Dall’assemblea alla Sapienza assediamo l’austerity!

Sabato 28 settembre alla La Sapienza si è svolta la prima assemblea nazionale in avvicinamento alla sollevazione generale del 19 Ottobre. L’aula 1 della facoltà di lettere ha ospitato più di trecento persone che hanno ascoltato e sono intervenute nel merito non solo della giornata di mobilitazione chiamata dall’Assemblea “Dalla valle alla metropoli” ma di tutto l’autunno e oltre.

Gli interventi iniziali sono stati quelli delle lotte sociali che hanno animato questo paese in questi ultimi anni a partire da Abitare nella crisi che ha lanciato per la prima volta la data di mobilitazione del 19 Ottobre. I movimenti per il diritto all’abitare hanno ribadito la necessità di una sollevazione generale in questo paese di fronte a una crisi economica e politica che viene utilizzata come alibi per proseguire con la cancellazione di ogni intervento pubblico, con la privatizzazione del patrimonio e di interi pezzi di città a vantaggio della rendita. L’unica risposta credibile alle migliaia di sfratti per morosità è la riappropriazione collettiva dell’enorme numero di case sfitte. L’assedio permanente dei movimenti al ministero dell’economia e delle infrastrutture, quindi,  porta con se anche la rivendicazione – irrinuciabile – del blocco generalizzato degli sfratti e degli sgomberi, di un piano straordinario di edilizia residenziale pubblica, della requisizione del patrimonio inutilizzato e sfitto.Anche la questione delle risorse è centrale: miliardi di euro vengono destinati a grandi opere e grandi eventi, alle banche e ai signori del cemento, mentre poche briciole vengono riservate a strumenti di tutela sempre più inutili e comunque sempre premiali verso le grandi proprietà immobiliari o le consorterie delle cooperative di costruzione.
Anche i No Muos hanno partecipato all’assemblea di ieri ricordando che contemporaneamente si stava svolgendo a Palermo la prima manifestazione nazionale contro il Muos. Infatti in Sicilia è già partito l’assedio ai palazzi, migliaia di persone hanno partecipato alla sollevazione generale contro la regione Sicilia, Crocetta e tutti i responsabili delle speculazioni sul territorio e sulla vita delle persone che lo abitano.
A seguire, il movimento No Tav, ha espresso l’importanza di scendere in piazza il 19 perchè le mobilitazioni contro il Tav tanto quelle contro l’austerity coincidono e se la valle ha avuto la capacità di far sentire la propria protesta come una causa di tutti, durante questo autunno è necessario che la piazza del 19 sia considerata la piazza dei no Tav, come degli studenti, come dei precari, dei no muos dei facchini della logistica e di tutti coloro che rifiutano questa austerity.
Il movimento no Tav rappresenta una delle più importanti espressioni di resistenza nel nostro paese agli attacchi di una classe politica impunita che ogni giorno affama e devasta i nostri territori. In questi giorni sta subendo dei duri attacchi mediatici nel tentativo di impaurire il movimento e di depotenziare le giornate autunnali.
L’unico terrorista è esclusivamente chi per i propri interessi impone la costruzione di grandi opere nocive per il territorio togliendo alle scuole, agli ospedali, alle case popolari quei soldi che andranno direttamente a finire nelle tasche delle ditte edili e di tutti coloro che trarranno profitto da un’opera inutile come il Tav. D’altronde la manifestazione indetta per il prossimo 19 ottobre ribadisce che l’unica grande opera che ci interessa e casa è reddito per tutt*!
Quello stesso reddito che viene sottratto ai precari, agli studenti e a tutto il soggetto giovanile che forse sconta più di tutti le conseguenze di questi anni di ristrutturazione di un modello economico, quello capitalista, e di un regime politico, quello democratico liberale. Quegli stessi giovani che ieri sono stati particolarmente presenti all’interno dell’assemblea: gli studenti de La Sapienza, di Napoli, di Bologna e tutti gli studenti che in questi ultimi anni hanno dato vita all’occupazione in tutta Italia di decine di studentati parteciperanno alla giornata del 19 cominciando già dalle prossime settimane la mobilitazione all’interno degli Atenei, ed assumendo la giornata del 15 Ottobre come data di avvicinamento da praticare in vari modi all’interno e ai margini dell’università. Difatti nonostante i tagli già imposti nel passato quest’anno ulteriori tagli alla ricerca sono stati prodotti per destinarli a nuovi armamenti a causa di possibili scenari di guerra. Allo stesso modo la tassa sugli affitti, la Service Tax, va a ricadere ancora sugli studenti che per motivi economici non si iscrivono più all’università provocando un calo delle iscrizioni vertiginoso. Anche gli studenti delle scuole superiori hanno ribadito la loro partecipazione al 19 ricordando che il loro assedio all’austerità inizierà già dal 4 Ottobre, giornata in cui tutte le scuole nelle varie città del paese scenderanno in piazza per riappropriarsi delle strade e per prendere parola contro la corrotta casta di politici e banchieri.
Interessante anche il contributo della lotta dei lavoratori della logistica che hanno dimostrato la capacità di restituire alla lotta nei posti di lavoro una dignità nuova che racconta non solo di rivendicazioni e vertenze ottenute grazie all’unità dei facchini ma ad una solidarietà reale che oltrepassa i confini del singolo magazzino e della città ma parla a tutti i lavoratori e a tutti i settori in in mobilitazione. Il 27 infatti gli stessi facchini hanno appoggiato i picchetti alla fiat di Pomigliano e hanno partecipato alla manifestazione che si è svolta sempre nella giornata di ieri a Napoli.
Non per ultimi i rifugiati che parteciperanno alla costruzione del 19, attraverso il loro intervento, hanno sottolineato l’importanza della mobilitazione del 19 per tutti i migranti che a causa dei conflitti armati sono costretti ad andare via dalla loro terra e a cui anche nei territori di arrivo non vengono garantiti quei diritti che troppo spesso gli sono stati negati nei paesi dai quali provengono. Stanchi di essere invisibili hanno deciso anche loro di scendere in piazza ed alzare la testa.
I sindacati di base, invece saranno presenti già dal giorno prima in piazza con l’indizione di uno sciopero generale e di una manifestazione che terminerà proprio a piazza San Giovanni da dove partirà la manifestazione del 19 alle ore 14.30. I sindacati hanno invitato i lavoratori ad assediare la piazza fino al giorno dopo partecipando ad entrambe le giornate di mobilitazione e di lotta comune.

L’assemblea ha visto la partecipazione di tante realtà nazionali e soprattutto di tante lotte sociali che porteranno nella piazza del 19 una molteplicità di specificità, consapevoli del fatto che c’è un’unica origine ai problemi che viviamo e risiede nei palazzi che il 19 andremo ad assediare. Siamo consapevoli che il 19 Ottobre non sarà la fine, ma certamente neppure l’inizio di questo lungo autunno di lotte. Attraverseremo infatti la giornata del 4 Ottobre, al fianco degli studenti medi di tutta Italia che in questa giornata scenderanno in piazza. Passeremo poi per le mobilitazioni diffuse del 12 Ottobre in difesa dei territori e dei beni comuni. Daremo poi vita con gli studenti universitari ed ai giovani della maggior parte delle città italiane ad un 15 Ottobre di lotta in connessione con le realtà transnazionali. Insieme poi ci ritroveremo in piazza, quella del 19 sarà una piazza che non accetterà mediazioni sulle proprie vite che non accetterà altre bugie e nuovi governi pronti a gestire la perenne emergenza. Vogliamo praticare una rottura manifesta con questo sistema economico, con questa classe politica, con questo governo. Vogliamo assediare i palazzi del potere per esprimere questo rifiuto e tornare nei nostri territori per dargli continuità. L’assemblea del 28 non ha voluto mettere d’accordo tutti, ha individuato i responsabili di questo stato di cose, ha individuato ciò che deve essere allontanato per permetterci la costruzione di un presente ed un futuro radicalmente diversi e migliori. E allora buona costruzione di un autunno di lotta verso il 19 e oltre a tutti, ci vediamo nelle strade!

Reddito garantito e contropotere nella crisi – Dibattito nel movimento

 

Il 2013 è giunto al suo autunno, il sesto anno da quando formalmente è dato l’inizio della crisi economica che attraversa il sistema finanziario e le politiche economiche dell’occidente euro-atlantico, che ha travolto regimi trentennali e ridefinito le geografie della ricchezza globale. In Italia questa crisi, nella sua materializzazione come crisi di produttività e dei consumi si è sovrapposta, radicalizzandolo, ad un processo di frammentazione del mercato del lavoro che ha assunto ormai caratteristiche strutturali. La traduzione, ormai sotto gli occhi di tutti è dequalificazione, disoccupazione generalizzata, marginalizzazione, impoverimento. Il ruolo storico del sindacato viene sfibrato dalla progressiva scomparsa di un soggetto stabile non solo contrattualmente, ma nella sua disponibilità alla conflittualità a tutto tondo nell’ambito dei diritti sociali: da parte loro, le organizzazioni sindacali hanno ratificato questa condizione candidandosi a gestire le briciole del sistema degli ammortizzatori sociali con insostenibile arrendevolezza.

I movimenti sociali sono dunque chiamati a riprendere l’iniziativa dentro il quadro di una  rappresentanza svuotata di valore formale al di là del basso compito di gestire poche e maldistribuite risorse secondo le indicazioni della Troijka e del mercato. A noi spetta far emergere rivendicazioni e strumenti per l’esplosione di quelle soggettività ancora in divenire, apparentemente ancora in bilico tra tensione conflittuale e regressione conservatrice. Partiamo da un’articolazione di lungo periodo, per quanto discontinua, della rivendicazione di reddito garantito come leva di energie liberatrici verso un nuovo modo di intendere i rapporti tra le persone e il loro tempo di vita, nel pieno riconoscimento della loro capacità di autodeterminazione contro il ricatto della precarietà e l’apologia restauratrice del lavoro, anche quando nocivo, dequalificato, malpagato.

Ripartiamo da qui:

 

Conflitti metropolitani contro la precarietà. Reddito, riappropriazione, futuro!

Verso ed oltre l’autunno>Venerdì 11 Ottobre Roma ore 17,30

 

L’egemonia del biopotere finanziario non ha perimetri formali, né spaziali né temporali è dentro ogni sfera produttiva e riproduttiva della vita, dei territori del welfare dei beni comuni, ormai è strutturalmente legata a doppio filo alle forme dell’odierna valorizzazione capitalistica. Accumulazione e valorizzazione che possiedono come solido prerequisito quello della precarizzazione della forza lavoro e del controllo politico sulla nuova composizione sociale, controllo sui corpi, sulle aspettative, affetti, sui bisogni e sulla loro autodeterminazione. Controllo politico sulla produzione e riproduzione di soggettività, delle forme di vita incarnate nella precarietà in un processo strutturale di impoverimento complessivo del paese e delle condizione reali di milioni di persone, nel loro progressivo indebitamento.

Qui comincia lo scollamento, la divaricazione tra la crisi economica e la crisi della rappresentanza politica, tra la costituzione formale e quella materiale, dentro il controllo politico della moneta, della sua emissione e circolazione e nel controllo sociale delle soggettività precarie e indebitate sulla cui produzione di ricchezza comune si basa il fondamento dell’espropriazione sistematicamente orchestrata dalla rendita finanziaria.

Le decennali trasformazioni nella produzione e nel lavoro, l’impatto epocale delle tecnologie sul processo di accumulazione, l’aumento esponenziale del lavoro autonomo escluso da qualsiasi protezione sociale sono evidenti e sotto gli occhi di tutti. La crisi ha accentuato le dinamiche di “frammentazione del lavoro”, della sua forma giuridica come individualizzazione dei  rapporti di lavoro – si pensi alla “balcanizzazione contrattuale” presente nella normativa italiana – ma anche delle conseguenti e molteplici narrazioni soggettive, la cui linearità risulta infatti frantumata, apparentemente non ricomponibile. Ma la crisi ha agito anche come un dispositivo di “livellamento verso il basso”, (facendo regredire le garanzie sociali e i diritti acquisiti nel novecento), seppur con un intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. I processi di precarizzazione coinvolgono anche chi vive una situazione lavorativa stabile e garantita, comunque incerta in quanto potenzialmente instabile a seguito di un processo di ristrutturazione, delocalizzazione o anche chiusura delle attività produttive. Indicativi in questo senso sono i dati che indicano la durata media dei contratti a tempi indeterminato (2 anni) e l’aumento dei working poor, lavoratori che seppur in condizioni stabili a livello contrattuale, vivono intrappolati nella povertà ed in situazioni di vulnerabilità economica a causa dei bassi salari, scarsa qualità del lavoro e frequenti discontinuità.

In un mercato del lavoro completamente precarizzato il governo dei comportamenti si esercita attraverso la costante insicurezza. Le forme della frammentazione e della scomposizione del lavoro producono conseguenze sulle soggettività precarizzate nella capacità di riconquistare tempo di vita, tempo liberato. Il tempo diviene la vera moneta della contemporaneità. Intrappolati in un eterno presente in questo orizzonte temporale compresso, bisogna ri-significare e ri-modulare continuamente i progetti di vita.

Lo andiamo sostenendo da anni e solo la peggior retorica della sinistra politica e sindacale continua a difendere l’incondizionato e generico sussulto per il lavoro, l’occupazione ad ogni costo con conseguenze ambientali e sociali devastanti, invocazioni retoriche e senza strategia di fantomatici piani industriali, vecchi e datati, dando sempre più forza al ricatto che lega il diritto al reddito, al lavoro precario, al suo salario impoverito, e alle sue molteplici nocività, alle inutili grandi opere come il TAV.

Nella crisi delle forme della rappresentanza sociale e politica il nuovo ruolo che si è dato il  sindacato, esaurita consapevolmente da decenni la mission della difesa dei diritti, si caratterizza sempre più esclusivamente nella concertazione e co-gestione degli ammortizzatori sociali ordinari ed in deroga (ormai diventati la norma), una vera e propria filiera di burocrazie di servizio (sindacati, agenzie tecniche della PA, enti formativi) utilizzate dalla governance per organizzare e gestire le politiche di welfare to work nel nostro paese. Un welfare condizionale iniquo ed arretrato che crea sperequazione, clientelismo e riguarda solo una parte dei lavori dove dietro la retorica dell’attivazione si nascondono tecniche di controllo, monitoring individuale e gestione dei conflitti, non sono altro che parcheggi temporali in cicli formativi inutili che danno a loro volta lavoro a migliaia di precari della pubblica amministrazione. In questo quadro di concertazione e dipendenza alle imprese si inserisce la recente sigla de  Patto per il lavoro sottoscritto da Confindustria e sindacati confederali all’interno della festa nazionale del PD di Genova. Un segnale chiaro di appoggio incondizionato al governo delle “basse intese”, una risposta forte e chiara che si inerisce nella traccia dell’autunno di ri-conciliazione.

Questo poi a sostegno dell’altrettanto generica e strabica difesa della costituzione. Una “narrazione tossica”  che prova a distogliere l’attenzione sui reali problemi che stiamo attraversando e sulla necessità della rottura che dovremmo costruire. L’operazione politica riesce a mettere insieme tutto ciò che caratterizza la peggiore sinistra, quella che rivendica insieme il primo articolo costituzionale svuotato ormai di ogni suo significato del retorico diritto al lavoro, a quello del pareggio in bilancio appunto ormai costituzionalmente sancito sotto il dettame della commissione europea, nella piena dittatura dei mercati e della Troijka. Il lavoro non è un bene comune e le generazioni precarie lo hanno capito da tempo vivendo in uno stato di ricatto permanente da alcuni decenni, ma esemplare in questo quadro è la recente sentenza della Consulta sul caso dell’Ilva di Taranto. La Corte Costituzionale ha stabilito l’equivalenza tra diritto al lavoro e diritto alla salute esaminando le questioni di legittimità costituzionale sollevate dagli uffici giudiziari di Taranto, in riferimento alla legge 231/2012, per intendersi quella volgarmente definita come “salva Ilva. Sull’altare della retorica del diritto al lavoro ad ogni costo e con ogni mezzo necessario sono stai sacrificati l’ambiente, il territorio, la salute. E noi dovremmo difendere  principi costituzionali vuoti e arretrati che vengano utilizzati strumentalmente per imporre delle scelte economiche che attentano alla nostra vita? 

La condizione precaria in prima istanza è legata ai diversi dispositivi di assoggettamento e controllo sociale della società neoliberista contemporanea. Questo è il punto. Non solamente una questione di costi e risorse finanziarie quanto invece la precarizzazione e l’indebitamento divengono dispositivi politici di controllo sociale sul lavoro vivo – è sufficiente dare un veloce sguardo ad alcune statistiche come quella sulle tipologie contrattuali utilizzate: il tempo determinato (il più usato tra quelli a termine) ha costi effettivi equivalenti a quelli del tempo indeterminato. La precarizzazione sociale è sostanzialmente un dispositivo di comando, di esercizio predatorio nei confronti di coloro che vivono il lavoro precario ma ovviamente anche ai suoi margini come il lavoro nero non proprio un dettaglio, il 40% della forza lavoro “disponibile” ma così detta inattiva, una cosetta come quindici milioni di persone. Così come l’Italia detiene il primato mondiale del sommerso sul PIL questo secondo autorevoli stime della misura neoliberista come l’Economist o rilevazioni campionarie (peraltro fatte dai precari) dell’Istat e non certo di sovversivi centri studi. Cosa che ovviamente incrociando le variabili fa raddoppiare i formali tassi di disoccupazione. Più che di mercato del lavoro dovremmo parlare di mercati del lavoro. E’ il caso di dire che dentro lo spazio politico europeo esiste una peculiarità tutta italiana che assume contorni effettivamente specifici e rilevanti. Questo avviene al cospetto di una progressiva mutazione del quadro politico formale al netto dell’ultima tornata elettorale e della nuova pelle che si è data la classe politica nel quadro dell’instabilità e di ingovernabilità formalmente gestita con l’opzione disperata che l’oligarchia nostrana ha trovato come sintesi e dittatura soft del governo targato larghe intese.

A fronte di un ciclo di crisi economica ultima dirompente, al sesto anno della sua evoluzione e dentro questo inedito quadro politico si dovrebbe fare un’approfondita riflessione sullo stato dell’arte delle lotte ma anche sulle relative occasioni di superamento e generalizzazione fallite, delle recenti reti metropolitane a carattere nazionale ed europeo. Andrebbe fatto un bilancio anche al netto dei percorsi intrapresi dai movimenti, reti e collettivi di precar*, lotte spesso settoriali e resistenziali eppure certamente legittime nella difesa alle estremità del diritto formale del lavoro di quel minimo “sindacale” che spesso nella giungla della precarietà rappresenta in ogni caso resistenza, rottura, delle volte anche solamente un sussulto di dignità, capacità anche sottili e parziali di rivalsa, vendetta precaria, come la pratica sempre attuale del cash & crash, vertenza e riappropriazione. Abbiamo alle spalle più di un decennio di esperienze, di lotte, mayday, azioni di riappropriazione, ma anche di autogestione di fabbriche occupate, organizzazione metropolitana di sportelli di lotta, punti di informazione e cospirazione precaria, reti sociali contro la precarietà che sotto la potenza immaginifica di san precario e santa insolvenza hanno affermato negli anni nell’evocazione e nelle lotte nuove ricombinazioni sociali, nuovi spazi mentali e materiali di ricomposizione, immaginari, allusioni e simbolismi potenti di virale diffusione tra le moltitudini precarie.

Abbiamo affermato e organizzato la rabbia precaria, non solo come estemporanea azione antagonista, ma come processo di soggettivazione autonoma ed indipendente dentro questa dimensione e protagonismo in alcune vertenze, nelle piazze e negli spazi politici di insorgenza dei movimenti sociali, nelle piazze degli studenti, del precariato metropolitano. Abbiamo animato rotture e barricate per affermare la condizione precaria nella sua egemonica centralità all’interno della nuova composizione sociale.

Di pari passo dentro la condizione precaria l’unica rivendicazione unificante che progressivamente ha assunto un’egemonia ricompositiva è stata la richiesta di reddito di autonomia, garantito, sociale, di esistenza.

Oggi in questo senso è cambiata la fase: dopo l’affermazione della condizione precaria nell’immaginario collettivo con l’aumentare della stretta sociale delle politiche di austerity, con il divenire mainstream della stessa rivendicazione di reddito, l’orizzonte si sposta necessariamente, cambiano le priorità. Certamente fin’ora non è stata sufficiente la densità, la capacità auto-riproduttiva, la continuità di movimento e di sedimentazione necessaria e l’esercizio di autocritica collettiva è sempre un sano e rigenerante meccanismo per i militanti e gli attivisti che si vogliono cimentare in campagne e battaglie adeguate. Quindi bisogna ripartire anche da alcuni fallimenti collettivi di reti e coalizioni sociali come ad esempio gli Stati generali della precarietà o la Rete dello sciopero precario, anche per cogliere comunque alcuni spunti di azione e intuizioni ancora validi per la contemporaneità dei movimenti e della loro agenda futura.
Crediamo oggi che il nostro compito sia quello di spostare l’asticella, l’orizzonte del conflitto, immaginare un processo di generalizzazione biopolitica delle lotte contro la precarietà e la disoccupazione di massa, di dare corpo alla potenza della soggettività precaria metropolitana anonima, queer e moltitudinaria, sprigionare energia e conflitto, nuova organizzazione e sedimentazione sui territori. Spazio e tempo della lotta, afferrare la possibilità, l’evento possibile che può rompere l’accerchiamento. E’ necessario costruire dal basso spazi di soggettivazione che mettano in discussione insieme e dentro reti sociali eterogenee, il modello di accumulazione e governo dei territori, la decisione politica basata sul ricatto del debito, pubblico e privato, nella torsione autoritaria della governance europea e del FMI che si dispiega dentro l’esercizio di comando della società indebitata, sulle nostre vite precarie. Dobbiamo costruire gli spazi politici necessari per rimettere in radicale e complessiva discussione le politiche economiche, energetiche, digitali per una diversa, altra cittadinanza e affermazione di diritti comuni e salvaguardia dei beni comuni come la difesa dell’acqua e del suolo contro la devastazione dei territori, contro tutte le nocività del sistema capitalista marcio e intriso di contraddizioni e disuguaglianze sociali ormai insopportabili. Ci dobbiamo interrogare dunque quale via di fuga sia possibile. Qual’ è il tempo delle lotte per aprire un varco, una breccia di generalizzazione del conflitto per una rottura complessiva all’altezza della dimensione e altitudine politica che stiamo incarnando, nel nuovo scontro di classe che stiamo vivendo.

Il tema oggi è come far vivere la leva del reddito garantito come proposta e tensione centrale, sempre aperta alla dimensione del conflitto e delle pratiche della riappropriazione eppur immaginata dentro un possibile nuovo architrave istituente che rovesci l’alchimia negativa di quel fantasma che oggi è il diritto al lavoro formalmente e costituzionalmente riconosciuto. Reddito garantito e di esistenza incondizionato dal ricatto del lavoro, come riconoscimento diretto della produzione sociale e della ricchezza permanentemente prodotta. Reddito di esistenza come spazio di autodeterminazione del tempo di vita come riappropriazione del bottino di quella rendita finanziaria, per una reale redistribuzione del plusvalore socialmente prodotto. Reddito di esistenza per conquistare indipendenza. Su questo chiamiamo a dibattito le realtà sociali che hanno animato le lotte in questi anni, le esperienze, collettivi e soggettività che possono anche in vista delle mobilitazioni prossime dell’ottobrata romana riprendere un cammino comune e definire un percorso di lotta autonoma e indipendente del precariato metropolitano con la tensione necessaria verso la costruzione dal basso delle giornate del 15 Ottobre, con l’indizione di sciopero sociale europeo e transnazionale e del 19 Ottobre, con la manifestazione nazionale a Roma indicazione già assunta anche dall’agenda europea, a partire dalla Spagna. Per costruire una settimana di lotta per la riappropriazione e rivendicazione  di  reddito garantito e del diritto all’abitare contro le politiche di austerity promosse e sostenute dalla tecnocrazia, difesa dagli eserciti polizieschi della governance neoliberista che dobbiamo al più presto destituire, contro la quale dobbiamo al più presto insorgere per le nostre vite e l’auto-determinazione del nostro futuro.




Sono invitati a partecipare:

Frenchi, San Precario Milano – Raffaele Sciortino, Infoaut– Gianluca Pittavino, csoa Askatasuna Torino – Fulvio Massa, Lab. Crash Bologna– Francesco Festa, Zero81 Napoli – Renato Busarello, Lab. Smaschieramenti Bologna – Mario Avoletto, Area antagonista campana – Degage Roma  – Luca Fagiano, Coordinamento cittadino lotta x la casa Roma  – Alexis occupato Roma – Bartleby Bologna – Vag 61 Bologna – Lab. Bios Padova – Villa Roth occupata Bari – Comitato cittadini liberi e pensanti Taranto

promuove Laboratorio Acrobax

www.indipendenti.eu

 

Assemblea cittadina*Roma verso il 15 e 19 Ottobre

Le nostre vite negli ultimi anni si sono sempre più trasformate in una corsa a ostacoli per arrivare alla
fine del mese, schiacciate da politiche economiche che hanno cancellato diritti, compresso salari e tagliato redditi, moltiplicato
precarietà e sfruttamento del lavoro, della vita e del territorio.

I provvedimenti inseriti dal “governissimo” in carica nel recente “Decreto del Fare” dimostrano obbedienza infinita ai diktat della Troika. Chi governa questo paese, chiuso dentro palazzi e salotti, è sempre più incapace di dare risposte a chi ha pagato già per intero il prezzo della loro crisi, continua invece a perseguire le stesse politiche di saccheggio dei territori e delle nostre vite: derubare molti per dare a pochi.

Sprofondano le condizioni di vita di tutte e tutti noi, ma non cambiano le politiche di una governance sempre più asservita agli interessi delle banche, delle lobby finanziarie, degli speculatori, dei potenti.

Mentre si addensano le nubi di una guerra dagli esiti catastrofici e dalle conseguenze incalcolabili, è necessario determinare sin da ora momenti di costruzione comune e di lotta in grado di chiamare tutti e tutte ad alzare la testa, a sollevarsi e a mettere in movimento un nuovo processo di riappropriazione collettiva che rovesci il ricatto dell’austerità e della precarietà.

Abbiamo già dimostrato in questi mesi che siamo in grado di animare lotte importanti, che parlano di riappropriazione diretta
di reddito, spazi e tempi di vita. Lotte per la difesa e la riconquista di diritti sul lavoro; per la scuola e l’università pubblica e la
libera circolazione dei saperi; per il diritto all’abitare con l’occupazione di numerosi stabili in cui hanno trovato casa migliaia di
persone; le lotte dei migranti e dei rifugiati, quelle per la difesa del territorio contro le cosiddette grandi opere, le fonti di
nocività, le basi ed i dispositivi militari dell’imperialismo.

Ora è necessario che queste lotte si incontrino, costruiscano pratiche e percorsi comuni in grado di rompere l’isolamento in cui vorrebbero costringere le nostre esistenze, coinvolgano nuovi soggetti, allargando e generalizzando il conflitto. Per questo da alcuni mesi numerose realtà in lotta, soggettività, movimenti, stanno lavorando attraverso forme di confronto ed organizzazione – orizzontale e dal basso – ad una settimana di mobilitazione e conflitto che culminerà con la manifestazione nazionale che si terrà a Roma SABATO 19 ottobre.

Settimana che prevede il 12 ottobre una giornata per la difesa dei territori, contro le privatizzazione dei servizi pubblici e la distruzione dei beni comuni e mobilitazioni diffuse per il diritto all’abitare; il 15, azioni dislocate nelle città per uno sciopero sociale indetto dall’agenda dei movimenti trans-nazionali; il 18 una manifestazione congiunta dei sindacati di base e conflittuali.

Di questo e di molto altro vogliamo ragionare insieme Giovedì 19 al Volturno occupato, in un’assemblea che immaginiamo possa tenere insieme l’aspetto del ragionamento politico, con quella dell’organizzazione pratica e concreta delle mobilitazioni, che -ci auguriamo- possano dare il via ad un autunno di conflitto e di cambiamento radicale dell’ esistente.

Non è più tempo di aspettare, assediamo precarietà e austerity!
Un’unica grande opera: casa e reddito per tutti e tutte!

Appello internazionale contro la criminalizzazione del movimento NoTav

Appello internazionale di docenti e intellettuali contro la criminalizzazione del movimento No Tav

Ringraziamo con calore tutte le firmatarie e tutti i firmatari, e in particolare Silvia Federici (della Hofstra University, New York) per aver promosso questo appello.

Pubblichiamo la traduzione italiana dell’appello e di seguito la versione originale.

Movimento NO TAV di nuovo sotto attacco

Da vent’anni nelle montagne del nord-ovest Italia, non lontano da Torino, un potente movimento è cresciuto, resistendo al piano del governo italiano di costruire una linea ferroviaria ad alta velocità che, oltre ad essere molto costosa ed economicamente inutile, distruggerebbe certamente l’ambiente montano. Più e più volte il movimento NO TAV, ormai ben conosciuto in tutta Europa, è stato oggetto di attacchi da parte delle forze dell’ordine e dell’esercito, oltre ad essere oggetto di una campagna denigratoria da parte dei politici di praticamente ogni colore. Tuttavia, così forte è stata la determinazione del popolo della Val di Susa e dei suoi numerosi sostenitori nel resistere a questo attacco alla loro terra e alle loro vite, che finora nessuna vera costruzione ha avuto luogo e tutto ciò che le aziende responsabili del progetto hanno raggiunto è stato quello di recintare migliaia di ettari di terra, appartenenti alla popolazione locale, con filo spinato e poliziotti.

È ormai generalmente riconosciuto, anche a livello dell’UE, che la costruzione della linea ad alta velocità sia inutile, al punto che alcuni  dei paesi partecipanti si sono già ritirati dal progetto. Tuttavia, il governo italiano ha ulteriormente intensificato il suo attacco contro la resistenza al TAV, con la piena militarizzazione della Val di Susa. Come hanno più volte denunciato gli abitanti di questa bellissima valle storica, situata vicino al confine con la Francia e centro della resistenza partigiana al Fascismo e al Nazismo negli anni ’40, nessuno sforzo è stato risparmiato per reprimere ideologicamente e fisicamente la legittima protesta dei residenti della valle, la quale dovrebbe sopportare ogni giorno le conseguenze del TAV. Il territorio della Val di Susa è già stato interamente ricoperto di gas lacrimogeni, e molti sono stati arrestati, feriti, e alcuni sono addirittura morti a causa della scandalosa determinazione del governo nel completare questo lavoro indipendentemente dalle sue conseguenze devastanti per la popolazione della valle.

Ora un nuovo violento attacco contro il movimento No Tav è in corso, il che richiede una risposta chiara da parte di tutti coloro che, dentro e fuori l’Italia, credono che la distruzione sistematica del nostro ambiente e la violazione dei bisogni e delle esigenze più elementari della gente siano crimini che riguardano tutti e tutte noi e che non dobbiamo tollerare.

Lunedì mattina, 29 luglio, la DIGOS – il ramo politico della polizia – ha fatto irruzione in decine di abitazioni a Torino e in Val di Susa. Dodici compagni e compagne sono stati costretti ad aprire le loro case agli agenti, che hanno poi proceduto nella ricerca di materiali compromettenti, presumibilmente legati alla loro protesta contro la recinzione dei terreni della valle con reti di filo spinato. Incaricata di cercare esplosivi e altre armi, la polizia ha fallito in questo obiettivo, ma ha sequestrato tutti i materiali audiovisivi e atti alla telecomunicazione che potevano trovare, chiaramente il vero obiettivo della ricerca. Come ha detto uno degli attivisti perquisiti: “Sono venuti per le armi, se ne sono andati con i computer e telefoni”.

L’operazione ha incluso il ristorante La Credenza – un nome che in italiano significativamente indica sia ‘fede’ che ‘dispensa’ – un luogo pubblico di incontro e di aggregazione per i No Tav in Val di Susa, dove si trovano anche i sindacati dei lavoratori e le associazioni politiche . Questo è un luogo dove ogni giorno le persone si incontrano per discutere di attualità, soprattutto in riferimento alla lotta, così come per condividere del cibo e un bicchiere di vino. Chiunque vada a Bussoleno, il cuore della lotta NO TAV, vi ci passa, per avere la possibilità di parlare con la gente locale, informarsi sugli eventi in corso e gustare un’ottima cena. Ma i magistrati lo dipingono come un luogo di cospirazione, per sostenere l’accusa che motiva l’operazione: coinvolgimento in “attacchi con finalità terrorista e sovversiva”.

Chiunque sia stato in Val di Susa o abbia seguito la lunga storia della protesta che la sua gente ha lanciato contro il TAV, sa che questa accusa è falsa, oltraggiosa, ed è un classico esempio di come incolpare le vittime. Non sorprende che le “prove” siano fabbricate.

In una delle case perquisite, è stata trovata una mappa della valle con dei marcatori di segno su di essa. La giovane donna che vi abita è un membro del Legal Team per il movimento, e la mappa è parte del materiale che doveva sottoporre alla difesa nei processi che sono già in atto nei confronti di alcuni dei suoi membri. Su di essa sono contrassegnati i luoghi dove nel 2011 diverse persone sono state brutalizzate dalla polizia. Ma, secondo gli inquirenti, la mappa dimostra l’esistenza di un movimento di guerriglia organizzato militarmente.

Allo stesso modo, bottiglie di birra presumibilmente trovate nell’area del cantiere vengono presentate come evidenza della presenza di bombe molotov, senza che vi sia alcuna prova che abbiano mai contenuto altro che birra. Anche le magliette nere sono state sequestrate, anche se è difficile immaginare che cosa potrebbero provare. Ma il significato dell’operazione di polizia viene fuori più sfacciatamente laddove i magistrati affermano che i perquisiti sono indagati come sospettati di “attacchi con finalità terroristica.”

In sintesi, l’obiettivo di questa nuova operazione è quello di aumentare l’attacco al movimento rappresentandolo, legalmente e attraverso i media, come un movimento “terrorista” – una mossa che ha evidentemente l’intento di spaventare i suoi sostenitori, scagliare l’opinione pubblica contro il popolo della Val di Susa e legittimare ogni violenza che lo stato ritiene opportuna per scatenarsi contro di loro.

Non pensiamo che questa operazione avrà successo. Gli abitanti della Val di Susa hanno combattuto i fascisti, hanno combattuto i nazisti e per 20 anni sono stati in grado di respingere il tentativo del governo italiano di distruggere le loro montagne, già attraversato da numerose linee ferroviarie e da una strada di recente costruzione. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare la volontà del governo di schiacciare questo movimento. Questo fatto sembra essere l’obiettivo primario di questa operazione, dato che i rapporti indicano che, anche da un punto di vista capitalistico, il progetto TAV è destinato a rivelarsi economicamente irrealizzabile. Perché perseguirlo poi con così tanta ostinazione, fino al punto di calpestare la vita di migliaia di persone? Forse perché il governo italiano non può ammettere che quando la gente lotta in modo unito può vincere? O è che i profitti che le aziende private farebbero avrebbero più importanza del fallimento del progetto di portare alcun beneficio al paese nel suo insieme e inoltre superare così l’immensa agonia e la perdita inflitta al popolo della Val di Susa?

La politica in questi giorni ha un carattere surreale. Menzogne, distorsioni, discussioni motivate ​​esclusivamente dai più stretti motivi economici privati ​​sono all’ordine del giorno. Ma il carattere fittizio delle accuse mosse contro le vittime delle perquisizioni non deve ingannarci circa i danni che possono infliggere. Come minimo questi attacchi stanno costringendo un movimento a ri-incanalare le proprie energie dalla lotta contro il TAV  alla difesa di coloro sotto attacco.

Questo è il motivo per cui dobbiamo sostenere gli attivisti NO TAV sotto inchiesta, dobbiamo allargare il nostro sostegno per la lotta NO TAV e inviare un chiaro messaggio di protesta al governo italiano, chiedendo che cessi la persecuzione degli attivisti No TAV e che ponga fine al progetto del TAV stesso.

Si prega di firmare la dichiarazione-affiliazione seguente solo a scopo di identificazione:

Chiediamo con forza al governo e alla magistratura di:

* Terminare il suo uso arbitrario della legge per perseguitare gli attivisti No TAV;

* Cessare le indagini contro le dodici persone le cui case sono state perquisite;

* Fermare la militarizzazione della Val di Susa;

* Ascoltare la legittima protesta del popolo della Val di Susa e abbandonare il progetto TAV, che ha già causato tante sofferenze a tante persone.

Alexander Anievas, Research Fellow, Cambridge University, Uk

Dr. Dario Azzelini, Johannes Kepler Universität, Linz  (Austria)

Erika Biddle-Stavrakos, York University, Toronto. Canada

Prof. Dusan Bjelic, University of Southern Maine

Werner Bonefeld, University of York, UK

Michaela Brennan, Ann Harbor, USA

George Caffentzis, Professor Emeritus, University of Southern Maine, USA

Chris Carlsson, Shaping San Francisco, San Francisco, CA, USA

Irina Ceric, Osgoode Hall Law School, York University, Toronto

Harry Cleaver, Emeritus, University of Texas, Austin, USA

William T. Cleaver, Austin, Texas, USA

Mitchel Cohen, Brooklyn Greens, Green Party, Former Chair WBAI Radio. N.Y., USA

Laura Corradi, Universita’ della Calabria

Dan Coughlin, New York, USA

Laurence Cox, National University of Ireland Maynooth, Ireland.

Patrick Cuninghame, Sociology Lecturer, Universidad Autonoma Metropolitana, Mexico City

Massimo De Angelis, The commoner.uk, London, UK

Federico Demaria, Universitat Autònoma de Barcelona, Spain

Dagmar Diesner, The commoner.uk, London, UK

Salvatore di Mauro, editor, Capitalism, Nature and Socialism. USA

Anna Dohm, Interventionist Left Germany

Sara R. Farris, Goldsmiths, University of London

Silvia Federici, Emerita, Hofstra University, Hempstead, N.Y.

Jim Fleming, Autonomedia, New York

Michael Hardt, Duke Univerity, Durham, North Carolina

Dr David Harvie, University of Leicester, UK

Conrad M. Herold, Dept of Economics, Hofstra University, Hempstead, N.Y.

Yaiza Hernández Velázquez, CRMEP, Kingston University, London

John Holloway, Professor, Benemérita Universidad Autónoma de Puebla, Mexico

Brian Holmes, art and cultural critic, Chicago

Andrej Hunko, MP for the German Bundestag

Fiona Jeffries, Simon Fraser University, Vancouver, Canada

Lewanne Jones, Autonomedia, New York. USA

Nancy Kelley, HIRC of Harvard Law School, Cambridge, Massachussetts

Sabu Khoso, New York. USA

Peter Linebaugh, Toledo, USA

Federico Luisetti, University of North Carolina at Chapel Hill, North Carolina

Mari Lukkari, journalist, Finland

Caitlin Manning, California State University, Monterey Bay.

Barry Hamilton Maxwell, Cornell University, Ithaca, N.Y., USA

Massimo Modonesi, Coordinador del Centro de Estudios Sociológicos, Facultad de Ciencias Políticas y Sociales

Universidad Nacional Autónoma de México

Donald Monty Neill, Boston, USA

John Malamatinas, Cologne-Germany

Pablo Mendez, University of British Colombia, Vancouver

Cristina Rousseau, Doctoral Candidate, York University, Toronto.

Stevphen Shukaitis, University of Essex, UK

Marina Sitrin, CUNY Graduate Center, N.Y. USA

Konstantine Stavrakos, environmental lawyer, Toronto.

Alberto Toscano, London, UK

Kevin Van Meter, Team Colors Collective & University of  Minnesota (Graduate Student), Minneapolis, MN

Chris Vance, Vancouver, Canada

Dr Peter Waterman Institute of Social Studies, The Hague (retired)

John Willshire-Carrera, HIRC of Harvard Law SchoolCambridge, Massachussetts.

NO TAV movement again under attack

For twenty years in mountains of North West Italy, not far from Torino, a powerful movement has grown that has resisted the Italian government’s plan to build a high velocity railroad, which in addition to being very costly and economically useless would certainly destroy the mountain environment. Over and over, the NO TAV movement, now well-known throughout Europe, has come under attack by the police and the army, besides being the object of a smear campaign by politicians of almost every political stripe. However, so strong has been the determination of the people of Val di Susa and their many supporters to resist this assault on their land and their lives that so far no real construction has taken place and all that the companies in charge of the project have achieved has been to surround thousands of acres of land, belonging to the local population, with barbed wires and cops.

It is now generally recognized, even at the EU level, that the construction of the high velocity railroad is unnecessary, so that some participant countries have already withdrawn from the project. Nevertheless, the Italian government has even further intensified its attack on the resistance to the TAV trains, with the full militarization of Val di Susa. As the villagers of this beautiful historic valley, near the border with France, the center of the partisan resistance to Fascism and Nazism in the ‘40s, have repeatedly denounced, no effort has been spared to repress ideologically and physically the legitimate protest of the residents of the valley who would bear every day the consequences of the TAVS. Already the land of Val di Susa has been drenched with tear gas, and many have been arrested, wounded, and some have even died because of the government’s outrageous determination to complete this work regardless of its devastating consequences for the people of the valley.

Now a new violent assault on the No Tav movement is unfolding that demands a clear response by all those in and out of Italy who believe that the systematic destruction of our environment and the violation of people’s most basic needs and demands are crimes that affect us all and we should not tolerate.

On Monday morning, July 29, the DIGOS – the political branch of the police – has raided dozens of homes in Torino and in Val di Susa. Twelve comrades have been forced to open their houses to its agents, who have then proceeded to search for incriminating materials, presumably related to their protest against the enclosure of the land of the valley with hedges of barbed wire. Instructed to look for explosives and cutters, the police have failed in this goal, but they have confiscated all the audio-visual and telecommunication materials they could find, clearly the real objective of the search. As one of the activists raided put it: “They came for weapons, they left with computers and phones”.

The raid has included the restaurant La Credenza – a name that in Italian significantly means both ‘faith’ and ‘pantry’ – a public place of meeting and aggregation for No TAVS in Val di Susa, where workers’ unions and political associations are also located. This is a place where every day people meet to discuss current events, mostly relating to the struggle, as well as share some food and a glass of wine. Whoever goes to Bussoleno, the heartland of the NO TAV struggle, passes through it, to have a chance to talk to local people, check on current events, and have a great dinner. But the magistrates paint it as a place of conspiracy, to support the charge that motivates the raid: involvement in “attacks with terrorist and subversive intent.”

Anyone who has been in Val di Susa, or has followed the long history of the protest its people have mounted against the TAV knows this charge is false, outrageous, and is a classic example of blaming the victims. Not surprisingly the “proofs” are manufactured.

At one of the houses raided, a map of the valley was found with marker-signs on it. The young woman living there is a member of the Legal Team for the movement, and the map is part of the material that she was to submit to the defense in trials that are already taking place against some of its members. On it, the sites are marked where in 2011 several people were brutalized by the police. But according to the investigators, the map proves the existence of a militarily organized guerrilla movement.

Similarly, beer bottles presumably found on the construction site are presented as evidence for the presence of Molotov cocktails, no proof given that they ever contained anything but beer. Black T Shirts too were confiscated, though it is hard to imagine what they could prove. But the meaning of the police operation comes forth most blatantly where the magistrates state that those raided are investigated as suspects of “attacks with terrorist intent.”

In sum, the goal of this new operation is to escalate the assault on the movement by representing it, legally and through the media, as a ‘terrorist’ movement – a move obviously intended to scare its supporters, turn public opinion against the people of Val di Susa, and legitimize any violence the state will deem fit to unleash against them.

We do not think this operation will succeed. The people of Val di Susa have fought the fascists, have fought the Nazis, and for twenty years they have been able to push back the attempt of the Italian government to destroy their mountains, already traversed by many railroad lines and a recently constructed highway. However, we should not underestimate the will of the government to crush this movement. This in fact appears to be the primary objective of the present operation, as reports indicate that, even from a capitalist viewpoint, the TAV project is turning out to be economically unfeasible. Why to pursue it then with so much obstinacy, to the point of stomping over the lives of thousands of people? Is it because the Italian government cannot admit that when people struggle in a unified way they can win?  Or is it that the profits that private companies would make would outweigh the failure of the project to bring any benefit to the country as a whole and outweigh as well the immense agony and loss inflicted on the people of Val di Susa?

Politics these days has a surreal character. Lies, distortions, arguments motivated solely by the narrowest of private economic motives are the order of the day. But the fictitious character of the charges brought against the victims of the raid should not deceive us about the damage they can inflict. At the very least these attacks are forcing a movement to re-channel its energies from the struggle against the TAV to the defense of those under attack.

This is why we need to support the NO TAV activists under  investigation, we need expand our support for the NO TAV struggle, and send a clear message of protest to the Italian government, demanding it ends the persecution of the No TAV activists and put an end to the TAV project itself.

Please sign the following statement –affiliation for identification purpose only:

We urge the Italian government and judiciary to:

*End its arbitrary use of the law to persecute No TAV activists;

*Cease the investigation against the twelve people whose homes have been raided;

*Stop the militarization of Val de Susa;

*Listen to the legitimate protest of the people of Val de Susa and abandon the TAV project, which has already caused so much suffering to so many people.

www.infoaut.org

 

Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa – Toni Negri

Scusate se la prendo da lontano. Vorrei infatti chiedermi prima di tutto che cosa vuol dire “far politica oggi” e risalire poi al tema Europa. Far politica sul terreno dell’autonomia, vale a dire assumendo il punto di vista del soggetto sovversivo e di conseguenza analizzando le figure e i modi di agire del proletariato precario-cognitivo. Ritrovo infatti i bisogni e i desideri di questo soggetto come dispositivo centrale, virtualmente egemonico, nell’analisi dei movimenti della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine capitalista.

 

Ci sono due argomenti, meglio, due topoi che vanno assunti affrontando questo tema. Il primo è oggettivo, bisogna cioè chiedersi che cosa significa porsi dentro lo sviluppo capitalistico nella fase critica dell’egemonia neoliberale. Potremmo anche, probabilmente, cominciare ad interrogarci sui “limiti del capitalismo”, togliendo tuttavia di mezzo preventivamente ogni previsione catastrofica comunque questa si presenti ed ogni nostalgia di una tradizione attestata da troppo tempo su questa illusione. Il contesto capitalistico è oggi caratterizzato dal dominio del capitale finanziario che sta consolidando la sua azione dopo una lunga transizione, che risale almeno alla seconda metà degli anni ’70. L’abbiamo ampiamente seguita, questa evoluzione, e spesso anticipata nel nostro lavoro collettivo: vediamone dunque semplicemente le conclusioni. Il capitale finanziario è egemone, non lo si può più definire come facevano Marx e Hilferding, poiché esso si è fatto capitale direttamente produttivo: cerca oggi la sua stabilizzazione esercitando attività estrattive sia nei confronti della natura e delle sue ricchezze, sia nei confronti del biopolitico-sociale (cioè del welfare). Quando parliamo di consolidamento del potere del capitale finanziario ne parliamo ipotizzando (ed è una ipotesi che si avvicina ormai ad una verifica conclusiva) che la trasformazione del capitalismo abbia comportato (tra l’altro – ma l’osservazione è tanto limitativa dell’analisi, quanto importante per concentrare quest’ultima su quanto ci interessa) – abbia dunque comportato una assai profonda trasformazione delle forme territoriali e delle strutture istituzionali nell’assetto globale degli Stati e delle nazioni nel “secolo breve”. Questa trasformazione comincia all’interno dei singoli mercati nazionali dove, in ciascuno di essi, la struttura produttiva capitalistica è riorganizzata dopo la prima Grande Guerra (rispondendo al trionfo della rivoluzione bolscevica), secondo moduli contrattuali keynesiani. Nel secondo dopoguerra e dopo le “ricostruzioni”, questo modulo di organizzazione sociale e di comando capitalista comincia ad essere fragilizzato e talora a saltare sotto la pressione operaia: è allora che comincia la rivoluzione neoliberale a partire dalla fine degli anni ’70 con una straordinaria accelerazione all’inizio del XXI secolo. Essa riorganizza innanzitutto lo Stato secondo modalità fiscali nella gestione della crisi e nella governance del debito pubblico. Il procedere della mondializzazione che interviene in quel periodo e l’affermazione globale dei “mercati finanziari” spostano il controllo delle possibilità debitorie dello Stato dal potere pubblico alle strutture che organizzano il privato, dall’equilibrio dell’amministrazione interna  dello Stato all’equilibrio costruito sotto il dominio dei “mercati” globali.

 

È a questo punto che si dà una definitiva frattura fra il nuovo ordine capitalistico globale e i soggetti che vivevano nel precedente ordinamento capitalistico dei singoli Stati-nazione – in quell’ordinamento “riformista” del capitale, cioè, che avendo introdotto keynesianamente il movimento operaio nel contratto sociale, ne disciplinava i comportamenti secondo regole cosiddette “democratiche”. Se nello Stato fiscale, presto pervenuto alla crisi, il debito statale aveva assunto quel ruolo di anticipazione della spesa che prima aveva avuto l’inflazione (in senso opposto, come strumento di devalorizzazione della spesa) e se presto la fiscalità non è più sufficiente a sostenere il debito promosso dallo Stato – se dunque la struttura del debito muta e il neoliberalismo, facendo del mercato la regola dello sviluppo e dei “mercati” la giustizia del pianeta, impone la privatizzazione globale del debito…. dato tutto questo, la crisi capitalistica si presenta oggi come impossibilità di far agire all’interno dello sviluppo stesso qualsiasi elemento di mediazione, qualunque  struttura contrattuale, insomma il keynesismo in tutte le diverse accezioni riformiste che esso possa eventualmente assumere. D’altra parte, questo sviluppo (se riguardato dal punto di vista delle lotte del soggetto sovversivo) ci restituisce un modulo assai consistente di lotta di classe. Da un lato tutti coloro che possono partecipare all’”interesse” (cioè al profitto monetario – alla partecipazione alla pratica globale dell’usura dei mercati privati e/o semipubblici) costruito sul mercato finanziario; dall’altro lato tutti coloro che considerano l’esercizio della loro forza-lavoro reso socialmente utile dal loro “stare insieme” e quindi dall’esigenza (bisogno e desiderio) di essere garantiti nel corso della loro vita non dal perdurare della barbarie del privato possesso ma dal possibile godimento dell’accesso al comune. E non c’è “nessuna classe media” fra queste due realtà etiche.

 

Il secondo presupposto è soggettivo, ne abbiamo accennato le caratteristiche etiche – ora si tratta di studiarne (anche in questo caso riassumendo un lavoro collettivamente compiuto) l’ontologia della produzione. In essa si ricompongono dunque le modificazioni intervenute nella composizione della classe lavoratrice. Essa non è più (come da molto tempo si sa) “operaia” in senso esclusivo, tanto meno può essere qualificata come centrale nei processi di valorizzazione – la dimensione immateriale, intellettuale, cooperativa e la rete (come tessuto di ogni attività produttiva)  sono diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. La forza-lavoro si è dunque radicalmente modificata. Nessuna nostalgia della vecchia classe operaia. Impegno, invece, a ritrovarne le stigmate nel continuum della “disindustrializzazione”, determinata (non tanto dal capitale finanziario quanto) dall’automazione industriale e dalla sua espansione a tutto il sistema dei servizi produttivi (sicché anche l’operaio industriale è oggi lavoratore immateriale). La radicalità di questa modificazione è estrema. Altrove abbiamo definito l’insieme della forza-lavoro nella sua dimensione di soggetto sfruttato nello sviluppo del capitale finanziario come un composto da individui “indebitati, mediatizzati, securizzati, rappresentati”. In questo quadro lo sfruttamento avviene assumendo la società come totalità, investe e sussume l’intera società. È uno sfruttamento estrattivo. La qualità estrattiva dello sfruttamento significa che l’analitica “temporale” (quella marxiana, per esempio) delle figure e delle quantità di pluslavoro e di plusvalore, dev’essere rivista e analizzata secondo nuovi criteri. È qui infatti che il capitale finanziario si segnala come potente agente di un’”estorsione” compatta e massificata di plusvalore, come mistificatore di ogni assemblaggio di lavoro cooperativo e infine – in tal modo – come forza estrattiva del comune. Nel concetto di “estrazione” si modifica quindi quello di “sfruttamento”. “Estrazione” significa appropriazione di plusvalore attraverso una continua scrematura dell’attività sociale, la riduzione delle singolarità che cooperano nella produzione sociale (e che così esprimono comune) ad una massa che ha perduto ogni controllo di se stessa ed ogni autodeterminazione, la trasformazione dell’imprenditorialità capitalista in una funzione ormai incapace di organizzare il lavoro, immersa nel gioco finanziario e solo attenta alle cedole azionarie. Il concetto marxiano di sfruttamento sembra così pateticamente lontano – nella sua insistenza sulla temporalità della giornata lavorativa e dello sfruttamento individuale che in essa si misura. Se non fosse che la massa esiste solo nella logica del capitale finanziario (come il popolo in quella dei sovrani). Mentre la vita sfruttata è singolare. Da questo punto di vista, dunque, le soggettività implicate in questo sviluppo del capitalismo, espropriate come massa, sfruttate come singolarità, avvertono che la frattura sociale, meglio, la scissione del concetto di capitale si è data in maniera ormai piena. Al punto in cui lo sviluppo capitalistico è stato spinto dall’azione neoliberale, una qualsiasi mediazione interna allo sviluppo capitalistico (anche se imposta dalla moltitudine dei lavoratori bisognosi, insomma comunque essa si presenti, qualsiasi sia la forma in cui le singolarità sono rinchiuse nella massa espropriata) – ogni mediazione, dunque, è stata rotta. Assistiamo all’azzeramento del politico, meglio, del valore della composizione politica del soggetto antagonista: in questa prospettiva “la politica” è solo considerata una mediazione – e questa non potrà certo darsi con gli “esclusi”.

 

Dobbiamo dunque concludere che la dialettica operaista che sempre teneva presente un rapporto antagonista tra sviluppo capitalistico e lotta di classe operaia e ad essa imputava ogni sviluppo, è terminata? È possibile, con tutta probabilità è avvenuto. Infatti la relazione delle singolarità che costituiscono moltitudine è divenuta del tutto intransitiva nel rapporto di capitale. Il neoliberalismo ci impone questa verità. La valorizzazione capitalista nasce infatti dal fatto che la moltitudine di singolarità è ridotta a massa – è resa “transitiva” in quanto capitale variabile ma non può più esprimersi come classe – neppure all’interno del capitale, come la dialettica “socialista” esigeva. Affermare questo non significa che la concezione marxiana dello sviluppo sia obsoleta o la metodologia operaista ormai desueta; significa solo che il metodo va innovato, che le “armi della critica” vanno adeguate alla nuova situazione complessiva e che “far politica oggi” è concetto che non può esser legittimato, per esempio, semplicemente dal ricorso all’inchiesta operaia – modulata sul couplet composizione tecnica e composizione politica – ma che i temi del potere e del contropotere, della guerra e della pace, del potere costituente e dell’insurrezione, insomma, del programma comunista, vanno riproposti – in prima linea.

 

Mi ripeto. Già da tempo è stato teorizzato che l’”uno si è diviso in due”. Questo significa che non c’è più misura fra capitale e soggetto sfruttato, antagonista, che non vi è più mediazione possibile. Vi può essere mediazione solo forzosa. Questo comporta crisi, inefficienze, limiti della forma politica del capitalismo oggi dominante, di quella “democratica” in particolare, sempre più evidenti. Se l’azione politica del primissimo e primo movimento operaio (tra l’’8-‘900) ha cercato alternativamente per la sua azione un modello riformista e/o uno insurrezionale; se la seconda grande epoca del movimento operaio – quella dell’operaio fordista – ha consolidato nella forma contrattuale (e riformista) il suo progetto, oggi non vi è più nulla di questo che possa essere nuovamente percorso. Alcuni autori hanno con grande intelligenza sottolineato che il capitalismo neoliberale ha perduto ogni caratteristica democratica da  quando le istituzioni  della democrazia non son più riuscite a trattare, ad incidere sulle questioni economiche – hanno cioè permesso al neoliberalismo di estrarle dalle regole della democrazia. È un altro modo di dire che l’”uno si è diviso in due”. La sovranità è stata allora tolta agli Stati-nazione per essere trasferita verso il potere globale dei “mercati”. Ma questa conclusione non conclude nulla, è essa stessa implicata nel processo della crisi e la estremizza piuttosto che risolverla. È ormai banalmente ripetuta dai più e finisce per mistificare l’impotenza dei soggetti e per vanificare le lotte contro il capitale finanziario.

 

Finora abbiamo visto come il concetto di composizione politica di classe operaia sia venuto meno, come sia stato azzerato dalla nuova figura dei movimenti finanziari e politici del capitale – e in ogni caso come esso non possa funzionare (la diciamo grossa) “ontologicamente”, e cioè nella realtà storica determinata: perché ormai privato di ogni transitività. “Come fare politica, oggi”, non significa dunque giocherellare fra composizione politica e tecnica ma ridefinire radicalmente che cos’è “politica”. Tra poco vedremo quale sia la fragilità dello stesso concetto di composizione tecnica. La metodologia classica dell’operaismo non funziona dunque più. Bisogna modificarla. E farlo tenendo presente che la nostra autocritica non significa che non ci possiamo più chiamare marxisti; forse significa che non ci chiameremo più post-operaisti; probabilmente ci diremo solo comunisti – alla nostra maniera, facendo del marxismo un dispositivo vivente per adeguarlo alla critica del nostro mondo. Per cominciare cioè ad uscire da quella condizione di azzeramento della politica.

 

Sulla questione del presupposto soggettivo dobbiamo quindi ora ritornare, armandoci di una nuova metodologia che lavori essenzialmente sulle maniere di far crescere, indipendentemente dal rapporto di capitale (non-transitivamente dunque), la nuova soggettività sociale sfruttata. In essa non saranno più riconoscibili composizione tecnica o composizione politica, conseguenti l’una dall’altra, ma piuttosto una composizione semplificata ed una consistenza reale che cercheremo ora qui di definire, descrivendo l’azione che è possibile, a questa soggettività, di produrre.

 

In primo luogo dobbiamo tener presente che quel soggetto separato, azzerato dal punto di vista politico, è comunque un soggetto che si è riappropriato di capitale fisso, in tutta la fase di trasformazione del capitalismo fra crisi dello Stato fiscale e consolidamento dello Stato del capitale finanziario. In che cosa consiste precisamente questa riappropriazione? Consiste specificatamente nel far proprie, nell’afferrare, nel rendere protesi corporee e mentali, linguistiche e/o affettive, cioè nel ricondurre alla propria singolarità alcune capacità che prima erano solo riconosciute proprie delle macchine con le quali si lavorava, e nell’incorporare queste caratteristiche macchiniche, farne attitudini e comportamenti primari dell’attività dei soggetti lavorativi. Nel distacco storico che si era affermato tra oggettività del comando (e del capitale costante) e soggettività della forza-lavoro (soggetta al capitale variabile) – si dà, da parte delle singolarità, una riconquista di capitale fisso, un’acquisizione irreversibile di elementi macchinici sottratti alla capacità valorizzante del capitale – per dirlo brutalmente, un furto continuato di elementi macchinici che arricchisce di capacità tecnica il soggetto, meglio, come si è detto che il soggetto lavorativo incorpora. Con ciò si mostra quanto il lavoro immateriale sia corporeo, della sua capacità di assorbire con rapidità e virtuosità stimoli e potenze macchiniche.

 

Ora, ogni riappropriazione è destituzione del comando capitalistico. Questo processo di appropriazione da parte dei lavoratori immateriali è infatti molto forte, efficace nel suo svilupparsi – esso determina crisi. Ma non si darebbe crisi se considerassimo che essa nasce spontaneamente dai processi di riappropriazione e di destituzione. Non è così. La crisi ha bisogno di uno scontro, di una realtà politica che si muova per la distruzione non più semplicemente del rapporto di sfruttamento ma della condizione forzosa che lo sostiene. In effetti quando si parla di riappropriazione da parte del soggetto antagonista, non si parla semplicemente della modificazione della qualità della forza-lavoro (che deriva dall’assorbimento di porzioni di capitale fisso), si parla essenzialmente della riappropriazione di quella cooperazione che nella ristrutturazione capitalista della produzione era stata incentivata e poi espropriata – e che rappresenta il dramma essenziale di questa fase critica. Quando si dice recupero di capitale fisso, riappropriazione – lungi dall’esprimersi in termini macchiati di economicismo – l’analisi entra piuttosto su quel terreno della cooperazione che è oggi regolato in termini biopolitici dal capitale: destituire il capitale di questa funzione significa recuperare alla forza-lavoro autonoma capacità di cooperazione. Ma poiché la società civile e la cooperazione produttiva sono oggi dominate dalle funzioni monetarie – e le funzioni monetarie fanno capo direttamente al capitale finanziario – riappropriazione di capitale fisso e destituzione del comando capitalistico sulla cooperazione ci portano immediatamente all’interno di quanto è oggi più decisivo nella struttura del comando capitalista: la sfera monetaria. Se qui si dessero significanti, sarebbero significanti che rivelano il comune. La moneta si incontra e si scontra con le caratteristiche comuni della cooperazione. E allora la resistenza, la lotta e l’autodeterminazione del soggetto lavorativo qui assumono immediatamente caratteristiche politiche, poiché si scontrano con le dimensioni finanziarie (monetarie) del controllo sociale. Il welfare è il terreno privilegiato di questo scontro.

 

In secondo luogo, oltre a destituire il comando sulla cooperazione e a incorporarsi parti di capitale fisso, la nuova forza-lavoro, ovvero quella classe politica antagonista, socialmente ricomposta nella cooperazione, si trova a costruire luoghi comuni. Forse li desidera, comunque vuole costruirli. Luogo comune: che cosa significa? Immediatamente, un senso di orientamento nel contesto proprio della mobilità e della flessibilità incorporate alla forza-lavoro (cooperante). E, in seconda battuta, che cosa sono dunque i luoghi comuni, meglio, gli insiemi istituzionali dentro ai quali il soggetto antagonista vuole riconoscersi? Si tratta essenzialmente di livelli strutturali dell’organizzazione dello stare insieme, spesso il contesto sociale della città, meglio della metropoli – come luogo di incontro e di costruzione comune di linguaggi e di affetti, come piena virtualità di associazioni produttive. La metropoli sta infatti diventando, sempre di più, il luogo dove la resistenza all’estrazione capitalista del plusvalore dall’attività comune ed allo sfruttamento delle singolarità moltitudinarie, è divenuta possibile – forse un luogo di desiderio. La metropoli è certo divenuta centrale nell’accumulazione capitalista perché lì, nella metropoli, l’intransitività del rapporto capitalista ha raggiunto il più alto livello di realizzazione e di espressione, e come tale va governato dal capitale. Ma d’altra parte la metropoli si è fatta eminentemente luogo di incontro e di riappropriazione proletarie. Ogni istanza di contro-potere non può prescindere da luoghi, da spazi nei quali svilupparsi, affermarsi, sostenersi. Se nel primo momento che abbiamo considerato (quello della riappropriazione di capitale fisso) la singolarità veniva nel medesimo tempo riconoscendosi nel comune – ed il comune (nel caso, l’insieme dei servizi di welfare) diveniva l’oggetto delle sue istanze di riappropriazione – se questo avviene nella metropoli, cioè a partire da moltitudini che vengono ricomponendosi e prendendo forma in luoghi comuni – lo scontro allora si definisce immediatamente come lotta di un proletariato moltitudinario contro il capitale finanziario. Qui l’azione moltitudinaria, volta a difendere, a ricostruire, ad appropriarsi del welfare, si incardina sulla riscoperta di soggettività attive, di quelle singolarità che costituiscono la moltitudine – perciò si esprime nella richiesta del diritto di cittadinanza – che è politicamente “diritto alla città”. Diritto cioè garanzia di godimento della città, di cooperazione nella città, di governo della città, di lavoro nella città. La questione del reddito garantito di ogni cittadino diviene quindi un elemento che integra questa costruzione del politico. E se la richiesta di reddito riconosce la funzione produttiva di ogni cittadino, non è tuttavia questa la cosa fondamentale: fondamentale è piuttosto che ogni singolarità (cioè ogni lavoratore ed ogni cittadino) trovi e fissi nella sua pretesa soggettiva al reddito, una domanda di potere politico adeguata alla costruzione della moltitudine. Reddito garantito e diritto alla città sono un solo obiettivo politico. Se nel primo luogo comune che abbiamo costruito, la singolarità moltitudinaria si realizzava nel comune (nel governo del welfare), qui il comune è moltitudinario e si esprime attraverso le singolarità (nel diritto soggettivo alla città, all’accesso al comune) – così si afferma la nuova maniera di far politica oggi.

 

Nel neoliberalismo, nello Stato consolidato della trasformazione del comando di capitale, il tessuto del comune è organizzato dalla moneta ed espropriato dalla Banca. È così che, procedendo dal basso, si propone per noi, per le nostre lotte di emancipazione sociale e di libertà, il tema Europa. Ricostruire l’orizzonte europeo significa dunque battersi per la riappropriazione del welfare e per l’ottenimento di un reddito di cittadinanza, eguale per tutti e più che decente, riconoscendo nella BCE il nemico da battere, il potere da spossessare. È qui che si da, a fronte degli attacchi dei “mercati” (quanto avvenuto nella crisi ce lo ha mostrato) un’occasione unica di spostare il discorso politico  dalle condizioni asfissianti del dibattito all’interno dei singoli Paesi-nazione ad una prospettiva rivoluzionaria. Ma di più – proprio se non si può tornare indietro (e la crisi lo ha dimostrato, e la sua soluzione lo affermerà ancora più duramente) l’Europa è un’occasione rivoluzionaria. Se non si può tornare indietro, occorre andare avanti – e per andare avanti c’è una sola strada: lottare, insistendo su welfare e reddito di cittadinanza, per rifondare quell’istanza democratica del comune che ci è stata strappata via dall’attuale governance europea, egemonizzata dal neoliberalismo. Il tema Europa si pone dunque direttamente contro la Banca, riconoscendo che la lotta moltitudinaria, la lotta del proletariato sociale contro la Banca non rinnega il processo di unificazione europea ed i risultati raggiunti (fra i quali la moneta unica) ma si pone piuttosto l’obiettivo del governo della moneta, della costruzione della moneta del comune. Questa è però solo una premessa, quasi un anticipo ideologico di un’azione comunista da riprogrammare.

 

Di nuovo chiediamoci dunque: perché l’Europa? Perché siamo “europeisti” anche dopo che del neoliberalismo abbiamo direttamente subito la repressione feroce, l’austerità orribile e ne abbiamo fatto l’oggetto del nostro odio? E dopo aver implicitamente riconosciuto che l’Europa rappresenta nel quadro istituzionale presente, il più completo esempio di consolidamento dello Stato neoliberale? All’interno della “sinistra” molti, la maggior parte di quelli che non aderiscono alla socialdemocrazia, ora (dopo aver a lungo lottato contro il processo di unificazione europea, duramente ammaestrati dalla crisi economica e avendo appreso che indietro non si torna) – ora, dunque pensano che la sola maniera di ricostruire l’Europa preveda la riformulazione del contratto costitutivo, da parte degli Stati-nazione europei, esigono dunque che questi si ricostruiscano come soggetti sovrani della contrattazione. Si tratterebbe di ritornare (temporaneamente?) agli Stati-nazione, di restaurare una sovranità nazionale (protetta dall’Europa dentro e contro la globalizzazione?) e così di riconquistare potere sulla moneta. E poi… poi si vedrà. Il sovranismo è duro a morire e ci sono ancora socialisti disponibili, fin dal 1914, a ripetersi nel difendere la sovranità nazionale oltre ogni vergognoso limite! Subordinatamente, in maniera più pacata, si sostiene la possibilità di riaprire un rapporto – quasi contrattuale – fra i vari Stati europei, quasi sovrani, dopo che essi abbiano riconquistato una maggiore autonomia sovrana – quelli che il fiscal compact e gli altri diabolici accordi monetari hanno eliminato:  insomma, di ricostruire l’Europa in due tempi. Uno, cancellazione degli accordi sulla BCE; due, ricomposizione attorno ad un accordo tipo Bretton Woods, dove a comandare sia un indipendente “Bancor” – moneta convenzionale che flessibilmente accompagni le diversità delle situazioni europee e guidi i movimenti di aggiustamento delle bilance e dei budget all’interno dei singoli paesi e fra tutti. Patetici progetti. Comunque ci riguardano solo parzialmente, come per definire uno sfondo. Per noi il problema non si risolve ritornando indietro: pensiamo infatti che l’Europa sia il contenente minimo per un’azione politica rivoluzionaria che si collochi nella globalizzazione. Lo spazio (proprio in seguito alla globalizzazione) è ritornato ad essere una dimensione politica essenziale, primaria. È solo costruendo e consolidando la forza di un ordinamento in uno spazio determinato fra soggetti che cooperano, che la legittimità (quella sovrana, certo, ma anche quella) rivoluzionaria, si afferma. Non c’è alternativa. L’Europa è questo spazio – dove il proletariato moltitudinario nel quale ci riconosciamo può insorgere, trasformando non lo spazio (anche quello, forse: ne parleranno altri) ma la struttura di potere che lo ordina. L’Europa e la moneta europea costituiscono un ambito di virtuale autonomia all’interno della mondializzazione. Senza l’Europa non vi è possibilità di governare, limitando la pressione immane dei mercati globali e dei poteri multinazionali. Europa è quella dimensione spaziale che rappresenta una possibilità di sopravvivenza politica e di azione autonoma delle moltitudini europee, a fronte della pressione delle forze sovrane, già assestate su dimensioni globali – configurantesi ormai come sezioni continentali del potere globale.

 

Quanto è avvenuto sulla scacchiera globale in quest’ultimo trentennio, dalla fine della guerra fredda, va fortemente sottolineato per chiarire che la proposta di una lotta che si proponga un progetto di democrazia radicale in Europa, è tutto tranne che un sogno. Se è vero, infatti, che la potenza dei mercati è immane, è altrettanto vero che il peso e i condizionamenti dell’alleanza e della subordinazione atlantica è divenuto, nella continuità, sempre più fragile e in prospettiva instabile. È dal declino della potenza americana che l’inizio del XXI secolo è stato caratterizzato – con due conseguenze maggiori. La prima è il conflitto latente fra USA e Cina – esso sta maturando ed ha una prima conseguenza che ci interessa: avere estraniato il potere americano dall’Europa e fatto registrare il forte indebolimento (da non sottovalutare) del potere americano, non solo in Europa ma sull’intera dimensione mediterranea. Gli USA non hanno mai voluto un’Europa unita, tranne come alleato durante la guerra fredda. Dopo la “caduta del muro” di Berlino hanno continuamente osteggiato l’unificazione e la Gran Bretagna ha sempre rappresentato il cavallo di Troia di questo sabotaggio. Ora la situazione è profondamente mutata e, all’indebolimento della leadership, si aggiunge per la Casa Bianca la necessità di sostenere più efficacemente gli interessi americani nel Pacifico e di costruire laggiù un fronte strategico per l’egemonia asiatica. Come si vede, la “provincializzazione di Europa” non porta solo guai! La seconda conseguenza è ben più importante: si lega allo sviluppo delle primavere arabe lungo il Mediterraneo e nel Medio Oriente (un vero 1848). Per ora sembra impossibile identificare una soluzione politica al conflitto fra moltitudini arabe e le strutture autoritarie (militari e/o plutocratiche) che le controllano e le stringono in una gabbia di miseria e ignoranza medievali. In quella situazione, la lotta di classe sta riprendendo i suoi diritti – naturalmente se di lotta di classe si parla nei termini in cui noi ne abbiamo fin qui parlato, come lotte di moltitudini di singolarità, come lotte che sono insieme di emancipazione dalla povertà e di liberazione dei soggetti. Il tema di un’Europa unita da un progetto di democrazia radicale-comunista trova nel movimento d’oltre Mediterraneo una sua base d’appoggio – anche il viceversa è da costruire.

 

In terzo luogo – o meglio, è questo il terzo presupposto che sta alla base del ragionamento sulla soggettività che abbiamo cominciato a sviluppare all’inizio di questo intervento (tanto tempo fa!) – si tratta di consolidare, anche noi, in istituzioni i movimenti fin qui descritti. Si tratta non solo di costruire contropoteri diffusi ma di coalizzarli per produrre potere costituente. Si tratta di ricomporre l’insieme delle forze plurali che lottano per il reddito e per la difesa/espansione del welfare, attorno ad un telos, ad una finalità comune. A noi sembra che quando si sia assistito alla lunga vicenda delle primavere arabe e delle insorgenze occupy (ed alle tragedie che stanno contrassegnando la pur indomabile – talora aperta, talora sotterranea – continuità delle prime ed al ristagno – sia pur talora potentemente riflessivo – che tocca le seconde) – bene, non si può allora non pensare – se ancora si possiede un minimo di responsabilità teorica, prima ancora che politica – alla necessità di un lavoro di costituzione di una forza che sappia – tutti insieme – affrontare il nemico. La consapevolezza di un passaggio strategico è stata probabilmente acquisita: sarà necessario costruire piattaforme che organizzino la continuità delle lotte e il loro progresso. Far divenire istituzione le lotte significa imprimere loro un telos, incorporato ad ogni momento organizzativo. Sia chiaro che dicendo questo non si intende parlare di “rifondazione” della “sinistra” (“rifondare” e “sinistra” sono state ridotte a parole di merda) né si allude a possibili rapporti con forze parlamentari della vecchia sinistra. Siamo comunisti, non abbiamo nulla a che fare con la socialdemocrazia nella quale riconosciamo una variante ideologica del dominio capitalista. Noi siamo un’altra cosa, e ci definiamo al di là del socialismo. Cominciamo dunque per ora a sviluppare in Europa coalizioni di forze in lotta, dentro l’Europa, contro la sua Costituzione e le politiche della Banca Centrale e cerchiamo di dare loro forma istituzionale. Come una volta dicevamo, nel costruire organizzazione: “chi non ha fatto inchiesta, non parla”, cominciamo a dire: “chi non ha costruito coalizione, in Europa non parli”. Questo è probabilmente un modo per far diventare tendenza, in Europa quelle forme nuove che la moltitudine insegna, di costruire ed occupare spazi liberati – perché moltitudine è moltitudine di soggettività che si ritrovano in uno spazio comune. Credo comunque che per qualificare la costruzione di coalizioni, in questa fase, sia sufficiente affermare un punto: la volontà di distruggere la proprietà privata, di dissolvere nel comune la proprietà pubblica e la sovranità che la colora, e di costruire e di gestire democraticamente il governo del comune.

 

Lo spazio europeo è allora, forse, un territorio privilegiato di sperimentazione moltitudinaria nella costruzione di istituzioni del comune. Lo dico con molta prudenza ma anche con molta speranza: perché è ben vero che l’Europa è stata provincializzata e che il proletariato europeo ha perduto la sua battaglia di emancipazione che per alcuni secoli aveva condotto contro l’impero neoliberale dal capitale…. e però gliene abbiamo dato tante ed abbiamo ancora la forza di dargliene.

Gli audio e i video del seminario

 

Precari della scuola occupano l’ufficio scolastico regionale a Roma

 

 

 

 

 

Oggi, lunedì 2 settembre, un gruppo di precari della scuola ha occupato i
locali dell’USP di Roma. È stato srotolato uno striscione da una delle
finestre dello stabile, con su scritta l’eloquente frase: “Questo è il
nostro Stato”. L’azione è volta a denunciare l’esiguità del contingente di
personale della scuola assunto a tempo indeterminato, solo 11.000
assunzioni, a fronte di un vero e proprio esercito di lavoratori precari
che contribuisce in maniera consistente al funzionamento della scuola
statale (più di 100.000 sono i contratti a tempo determinato che il
Ministero della Pubblica Istruzione stipula ogni anno) e a richiedere il
ritiro di tutti i tagli imposti alla scuola, a partire dalla Gelmini e, su
questa base, l’assunzione a tempo indeterminato su tutti i posti liberi e
vacanti in organico di fatto e di diritto. Siamo stanchi di essere prima
usati e poi gettati via come rifiuti da uno Stato che dimostra di non avere
alcun interesse né per la nostra dignità, né per il nostro lavoro e né
tantomeno per le sorti dell’istruzione pubblica.

Invitiamo tutti a partecipare al presidio dei precari della scuola che il 4
settembre alle 15.00 avrà luogo di fronte all’USP di Roma, in via Pianciani.

Dobbiamo rifiutare con forza lo “stato di lavoratori usa e getta”, siamo
tanti, facciamo sentire la nostra voce!

Coordinamento Precari Scuola di Roma

3285312437
3398240024
3288694299

Avvisi a i/le naviganti (1) per Sovvertire il presente

*Passignano dal 5 all’8 Settembre 2013

Cominciamo a dire: Europa.

Individuiamo, con più precisione, l’oggetto specifico del nostro lavoro – piuttosto, lo spazio d’analisi a partire dal quale produrre lavoro politico. Cominciamo dunque a dire: Europa. Perché? Per il semplice fatto – semplice e duro come un sasso – che la struttura centrale del comando si è ormai definitivamente fissata altrove dal piano nazionale e da ogni corrispettivo livello istituzionale repubblicano – piuttosto a Francoforte che a Berlino. E’ dunque sull’asse che stringe le lotte e le resistenze di classe e moltitudinarie al comando monetario europeo che intendiamo soffermarci, nella nostra discussione. Si discuterà dunque di cosa significhi assumere l’Europa come spazio specifico e punto focale delle lotte per la democrazia e per il comunismo. Non sarà facile collocarsi a quell’altezza concettuale e politica: crediamo, però, che se riusciremo a stabilire una propedeutica per l’approccio al tema lotte/Europa, molte cose nei prossimi anni diventeranno più chiare e, forse, facili da fare. Nella nostra esperienza la definizione del luogo da cui parlare, è sempre stata fondamentale per ricostruire movimento.

Che cosa vuol dire lottare contro la Banca Centrale? Portare la nostra esperienza e la nostra teoria a rispondere a questa domanda – attraverso la lotta metropolitana sui temi del reddito e del comune, attraverso la costruzione di istituzioni del comune – bene, questo è quanto cominceremo a fare a Passignano e continueremo a fare poi. Naturalmente si tratterà di parlare di politica in maniera nuova. Di politica: e cioè di tutti gli strumenti (anche di leggi) utili a costruire un programma di lotte sull’Europa, subordinandogli ogni iniziativa. Se diciamo: “in maniera nuova” è per sottolineare la nostra sete di conoscenza comune, il desiderio di costruire concetti che afferrino il reale e capovolgano il dispositivo di comando. Perciò formazione, non potrà più essere – se mai qualcuno l’avesse pensato – sinonimo di una qualsivoglia tradizione: ma lavoro comune per imparare a guardare il mondo.

Sia chiaro: nell’attuale panorama istituzionale europeo, il livello della rappresentanza può essere solo riconosciuto come impedimento oggettivo allo sviluppo dei movimenti. La discussione sulle prossime elezioni europee finisce così con l’essere corruttiva del punto di vista sovversivo che urge e pressa il presente. In questa fase intendiamo separare radicalmente composizione tecnica e composizione politica delle moltitudini. Delle istituzioni esistenti (e delle competizioni elettorali) possiamo produrre solo critica. Quel resto di socialismo europeo che affoga nella morsa del pareggio di bilancio, non saremo certo noi a salvarlo. Delle forze tecnocratiche, dei passacarte di Francoforte e dei sacerdoti della Troika, come del contro effetto nazionalista che le loro politiche inevitabilmente produrranno nelle prossime scadenze elettorali possiamo solo dire: ecco il volto del nostro prossimo avversario.

In questo contesto, e solo a partire dal livello europeo, intendiamo certo porre in questione lo scenario italiano. Ancora una volta: è di critica, che si tratta. Leggere la rottura dei poteri istituzionali in Italia attraverso le lenti della critica radicale del diritto repubblicano, proporre una via di fuga dallo scontro tra gli alti gradi della magistratura e i vertici della rappresentanza politica, decostruire l’ideologia di tutte le soluzioni giudiziarie messe a servizio della mediocrità stessa della politica e delle sue istituzioni. La soluzione non si trova tra i banchi di Montecitorio, né siederà tra gli scranni del Parlamento Europeo. Ma dentro la crisi istituzionale che si apre, i movimenti possono subentrare duramente con un discorso chiaro e senza ambiguità – anche a partire dal dibattito “a sinistra” – e porre in evidenza senza inchini e salamelecchi un tema fondamentale, ovvero la trasformazione e ridefinizione della carta costituzionale. L’Italia è stata una repubblica fondata sul lavoro. L’Europa sia il continente di una democrazia assoluta fondata sul lavoro vivo, sulle donne e gli uomini che producono saperi, cura di sé, forme di vita. Ogni generazione ha diritto alla sua costituzione.

Per noi si tratta di costruire strumenti di lotta che rivendichino questo diritto. Allora innanzitutto dobbiamo individuare le nuove enclosures nell’economia della conoscenza ed abbatterle; riappropriarci del comune; definire una legge di stabilità del reddito universale di esistenza come premessa anticapitalista del riconoscimento della produzione permanente di cui siamo portatori; rivendicare come reddito quella produzione di valore che viene estratta dalla rendita finanziaria. Questo è il nostro costruire concetti: definire un potere costituente per salvaguardare, dentro il dispositivo formale, una strategia incrementale del conflitto.

Come si vede, non crediamo affatto che le figure della rappresentanza politica, in qualunque forma e in qualsiasi luogo siano prese in considerazione, possano oggi essere utili a risolvere i nostri problemi. Avrebbero il solo effetto di spostare l’attenzione critica e militante su elementi secondari e spesso opportunistici – comunque decentrati rispetto alla realtà ed al programma specifico dell’élite egemonica europea. Quello che ci interessa è piuttosto confrontarci con la nuova consistenza del governo capitalista, come contropotere espresso dal nuovo proletariato. Abbiamo bisogno di identificare sul livello europeo punti di scontro nella misura e nella dimensione di Rio o di Taksim. Su questo terreno convocare alla discussione tutte le forze – sì proprio tutte – che in Italia hanno vissuto gli anni del disfacimento della democrazia postbellica, ci sembra necessario e utile: non certo per costruire scenari elettorali. Chi sente il bisogno di esercitarsi in piccole tattiche e minuscole strategie per le elezioni europee non troverà nulla di interessante nella nostra discussione. E neppure coloro che pensano di rievocare attraverso un logoro sindacalismo di base, vecchi fantasmi gruppettari: le moltitudini europee non difettano di organizzazione. Le forme di vita e i conflitti che attraversano le metropoli sono ricchissime di capacità politica. Si tratta di non disperderla, di leggerla e interpretarla.

https://europassignano2013.wordpress.com/

Hub Meeting Round 2 – 13/15 Settembre, Barcellona

Quest’anno, in Turchia, Egitto e Brasile lo sciopero metropolitano è stato utilizzato come uno strumento dalle molte persone che stanno reclamando nuovi diritti ed una democrazia reale, riaffermando la propria presenza globalmente. Il 15 Ottobre 2013vorremmo essere un territorio abitato e condiviso da molti, costruito collettivamente una volta che le proposte per attaccare la corruzione ed il capitalismo finanziario – non solo simbolicamente ma anche materialmente attraverso pratiche specifiche – siano state definite. Crediamo che ciò possa avvenire solo se le molteplici reti, movimenti sociali e processi che in questo comune ciclo di lotte stanno sfidando l’arroganza del potere finanziario si radunino e discutano queste tematiche. Perciò la nostra proposta è di costruire, assieme, un meeting con giornate di lavoro per indirizzare l’implementazione di nuove forme di protesta sociale nella settimana dedicata alla lotta contro il debito e l’austerità del 15 Ottobre. Ci piacerebbe invitarvi a preparare queste giornate con noi, che saranno la 4a edizione dell’Hub Meeting.

Obiettivo: 

Lavorare alla costruzione dello sciopero sociale per la settimana del 15 Ottobre, 2013, dove “sciopero sociale” significhi uno sciopero generalizzato al di fuori della struttura laburista tradizionale dei sindacati ufficiali, ecc. Il nuovo paradigma dell’espropriazione della ricchezza comune, basato sul processo di finanziarizzazione dell’economia e la limitazione dell’accesso alla conoscenza/informazione richiede nuove forme ed azioni antagoniste. L’azione deve incidere sui flussi ed i processi delle cose che creano valore per colpire il nemico. Bloccare attività, scuole, università, mezzi di trasporto, ecc. potrebbe essere un punto di partenza per la costruzione di nuove istituzioni oltre il mercato del lavoro, per la cittadinanza universale. Inoltre, la gente che vive da precaria, i migranti senza documenti, i pensionati, gli studenti, i disoccupati, gli stagisti…sono gruppi in sé, e sono precisamente coloro che sono più colpiti dalle condizioni materiali dell’esistenza, che non possono partecipare agli scioperi ordinari. Dobbiamo essere capaci di ideare forme di azione mobilitazione inclusive ed aperte, che promuovano l’emancipazione e la partecipazione ad esse. Questo meeting servirà ad organizzare azioni che possano venire replicate in luoghi differenti, e condividere meccanismi e metodi per creare azioni, partecipare ad esse e diffonderle, prendendo in considerazione le specifiche caratteristiche di ogni territorio. L’intento è di costruire un nuovo tipo di immaginario per definire nuove relazioni umane, economiche e sociali che aiutino a trasformare i rapporti di potere tra governi, poteri finanziari e società.
Con amore,

http://hubmeeting20a.wordpress.com/

Recensione di A sara dura!

Centro sociale Askatasuna (a cura di), A sarà düra. Storie di vita e militanza no tav, DeriveApprodi, Roma 2012

E’ una storia molto più profonda di quanto avremmo immaginato. E’ una questione di vita e di morte, di vivere meglio e morire serenamente, sapendo di averci provato”

Ai compagni di Askatasuna va il merito con questo libro di proporre al movimento una riflessione sugli strumenti metodologici e teorici che abbiamo a disposizione per definire, raccontare e promuovere i percorsi di lotta.

Riprendendo in mano gli attrezzi della ricerca sociale hanno definito un possibile campo sul quale muoversi guardando ai futuri possibili per nuovi orizzonti di conflitto.

Partendo dall’“inchiesta”, proposta di lavoro immancabile in ogni ambito militante dell’ultimo decennio come bussola nella navigazione “a vista” in cui siamo costretti dalle profonde ridefinizioni nel plurisecolare divenire “classe” da parte dei subalterni, gli autori dalle prime pagine la riprendono come strumento che “produce conoscenza” (p.11), inoltrandosi nel complicato terreno della “conricerca”.

Questa pratica che “è costruzione di conoscenza e al contempo governo della conoscenza, inteso come indirizzo, scelta, decisioni, sottese da fini di parte” (p.17), abbandonata dagli ambienti antagonisti da almeno tre decenni, rappresenta uno scarto ulteriore nel lavoro epistemologico dell’inchiesta: è il farsi pratica rivoluzionaria da parte di un sapere altrimenti a rischio sussunzione anche negli ambiti accademici e scientifici ufficiali. La conricerca mette questo sapere al servizio delle lotte, produce soggettività, o in parole più semplici “fa prendere coscienza”. Delle condizioni proprie e della controparte, “di classe”. Con la nettezza che li contraddistingue i compagni torinesi definiscono anche il campo dei saperi utili alle lotte rispetto ai saperi che favoriscono il sistema capitalistico nella “sua stabilizzazione e il suo sistema di dominio” (p.33). Così propongono di distinguere tra una funzionalità delle scienze sociali e pedagogiche alle lotte rispetto a quelle economiche o giuridiche, dalle quali il capitalismo riproduce se stesso. Su questo potremmo anche non essere d’accordo perché una critica al sistema economico e alle sue forme politiche, allo Stato e alle forme del diritto passa necessariamente attraverso un impegno teorico dentro queste discipline. Ma è giusto che nella definizione dell’orizzonte di conflitto proposto dai compagni ci si nutra anche di scarti netti.

La conricerca si realizza nel momento in cui permette di indicare il “soggetto” come colui che “definisce e sostiene un punto di vista, assume una posizione di parte, si differenzia e costruisce una sua autonomia praticando una contrapposizione” (p.21) e coerentemente gli autori del libro riconoscono nella figura del militante il centro della narrazione della lotta no tav. La centralità che viene data al militante è rappresentativa delle posizioni più salde e articolate, dell’incontro di aspettative individuali e collettive intorno ad un processo di conflitto. Non a caso quindi le interviste, non solo quelle pubblicate (le altre sono consultabili sul sito www.saradura.org), sono state raccolte tra gli attivisti più noti del movimento, tra quelle figure che nella loro biografia politica hanno attraversato i momenti fondativi della lotta no tav o i passaggi più importanti della sua storia recente. Questo anche a scapito di una rappresentatività degli intervistati, che a parte poche eccezioni fanno parte di una generazione anagraficamente compresa tra i 40 e i 70 anni.

Gli spunti per una riflessione politica sono molti, ma va sicuramente sottolineato lo sforzo di proporre all’attenzione del lettore, specie se coinvolto in prima persona in processi di attivismo collettivo, la questione della cooperazione come momento costitutivo del comune: il commoning ovvero il processo di definizione dello stato della proprietà di quei beni “che sono stati socialmente riappropriati”(p.226) è una delle suggestioni più potenti che ci viene dalle pagine del libro, sgombera il campo dalle banalizzazioni sull’abusato tema dei “beni comuni” e orienta in avanti il dibattito nello schieramento antagonista.

Muovendosi lungo alcuni assi contenutistici (Contesto, Soggetto, Processi, Mezzi e capacità, Fini) il libro diventa una bussola importante per orientarsi nell’esperienza no tav dentro un quadro storico e sociale coerente. La Val di Susa è un territorio alpino utilizzato da oltre 30 anni come corridoio per le merci da e verso la Francia. E’ già saturata da arterie stradali ad alto scorrimento e trasformata nel suo tessuto economico da che era una propaggine periferica dell’industria torinese agli investimenti turistici dell’Alta Valle (pp.213-226). Per distinguere i contorni della composizione politica che anima il movimento bisogna partire da qui e dal lavoro di lungo periodo svolto da singoli e comitati nel corso degli anni. Per capire la sua forza e l’attrazione che ne deriva dobbiamo cogliere il valore della costruzione di forme organizzative, non date naturalmente ma elaborate con la cura e l’attenzione di chi ha realizzato intorno ad un progetto di lotta “qualcosa di più della somma delle sue differenze” (p.257).

Saper costruire relazioni forti che vanno oltre la comunità locale, trascendere il confine tra legalità e legittimità portando alla condivisione di pratiche al di la della sola e non scontata spontaneità, guardare ad un orizzonte anticapitalista dentro un rinnovato quadro sociale praticando forme di cooperazione che guardano ad alternative di futuro. Sono queste le indicazioni che ci arrivano dalla lettura di questo volume, oltre che naturalmente, dall’esempio quotidiano della lotta no tav.

a cura del nodo redazionale indipendente

Lettera dagli arrestati del 19 luglio nella Val di Susa

Come imputati dei fatti avvenuti il 19 luglio, sentiamo l’esigenza di esprimere la nostra più completa gratitudine a tutti e tutte quelli che in questi giorni ci hanno fatto arrivare la propria solidarietà. Gratitudine, ma è molto di più. Mai, nemmeno per un secondo, lo sconforto si è impossessato di noi, perché siete riusciti  a farci sentire parte di quel qualcosa di immenso che è la comunità notav, comunità il cui cuore pulsante batte in valle, ma le cui vene scorrono ormai in tutta Italia (e oltre). Scriviamo questo comunicato non solo per ringraziarvi, ma per chiedervi di allargare il vostro abbraccio  a tutti i detenuti del carcere “Lorusso e Cotugno” e più in là a tutta la popolazione carceraria del nostro Paese. Infatti, dopo essere stati arrestati e maltrattati, dietro quelle sbarre abbiamo trovato solo facce amiche, persone solidali e fratelli. Lì dentro, in un contesto creato per cancellare la dignità e l’umanità, queste persone non hanno mai perso la propria. Dal primo minuto siamo stati aiutati, medicati e protetti dagli altri detenuti. Durante tutta la nostra permanenza abbiamo parlato delle nostre esperienze di lotta con persone realmente interessate a capire le ragioni del movimento. D’altro canto, loro ci hanno raccontato di come il carcere ti toglie tutto, mirando a distruggerti come essere umano; ti mette alla mercè di persone abbruttite da un lavoro infame come quello del secondino.

Il valore della condivisione che in Valsusa abbiamo imparato a considerare sacro, in prigione è questione di vita o di morte. È proprio attraverso la condivisione che queste persone resistono ogni giorno. Quando si è reclusi, resistente lo diventi a forza, perché in ogni cella si resiste quotidianamente agli abusi, all’abbandono, al sovraffollamento. Per queste ragioni vi stiamo chiedendo di mettere da parte tutti i pregiudizi e guardare alla galera in maniera diversa rispetto a  quanto ci propina il mainstream. La vita, per uno che viene privato della propria libertà, è veramente difficile. Ma questa difficoltà non risiede nell’essere a stretto contatto con altri detenuti, bensì in una quotidianità fatta di cancelli, sbarre, divieti, ordini, insulti e prevaricazioni. Per questo, compagni e compagne, amici e amiche, vi chiediamo di sostenere la mobilitazione nazionale organizzata dai detenuti per il mese di settembre.

E a voi detenuti, che in questi giorni avete saputo farci sentire il vostro calore, diciamo questo: Non vi dimenticheremo mai, vi porteremo sempre con noi nei boschi e nelle città.

Continuate a resistere e a dare a chiunque la stessa accoglienza e solidarietà, ma soprattutto un po’ del vostro coraggio.

La vostra forza è stata un’importante lezione di vita.

A sarà düra. Liberi tutti/e!

 

Arrestati NoTav del 19 luglio

www.coordinamento.info