Crisi, conflitto, democrazia

img6594Le violente cariche di Mercoledì scorso 10 Febbraio 2010 davanti alla Prefettura di Roma hanno rappresentato l’ennesimo, gravissimo episodio di violenza poliziesca ed istituzionale. Di fronte alle cariche gratuite e ad un accanimento che ci ricorda le pagine buie di Genova 2001, nessuno può tacere. In gioco c’è la difesa delle legittime resistenze alla crisi e con esse degli spazi collettivi di agibilità democratica. Il rischio è che prevalga l’idea che dall’emergenza si esca con la sospensione dei diritti, la limitazione delle tutele, delle manifestazioni, del dissenso. Che la vera risposta alla crisi diventi la crisi della democrazia: un rapido declino verso l’autoritarismo e lo stato di polizia.

Il crescente numero di posti di lavoro a rischio, la crisi dei redditi, la devastante precarietà abitativa e sociale, la costante perdita di diritti in sempre più larghi settori di società, i meccanismi securitari e di controllo che indicano nel diverso e nel migrante le minacce da combattere, disegnano il panorama di una crisi profonda, di una caduta libera che sta trasformando il volto stesso del nostro paese. La risposta governativa alla crisi è il sostegno incondizionato a coloro che l’hanno generata, banche e grandi imprese, senza adeguati interventi a difesa dei posti di lavoro, misure reali per la garanzia dell’occupazione, dei redditi, del diritto alla casa. In un contesto in cui il tasso di disoccupazione supera ormai l’8.5% , dato sottostimato per via della casse integrazioni che ancora contengono il bacino della disoccupazione senza le quali avrebbe già superato il 10%, l’Italia e la Grecia, sono gli unici due paesi in Europa a non avere nessuna forma di protezione sociale e redistribuzione di  reddito per i disoccupati e i precari.

Una sudditanza istituzionale e politica verso i poteri forti e il loro denaro, mascherata con la giustificazione delle insufficienti risorse pubbliche, che continua a svuotare le tasche di tante donne e tanti uomini che provano a sopravvivere ai licenziamenti, alla cassa integrazione, al lavoro interinale, agli sfratti, allo sfruttamento e alle deportazioni.
L’assenza di risposte e provvedimenti reali, genera fenomeni di resistenza diffusa, lotte, spinge chi è costretto a sopportare condizioni di vita sempre più difficili e precarie ad organizzarsi, ad unirsi per reclamare una via d’uscita alla crisi, per riconquistare diritti.
Vite che non accettano di essere sacrificate sull’altare del mercato, che vogliono rimanere aggrappate al presente per immaginare ancora un futuro diverso e migliore. Storie a cui si risponde sempre più spesso con l’uso della forza pubblica, con l’oscuramento e la repressione.

Martedì 16 febbraio 2010
Ore 17.00
presso la Provincia di Roma (Palazzo Valentini – Sala della Pace – via IV Novembre)
ASSEMBLEA PUBBLICA

Hanno già dato la propria disponibilità a partecipare:

Luigi Nieri (Assessore Regione Lazio), Pancio Pardi (Palramentare), Massimo Rendina (ANPI), Ivano Peduzzi (Consigliere Regionale), Gianluca Peciola (Consigliere Provinciale), Massimiliano Smeriglio (Assessore Provincia di Roma),

Promuovono:
Lavoratori Eutelia, Precari Ispra, Lavoratori Italtel, Autoconvocati Sirti, Cassintegrati Alitalia, Lavoratori Telecom, Coordinamento Precari della Scuola, Comitati per il Reddito, Movimenti per il Diritto all’Abitare , Rete Romana Contro la Crisi

Contro la crisi, siamo tutti sullo stesso tetto!

Contro la crisi,
siamo tutti sullo stesso tetto!
Il 10 febbraio 2010 in Prefettura si affronterà il tema del lavoro. Lo faranno gli enti locali, il governo e parti sociali individuate per l’occasione. Come dire: un tavolo non si nega a nessuno. Ne sono stati fatti sull’emergenza abitativa, sull’immigrazione, sulla sicurezza e ora anche sul lavoro. In questo quadro il sindaco ha sparato le sue cifre: 100mila posti di lavoro, ripetendo un proclama che suonava pressappoco così alla vigilia della sua elezione, 40mila casa popolari. Nello stesso tempo Alemanno non ha detto una parola in difesa dei lavoratori delle aziende in crisi.
Le parole non si sono tramutate in fatti e temiamo che anche sul tema lavoro si andrà nella stessa direzione. Demagogia tanta concretezza zero.
Non sappiamo cosa diranno le parti sociali che siederanno al tavolo e per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutta la città che soffre la crisi a farlo.
Alle 15 di mercoledì 10 febbraio saremo in piazza SS Apostoli con gli inquilini resistenti, con i precari, con i disoccupati, con i cassaintegrati, con gli sfrattati, con chi non arriva a fine mese, con chi non ha un reddito, con i lavoratori in lotta dell’Eutelia e di altre decine di aziende che minacciano licenziamenti.
Roma contro la crisi e dentro la crisi deve diventare visibile e rompere con l’idea di città che ci vogliono propinare, dove la strada maestra immaginata dalla rendita ci condanna all’emergenza permanente e alla cementificazione selvaggia, dove l’unica prospettiva di lavoro è legata ad un pacchetto edilizio e ad eventuali possibilità occupazionali legate ad esso. In una città che sta subendo un aumento esponenziale della cassa integrazione ordinaria e straordinaria oltre che della disoccupazione non abbiamo bisogno di proclami elettorali in vista delle prossime regionali.
Non ci stiamo! Invitiamo tutti e tutte a mobilitarci per sostenere le proposte dei movimenti e delle reti sociali in lotta. Insieme con i migranti impegnati con i cittadini e le cittadine italiani/e in una battaglia senza precedenti contro il razzismo e la xenofobia, rivendicando diritti primari continuamente negati.
Se la città è di chi la abita, è arrivato il momento che questa voce inascoltata prevalga su quella dei costruttori, delle banche, degli speculatori come Bonifaci, Caltagirone, Santarelli, Toti, Mezzaroma. Gli amministratori devono segnare un significativo cambio di passo nella tutela della città come “bene comune” e nella difesa della qualità della vita nella sua interezza.
Saremo in piazza per rivendicare un reale piano anticrisi che passi attraverso la difesa, qui ed ora, dei posti di lavoro; la realizzazione di un piano straordinario di case popolari; un finanziamento adeguato alla legge regionale per il reddito che permetta di coprire le 120mila domande depositate e garantire a tutti i disoccupati e precari oltre all’erogazione monetaria anche il reddito indiretto (casa, trasporti, tariffe e formazione) previsti dalla legge.
Saremo in piazza con i migranti deportati e costretti alla fuga da Rosarno, abbandonati dalle istituzioni per le strade di Roma, per chiedere la realizzazione di un piano straordinario di accoglienza.
La mobilitazione del 10 febbraio deve diventare il punto di partenza verso una mobilitazione nazionale, che imponga al Governo misure economiche e di welfare mirate su chi paga la crisi e non più a sostegno delle banche e delle imprese.
Mercoledì 10 febbraio 2010
Dalle ore 15.00
Piazza SS Apostoli sotto la Prefettura
MANIFESTAZIONE
Prime adesioni: Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Precari ISPRA, Lavoratori Italtel, Movimenti per il diritto all’abitare, cassintegrati Alitalia, autoconvocati Sirti, lavoratori telecom, Coordinamento Precari Scuola, Comitati per il RedditoContro la crisi,
siamo tutti sullo stesso tetto!
Il 10 febbraio 2010 in Prefettura si affronterà il tema del lavoro. Lo faranno gli enti locali, il governo e parti sociali individuate per l’occasione. Come dire: un tavolo non si nega a nessuno. Ne sono stati fatti sull’emergenza abitativa, sull’immigrazione, sulla sicurezza e ora anche sul lavoro. In questo quadro il sindaco ha sparato le sue cifre: 100mila posti di lavoro, ripetendo un proclama che suonava pressappoco così alla vigilia della sua elezione, 40mila casa popolari. Nello stesso tempo Alemanno non ha detto una parola in difesa dei lavoratori delle aziende in crisi.
Le parole non si sono tramutate in fatti e temiamo che anche sul tema lavoro si andrà nella stessa direzione. Demagogia tanta concretezza zero.
Non sappiamo cosa diranno le parti sociali che siederanno al tavolo e per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutta la città che soffre la crisi a farlo.
Alle 15 di mercoledì 10 febbraio saremo in piazza SS Apostoli con gli inquilini resistenti, con i precari, con i disoccupati, con i cassaintegrati, con gli sfrattati, con chi non arriva a fine mese, con chi non ha un reddito, con i lavoratori in lotta dell’Eutelia e di altre decine di aziende che minacciano licenziamenti.
Roma contro la crisi e dentro la crisi deve diventare visibile e rompere con l’idea di città che ci vogliono propinare, dove la strada maestra immaginata dalla rendita ci condanna all’emergenza permanente e alla cementificazione selvaggia, dove l’unica prospettiva di lavoro è legata ad un pacchetto edilizio e ad eventuali possibilità occupazionali legate ad esso. In una città che sta subendo un aumento esponenziale della cassa integrazione ordinaria e straordinaria oltre che della disoccupazione non abbiamo bisogno di proclami elettorali in vista delle prossime regionali.
Non ci stiamo! Invitiamo tutti e tutte a mobilitarci per sostenere le proposte dei movimenti e delle reti sociali in lotta. Insieme con i migranti impegnati con i cittadini e le cittadine italiani/e in una battaglia senza precedenti contro il razzismo e la xenofobia, rivendicando diritti primari continuamente negati.
Se la città è di chi la abita, è arrivato il momento che questa voce inascoltata prevalga su quella dei costruttori, delle banche, degli speculatori come Bonifaci, Caltagirone, Santarelli, Toti, Mezzaroma. Gli amministratori devono segnare un significativo cambio di passo nella tutela della città come “bene comune” e nella difesa della qualità della vita nella sua interezza.
Saremo in piazza per rivendicare un reale piano anticrisi che passi attraverso la difesa, qui ed ora, dei posti di lavoro; la realizzazione di un piano straordinario di case popolari; un finanziamento adeguato alla legge regionale per il reddito che permetta di coprire le 120mila domande depositate e garantire a tutti i disoccupati e precari oltre all’erogazione monetaria anche il reddito indiretto (casa, trasporti, tariffe e formazione) previsti dalla legge.
Saremo in piazza con i migranti deportati e costretti alla fuga da Rosarno, abbandonati dalle istituzioni per le strade di Roma, per chiedere la realizzazione di un piano straordinario di accoglienza.
La mobilitazione del 10 febbraio deve diventare il punto di partenza verso una mobilitazione nazionale, che imponga al Governo misure economiche e di welfare mirate su chi paga la crisi e non più a sostegno delle banche e delle imprese.
Mercoledì 10 febbraio 2010
Dalle ore 15.00
Piazza SS Apostoli sotto la Prefettura
MANIFESTAZIONE
Prime adesioni: Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Precari ISPRA, Lavoratori Italtel, Movimenti per il diritto all’abitare, cassintegrati Alitalia, autoconvocati Sirti, lavoratori telecom, Coordinamento Precari Scuola, Comitati per il Reddito
tettoIl 10 febbraio 2010 in Prefettura si affronterà il tema del lavoro. Lo faranno gli enti locali, il governo e parti sociali individuate per l’occasione. Come dire: un tavolo non si nega a nessuno. Ne sono stati fatti sull’emergenza abitativa, sull’immigrazione, sulla sicurezza e ora anche sul lavoro. In questo quadro il sindaco ha sparato le sue cifre: 100mila posti di lavoro, ripetendo un proclama che suonava pressappoco così alla vigilia della sua elezione, 40mila casa popolari. Nello stesso tempo Alemanno non ha detto una parola in difesa dei lavoratori delle aziende in crisi.
Le parole non si sono tramutate in fatti e temiamo che anche sul tema lavoro si andrà nella stessa direzione. Demagogia tanta concretezza zero.
Non sappiamo cosa diranno le parti sociali che siederanno al tavolo e per questo abbiamo deciso di mobilitarci e invitiamo tutta la città che soffre la crisi a farlo.
Alle 15 di mercoledì 10 febbraio saremo in piazza SS Apostoli con gli inquilini resistenti, con i precari, con i disoccupati, con i cassaintegrati, con gli sfrattati, con chi non arriva a fine mese, con chi non ha un reddito, con i lavoratori in lotta dell’Eutelia e di altre decine di aziende che minacciano licenziamenti.
Roma contro la crisi e dentro la crisi deve diventare visibile e rompere con l’idea di città che ci vogliono propinare, dove la strada maestra immaginata dalla rendita ci condanna all’emergenza permanente e alla cementificazione selvaggia, dove l’unica prospettiva di lavoro è legata ad un pacchetto edilizio e ad eventuali possibilità occupazionali legate ad esso. In una città che sta subendo un aumento esponenziale della cassa integrazione ordinaria e straordinaria oltre che della disoccupazione non abbiamo bisogno di proclami elettorali in vista delle prossime regionali.
Non ci stiamo! Invitiamo tutti e tutte a mobilitarci per sostenere le proposte dei movimenti e delle reti sociali in lotta. Insieme con i migranti impegnati con i cittadini e le cittadine italiani/e in una battaglia senza precedenti contro il razzismo e la xenofobia, rivendicando diritti primari continuamente negati.
Se la città è di chi la abita, è arrivato il momento che questa voce inascoltata prevalga su quella dei costruttori, delle banche, degli speculatori come Bonifaci, Caltagirone, Santarelli, Toti, Mezzaroma. Gli amministratori devono segnare un significativo cambio di passo nella tutela della città come “bene comune” e nella difesa della qualità della vita nella sua interezza.
Saremo in piazza per rivendicare un reale piano anticrisi che passi attraverso la difesa, qui ed ora, dei posti di lavoro; la realizzazione di un piano straordinario di case popolari; un finanziamento adeguato alla legge regionale per il reddito che permetta di coprire le 120mila domande depositate e garantire a tutti i disoccupati e precari oltre all’erogazione monetaria anche il reddito indiretto (casa, trasporti, tariffe e formazione) previsti dalla legge.
Saremo in piazza con i migranti deportati e costretti alla fuga da Rosarno, abbandonati dalle istituzioni per le strade di Roma, per chiedere la realizzazione di un piano straordinario di accoglienza.
La mobilitazione del 10 febbraio deve diventare il punto di partenza verso una mobilitazione nazionale, che imponga al Governo misure economiche e di welfare mirate su chi paga la crisi e non più a sostegno delle banche e delle imprese.
[embedit BmeyFZcEwC 466 400]
Mercoledì 10 febbraio 2010
Dalle ore 15.00
Piazza SS Apostoli sotto la Prefettura
MANIFESTAZIONE

Prime adesioni: Rete Romana Contro la Crisi, Lavoratori Eutelia, Precari ISPRA, Lavoratori Italtel, Movimenti per il diritto all’abitare, cassintegrati Alitalia, autoconvocati Sirti, lavoratori telecom, Coordinamento Precari Scuola, Comitati per il Reddito

Reddito minimo garantito

di LUCIANO GALLINO

Ascolta audio di Gallino su reddito minimo garantito

reddSul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Reddito base e disoccupazione

LUCIANO GALLINO

Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Reddito base e disoccupazione

LUCIANO GALLINO

Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009

Reddito base e disoccupazione

LUCIANO GALLINO

Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare.

Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

Dinanzi a un tale scenario, che riguarda milioni di persone, la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parla equivale a proporre a un malato il cui stato si aggrava giorno per giorno di prendere un’aspirina in più. Quale sistema di sostegno al reddito detti ammortizzatori, concepiti quarant’anni fa, appaiono oggi del tutto inadeguati. Occorre sostituirli con un sistema completamente diverso, capace di generare effetti benefici in diversi ambiti della vita sociale che il sistema in vigore non sfiora nemmeno. Un sistema di sostegno al reddito che dopo una lunga eclissi sta riprendendo posto nell’agenda politica di diversi paesi, dal Brasile alla Germania, è il reddito base, denominazione internazionale che si è ormai affermata in luogo di “reddito garantito”, “reddito di cittadinanza” e altri.
In sintesi l’idea di reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato.
Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo stato o un ente locale o altra “comunità politica” al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se sia povero o no, se possa dimostrare – quando sia disoccupato – di cercare attivamente lavoro, e nemmeno se lavori o no. Nel caso in cui lavori il reddito base si aggiungerebbe al salario, ma la somma dei due comporterebbe ovviamente un maggior onere fiscale, o l’impegno a svolgere un certo numero di ore di volontariato. Uno dei benefici del reddito base incondizionato, su cui insistono spesso i suoi proponenti, va visto nella libertà che conferisce alla persona disoccupata di cercare a lungo un lavoro, senza doverne accettare per disperazione uno con una paga da fame e al disotto del proprio titolo di studio. Questo è anche un vantaggio per l’economia in generale. Infatti il laureato in fisica che in mancanza di meglio fa il bagnino, o la biologa che lavora da commessa in un outlet, rappresentano un investimento di decine di migliaia di euro in  formazione gettato al vento.
Ma soprattutto il reddito base viene visto come un mezzo efficace per combattere insieme sia la povertà, sia il più insidioso nemico della stabilità e della democrazia nelle società contemporanee: l’insicurezza socio-economica.

In realtà l’idea di reddito base ha più di due secoli. È stata proposta tra i primi da Thomas Paine, lo scrittore politico inglese trasferitosi in America, in un saggio del 1795. È comparsa e scomparsa ripetutamente nel dibattito interno dei partiti di sinistra europei per tutto il Novecento.
In Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto in cui raccomandava di sostituire gran parte delle leggi
anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. Non si trattava propriamente di un reddito base
incondizionato, poiché era subordinato al bisogno economico. Tuttavia gli argomenti della commissione, a partire da quello per cui non si possono
dividere i poveri tra coloro che vogliono lavorare e coloro che non lo vogliono, erano assai prossimi a quelli che da sempre adducono i fautori del reddito base. La legge sul reddito garantito venne bocciata al Senato per pochi voti, dopo essere stata approvata dalla Camera. In Francia ampie discussioni hanno sollevato dagli anni 80 in poi le proposte di André Gorz, dal “reddito sociale garantito” sino all’ultima di un “reddito incondizionato d’esistenza”. Ma è nell’ultimo decennio che si sono moltiplicati, in tema di basic income, i testi dovuti a studiosi di differenti paesi e istituzioni. In primo piano quelli pubblicati da dirigenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel cui consiglio siedono, va ricordato, i rappresentanti di governi, imprenditori e sindacati.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del reddito base, che due studiosi ispanici hanno compendiato di recente in una battuta: il reddito base va bene durante il boom, ma diventa essenziale con la crisi. Soprattutto ha tolto peso a molti argomenti contro, pur non facendoli sicuramente scomparire. Essa mostra che di tale forma di sostegno al reddito esistono molti modelli diversi, alcuni proposti in passato addirittura da economisti liberali come Milton Friedman, Fredrich Hayek, Herbert Simon; altri invece più vicini al pensiero socialista in tema di sicurezza socio-economica. Le ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso – quando il suo ammontare sia congruo – favorisce l’offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore – da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità – che costano comunque miliardi l’anno. Infine nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base come fosse un nuovo articolo del codice della strada. Occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Soprattutto occorrerebbe un’ampia discussione in sede politica.

In Germania un simile compito lo sta svolgendo Die Linke, il partito nato da pochi anni a sinistra dello Spd che ha conseguito un notevole successo alle ultime amministrative. Die Linke ha fondato una comunità federale di lavoro sul tema del reddito base incondizionato che conta migliaia di aderenti, e lo ha inserito a pieno titolo nel programma per le prossime elezioni politiche. La 2a settimana del reddito base (14-20 settembre 2009), che essa appoggia, ha riscosso il consenso di 223 organizzazioni non governative, comprese alcune svizzere e austriache. Da noi, ad onta del meritorio impegno del Basic Income Network Italia, nato da vari anni, la discussione è circoscritta a pochi addetti ai lavori. Se quel che resta dei partiti di sinistra, o del centro-sinistra, volessero proporre ai propri elettori di discutere di qualche autentica riforma, l’idea di reddito base come forma di sostegno al reddito resa necessaria dalla crisi e dalla moltiplicazione delle persone che diventano economicamente superflue, potrebbe essere un buon candidato.

la Repubblica 16 settembre 2009