lehman Brothers ha comportato la perdita del lavoro per migliaia di addetti che uscivano con gli scatoloni degli effetti personali dai grattacieli luccicanti –, mentre in Europa, in Italia, è rimasto un episodio lontano, impersonale. Non che in Europa non sia arrivata l’onda di quella crisi, ma è rimasta confinata in un ambito inattingibile, quando non incomprensibile alla vita degli europei. Inenarrabile. Le banche, i governi, i tecnici se ne interessavano e vi erano coinvolti e preoccupati. Loro sapevano, non proprio tutto, ma molto di più degli altri, della gente comune. La maggior parte degli europei, degli italiani, ne era informata, ma non ne faceva immediata esperienza. E senza esperienza, non c’era narrazione.

Si conferma e si smentisce cioè nello stesso tempo uno dei concetti-cardine di Walter Benjamin espressi ne Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, dove, per affermare che la narrazione volge ormai al tramonto, dato che le «quotazioni dell’esperienza sono crollate», scrive: «Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione». Come sempre, un lampo di luce attraversa le frasi di Benjamin: «le quotazioni dell’esperienza» è un’espressione straordinaria, sedimentata di significato, un accostamento linguistico – economia e narrazione – inusitato, comprensibile ricordando quel drammatico rivolgimento che fu l’inflazione fuori da ogni controllo che portò al crollo della repubblica di Weimar e poi all’avvento del nazionalsocialismo. Ogni esperienza precedente, ogni storia dell’inflazione era assolutamente inconsistente e inutile alla luce di quella catastrofe che conduceva all’afasia o all’urlo. La crisi economica tedesca degli anni Venti fu un’esperienza sociale devastante: a dicembre del 1923 un chilo di pane costava 399 miliardi di marchi, e gli operai venivano pagati giornalmente e correvano al mercato a comprare gli alimenti perché il giorno dopo la loro moneta non sarebbe valsa quasi nulla. In Germania è conficcata nell’immaginario sociale, l’inflazione e il debito pubblico sono come una Geenna, e alla luce di questo dato sono comprensibili certi timori della leadership tedesca. Benjamin ribadisce e affina nel Narratore [che è del 1936, a nazismo ormai affermato] la propria idea di narrazione che aveva già presentato nell’introduzione a quel capolavoro assoluto che è Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin [che è del 1929: Franz Biberkopf, il personaggio centrale, a un certo punto si mette a diffondere i fogli nazionalsocialisti di propaganda senza minimamente crederci] dove la devastazione sociale diventava sfigurazione dei tratti umani e psicologici dei personaggi, incapaci ormai di capire e gestire il proprio destino, gettati nel mondo, sbattuti e aggrappati a uno spazio che cambiava continuamente e era sempre lo stesso, la piazza. Alexanderplatz è il luogo in cui si stanno realizzando trasformazioni sconvolgenti, scavatrici e battipali lavorano senza tregua, la terra trema sotto i loro colpi, è il luogo in cui più che altrove, le viscere della metropoli, i cortili interni hanno mostrato le loro voragini. È il Ground Zero della Berlino anni Venti. In un vitalismo avvitato su se stesso: fermo sul posto. Nel romanzo di Döblin non è difficile leggere in filigrana il debito teorico – non so se reale, consapevole o casuale: ci sono momenti in cui i concetti volano nell’aria come farfalle monarca in migrazione, avanti e indietro, e si lasciano ammirare – verso Georg Simmel, primo vero filosofo del denaro come unico collante sociale, e della metropoli. Proprio quel romanzo, assolutamente sperimentale e innovativo nella forma e nel linguaggio, così zeppo di esperienza umana, marginale e assoluta nello stesso tempo, mostrava la crisi della narrazione, che era per Benjamin l’esperienza comunitaria e perciò politica dell’uomo.

 

* Gli americani hanno reso narrativa la crisi finanziaria attraverso il cinema. L’hanno resa raccontabile. Va detto che già la letteratura se ne era interessata, ne aveva scritto le avvisaglie: Don DeLillo, nel 2003, pubblicò Cosmopolis, un ambizioso romanzo che racconta ventiquattr’ore [è strana questa ricorrenza di un tempo fissato a una sola giornata, e ben più che a un’influenza ormai spensierata di Joyce fa credere che dipenda dalla rapidità e caducità della vita dei movimenti della finanza, overnight] di Eric Parker, un ventottenne multimiliardario gestore di investimenti che attraversa la città – e i suoi ingorghi, qui per una visita presidenziale, lì per il funerale di un rapper, là per un riot – su una limousine superaccessoriata ma non per questo meno fragile e in balia degli eventi. Nel corso di queste ventiquattr’ore Parker perderà una somma incredibile di denaro scommettendo contro il rialzo dello yen, firmando la sua rovina, che è finanziaria e umana. Ma il cinema, e ancora di più il cinema per le reti televisive, è molto più popolare della buona letteratura. Così, gli americani hanno potuto capire le scelte – giuste o sbagliate, giuste e sbagliate – degli uomini che stanno dietro i meccanismi del potere distante, che stanno dentro quei meccanismi lontani. Ciò che è distante è inenarrabile, non riusciamo a attingerlo. La narrazione ha permesso loro di comunicarsi l’esperienza. È difficile sottrarsi alla suggestione che proprio questa narratività, cioè la capacità di raccontare l’esperienza, di condividerla, si sia in realtà riflessa nel movimento di Occupy Wall Street. Il racconto della crisi finanziaria era già comunità linguistica e si è trattato di dare la forma di una comunità politica. Occupy Wall Street è contemporaneamente un movimento di narratori e di lettori di quello straordinario dramma che è la crisi finanziaria. Benjamin ne sarebbe rimasto stupito. Chiunque veda un filmato su youtube di come funziona il mic check, quel passaggio di parola da voce in voce, di una frase dell’oratore che rimbalza amplificata, drammatizzata, a Zuccotti Park, al Lincoln Center, ovunque, non può che pensare a una performance teatrale all’aperto, in cui attori e spettatori partecipano insieme all’evento. È commovente.

In un testo su «Die Zeit», La fine del capitalismo, Wolfgang Uchatius scrive: «Possiamo immaginare una rappresentazione teatrale all’aperto. C’è un’opera che va in scena dal settembre del 2008, quando la banca d’investimento statunitense Lehman Brothers è fallita. S’intitola Crisi finanziaria». Ecco, Uchatius, europeo, parla di una rappresentazione teatrale e di un’opera come metafora. Negli Stati uniti, invece, accade proprio questo.

 

* Noi europei, noi italiani, non abbiamo avuto una narrazione della crisi finanziaria. Forse sta qui uno dei motivi per cui un movimento come quello di Occupy Wall Street rimane inconcepibile. Noi europei, noi italiani, non abbiamo avuto esperienza della crisi finanziaria, e senza esperienza non c’è narrazione. La crisi finanziaria è rimasta confinata tra i tecnici, nell’inner circle, gente che va e viene tra incarichi pubblici e consigli di amministrazione privati di banche o fondi di investimento. L’introduzione di termini tecnici, a volte paradossale, a volte grottesca, come quella dello spread, nel linguaggio giornalistico prima e nella chiacchiera pubblica dopo, non ha modificato questa realtà, anzi l’ha resa ancora più impermeabile, più distante. Lo spread non comunica nulla, se non un dato che sembra oggettivo e bizzarro come il tempo: accanto alle informazioni meteo, le televisioni e i quotidiani vanno introducendo le informazioni spread. Lo spread non appartiene alla nostra esperienza umana quotidiana, a meno di non essere uno che tutti i giorni interviene sul mercato secondario dei titoli. La continua reiterazione dei movimenti dello spread ha finito per uccidere qualsiasi narrazione possibile. Forse, è proprio questo il punto: l’informazione, ossessiva, espropria la narrazione. Siamo inzeppati di analisi, grafici, ragionamenti, statistiche e sequenze, ma piuttosto di facilitarci nel comunicare qualcosa, una qualsiasi esperienza, questa mole di dati diventa disumana, un paesaggio di macerie, una voragine. Non ci sono eroi, nello spread, non ci sono codardi, non ci sono passioni, amori, tradimenti. Lo spread non potrà mai essere un personaggio. E senza personaggi non ci sono storie. Penso alla più recente prosa di Eugenio Scalfari [repubblica.it del 16 gennaio 2012], tipo: «Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un’operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità». Per chi scrive Scalfari? Chi è il lettore di Scalfari? Monti, Draghi, Vittorio Grilli? L’inner circle? Davvero esiste una narrazione comune, sociale – si può essere insieme narratori e lettori – che passa attraverso la differenza che andrebbe sollecitata tra le emissioni e i rendimenti dei titoli a breve, media e lunga scadenza?

Eppure, gli uomini comuni dell’Europa, dell’Italia stanno facendo esperienza della crisi.

 

* È proprio così? In realtà, quello di cui noi stiamo facendo esperienza non è la crisi finanziaria, ma delle misure varate dai governi europei contro la crisi. In Romania, ieri l’altro, a Bucarest, a Cluj, a Iasi a Targu-Mures, ci sono state manifestazioni di piazza e scontri durissimi con la polizia. La Romania, per rientrare nei livelli di deficit concordati con il Fmi e l’Unione europea, ha dovuto fare i tagli più duri dell’intera Unione europea. Il 25 percento in meno negli stipendi per i dipendenti pubblici, e tagli consistenti alle pensioni. Oggi un pensionato romeno con 37 anni di lavoro prende in media 160 euro al mese. Pur con tutte le debite proporzioni con il costo della vita, sembrano proprio pochini. In questo senso, anche la Grecia è emblematica. La protesta sociale – quella che gli analisti dei rating definiscono «reform fatigue» e a cui probabilmente assegnano un punteggio e di cui disegnano un grafico – si è intensificata e è lievitata a partire dalle misure imposte dall’Europa al premier Papandreou prima e ora a Papademos per uscire dalla crisi. Tagli agli stipendi per i dipendenti pubblici, e tagli consistenti alle pensioni. Come in Romania. Petros Markaris, lo scrittore greco inventore del commissario Charitos, ci va scrivendo una trilogia, sugli effetti di queste misure. Markaris ha deciso di raccontare le crescenti difficoltà sociali e individuali di questo periodo greco attraverso la forma del “giallo”, che, a ben pensarci, sembra la forma attuale del romanzo europeo. Ma trovo anche interessante che Yanis Varoufakis, del Dipartimento di Economia dell’Università di Atene, abbia scelto per spiegare la globalizzazione una figura mitica della cultura ellenica e fondativa dell’occidente [lo si capisce senza bisogno di scomodare Karl Jung o James Hillman], The Global Minotaur. Come anche che abbia fatto riferimento a Esopo e alla favola delle formiche e delle cicale, per parlare di debiti pubblici e avanzare una Modest proposal for overcoming the euro crisis. Il titolo Modest proposal è un evidente richiamo a Jonathan Swift, e al suo libro del 1729 in cui proponeva, per combattere la sovrappopolazione e la disoccupazione dei cattolici irlandesi, di ingrassare i loro bambini denutriti e darli da mangiare ai ricchi proprietari terrieri anglo-irlandesi. Non so quale possa essere la strada della narrazione della crisi, tra miti e gialli, ricorrendo alle proprie radici linguistiche o praticando una forma europea. Certo, la metafora delle sette fanciulle e dei sette fanciulli dati in pasto al mostro è facilmente comprensibile coi sacrifici economici imposti: resta da capire chi sarà Teseo e quale il filo rosso di Arianna che lo guidi fuori dal labirinto.

 

* Qui in Europa quindi la situazione è rovesciata rispetto gli Stati uniti: noi non stiamo facendo esperienza della crisi, ma delle misure contro la crisi, della controcrisi. Sembra quasi la stessa cosa, ma in questo lieve slittamento c’è esattamente tutto di diverso. A partire da questa considerazione: a parte la Germania, i paesi europei, in particolare quelli dell’area mediterranea, vivevano già da tempo, da circa un decennio, che è più o meno il tempo dell’introduzione dell’euro, anche se non è solo addebitabile alla moneta unica, un periodo di stagnazione, di mancanza di crescita e sviluppo. Quello che viviamo adesso – le misure contro la crisi – non ha niente a che vedere con lo scoppio di una bolla speculativa immobiliare o di titoli tossici o con l’impazzimento dei derivati finanziari. Quello che viviamo adesso – le misure contro la crisi – non fa che stringere ulteriormente la produzione, verso la recessione. È la nostra esperienza quotidiana: se spendiamo di meno, se stiamo più attenti ai consumi, se aumentano una serie di pagamenti assolutamente improrogabili [in Grecia le tasse sulla casa arrivano insieme alle bollette del gas e della luce], ci rendiamo conto che si produrranno meno oggetti, circolerà meno denaro, ci sarà una minore distribuzione nel commercio, e che tutto questo si traduce poi in minore occupazione. La controcrisi è già la bancarotta.

Per alcuni versi – lo avanzo qui solo come una suggestione, niente di più, ma la trovo curiosa proprio mentre «The Economist» mette in copertina The rise of state capitalism – sembra che l’Unione europea vada applicando una sorta di “ricetta Eltsin”, cioè il salvataggio operato dal Fondo monetario di un’economia, quella russa, ormai fuori controllo, dopo Gorbaciov e il tentato golpe, gravata dal peso di una spesa pubblica abnorme, tagliando drasticamente le voci primarie: stipendi pubblici, pensioni, sanità, scuola, in cambio dell’introduzione di una maggiore “libertà” nel mercato del lavoro e della privatizzazione selvaggia dei beni pubblici [lì, l’energia, il gas, soprattutto]. Come in Grecia e in Romania adesso. Per una qualche ragione, nell’inner circle dei tecnici, degli incarichi pubblici europei che sono stati Ceo di grandi istituti di credito privati e viceversa, si è sedimentata una valutazione sul carattere “socialista” di quelle economie europee dove la mano pubblica aveva un peso determinante. Vale di sicuro per la Grecia, per il Portogallo, per la Spagna, per l’Italia. Queste economie fondamentalmente autarchiche sarebbero condannate al fallimento dentro la globalizzazione: di fatto, sono già stentate in quella sorta di Comecon [l’allora mercato dell’Urss e dei paesi satelliti] che è stato il mercato europeo sinora, con una nazione acchiappatutto [qui, la Germania, lì la Russia] e le altre a supporto. La storia delle quote latte tra i paesi europei, per dirne solo una, non ha nulla da invidiare alle pazzie socialiste sul grano dei kolkoz. Non è necessario avere studiato i fondamentali della scuola austriaca per convincersi che il controllo socialista dei prezzi è impossibile e deleterio. L’unica strada per “modernizzare” queste economie parasocialiste, per metterle al passo con le sfide che ci aspettano [la Cina e il Bric, per dire] sarebbe questa sorta di “ricetta Eltsin”, la liberalizzazione spinta, magari un pizzico più distribuita e monitorata, con la cosiddetta “equità”. Ora, se alcune premesse sono condivisibili [lo stallo dell’economia, la sconfitta tecnologica, l’assenza di ricerca e innovazione, il declino produttivo nascosto dal debito pubblico impazzito e da un mercato dove piccoli monopoli vengono difesi strenuamente], cioè se è ragionevole indicare nella rendita [per principio, parassitaria, statica, retrograda] la palla al piede di queste, nostre, economie, va quanto meno detto che: 1) la ricetta Eltsin è stata disastrosa, e ha finito per irrigidire l’economia russa e soprattutto la sua democrazia [che Putin chiama eufemisticamente: «democrazia guidata»] e forse varrebbe la pena riconsiderare la sua bontà: una pensione media a Mosca è salita del 8,89 percento rispetto ai primi nove mesi del 2011 per raggiungere quota 8.900 rubli al mese, cioè circa 210 euro. Fatte le debite proporzioni con il costo della vita, sembrano proprio pochini, anche se prendono 50 euro più dei rumeni. In ogni caso, la Russia ha sempre potuto contare su una riserva praticamente illimitata di materie prime, cioè di una assicurazione illimitata per qualunque prestito e di un potere di ricatto straordinario, cosa che di certo non può dirsi per le economie “minute” del Mediterraneo statalista, parasocialista; 2) la rendita ha caratteri “nazionali” e non può essere altrimenti, e da noi, in Italia, la rendita si concentra soprattutto intorno il capitale privato, il capitale immobiliare, il capitale bancario e assicurativo. Cioè, esattamente, la produzione e il credito. Se c’è davvero un’anomalia italiana è che il settore che gode maggiormente della protezione statale e pubblica è quello del capitalismo. Degli oligopoli pubblici e privati. D’altronde, proprio questa anomalia è stata per decenni motivo di un certo “vanto” nell’inner circle. La mitologia dei Beneduce, Mattioli, Cuccia, e poi tutto a scendere. Nei fatti però marchi storici italiani, industrie storiche italiane, sono già passati nelle mani del capitalismo globale. La produzione nazionale è già da tempo in dismissione.

 

* È questa affabulazione che sta dietro i governi tecnici, in Italia come in Grecia: per principio narrativo, per convenzione narrativa, essi incarnano la soluzione del problema, sono la riforma. Ma mentre negli Stati uniti, dove la crisi finanziaria è esplosa, tutte le misure hanno il segno di tentativi per alleviare lo smarrimento [la disoccupazione, il credit crunch, il calo degli ordini, lo stallo industriale], in Europa le misure, le riforme hanno preso il segno del rigore, dell’austerità, dato che la crisi, impersonalmente, ha preso il segno del debito pubblico. Non, quindi, quello di un inner circle che ha profittato – contro cui gridare: We are the 99% –, ma quello di una colpa universale. Un peccato originale trasmesso a tutta l’umanità europea. O almeno a quella cicaleccia, mediterranea.

Questo passaggio, dalla crisi finanziaria alla crisi dei debiti pubblici non ha avuto alcuna narrazione. È rimasto patrimonio della nomenklatura – mi ha colpito molto il fatto che Monti abbia detto di essere stato già informato in privato del downgrade deciso da Standard e Poor’s per l’Italia, eppure negli stessi giorni esortava in conferenza-stampa a comprare Bot –, su cui l’informazione, giornalistica perlopiù, apre lampi che rendono ancora più oscuro il buio momentaneamente squarciato.

In un certo senso ci troviamo a ripetere l’esperienza e il pensiero di Benjamin del 1936: «Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione», anche se dovremmo aggiornare l’espressione. Così, adesso: mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle economiche contro la crisi. Rispetto alle misure contro la crisi di adesso, alla controcrisi, non c’è esperienza storica che valga, si sia più o meno innamorati convinti di Keynes o, all’opposto, di von Mises. I governi europei adottano contro la crisi misure che non hanno alcuna narrazione. Il loro arco temporale ha il valore di ventiquattr’ore o poco più, giusto il tempo tra l’apertura delle borse asiatiche e la chiusura di quelle europee, una sorta di odissey joyciana, ma invece di costruire un’epica – il New Deal rooseveltiano, per dire, è stato un’epica – si limitano a una reiterazione coattiva degli stessi meccanismi discorsivi, degli stessi dialoghi: sale lo spread col Bund, interviene la Bce sul mercato secondario, scende lo spread, la Bce rallenta, fino alle ventiquattr’ore successive. Il plot, la trama prevede solo questo acme narrativo, questo happy end: la Bce deve diventare prestatore di ultima istanza, ci vogliono gli eurobond. L’unico arco temporale in cui i governi europei intervengono è quello delle misure del rigore, che si dilata in maniera assolutamente inverosimile, con scadenze al 2027, al 2043, per le pensioni a esempio: nessuna narrazione può tenere un qualsiasi passaggio di esperienze su un futuro così discrezionale; nessun personaggio, nessuna azione può essere narrativamente credibile. Bisogna avere davvero fede nella potenza del capitalismo o nella sussistenza eterna del denaro, per accettare lo scambio – è la proposta sul tavolo in Grecia – dei bond precedenti con un concambio di nuove emissioni al valore del 50/60 percento [nella forbice, sta tutta la trattativa] le cui cedole cominceranno a scadere nel 2043. Avranno ragione loro, nel loro millenarismo, come la Chiesa cattolica crede nel purgatorio e nelle indulgenze?

 

* Eppure, la narrazione del capitalismo sembra in crisi. Sul «Financial Times», su «Policy Affairs», sul «Wall Street Journal», su «Die Zeit», sul «Guardian», su giornali popolari e riviste pensose fa ormai stabile presenza un dibattito sulla “fine del capitalismo” col punto interrogativo. Non so, a me pare una questione complessa (anche al mio amico Giancarlo, con cui al mattino presto, ormai scevri di sogni, chiacchieriamo di queste cose). Se per un verso è vero che l’opzione sul futuro sembra drammaticamente in crisi, come la capacità di programmazione che però era più propria del socialismo coi suoi piani quinquennali, ma certo anche di un’idea indefettibile del progresso, la forza del capitalismo sta nel suo spirito animale di distruzione, e quindi della possibilità della ricostruzione (con la guerra o con la crisi), nel suo ciclo. E questa – la distruzione, la scomparsa, la perdita – è sicuramente una situazione altamente narrativa. Fa parte della nostra condizione umana rimpiangere ciò che perdiamo – cui finiamo per affidare un valore nel tempo – molto più di ciò che non abbiamo ancora. La perdita del passato è una situazione fortemente drammatica più che l’assenza di futuro e l’incertezza del domani. Come pure, la conoscenza del futuro prossimo – non solamente in un “giallo” – toglie proprio ogni aura narrativa. È nel nichilismo del capitale la sua forza di narrazione, come stava tutta nell’irenico domani la debolezza delle magnifiche sorti e progressive. L’incertezza di stare al mondo, che è tutta la nostra possibilità di avere un arbitrio e un destino, è la molla del nostro desiderio: cosa potremmo mai desiderare se già conosciamo le possibilità del nostro domani? Essersi affidato tutto alla tecnica sembrava aver fatto smarrire, al capitalismo, capacità drammatica: la tecnica è per principio priva di errori e scarti, di principi di soggettività. Il crollo della tecnologia – momentaneo, certo –, anche di quella militare, o la sua riconversione riapre però la sostanza narrativa. Da questo punto di vista, il capitalismo sembra proprio in gran forma. Ma lo è, al contrario, anche dove è stato da poco scoperto. Come scrive Wolfgang Uchatius in «Die Zeit»: «La macchina capitalistica non ha prodotto solo un’opulenza apparente e a tratti oscena, ma ha anche salvato dalla povertà centinaia di milioni di cinesi, indiani, sudcoreani, vietnamiti, e brasiliani». Per loro, è proprio una grande epopea, qualcosa che tra poco i nonni racconteranno ai nipoti.

 

* La crisi e la controcrisi si sono espresse in Europa attraverso un linguaggio tecnico, specialistico. Un linguaggio specialistico può essere praticato universalmente: solo che accade attraverso una grammatica e un ricorso al dizionario che sono già prefissati, come in un manuale per il funzionamento della lavastoviglie, di cui seguendo le informazioni accluse capiamo alcune operazioni semplici ma non abbiamo la più pallida idea del perché esse dovrebbero funzionare. Le misure contro la crisi sono spiegate attraverso la forma del saggio accademico, della lectio, i numeri, i dati, le statistiche e le sequenze: non ci sono passioni, personaggi, frustrazioni, ambizioni. È questo grigiore, questa neutralità, questa tristezza che dovrebbero dare credibilità e verosimiglianza: se c’è un debito, per prima cosa vanno ridotte le spese. Non bisogna neanche essere padroni della partita doppia, per saperlo, per capirlo. La riforma del debito è così vestita di ragionevolezza, d’incontrovertibilità, dell’impossibilità della falsificazione, della mancanza di profondità e spessore, della assenza di imprevedibilità, di scarto, mentre qualsiasi esperienza che facciamo delle misure contro la crisi – la disoccupazione, la recessione, la contrazione del credito, la precarietà – assume il carattere della passione, del sentimento, della occasionalità, dell’impeto. Dell’umore. Rimane, cioè, singolare, marginale.

La catastrofe finanziaria americana – la voragine, lo smarrimento – è stata la condizione da cui l’immaginario negli Stati uniti ha sviluppato una narrazione possibile [l’industria che ritorna forte, l’insourcing, l’orgoglio di produrre americano, lo stigma dell’avidità sfrenata], e può anche avanzarsi la suggestione che abbia agito muovendosi sulle linee guida del dopo undici settembre. Mentre la catastrofe europea è un’evocazione che oscura e mette a tacere l’esperienza che quotidianamente facciamo. È una fiaba, rassicurante e terribile come le fiabe. Restano come salvezza le riforme, le misure. Pollicino, misurato, sapiente, ragionevole, nel suo disseminare sassolini, contro l’orco della crisi.

La domanda che possiamo adesso porci è: davvero non riusciamo a costruire narrazione, quindi a scambiare la nostra esperienza della voragine causata dalle misure contro la crisi? Davvero gli Stati uniti stanno ripetendo il miracolo letterario che li attraversò prima, durante e dopo la crisi del ’29 – per tutti, cito Manhattan Transfer di Dos Passos, o Sherwood Anderson – [forse pensava a quello straordinario periodo Vargas LLosa, quando nel 2009 disse che: «La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura»], oggi nella crisi finanziaria con linguaggi espressivi diversi e quindi una circolazione diversa, più ampia e capillare, e noi europei scambiamo lucciole per lanterne [le misure contro la crisi come fossero la salvezza, la recessione come fosse la crescita, l’austerità come fosse lo sviluppo]?

 

* «La lettura», l’inserto domenicale del «Corriere della sera», sembra farne un’imputazione alla scrittura italiana. Gli scrittori italiani si sono impantanati nel raccontare il precariato – questo più o meno dice –, ormai cucinato in tutte le salse, e non colgono l’occasione d’oro della crisi [è proprio questo il titolo dell’articolo, di Alessandro Beretta]. Suggerisce, Beretta, di cercare «altri soggetti», che so, i mutuatari di case, come fa Paul Auster utilizzando la crisi dei subprime come fondale in Sunset Park.

Ecco, questo è esattamente scambiare lucciole per lanterne. La narrazione italiana ha già parlato della crisi. Non fa altro da dieci anni. La crisi del lavoro, il precariato, nelle storie minime, nei reportage, nei testi per il teatro o nei monologhi, nei racconti d’invenzione, aveva esattamente questo senso della catastrofe per una generazione, della voragine, dello smarrimento. Che abbia scelto a volte la vena del comico o del grottesco o della sperimentazione linguistica, non cambia poi molto.

Pochi anni fa, al centro sociale Acrobax di Roma, fu lanciato un Laboratorio di scrittura sul precariato a cui parteciparono alcuni scrittori e diversi militanti, gli uni e gli altri accomunati da esperienze di vite precarie. Lo chiamammo Gra, il Grande racconto anulare, mimando il Grande raccordo anulare. Per quel che ne so, è stata l’unica esperienza – l’unico dispositivo avrebbe detto Cristian, che ne fu animatore – in cui scrittore e lettore si scambiavano e compenetravano i ruoli, l’unica cosa che in qualche modo anticipava la forma dello scambio e travaso di ruoli in Occupy Wall Street.

Perché gli scrittori italiani dovrebbero scrivere della crisi dei subprime o dei gestori degli hedge fund? Cioè, di cose americane? Le misure contro la crisi, la controcrisi, che è quello che noi viviamo, non modifica le premesse della crisi – la disuguaglianza dei redditi in una forbice sempre più larga, la concentrazione di ricchezza, l’assenza di crescita e sviluppo, la mancanza di ricerca e innovazione –, non modifica la materia narrativa finora già elaborata. La amplifica e la approfondisce. La controcrisi potrà tutt’al più precarizzare ulteriormente le nostre vite. Lo sta già facendo. O deprimere ancora di più quel po’ di produzione che facciamo: forse il libro di Edoardo Nesi – Storie della mia gente – che ha vinto lo Strega ha fatto solo da apripista. La dismissione il bel libro di Rea che raccontava la fine di un luogo industriale simbolico, l’acciaieria Ilva di Bagnoli, è del 2002. Il declino dell’impero Whiting [Empire Falls] il romanzo di Richard Russo in cui si descrive la caduta di una famiglia una volta potente, proprietaria delle industrie tessili di una zona del Maine, l’arrivo delle multinazionali, il degrado delle Empire Falls, un luogo industriale simbolico, è Pulitzer 2002. Perché Nesi o Rea avrebbero dovuto scrivere invece di subprime come Paul Auster?

 

* Per una qualche ragione che io non so spiegare, sembra che mentre negli Stati uniti in crisi si sviluppi una narrazione democratica, nell’Europa in crisi si pongano le premesse di una narrazione totalitaria. Uso questo termine con cautela: il totalitarismo è l’assenza della narrazione. Anzi, contro il totalitarismo – basti pensare all’Arcipelago Gulag o a Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn o a Primo Levi, a Bruno Schulz – può resistere solo la speranza della narrazione. Il totalitarismo è proprio la morte della narrazione, l’incapacità, l’impossibilità di comunicarsi l’esperienza.

Viviamo già in questa impossibilità?

 

Nicotera, 23 gennaio 2012

Dalle ceneri di Alessandria. Su Anonymous e Megaupload

La rete negli ultimi 3 giorni ha vissuto un momento cruciale, come sempre succede quando deve difendere le sue liberta’ fondamentali , prima la serrata ad opera di numerosi siti, da Craiglist a Wikipedia, poi l’operazione da guerra fredda che porta in carcere il creatore e molti lavoratori della piattaforma Megaupload in tutto il mondo e infine la rabbiosa reazione di una rete gia’ in movimento con in testa Anonymous a dettare i bersagli, che gradualmente uno a uno cadono inesorabilmente.

Ma andiamo con ordine:

Il congresso sotto il ricatto delle grandi major editoriali elabora una legge (SOPA Stop Online Piracy Act) che di fatto e’ la summa di tutti i metodi possibili per censurare la rete, dal blocco degli ISP, al blocco dei DNS alla blocco dei motori di ricerca, misure che vengono applicate normalmente nei paesi arabi in rivolta nel tentativo di spegnere la comunicazione online o che vengono utilizzate in Cina e in Russia per censurare l’informazione.

A questa proposta la rete ha risposto massicciamente sia in termini di semplici cittadini sia con la presa di posizione di grandi gruppi commerciali e di informazione come Wikipedia (che ha serrato il sito per un giorno intero), Facebook (che ha preso parola per bocca del suo creatore) e Google (che ha esposto un banner di protesta antiSOPA su google.com); si calcola che oltre 200 milioni di visitatori unici in tutto il mondo nella sola giornata del 18/01 abbiano visto e si siano informati riguardo alla protesta e congiuntamente a un’opera di pressione sul congresso USA ha portato al ritiro di numerosi membri del congresso dal supportare la legge e alla conseguente procrastinazione in data da definirsi.

La reazione a questa ennesima (ma in ogni caso momentanea) sconfitta e’ stata evidentemente scomposta, l’FBI infatti per il giorno 19/01 lancia una fitta campagna di arresti indirizzati al proprietario della piattaforma di Megaupload e a diversi suoi dipendenti sparsi per il mondo con accuse che superano i 50 anni di carcere e che vanno dal riciclaggio all’estorsione. Megaupload e Megavideo vengono oscurati.

Oltre la solidarietà per persone che stanno rischiando decenni di galera e che vengono arrestate con mandati internazionali dalla Nuova Zelanda alla Lettonia semplicemente perché avevano un sito di hosting, non c’è particolare simpatia per Kim “dotcom” Schmidzt, ultramilionario e fanatico delle macchine, il punto è un altro ed è quello che farà scattare la rappresaglia della rete.

Il punto è che le piattaforme di hosting per quanto private, per quanto speculative, per quanto eticamente meno giustificabili per lo sharing (non sono p2p sono in direct download) sono dei magazzini, dei magazzini dove gli utenti mettono quello che vogliono, dalle foto del compleanno della nonna all’ultima puntata del dottor House sottotitolata in ceceno.

Chi carica materiale protetto sa, forse a cuor leggero ma lo sa, che sta commettendo un’infrazione, che può essere perseguito e che il suo materiale se scoperto verrà cancellato; in ogni caso è intenzionato a poter condividere una sua distribuzione di un gioco, di un film appena uscito, di un crack per un programma costoso, i motivi di queste intenzioni sono molteplici vanno dall’autogratificazione alla coscienza che le opere di intelletto debbano essere libere e accessibili, quale che sia la motivazione, la loro utilita’ per chi non ha i soldi per andare al cinema 3 volte al mese, comprarsi sky per vedere un telefilm, comprare 10 giochi l’anno etc. e’ immensa .

Tornando a megaupload la sua piattaforma conteneva il 5% dei contenuti online dell’intera internet, era visitata da milioni di persone quotidianamente sia per motivi legali che per quelli considerati “illegali” e la sua messa offline per colpa di un governo asservito alle major discografiche, editoriali e cinematografiche priva il mondo di una biblioteca di contenuti globali frutto di 6 anni di accumulazione.

Tutto quel materiale oggi, dalle foto della tua vacanza all’ultimo football manager e’ nelle mani dell’FBI, tutto quel materiale è stato sequestrato dai magazzini personali e requisito aldilà di prove di illegalità. Non si tratta quindi di difendere l’investitore, il proprietario, o il pubblicitario che c’è dietro megaupload, si tratta come al solito di difendere i propri spazi di libertà nella rete, è quindi la solita vecchia guerra contro chi vorrebbe fare di internet strumenti di controllo e di commercio contro chi invece vuole che la rete diventi definitivamente quello per cui è nata cioè uno strumento di condivisione e di comunicazione libera.

Per questo 15 minuti dopo il comunicato di megaupload la rete ha risposto con il più grande attacco della sua storia, per questo il collettivo anonymous è riuscito con il solito successo a colpire più bersagli in poche ore.

Decine di migliaia di persone nel mondo hanno dato il loro supporto,in migliaia hanno azionato LOIC, in milioni hanno condiviso i bersagli twittandoli e hanno incitato alla rappresaglia esultando quando un sito dopo l’altro cadeva; i bersagli erano le industrie musicali (universalmusic.com) i consorzi editoriali (mpaa.org e riaa.com) e i siti governativi (copyright.gov, justice.gov) e infine l’odiata FBI (fbi.gov) che nel 2011 ha arrestato un numero di attivisti impressionante con accuse per centinaia di anni di carcere e con una condotta che non differisce troppo dalle polizie presidenziali dei paesi arabi in rivolta.

Oggi 20/01 l’operazione #OpMegaupload continua mentre scriviamo :

#Anonymous reports that justice.govt.nz and shop.mgm.com are Tango Down in continuing #OpMegaUpload

Ma un attacco ddos non basta e come giustamente dice Anonymous:

Questo non è solamente un richiamo collettivo di Anonymous a darci da fare. Cosa può mai risolvere un attacco DDoS? Che cosa può essere attaccare un sito rispetto i poteri corrotti del governo? No. Questo è un richiamo per una protesta di grandezza mondiale sia su internet che nella vita reale contro il potere. Diffondete questo messaggio ovunque. Non possiamo tollerare quello che sta succedendo. Ditelo ai vostri genitori, ai vostri vicini, ai vostri colleghi di lavoro, ai vostri insegnati e a tutti coloro con i quali venite in contatto.Tutto quello che stanno facendo riguarda chiunque desideri la libertà di navigare in forma anonima, parlare liberamente senza paura di ritorsioni, o protestare senza la paura di essere arrestati. Andate su ogni rete IRC, su tutti i social network, in ogni community on-line e dite a tutti l’atrocità che sta per essere commessa. Se protestare non sarà abbastanza, gli Stati Uniti dovranno vedere che siamo davvero una legione e noi dovremo unirci come una sola forza opponendoci a questo tentativo di censurare Internet ancora una volta, e nel frattempo scoraggiare tutti gli altri governi dal tentare ancora. Noi siamo Anonymous. Noi siamo una legione. Non perdoniamo la censura. Non dimentichiamo la negazione dei nostri diritti come esseri umani liberi. Questo è per il governo degli Stati Uniti. Dovevate aspettarvi la nostra reazione.”

http://www.youtube.com/watch?v=Smb-cFSDXrw

 

 

Workshop sulla crisi finanziaria | Giurisprudenza RomaTre

Dal Collettivo FuoriLegge: Cercheremo di condurre un’analisi sulle principali dimensioni della crisi e le conseguenti politiche di austerity che, come da prassi, ricadono sui soliti noti. Sono davvero queste la soluzione al problema? o non fanno altro che nasconderlo nel breve periodo? Parteciperanno alla discussione docenti di economia politica dell’università Roma Tre.

Negl’ultimi tempi abbiamo potuto apprezzare al livello mondiale fenomeni di partecipazione con pochi precedenti. Il filo conduttore di queste esperienze si concretizza in qualcosa che da sempre connota i popoli, ma che da poco assume caratteri qualificanti: le persone sentono il bisogno di aggregarsi per condividere preoccupazioni, indignazioni, lotte e conoscenze, ma questa volta al fine di realizzare analisi e riflessioni originali, rispetto alle quali il regime mediatico/politico, per quanto apparentemente plurale, sembra impermeabile. Questo regime non contempla alcuna interpretazione della crisi economica che non sia quella dettata dal mondo finanziario, e non considera affatto quella che viene dalla Rete, frutto dell’auto produzione degli stessi soggetti che si ritrovano nelle piazze di tutto il mondo. I mercati e la finanza, infatti, vengono ormai intesi come un potere “naturale” in quanto incontestabile, sorgente di benessere per quanti lo accettano pedissequamente e vi partecipano, ma sordo determinatore della soccombenza economica di interi paesi, se non di continenti. Una sordità che si estrinseca nei confronti delle istituzioni democratiche, che perdono in modo progressivo la loro sovranità, diventando orpelli macchinosi superflui agl’occhi di chi, invece, sente prepotentemente aumentare il proprio bisogno di partecipazione democratica nella determinazione delle politiche economiche e sociali che connotano quotidianamente le loro vite. Quelle vite che in miriadi di ambiti sembrano inesorabilmente accomunate dalla dimensione precaria, da intendere oggi come la dimensione senza uscita di coloro i quali non hanno più modo di dire “noi la crisi non la paghiamo” (intendendo con ciò un moto di volontà e orgoglio nell’imputare ai veri debitori i loro debiti), quanto più attualmente “noi la crisi non la possiamo pagare”: non esistono più concrete categorie di diritti sociali da rinunciare o da scambiare per una solvenza salvifica. Ed è proprio per questo che chi interpreta gli interessi del sistema bancario, e in Italia sono gli interpreti del commissariamento europeo, ora paiono essere inclini a concetti di equità e sviluppo: è ormai troppo evidente che i superprofitti di alcuni non possono convivere con la precarietà dei molti. Ma la risposta alla speculazione finanziaria da parte di questi pseudo-tecnocrati rientra pienamente nel meccanismo della speculazione stessa. E così quegli stessi tecnocrati saranno obbligati a derogare alle regole “non regole” del mercato tanto idolatrate, aprendo le saracinesche di fondi monetari internazionali, creati, in fondo, proprio nella consapevolezza del non poter far altro che ricapitalizzare le economie predestinate al collasso. Questo ciclo, che è quantomeno intuito dai tanti che si aggregano in giro per il mondo, è praticamente ignorato dalle opposizioni del nostro paese, ancora perse nella scelta tra lo statalismo e il rispetto del dio mercato, e soprattutto ferme nell’analisi alla richiesta di dimissioni di Berlusconi, in modo talmente improduttivo che a provocarle è bastato un sorrisetto di Sarkozy.

Non esistono in questo paese proposte alternative. Questo dato di fatto ci induce inesorabilmente alla ricerca di luoghi collettivi capaci di alleviare il bisogno di confronto e di elaborazione, di analisi e di proposta, fuori da vecchi schematismi e scevri da settarismi inattuali al cospetto di una nuova sfida per i 99% di ogni dove: trovare la forza di creare dal basso una vera opposizione internazionale all’oppressione impostaci dai mercati e dai banchieri, che già ormai da tempo hanno individuato la preda, nell’imminenza di un’aggressione ai diritti sociali senza precedenti in Italia, chiamata austerity. Per far ciò, accogliendo l’intenzione generalizzata nel nostro ateneo di creare una assemblea capace di rispondere ai bisogni predetti, il collettivo di giurisprudenza di roma3 crede sia opportuno organizzare un workshop su questi temi, aperto a tutte le realtà e a tutti gli individui che si pongono criticamente gli interrogativi per la costruzione di un’alternativa reale e che, nel rispetto dei valori dell’antifascismo, dell’antisessismo e dell’antirazzismo, siano inclini al dibattito e alla discussione, ovviamente orientata prima di tutto alla conoscenza dei fenomeni economici finanziari, ma poi incline anche a criticarne i fondamenti. Le modalità di una tale presa di coscienza consisteranno, per nostra iniziativa, nella produzione di documenti di avvicinamento al workshop, contenenti analisi e prese di parola interessanti e costruttive, in un divenire di autoformazione che può e deve essere stimolato dalle adesioni alla giornata e da ciò che ognuno si sente di proporre all’attenzione degli studenti, culminando così in un giorno, nella metà di dicembre, che sarà organizzato proprio alla luce dei contributi fruiti fino a quel momento.

Nella speranza di una partecipazione ampia e condivisa.

Martedi 13 dicembre dalle 16 – AULA 7 Facoltà di giurisprudenza Roma tre Via Ostiense 159

evento fb:
http://www.facebook.com/events/178017065626953/

Acrobax, 10 dicembre: presentazione Scarceranda 2012 e 15 ottobre

Partendo dai processi per il G8 di Genova 2001 e passando per la gogna mediatico-giudiziaria scatenatasi all’indomani del corteo del 15 ottobre scorso, vorremmo discutere collettivamente su come le forme di potere releghino sullo sfondo della scena qualsiasi forma di critica all’esistente, in una società basata sull’emergenza e sulla sicurezza, che esclude dalla politica chi “pone il problema”.

Saranno con noi
Gli avvocati e le avvocate che seguono i processi di Genova 2001 e del 15 ottobre
Gennaro Santoro, Associazione Antigone
A seguire
Proiezione del video di Indymedia sulla manifestazione del 15 ottobre
Aperitivo e cena a sostegno delle spese legali del 15 ottobre
CONCERTO FESTINA LENTE
Perché di carcere non si muoia più ma neanche di carcere si viva

Dalle lotte universitarie catalane al movimento 15M

Rotte indipendenti dei movimenti globali

Mercoledì 7 nella facoltà di lettere di Roma3 si svolgerà un incontro con i compagn@ della Universitat Lliure La Rimaia, crear, lluitar, poder popular di Barcellona.

Progetto politico, popolare ed autogestito, che nasce nel 2008 in piena fermentazione delle lotte universitarie contro la riforma Bologna, processo che persegue la realizzazione di uno spazio europeo per l’università e la ricerca basato sulla competizione. Voluto dai poteri forti come grande sforzo di convergenza dei sistemi universitari, tale riforma è, in realtà, l’ennesimo tentativo di voler ridurre l’accesso ai saperi ad una logica mercantile volta più a valorizzare i profitti piuttosto che la libera conoscenza.

L’università libera La Rimaia é uno spazio fisico e simbolico, statico e dinamico, che raggruppa soggettività e collettivi, che vogliono praticare una trasformazione radicale dello status quo attuale.

Tale esperienza é stata anche una delle tante che in Catalunya e più in generale nello stato spagnolo, ha creato un tessuto sociale, attivo e recettivo, che ha permesso, negli ultimi mesi, l’esplosione di quel processo radicale, innovatore e trasformatore conosciuto come movimiento 15M o movimento de los y las indignad@s.

Un movimento indipendente che sta dando origine a un processo costituente dal basso caratterizzato da una forte critica all’attuale sistema di rappresentanza politica e che pratica un attivo conflitto contro il clima di misure antisociali di austerity neoliberali promotrici solo di segregazione ed esclusione sociale.

Un movimento nato con l’occupazione delle piazze contro la zonizzazione capitalista dello spazio pubblico, sovvertendo l’uso commerciale, immobiliario, finanziario e turistico del centro metropolitano. Uno spazio in cui é emerso uno straordinario dispositivo territoriale di potenziamento della cooperazione sociale e che si sta traducendo in un movimento di assemblee territoriali e in una nuova architettura della politica sociale del comune.

Il 15M sperimenta pratiche e processi nella costruzione di una rete coordinata di contropotere attraverso le assemblee di quartiere (asambleas de barrios). Un movimento che, dallo stato spagnolo, assume un carattere di spazio pubblico di cooperazione internazionale grazie all’Hub Meeting di Barcellona nel quale si è promossa la giornata di lotta globale contro l’austerity del 15 Ottobre in cui più di 950 cittá hanno gridato un “determinato no” alle politiche di gestione dell’attuale crisi.

Nella città di Barcellona la divisione del multitudinario corteo del 15 Ottobre in tre parti e l’occupazione dei posti emblematici dei tre diritti sociali – educazione, sanità e diritto all’abitare- duramente colpiti dall’implosione della ristrutturazione capitalistica segna la volontà di passare dall’indignazione generalizzata all’azione collettiva. Una presa di parola che attraverso la trasformazione e indipendenza sta cambiando il nostro futuro!

La facoltà di lettere di Roma Tre, del resto, in questi mesi è stata il luogo di costruzione di processi di autorganizzazione sui saperi e i beni comuni, dall’esperienza della libera università autogestita (L.u.i.s.a), al laboratorio inchiesta, entrambe nate dentro i percorsi politici di Retelettere. Per questo l’incontro con i compagni e le compagne di Barcellona segna un momento di continuità rispetto alle lotte nella facoltà e nel territorio, e un utile strumento di confronto con realtà, seppur lontane geograficamente, con le quali molto può essere condiviso nello scenario europeo della crisi.

Programma della giornata

Pranzo sociale alle ore 13:00

Assemblea/dibattito: ore 14:00

Visto che il prossimo HubMeeting si svolgerá in Italia, invitiamo tutte e tutti a prendere parola e ad arricchire la discussione mettendo a confronto le esperienze, le analisi e i progetti.

 

Retelettere per L.u.i.s.a., LOA Acrobax

Oltre il welfare verso il commonfare: dalla ri/produzione sociale alla rendita sociale

da www.uninomade.org

Convegno Internazionale UniNomade – Milano 3-4 dicembre 2011

Il seminario intende analizzare come i sistemi di welfare attuali siano solo in parte adeguati a far fronte ai cambiamenti sociali ed economici che hanno caratterizzato il processo di accumulazione e valorizzazione contemporaneo, alla luce, e sulla base, delle soggettività che oggi definiscono il mercato del lavoro.

 

Il seminario è articolato in tre sezioni, tra sabato 3 dicembre e domenica 4 dicembre.

 

Le prime due sessioni hanno come oggetto la discussione del concetto di welfare del comune. L’ipotesi di partenza è che il welfare del comune (che va oltre il welfare pubblico e va oltre il workfare) si fondi sui due pilastri principali della garanzia di reddito e dell’accesso ai beni comuni come strumenti per favorire la riappropriazione sociale e la distribuzione più equa della rendita socialmente prodotta. La terza si propone di riflettere sul tema della governance dei beni comuni e di quali strumenti e proposizioni sia necessario attuare per immaginare una gestione degli stessi.

 

Prima sessione:

Analisi del rapporto “comune”, moneta, ricchezza: sabato 3 dicembre: h. 10.30-13.00

 

Presso: Unione femminile nazionale- Corso di Porta Nuova, 32 – Milano (Mezzi pubblici: Metrò – linea verde: Moscova – linea gialla: Turati – Autobus – 43, 94 – Tram – 29, 30, 33, 11, 1, 2 – http://www.unionefemminile.it/raggiungerci.php)

 

Programma:

 

Introduce: Andrea Fumagalli

Relazioni di Michael Hardt e Guy Standing (30 minuti per intervento)

Dibattito con interventi programmati di Marco Silvestri (Il diritto all’insolvenza) e Christian Marazzi (Moneta o reddito come bene comune)

 

Seconda sessione:

Analisi del rapporto “comune” /pubblico, “comune”/famiglia: sabato 3 dicembre, h. 15.00-19.00

 

Presso: Unione femminile nazionale – Corso di Porta Nuova, 32 – Milano (Mezzi pubblici: Metrò – linea verde: Moscova – linea gialla: Turati – Autobus – 43, 94 – Tram – 29, 30, 33, 11, 1, 2 – http://www.unionefemminile.it/raggiungerci.php)

 

Programma

 

Introduce: Cristina Morini

Relazioni di Carlo Vercellone e Montserrat Galceran (30 minuti per intervento)

 

h. 16.30 – h. 17.30

Lavoro di discussione in due workshop distinti sui temi:

 

1.Territorio: esperienze No-Tav  e No-Expo di Milano

2. Trasporto: esperienza del ticket crossing di Genova e delle battaglie sui treni regionali nell’hinterland milanese

3. Casa: esperienze di lotta sulla casa esempio, a Milano. Le forme di riappropriazione nel quartiere San Siro.

4.Esperienze di autogestione dei corsi universitari: riappropriazione del sapere.

5.Lavoro di cura e riproduzione: esperienze di gestione del rapporto “comune” – famiglia

6.Sanità: esperienze di gestione e relazione con i degenti

7.Comunità migranti: nuovi modelli possibili di mutuo soccorso

 

Ore 17.30 -19.00 Relazione sui workshop e dibattito

 

 

Terza sessione:

Analisi del rapporto “comune” /istituzioni: domenica 4 dicembre, h. 10.30 – 13-30.

 

Presso: Circolo Arci Bellezza- Via Bellezza, 16 – Milano (Mezzi pubblici: Autobus 90-91 – Tram – 9, 24. Metrò- linea gialla: Porta Romana)

 

Programma

 

Introduce: Sandro Mezzadra

Relazioni di Ugo Mattei e Toni Negri (30 minuti per intervento)

Dibattito conclusivo

Si ringrazia l’Unione femminile nazionale per il sostegno e la disponibilità degli spazi della sede di Corso Porta Nuova 32 per la giornata di sabato 3 dicembre e L’Arci Bellezza per la giornata di domenica 4 dicembre.

Ex Arcobaleno: “Sgombero? Una follia!”

I devoti di Santa Insolvenza chiedono l’apertura d’un tavolo di trattativa, e rilanciano: un intervento delle fdo “non farebbe finire le ragioni di questo percorso, anzi le rafforzerebbe”. Partita petizione online, 150 firme in poche ore.

14 novembre 2011 – 17:24

“Alla Questura diciamo che ci sembra folle che un’esperienza di questo tipo possa concludersi con uno sgombero, che tra l’altro può diventare violento. Faremo di tutto per scongiurarlo. Al Comune invece diciamo che non è con uno sgombero che si risolvono i problemi che vengono posti da mesi dalle piazze di tutto il mondo. Di certo  anche un eventuale sgombero non farà finire le ragioni di questo spazio, anzi le rafforzerà”, spiega Giulia durante la conferenza stampa indetta oggi dagli occupanti dell’ex cinema Arcobaleno di Piazza Re Enzo, da venerdì “Community Center Santa Insolvenza”

“C’e’ una delibera del Consiglio comunale del 2007 che vincola questo immobile e vieta il cambio di destinazione d’uso – continua Giulia, entrando nello specifico della status dello  spazio – può essere riaperto solo se resta un cinema. Sappiamo che c’è un’idea della Cineteca per acquisirlo e riaprirlo come cinema, ma per un progetto del genere   ci vogliono soldi e quindi finché non ci saranno questo stabile rimarrà vuoto”. Al proprietario “abbiamo chiesto di accordarci su una data d’uscita, fra tre settimane o un mese – prosegue – ma ci ha risposto che ha messo tutto in mano alla Questura ed è per questo che ora chiediamo alla Questura di trattare”. Se dal comune arrivasse la proposta di un altro spazio? Gli occupanti sono disposti a ragionarne, “purché non sia un monolocale al Pilastro, la priorità è far proseguire questa esperienza”.

“Merola dice che abbiamo fatto danni alla città. Vorremmo proprio sapere in che modo – si chiedono i devoti di Santa Insolvenza – per noi invece si danneggia la città chiudendo questa esperienza. I Comuni non hanno piu’ soldi per nulla, qui ci sono 200 persone che gratuitamente e a costo zero fanno vivere un servizio e uno spazio, penso che dovrebbero apprezzare”.

Intanto da stamattina è partita una petizione online che in poche ore ha già superato le 150 adesioni

> Firma la petizione online: di seguito il testo

FIRMA PER DIFENDERE IL COMMUNITY CENTER SANTA INSOLVENZA

Siamo studenti e studentesse, precari e precarie, lavoratori sfruttati, artisti, migranti senza diritti, cassaintegrati, uomini, donne e trans, che venerdì sera sono entrati all’ex cinema Arcobaleno, di Piazza Re Enzo, nel pieno centro di Bologna. Questa occupazione è il risultato di un percorso nato da diverse assemblee in Sala Borsa, aperte e partecipate, continuato con azioni comunicative guidate da Santa Insolvenza, e culminato venerdì sera con un corteo di oltre mille persone, durante la giornata di mobilitazione internazionale dell’11-11-11.

L’ex cinema Arcobaleno, chiuso da cinque anni, è stato riaperto alla città e si è trasformato in una piazza coperta in cui sperimentare la costruzione del comune e nuove pratiche dello stare insieme, capaci di dare risposte concrete alle problematiche quotidiane imposte dalla crisi.

In questi primi 3 giorni il Community Center è stato attraversato da migliaia di persone che hanno dato vita ad assemblee e laboratori di discussione e di proposta su università, nuove pratiche comunicative, diritto all’insolvenza contro il debito delle banche e per un reddito di cittadinanza, e libero accesso a saperi, arte e cultura.

A sole quarantotto ore dalla riapertura, nella sala stracolma dell’ex cinema, è già stato proiettato il primo film, “Old Cinema – Bologna Melodrama”, un documentario di Davide Rizzo che racconta dei vecchi cinema dismessi di Bologna. Altre proiezioni gratuite sono previste per i prossimi giorni.

Ci arriva oggi la notizia che è stato predisposto un ordine di sgombero, decisione che evidenzia ancora una volta l’incapacità del comune e delle istituzioni nel riconoscere il valore di esperienze come questa. Consapevoli che non sarà un eventuale sgombero a fermare le potenzialità e la progettualità politica espresse da questo percorso, chiediamo a tutti e tutte voi di firmare l’appello per sostenere il Community Center Santa Insolvenza.

 

Le apparizioni e i miracoli di Santa Insolvenza

“Santa Insolvenza, piena di rabbia, frega per noi peccatori la ricchezza che noi produciamo ma altri detengono”

Santa Insolvenza non è un’idolo, non è un’icona religiosa. Santa Insolvenza è una guerriera, è l’incarnazione della nostra indignazione.

Santa Insolvenza all’oggi è l’unica protettrice di migliaia di precari e precarie messi in ginocchio dalla violenza di questa crisi.

Santa Insolvenza lotta contro un debito che banche e istituti finanziari hanno contratto.

In questi giorni è apparsa ben due volte: in Stazione Centrale dove ha urlato insieme a tanti e tante “dacci oggi il nostro reddito quotidiano”. In Università, al Recruiting day, dove ha detto no alla precarietà, agli stage e tirocini gratuiti, e sì allo sciopero precario.

“Né buoni, né cattivi” – Intervista di Acrobax al Manifesto

di Eleonora Martini –

ROMA DOPO GLI SCONTRI – Grande discussione tra i partecipanti alla manifestazione.

Polemiche sugli incidenti Né buoni, né cattivi

«L’album di figurine ricostruito da certi media è ridicolo. Gli avvenimenti di sabato rivelano la temperatura sociale del Paese».

Parla un militante di Acrobax, uno dei centri sociali additati come cabina di regia degli scontri Sono stati additati dai media mainstream come la macchina organizzativa degli scontri di sabato scorso a Roma. I militanti del centro sociale romano Acrobax, insieme ai torinesi di Askatasuna e ai padovani del Gramigna, sarebbero secondo un «teorema preordinato» – così lo definiscono – la base logistica e di regia della battaglia che ha trasformato per la prima volta da tempo immemore la piazza di arrivo di una manifestazione in un campo di macerie. «È falso». Un confronto con loro deve partire necessariamente da questo assunto. Non vuole avere un nome, il militante di Acrobax con cui parliamo, «per una scelta politica, non giudiziaria: perché una voce senza nome è più ascoltata di tanti personalismi».

Dunque non siete voi gli artefici degli scontri di sabato?

L’album di figurine ricostruito da certi media è ridicolo. Noi, i militanti del Gramigna, per esempio, non li abbiamo nemmeno mai visti in una riunione. Con gli attivisti No Tav, invece, come con molte altre realtà italiane ed europee della rete degli Stati generali della precarietà abbiamo costruito insieme un percorso di lotta che continueremo a portare avanti. Un percorso condiviso da un movimento amplissimo, internazionale ed europeo, che sulla base dell’appello del 15 ottobre si è riunito a Barcellona per organizzare la resistenza alla politica di austerity dettata dai poteri finanziari globali. Non a caso, eravamo a pieno titolo nello spezzone iniziale del corteo. Ma il punto che sfugge ai più è che uno spezzone sia pur organizzato e militarizzato di rivoltosi non avrebbe avuto la forza di tenere sotto scacco per ore la polizia e trasformare piazza San Giovanni in un campo di battaglia. La resistenza, lì, è stata diffusa, la guerriglia l’hanno fatta migliaia di manifestanti. E noi con loro. Ma è su questo che si deve riflettere: come mai un piccolo gruppo di «violenti» è riuscito a trascinare con sé tanta gente? Chi erano queste persone?

È vero. Chi era in piazza quel giorno ha visto crescere il numero di “arruolati” alla guerriglia nel giro di qualche ora. Dapprima solo un “plotone” di miliziani nero vestiti, poi, a San Giovanni, gruppi non più definibili. Dunque tra di voi non c’era un disegno prestabilito per far saltare la manifestazione degli indignati?

Il comitato 15 ottobre sapeva benissimo che noi non riconoscevamo e contestavamo le loro scelte politiche. Come è avvenuto in tutto il mondo – da New York a Milano – noi volevamo portare la nostra protesta sotto i palazzi del potere. Quando dico «noi» intendo dire le migliaia di persone che hanno partecipato ad un’intera area di corteo. La nostra manifestazione sarebbe dovuta finire altrove, non in piazza San Giovanni. Le nostre azioni erano mirate, politiche. Volevamo sanzionare l’abuso di potere che costruisce zone rosse off-limits. Ma soprattutto mettere in pratica il diritto all’insolvenza, riappropriarci dei beni di consumo, far valere i nostri diritti negati – dalla casa al lavoro, dai saperi alla salute. Su questo tipo di lotte ci mettiamo la faccia e puntiamo alla riproducibilità delle nostre azioni. Non lasceremo soli chi vive sulla propria pelle l’esclusione imposta dalle banche centrali e dalle finanze globali, né li lasceremo alle destre o alla Lega.

Avete raggiunto i vostri obiettivi, sabato scorso?

Non abbiamo risolto il problema ma l’abbiamo reso evidente. Anche se non siamo caduti nella trappola della polizia e non abbiamo forzato il muro costruito a difesa del centro trasformato in zona rossa. E non abbiamo nemmeno paura di dire che certe azioni, come bruciare le auto all’interno del corteo o danneggiare la statua della Madonna, sono stupide e irresponsabili. Ma è stata colpa delle cariche della polizia e del modo di gestire le forze dell’ordine se gli scontri sono finiti proprio dentro la piazza dove il corteo avrebbe dovuto approdare. È davanti ai caroselli impazziti della polizia e alle auto lanciate contro la folla, che i manifestanti si sono uniti ai pochi «violenti», come li chiamate voi, iniziali.

 Abbiamo già raccontato ai lettori del manifesto la strana gestione delle forze di polizia in piazza San Giovanni. Ma insomma, non la firmate voi, quella violenza primaria e impulsiva senza grandi doti comunicative che ha devastato Roma?

Bisogna capire che c’è anche quella, anche se non era affatto nei nostri piani. Dovremmo tutti cercare di leggere i fatti di sabato come un termometro che misura la temperatura sociale di questo Paese.

Ha spiazzato anche voi, dunque?

Noi non facciamo le pulci alle varie anime del movimento, ciascuno sceglie la propria pratica politica. Così come non consideriamo nemici nemmeno coloro che scelgono strade di rappresentanza politica. C’è il massimo rispetto per chi sceglie le rappresentanze sindacali e studentesche. La nostra non è antipolitica, ma la consapevolezza dello svuotamento delle rappresentanze politiche. Certo, però, non saremo il capro espiatorio di un Paese – il cui tasso di disoccupazione giovanile sta al 30-35%, che vive in una dittatura mediatica unica al mondo, in assenza totale di tutele per i lavoratori e con un welfare tradizionale azzoppato dai tagli – nel quale è ovvio che il tappo è ormai saltato. Noi non provochiamo la rivolta ma nemmeno faremo i pompieri: meglio che tutto ciò emerga. A questo punto, o le rappresentanze politiche mostrano uno scatto di responsabilità, cercando di comprendere il senso e di dare delle risposte al conflitto, oppure quello che è successo sabato non è che l’inizio. E non è una minaccia, è una constatazione.

Cosa è cambiato rispetto alla manifestazione del 14 dicembre scorso?

Quello era solo corpo studentesco, sabato scorso invece in piazza c’era il corpo sociale metropolitano e precario. Allora si puntava alla sfiducia del governo e l’opposizione costituita ancora una sorta di rappresentanza politica parlamentare. Oggi le politiche di austerity sono condivise da tutto l’arco parlamentare. Per questo, senza fare alcuna apologia della violenza, diciamo che se il conflitto non trova altri sbocchi, in qualche modo esplode. È chiaro che si vuole instaurare uno stato d’eccezione per poi gestirlo in emergenza.

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20111018/manip2pg/04/manip2pz/311747/

 

Sul sentiero di guerra. Autonomia, indipendenza, territorio

VENERDI’ 7 OTTOBRE 2011 @ LOA Acrobax – via della vasca navale 6

Diretta audio qui

In un mondo che, grazie alla guerra globale permanente e allo Stato d’eccezione fatto norma, si assomiglia sempre di più per gli scenari di conflitto innescati e fomentati ad arte e dall’alto, vogliamo rilanciare un dibattito sulle pratiche comuni di resistenza e autogoverno, ignorando le frontiere che ci hanno imposto.

Vogliamo chiederci se la Val di Susa è poi così distante dalla Selva Lacandona del Chiapas; se il moltiplicarsi dei comitati dei NO risponde a un’esigenza così diversa dall’autorganizzazione indigena contro i mega-progetti imposti dal FMI; se un’assemblea di valligiani o quella di uno spazio occupato hanno una dinamica diversa da quella di un villaggio maya; se le lavoratrici sessuali sui marciapiedi delle metropoli, i migranti sui tetti dei treni o sui barconi e i contadini curvi su campi deserti sono un’altra faccia di una precarizzazione globale.

Vogliamo interrogarci sulle pratiche di liberazione e resistenza in quei territori minacciati qui da un TAV o da una discarica, li’ da una diga o un’autostrada, ma ovunque uniti da un nemico devastante, il capitalismo, e da un’energia comune, la ribellione della gente.

Gli zapatisti ci ricordano che la quarta guerra mondiale è esplosa: il neoliberismo contro l’umanità, quella che custodiamo difendendo i territori, ossia la vita. Emergiamo da tante battaglie che vogliamo mettere a confronto, certi che alcuni sentieri sono gli stessi o sono percorribili a braccietto anche a migliaia di chilometri di distanza.

Il collettivo Nodo Solidale, il LOA Acrobax, con la partecipazione di alcun* compagn* del NOTAV e di Terzigno (o di Acqua Bene Comune) invitano a un dibattito su:

Autonomia, Indipendenza, Territorio: pratiche di lotta e di autogoverno a confronto.

 

A seguire:

 

Presentazione del video “Tessendo Autonomia – progetti in Messico 1.0”

Uno sguardo sul Messico che lotta, raccontato attraverso i progetti della PIRATA. Scorrono le immagini e le parole delle comunità indigene di Oaxaca, dello zapatismo, delle lavoratrici sessuali autorganizzate di Città del Messico. Pezzi di autonomia reale.

Presentazione del libretto “L’Altra Campagna e la lotta di classe delle lavoratrici sessuali in Messico”

L’analisi di fase e le prospettive rivoluzionarie di un collettivo di promotrici di salute e di lavoratrici sessuali, la Brigata di Strada, che si considerano come parte attiva della classe operaia messicana. Un approfondimento politico sulle influenze dello zapatismo nella metropoli e sul superamento della dicotomia “legalizzare o abolire” la prostituzione, a favore dell’autodeterminazione delle lavoratrici sessuali. Tradotto e curato dalla PIRATA

*La PIRATA è la Piattaforma Internazionalista per la Resistenza e l’Autogestione Tessendo Autonomia. E’ una rete di solidarietà dal basso, antifascista, autogestita e non sovvenzionata da istituzioni governative o dai partiti. E’ una cooperazione politica internazionalista creatasi con tre gruppi libertari che, fra altre attività, sono parte attiva nei processi di liberazione in Messico: il collettivo Nodo Solidale, il Collettivo Zapatista di Lugano “Marisol”, il gruppo Nomads dell’Xm24.