Scuola Estiva UniNomade: Conricerca e biocapitalismo

 

 

 

Presentiamo a Roma la summer school di uninomade scegliendo l’università come terreno sociale di cooperazione e di confronto anche a partire dalla centralità che incarna nelle trasformazioni della
metropoli, nei suoi flussi produttivi, all’interno del suo continuo e
dinamico processo di valorizzazione. Uninomade rappresenta oggi un
prezioso spazio di elaborazione teorica e politica dove i movimenti
possono trovare le sintonie giuste per tracciare nel lingiaggio comune
anche un possibile spazio di riflessione politica e ed elaborazione
teorica comune: una sorgente alla quale abbeverarsi e contaminarsi, un
necessario contributo alla soggettivazione politica dei movimenti.
Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare all’incontro che si
terrà a Sociologia lun 3 h 17:00

Il Collettivo UniNomade propone per settembre una ‘scuola estiva’ a Passignano sul Trasimeno in Umbria. Per registrarsi e richiedere ulteriori informazioni scrivere a: summerschool@uninomade.org. I materiali preparatori si trovano su questa pagina (continuamente aggiornata). Per le soluzioni di alloggio consultare questa pagina.

 

 

UniNomade Summer School
Conricerca e Biocapitalismo
6-9 Settembre 2012

Auditorium Urbani, Via Europa [mappa]
Passignano sul Trasimeno, 06065 Perugia

 

Viviamo oggi in una fase segnata da continuità e discontinuità: la crisi si approfondisce e assume il profilo di condizione permanente del capitalismo contemporaneo, anche se a ciò non corrisponde in modo meccanico e sincronico il “ricomporsi” dei processi di conflitto. E tuttavia, quasi quotidianamente assistiamo al moltiplicarsi – dalle fabbriche alla metropoli, in Italia e in giro per il mondo – di movimenti e lotte che ci parlano del concreto rovesciamento della crisi in uno spazio di possibilità.

É in questo passaggio storico che il Collettivo Uninomade 2.0 propone quattro giorni di confronto e approfondimento sulla costituzione ‘biopolitica’ del presente e sulle modalità di attivazione di processi di conricerca. Indagare la produzione di soggettività e la potenza costituente dentro la nuova composizione del lavoro vivo, le forme di lotta e le temporalità differenziate, i luoghi e le dinamiche di connessione: ecco la sfida che collettivamente  abbiamo di fronte.

Vogliamo esercitare una critica dell’economia politica all’altezza del presente, cogliere le relazioni tra rendita finanziaria e potere sulle vite, sviluppare pratiche biopolitiche capaci di aprire nuovi spazi di cooperazione tra singolarità, trasformare in antagonismo il conflitto messo a valore dal capitale — e sperimentare, dunque nella crisi, processi costituenti per la riappropriazione del comune.

La “scuola estiva” di UniNomade vuole perciò essere un momento di confronto e discussione tra esperienze, uno spazio di elaborazione di linguaggi comuni, di condivisione di metodi e processi di conricerca. Si propone di contribuire, innanzitutto, alla creazione collettiva di una maniera di vivere la politica dentro la crisi, cioè di uno stile di militanza. Invitiamo perciò alla partecipazione compagni e compagne, collettivi, gruppi di inchiesta, reti, tutte e tutti coloro che sono impegnati nelle lotte e nella costruzione di un pensiero e una pratica all’altezza della trasformazione dell’esistente.

*  *  * 

Programma provvisorio

6 settembre

  • 17:00-19:00.  Toni Negri: Biocapitalismo e costituzione politica del presente

7 settembre 
Critica marxiana dell’economia politica e suoi sviluppi in epoca di biocapitalismo cognitivo

  • 09:00-13:00. Adelino Zanini, Toni Negri, Carlo Vercellone, Matteo Pasquinelli.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare sui processi di valorizzazione nel biocapitalismo: coordinano Gigi Roggero e Salvatore Cominu.

8 settembre
Rendita e biopotere: socializzazione del reddito e rifiuto del debito

  • 09:00-13:00. Christian Marazzi, Stefano Lucarelli, Maurizio Lazzarato.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca realizzati o da attivare relativi ai processi di socializzazione del reddito e di rifiuto del debito: coordinano Andrea Fumagalli e Sandro Chignola.

9 settembre
Biopolitica: la fabbrica della strategia ai tempi delle moltitudini

  • 09:00-13:00. Cristina Morini, Tiziana Terranova, Toni Negri, Giso Amendola.
  • 15:30-19:30. Confronto tra percorsi di conricerca su corpi, queer e (ri)produzione: coordinano Anna Curcio e/o Roberta Pompili.

http://uninomade.org/uninomade-estiva-2012/

 

Senza margini. Appunti per l’autunno

di SANDRO MEZZADRA e FEDERICO RAHOLA

Attorno alla Spagna, in queste settimane, stiamo assistendo al dispiegarsi di un nuovo capitolo del tentativo di costruire, con immane violenza, una nuova costituzione materiale dell’Unione Europea. All’ortodossia ordoliberale di stampo tedesco si associa una perentoria gerarchizzazione degli spazi, immaginata come al solito con poca fantasia: i margini dell’Europa sono la linea del fronte, e dal presunto centro si irradiano le linee guida di una terapia shock che punta a determinare una vera e propria trasformazione “antropologica”, secondo retoriche che ormai si incontrano negli stessi organi di stampa “liberal” dell’Europa settentrionale. Il neo-liberalismo mostra oggi interamente – a partire dalla generalizzazione del debito come principale dispositivo di governo – il suo fondo autoritario, punitivo e lavorista: ogni interstizio della vita va messo al lavoro, in un vero e proprio paradossale revival della teoria del valore-lavoro (si aumenta l’età pensionabile, si aboliscono le festività, si punta a far entrare prima possibile i giovani nel mercato del lavoro). Ma di quale lavoro stiamo parlando? Le statistiche sulla disoccupazione, in particolare giovanile, raggiungono soglie fino a poco tempo fa impensabili, le politiche di austerity hanno un effetto moltiplicatore sulla depressione economica, e ormai nessuno crede più davvero alla favola continuamente procrastinata di una ripresa di là da venire.

Davvero, come ha affermato in questi giorni Mario Draghi, l’euro è “irreversibile”? Il fatto stesso che sia il governatore della Banca centrale europea a dichiararlo suona sospetto. L’impressione è che di irreversibile ci siano solo il carattere generale e pervasivo della crisi e l’incapacità delle politiche messe in campo a prefigurare una effettiva via d’uscita. Queste politiche stravolgono la costituzione materiale dell’Unione Europea (e dei singoli Paesi membri), generalizzano povertà, precarietà e sofferenza sociale, seminano terrore, ma lasciano intravedere all’orizzonte soltanto una prosecuzione della crisi in funzione della sua gestione. La stessa alternativa tra neo-liberali e neo-keynesiani, su cui indulge molta stampa, appare da questo punto di vista a dir poco fuorviante, considerata la genericità e l’assenza di esemplificazioni politiche delle posizioni che si riconducono al polo neo-keynesiano. La situazione europea, mentre non va dimenticato che la dinamica della crisi si approfondisce a livello globale (con il “rallentamento” di essenziali poli di sviluppo, dagli USA al Brasile alla Cina), presenta oggi caratteri paradossali, di blocco: le stesse geografie che vengono immaginate e imposte, con la ricostituzione di situazioni “periferiche” in Paesi come la Spagna e l’Italia, non sembrano avere alcuna possibilità di funzionare, nella misura in cui l’attacco ai consumi finisce per essere una minaccia per gli stesse Paesi che si pretendono “centrali”. Se la crisi non ha margini, non si capisce quali dovrebbero essere i nuovi “margini”: all’orizzonte si profila così una propagazione della stessa crisi all’interno del presunto “centro” dell’Unione Europea.

Crediamo che su questo punto si debba essere assolutamente chiari: la cura imposta non fa che riprodurre la malattia. La linearità catastrofica della crisi e della sua gestione non può quindi che essere interrotta dalla generalizzazione di un movimento di rifiuto e di rivolta, che coinvolga l’insieme delle figure sociali che ne stanno subendo la violenza. Tanto il febbraio greco quanto il luglio spagnolo hanno prefigurato questa generalizzazione, che si è innestata in entrambi i casi su una temporalità di medio periodo delle lotte dentro e contro la crisi che – pur con caratteristiche diverse (anni di sollevazione permanente in Grecia, le acampadas in Spagna) – avevano materialmente costruito un terreno nuovo. Altrove (in Italia, ma anche ad esempio in Portogallo e in Irlanda) le forme di resistenza si sono dispiegate in una dinamica maggiormente frammentata, con difficoltà a determinare momenti realmente ricompositivi. Superare questa frammentazione non può che essere il primo obiettivo per i prossimi mesi, attorno a cui costruire la più ampia convergenza di forze. E’ sull’assunzione della priorità di quest’obiettivo, solo in apparenza scontata, che andranno anzi verificati i comportamenti di tutti coloro che si pongono oggi in una prospettiva di costruzione di una radicale alternativa all’esistente. Alcuni elementi essenziali di programma politico – dalla costruzione di nuovi elementi di welfare attorno alle forme date della cooperazione sociale alla combinazione della lotta sul salario e sul reddito, dalla centralità dell’autogoverno dei commons alla lotta contro le privatizzazioni – sono ormai dati. Per approfondirli e per renderli immediatamente praticabili è necessario tuttavia aprire un nuovo spazio politico, e questo è possibile solo attraverso la generalizzazione del movimento di rifiuto e di rivolta di cui dicevamo. A noi pare che si possa da subito cominciare a lavorare a un progetto articolato su tre dimensioni, distinte analiticamente ma da gestire in modo combinato.

In primo luogo, si tratta di approfondire un movimento in senso proprio destituente, puntando ad affermare il dato dell’ingovernabilità dei margini, e cioè delle società europee maggiormente colpite dalla crisi, dell’impossibilità di determinare un’uscita neo-liberale da una crisi che è anche crisi del neoliberalismo. L’obiettivo delle mobilitazioni deve diventare immediatamente la caduta dei governi dell’austerity, entro un processo di combinazione e aggancio tra le mobilitazioni che continueranno a determinarsi in Paesi come la Spagna e la Grecia e di quelle che non possono non aprirsi in un Paese come l’Italia. I punti d’attacco di queste mobilitazioni possono essere i più diversi: indubbiamente le esperienze di lotta più significative degli ultimi anni in Italia (dalle mobilitazioni dei precari della cultura e dello spettacolo al movimento NOTAV) potranno giocare un ruolo importante, così come la riapertura di un fronte di lotta nella scuola e nell’università potrà funzionare da elemento moltiplicatore della mobilitazione. L’attacco generalizzato al pubblico impiego, del resto, determinerà movimenti di lotta che dovremo essere in grado di far uscire immediatamente da un terreno di mera resistenza (più o meno corporativa), ponendo il problema più generale di attribuire un nuovo significato comune alla istituzionalità complessivamente considerata. Ma il problema fondamentale, su questa prima dimensione, rimane quello di indirizzare complessivamente la mobilitazione verso l’obiettivo dell’ingovernabilità, ovvero di quella soluzione di continuità senza la quale non è possibile aprire un ragionamento e sperimentazioni pratiche su una diversa uscita dalla crisi.

In secondo luogo, si tratta di cominciare a costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova “mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi. L’esperienza argentina del 2001-2002 (le assemblee di quartiere, la sperimentazione della gestione diretta di servizi sociali, la generalizzazione dello scambio non monetario) continua a offrire esemplificazioni profondamente suggestive in questo senso, ma esperienze significative si sono diffuse anche in Spagna e in Grecia. Al di là dell’impatto immediato di queste pratiche nel fronteggiamento della crisi, non va sottovalutato l’effetto di medio periodo che possono avere, sotto il profilo della materiale costruzione di una nuova solidarietà, capace di sostenere processi di ricomposizione tra figure sociale diverse. Da questo punto di vista, ci sembra che un ruolo essenziale, in Italia, possa e debba essere giocato da due dei movimenti più importanti di questi anni: quello dei migranti e quello delle donne, o meglio più in generale sulle questioni della sessualità. Si tratta di movimenti che hanno profondamente inciso sul terreno della “vita quotidiana”, che hanno accumulato formidabili esperienze nell’affrontamento appunto quotidiano di razzismo e sessismo, e che hanno la potenzialità di garantire quell’apertura delle sperimentazioni attorno al tema dell’autogoverno che costituisce un elemento essenziale nel momento in cui riprendono terreno retoriche e pratiche di chiusura populistica, nazionalistica e xenofoba.

In terzo luogo (ma, lo ripetiamo: da subito), si tratta di associare a questo elemento di apertura che possiamo definire “intensiva” (rivolto cioè verso l’interno del tessuto sociale) un elemento di apertura “estensiva”. Già abbiamo detto che soltanto la concatenazione e l’aggancio tra le mobilitazioni in diversi Paesi europei, partendo da quelli più direttamente colpiti dalla crisi ma allargandosi ad altri, può determinare la soluzione di continuità oggi necessaria. Ma al tempo stesso, nel momento in cui ci si pone l’obiettivo immediato di far saltare l’architettura dell’Unione Europea così come si è andata radicalmente ristrutturando dentro la crisi, non si può che insistere sul fatto che non vi sono oggi soluzioni costruite attorno al “ritorno” alla sovranità nazionale. E’ dunque di vitale importanza moltiplicare immediatamente momenti di confronto e iniziativa politica a livello transnazionale (anche in questo caso: partendo dai Paesi più colpiti dalla crisi) per rendere praticabile l’obiettivo della riconquista di uno spazio europeo liberato dallo spettro del debito e dai dispositivi di comando che attorno al debito si sono organizzati rendendo intollerabili le nostre vite.

da www.uninomade.org

BCE, EURO, SCENARI: appunti di C. Marazzi

da www.uninomade.org

 

Il 2 agosto, la Banca Centrale Europea (BCE), malgrado le roboanti esternazioni
del suo presidente Mario Draghi sulla difesa ad oltranza dell’euro di pochi
giorni prima, ha in parte “deciso di non decidere”, almeno fino a metà
settembre, quando la Corte costituzionale di Karlsruhe emetterà la sentenza
sulla costituzione del Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS), che si sostituirà
all’attuale Fondo Salva-Stati, quest’ultimo dotato di 100 miliardi di euro, una
cifra irrisoria per poter intervenire efficacemente contro gli assalti ai
debiti sovrani dei paesi cosiddetti del Sud (ce ne vorrebbero 300 solo per
salvare la Spagna). Questo significa che nelle prossime settimane, in mancanza
di una autorità veramente in grado di “fare qualunque cosa per preservare
l’euro”, i mercati saranno probabilmente soggetti a forti oscillazioni
determinate dal “calcolo delle probabilità” sulla fuoriuscita o meno dall’euro
di Spagna e Italia. La questione di fondo è: quanta sovranità i paesi del Sud
sono di nuovo pronti a concedere per “tirare avanti” con i loro debiti
crescenti?

Prima
della riunione del board della BCE i paesi in sofferenza avevano chiesto che
l’istituto di Francoforte si mettesse ad acquistare direttamente e in modo
illimitato i titoli pubblici spagnoli e italiani in modo da favorire una
diminuzione dei tassi e evitare che il loro accesso al mercato fosse precluso.
Spagna e Italia non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di
solvibilità: l’intervento della BCE non dovrebbe essere solo quello di
calmierare i mercati  facendo scendere a
livelli sostenibili i tassi di interesse, ma anche quello di sostituirsi
eventualmente agli investitori che non vogliono più sottoscrivere questi stessi
titoli. Il che comporta un radicale cambiamento della natura della politica
monetaria della BCE. In sé, non si tratta di un fatto nuovo. Già nell’autunno
dell’anno scorso la BCE aveva acquistato direttamente sul mercato oltre 200
miliardi di euro di titoli dei paesi in difficoltà. All’inizio di quest’anno
aveva poi iniettato nel sistema bancario europeo oltre 1’000 miliardi di euro
che sono stati usati soprattutto nei paesi mediterranei per acquistare
obbligazioni dei loro Paesi. Pure, in seguito, seppure non sia stato ufficialmente
proclamato, gli interventi della BCE sono proseguiti soprattutto attraverso
cospicui finanziamenti delle banche spagnole e italiane. Col risultato di una
esplosione del bilancio della BCE, che sta diventando il principale detentore
di titoli statali dei Paesi in difficoltà o di obbligazioni in cui sono stati
cartolarizzati mutui ipotecari e altri crediti delle banche.

Ma l’appello al cambiamento della natura degli interventi della BCE – da
straordinari a ordinari – rappresenta una violazione dei suoi statuti, ciò che
provoca, come si è visto in questi giorni, l’opposizione della Bundesbank. Come
maggiore azionista della UE, per la Germania il salvataggio dell’Euro nella sua
forma attuale diventa sempre più proibitivo, al punto che l’agenzia di rating Moody’s
ha espresso un giudizio negativo sulle prospettive economiche della Germania.
Il salvataggio dell’euro a colpi di interventi disordinati e a costi crescenti
appare sempre più problematico. La prospettiva di una spaccatura dell’euro
comincia infatti ad essere esplicitamente evocata da molte personalità
tedesche. Essa appare come la soluzione più “ragionevole” ad una crisi che sta
distruggendo non solo l’economia della zona euro, ma soprattutto la credibilità
dell’ideale europeo. Come si dice in Germania, oggi è meglio un grande dolore
con una fine certa, che un dolore senza fine.

E’ alla luce di questo scenario (la spaccatura dell’euro) che va interpretato
quanto emerso il 2 agosto a Francoforte. E’ vero, come scrive il Financial
Times
(“Zen and the art of central banking”, 4 agosto), che sia Draghi che
Bernanke sono ormai entrambi impegnati nell’arte Zen della nientitudine:
“Strictly speaking, the Federal Reserve and the European Central Bank did
nothing. But their respective leaders, Ben Bernanke and Mario Draghi, showed how doing nothing is
far from being inactive”. Siamo, insomma, di fronte alle tipiche
virtù della performatività del linguaggio, il “fare cose con le parole”. Fare cosa? “The real message is that the peripheral
economies will not be given money for nothing. The pressure for meaningful
structural reform is to remain intense, and any short-term bailout will be
conditional and supervised by external agencies” (“Italy and Spain coy on
rescue fund move”, FT, 3 agosto). Ecco
la novità: la BCE è disposta ad agire solo se prima i paesi che chiedono un
intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni,
aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea. Le
parole della BCE, comunque, hanno disorientato i mercati, tanto che, dopo la
reazione catastrofista dei mercati del giorno seguente, c’è voluta una
spiegazione del Financial Times per ristabilire, in modo altrettanto
esagerato, la fiducia degli stessi mercati. Insomma, da un atto linguistico
all’altro. L’incertezza regna sovrana.

Ma procediamo con ordine: prima di tutto, con le “decisioni” della BCE di Draghi
siamo ancora lontani da quel cambiamento della politica monetaria auspicato da
molti prima del 2 agosto, ossia la trasformazione della BCE in una vera e
propria banca centrale che, intervenendo direttamente sui mercati con
l’acquisto di obbligazioni pubbliche (come fa la Fed o la banca centrale
giapponese, ecc.) si preoccupa non solo di combattere l’inflazione (ancora
l’unica vera priorità della BCE), ma anche di regolare in senso macro-economico
le variabili fondamentali della crescita economica (investimenti e occupazione,
in primo luogo). E’ vero che la BCE, oltre ad effettuare operazioni sul mercato
secondario di “importo adeguato”, potrebbe non sterilizzare gli acquisti di
titoli, lasciando in tal modo aperta la possibilità di un quantitative
easing
mirato, ossia la creazione di liquidità a mezzo di interventi sul
mercato dei titoli statali. Ma qui siamo ancora nell’ordine dei possibili. E’
stato invece deciso che la BCE interverrà solo dopo che sia stato concordato un
programma di assistenza tra il Paese che chiede aiuto e il
FondoSalva-Stati/Salva-Spread. E qui, apriti cielo! “Questa subordinazione ha
almeno due inconvenienti. Primo, la richiesta di aiuti all’Efsf è un’ammissione
di impotenza. Ciò ha ovvi costi politici, ma anche economici, perché rivela che
lo stesso Paese ritiene di non riuscire a farcela con le proprie forze.
L’esperienza (europea e internazionale) insegna che, quando un Paese chiede
prestiti a organismi sovranazionali, l’accesso ai mercati gli rimane poi
precluso a lungo. Secondo, la richiesta di aiuto è formulata prima di sapere
quali condizioni saranno imposte per ricevere assistenza. L’incertezza non è di
poco conto, perché l’intervento dei fondi europei deve essere approvato
dall’Eurogruppo. Le condizioni imposte sono quindi il frutto di un negoziato
politico e non solo tecnico. Un negoziato intergovernativo, condotto in
posizione di estrema debolezza contrattuale, potrebbe costringere il Paese a
subire condizioni fortemente pregiudizievoli dell’interesse generale dei propri
cittadini” (Guido Tabellini, “La BCE cerca scudi politici”, Il Sole 24 Ore,
4 agosto). Perché, allora, questa clausola della “sorveglianza speciale”, oltretutto
aggiuntiva a quelle già decise (e approvate dai Parlamenti)? Se lo
chiede addirittura Eugenio Scalfari: “Ho grandissima stima ed anche affettuosa
amicizia per Mario Draghi ma non mi impedisce di porgli la domanda: perché
l’acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev’essere autorizzato” (La
Repubblica, 5 agosto). Secondo Tabellini, “La vera ragione di questa pistola
puntata alla tempia è che la BCE ha bisogno di una copertura politica. Senza
l’accordo e la sorveglianza dei governi europei, non vi sarebbe una maggioranza
abbastanza ampia nel Consiglio della BCE per approvare gli acquisti di titoli
di Stato sul mercato secondario. Prendiamone atto, nella consapevolezza che i
governi delle banche centrali europee sono tutt’altro che indipendenti dal
potere politico”. E questa sarebbe la “vittoria” di Mario Draghi contro Jens
Weidmann, il presidente della Bundesbank “isolato” a causa della sua
testardaggine? Sembra di sognare! Di fatto, ha vinto l’ordoliberismo tedesco,
ha vinto cioè la politica del rigore e della disciplina politico-statale funzionale
al rafforzamento dell’economia di mercato. “Se, come probabile, saremo
costretti a chiedere lo scudo ‘anti-spread’, la campagna elettorale sarà un
inutile esercizio retorico: la politica economica italiana dei prossimi anni
verrà comunque decisa a Francoforte”. “Le varie road map elettorali dei partiti
rischiano di scomparire prima ancora di essere imboccate… Il ‘che fare’ sarà
l’agenda dell’Europa per salvare l’euro e l’Italia è il test più importante. Le
alleanze politiche dovrebbero seguire: pro o contro l’euro è la prima linea di
demarcazione. Una comoda terza via non esiste, fermo restando che si può essere
euro-ottimisti ma non euro-stupidi, ed euro-scettici ma non populisti
all’ultimo stadio” (Guido Gentili, “I compiti a casa, strada obbligata”, Il
Sole 24 Ore
, 4 agosto). Goodbye Mr. Socialism.

Siamo ormai in un “nuovo feudalesimo” basato sullo “Stato di eccezione” di Karl
Schmitt, come scrive Guido Rossi, “che comporta la rigida soggezione economica
della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o
burocrati, poco importa” (Il Sole 24 Ore, 5 agosto)? Sembrerebbe di sì,
con la (ovvia) differenza che nel feudalesimo criticato da Montesquieu il
comando gerarchico era basato sulla confusione tra ricchezza terriera e
autorità, mentre oggi la ricchezza finanziaria rimanda al comando sul comune,
al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine
attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso.
Privatizzazione dei beni comuni, smantellamento del Welfare State, dismissione
del patrimonio pubblico, costrizione al debito (in Italia, negli ultimi mesi,
il debito privato delle famiglie pare sia aumentato del 33%), sono le forme del
comando neo-feudale sulla moltitudine attiva, sul comune. Da soli, i mercati

finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di
feudalizzazione del comune. Per questo c’è bisogno delle istituzioni statali,
del sistema dei partiti, delle modifiche della costituzione (vedi, ad esempio,
il pareggio di bilancio o le varie spending reviews). La questione della
rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta
di classe “oltre la rappresentanza”.

Questo significa “lottare contro l’euro”, e a nulla serve l’illusione
(social-democratica) che, salvando l’euro, si salva la possibilità di aprire
spazi di resistenza sovra-nazionali. Questo euro sta di fatto de-europeizzando
l’Europa, la sta frammentando, balcanizzando, riproponendo concretamente un
sovranismo nazional-bancario destinato a restringere sempre di più gli spazi di
socializzazione-europeizzazione delle lotte sociali.

I dati sulla riduzione, a partire dal 2007, dei prestiti bancari cross-border di
Germania e Francia sono a questo proposito significatvi: una riduzione dei
prestiti alle banche dei paesi periferici e semi-periferici pari a oltre il
25%. Si tratta di una vera e propria “financial fragmentation and
nationalization”, conseguenza della paura che una spaccatura dell’Euro porti
all’introduzione dei controlli sui movimenti di capitale e all’aumento della
pressione per erogare crediti a partire dai depositi interni ai paesi deboli.
Ne consegue che al Nord le banche possono far crediti a costi ridotti, mentre
al Sud si assiste alla drastica riduzione della capacità creditizia (vedi
“German banks sound retreat. Net lending to
weaker eurozone nations falls. French groups also cut cross-border exposure”, FT,
30 luglio).

Non c’è quindi spazio per velleità sovraniste, di ritorno alla sovranità nazionale
per rompere la camicia di forza della moneta unica. Di fatto, il sovranismo
bancario è già in atto e non ci sembra che stia contribuendo a migliorare la
situazione. Una situazione, oltretutto, in cui la frammentazione è concretamente
all’opera all’interno degli stessi Stati nazionali, come sta accadendo in
Spagna, ma anche in Italia, con la crisi della Catalonia, di Valencia, ecc. (“Europe’s Brutual Game Of Dominos”, BloombergBusinessweek,
5 agosto). E, soprattutto, in una fase in cui “The stream of migrants is
the most eye-catching part of a larger trend – people from recession-hit
countries in the southern eurozone moving northwards to seek work”  (Gerrit Wiesmann, “Greek swap sun and
austerity for jobs in rainy Germany”, FT, 2 agosto). La
questione dei migranti torna ad essere fondamentale nella definizione degli
spazi di lotta.

C’è solo spazio per la costruzione di una moneta (del) comune che sappia dare
espressione materiale alla lotta di classe trans-nazionale. Una lotta che parta
da precise e concrete “soggettività migranti”, da forme di riappropriazione del
comune, del sapere (“Maybe it is easier to be European if you’re well
educated”, dice un emigrato greco), che su queste basi sappia ricomporre un
“sapere monetario condiviso”, in cui la moneta sia veicolo di ricomposizione di
senso, di autonomia sociale, non certo di esclusiva appropriazione di lavoro e
di vita altrui.

La tenuta sociale, interna ai vari paesi della zona euro, è il problema centrale
dei prossimi mesi. La moneta unica, con le riforme economiche che comporta, non
può reggere se cresce un movimento di rivolta contro il sistema dei partiti
chiamato ad implementare i Memorandum della troika. Di questo sono perfettamente consapevoli anche i
tedeschi. Hans-Werner Sinn e Friedrich Sell prongono sulle colonne del Financial
Times
la loro soluzione a questo problema politico-sociale: “The idea is to
allow countries leaving the euro to adopt their own currency temporarily with
an option to return later” (“Our opt-in opt-out solution to the eurozone
crisis”, FT, 1 agosto). Sinn è l’economista tedesco più
influente, colui che da tempo critica (ferocemente) i paesi periferici per il
loro lassismo, sostenendo l’insostenibilità economica per la Germania
dell’attuale sistema monetario europeo. L’idea di permettere ai paesi del Sud
di uscire “temporaneamente” dall’euro per riconquistare la loro competitività
(via svalutazione della loro moneta) e, soprattutto, il loro consenso
politico-sociale interno, la dice lunga su quel che i tedeschi hanno in mente,
e da tempo: la spaccatura dell’eurozona, né più né meno. Esiste già un accordo
(European Exchange Rate Mechanism) che permette ai paesi in attesa di entrare
nell’euro, come la Danimarca, la Lettonia e la Lituania, di “esercitarsi” per
un paio di anni (infatti, l’ERM II da loro proposto ai paesi deboli già
nell’euro dovrebbe essere una specie di “training space”) prima di entrare a
far parte dell’eurozona. Insomma, quel che Sinn e Sell propongono è una
spaccatura dell’euro in due aree monetarie (se poi la Grecia, la Spagna o
l’Italia ritorneranno nell’euro, dipenderà dalla loro capacità di sfruttare la
leva della svalutazione entro un margine di +/- 15%). Gli esempi storici di uno
scenario del genere non mancano: la separazione dal dollaro del D-Mark nel
1969, l’uscita della sterlina dallo SME all’inizio degli anni ’90, l’Argentina
e la rottura della parità col dollaro nel 2002.

E’, a suo modo, un’opzione sovranista (Jacques Sapir è ancora più radicale, ma la
direzione sembra la stessa) ma declinata su due aree monetarie. Si noti che
anche Michel Aglietta, che sostiene l’opzione federalista, non vede affatto
male l’uscita della Grecia dall’euro (Zone Euro. Eclatement ou fédération,
Michalon: Parigi, 2012). Chi, come noi, parte dalle lotte, dai movimenti, dalle
soggettività, non può sottrarsi dall’esprimersi politicamente su questi
scenari. Da una parte, è evidente che l’Eruopa monetaria sta sgretolandosi a
causa delle sue contraddizioni interne (monetarie e istituzionali). Personalmente
continuo a credere che la spaccatura dell’euro sia l’esito più probabile. Non
lo auspico, semplicemente mi sembra che sia “nelle cose”. Vedremo. Dall’altra,
il passaggio dalla moneta unica attuale alla moneta (del) comune è l’orizzonte
dei movimenti sociali, che sono apolidi (per definizione storica) e che quindi
devono sottrarsi a qualsiasi ripiegamento sovranista. La moneta (del) comune
sarà l’esito di questa tensione. E’ un processo materiale, costitutivo, aperto.

Le carceri scoppiano!

Sono oltre 67.000 le persone rinchiuse nelle carceri del nostro Paese
in strutture che ne potrebbero contenere al massimo 42.000.

Il maggior sovraffollamento degli ultimi 60 anni. Un record.

Le condizioni di detenzione sono inaccettabili: mancanza di acqua e di igiene, di spazi per attività sportive o semplicemente per muoversi, docce
insufficienti, vitto immangiabile, assistenza sanitaria nulla ecc.
Amnesty International le definisce“trattamenti inumani e degradanti” e
“tortura”. Per questi “trattamenti” lo Stato italiano è stato
condannato più volte dalla Corte europea di Strasburgo.

 

Nel 2008 il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha sottoposto il nostro Paese
alla Universal Periodical Review, una procedura di revisione periodica
riguardante i diritti umani. Sull’Italia sono state emanate ben 92
raccomandazioni. Eppure si continua a torturare: alla Diaz, come a
Bolzaneto e in piazza a Genova nel luglio 2001. Non si tratta di
episodi isolati e straordinari: ma di pratiche ordinarie dello Stato,
delle classi dirigenti e delle istituzioni.

Qual è il motivo di questa “grande carcerazione” cosi come definita
dagli esperti? In questi ultimi decenni i reati gravi contro le
persone sono in diminuzione, e allora? La risposta è che in un momento
in cui l’Europa sta vivendo una delle più grosse crisi economiche, il
sistema capitalistico risponde con la repressione e la carcerazione
coatta per soffocare la nascita del conflitto sociale dove ogni
violazione dell’ordine pubblico deve essere sanzionata. In sostanza il
peso di questa crisi è scaricato sulle spalle, già massacrate, dei più
poveri, di chi lavora in modo precario, di chi non trova lavoro, di
chi con il magro salario non arriva alla terza settimana del mese. Le
carceri italiane non sono piene di potenti corrotti o inquisiti
eccellenti, ma di autori di piccole trasgressioni: oltre 25.000 sono
condannati a pene inferiori ai 3 anni (e per le leggi italiane
dovrebbero trascorrere la sanzione in “misura alternativa” non in
carcere). Negli ultimi decenni sono state create leggi liberticide
come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la ex Cirielli sulla recidiva,
che sostenute dalle campagne forcaiole della stampa nostrana hanno
alimentato un clima che rende sempre più difficile l’accesso alle
misure alternative. E’ con questa stessa repressione che per una
manifestazione si rischiano fino a 15 anni di carcere; ogni
mobilitazione, ogni lotta subisce l’aggressione delle forze
dell’ordine e la condanna della magistratura giunge puntuale con pene
altissime. In questo paese la cosiddetta “legalità” considera più
grave una manifestazione collettiva per un bisogno negato (lavoro,
casa, sanità, ecc.), piuttosto che l’azione criminale di chi devasta
l’ambiente, saccheggia
le nostre vite e riduce alla fame e/o uccide.

Le detenute e i detenuti si ribellano, a questo massacro non ci stanno!

Sono decine e decine le carceri in lotta.
Dal sud al nord Italia la protesta si espande: scioperi della fame o
del vitto, battiture delle sbarre e sciopero delle lavorazioni. I
detenuti e le detenute chiedono Amnistia, Indulto, accesso rapido alle
misure alternative, di uscire dal carcere, di mettere fine a quel
sovraffollamento spaventoso che rende, la già dura condizione di chi è
privato della libertà, del tutto inaccettabile e invivibile.

Siamo al fianco di chi lotta in carcere e vogliamo fare nostri gli
obiettivi di lotta della popolazione detenuta
Sosteniamo e diffondiamo in tutta la città la loro lotta!

Per questo invitiamo tutte e tutti a partecipare a un presidio giovedì
2 agosto davanti al Ministero di Giustizia in via Arenula a partire
dalle ore 17.00

LIBERE TUTTE LIBERI TUTTI

compagne e compagni contro il carcere

Intervista ad Hanno Balz, professore di Storia contemporanea presso la Leuphana Universität Lüneburg (Germania)

Nel tuo lavoro sui movimenti sociali e culturali negli anni 80 ti concentri sulla diffusione di prospettive individualiste. Come si concilia questa tendenza con il cambiamento dei modelli di produzione, la frammentazione della classe operaia e la progressiva soppressione dei sistemi di welfare?

Prima di tutto dobbiamo distinguere: il più grande arretramento del regime neoliberale ha avuto luogo nel Regno Unito della Tatcher e nell’america di Reagan. In Germania, per esempio, il sistema di sicurezza sociale è rimasto relativamente intatto durante gli anni ’80, – qui l’agenda neoliberale è riuscita ad imporsi negli anni ’90. La ragione per questo è che, ad un meta-livello, la competizione tra Germania Est e Ovest imponeva al governo di Kohl di difendere un certo standard di sistema di welfare sociale e una classe relativamente privilegiata di lavoratori qualificati con lavori sicuri.

La diffusione della nozione di un primato dell’individuo dai tardi anni ’70 in poi ha espresso una cultura del soggetto post-moderno e certamente è stato un prodotto dei cambiamenti della società durante la crisi degli anni ’70. Non solo la Sinistra si è concentrata sempre di più sul personale ma anche la reazione politica che avrebbe trionfato alla soglia degli anni ’80 ci si riferiva sempre di più.

Margaret Thatcher, per esempio, ha ripetutamente asserito il primato dell’individuo e nella sua campagna, come fece Reagan subito dopo, ha usato un vocabolario che deve essere suonato familiare ai membri delle sub-culture: ora, autorealizzazione, libertà, fantasia e soprattutto avventura e rischio erano i concetti chiave della loro versione di un capitalismo indomito che divenne noto come neoliberismo.

La Tatcher espresse il credo della sua politica nel 1987: “Penso che abbiamo attraversato un periodo in cui troppe persone hanno creduto che se loro hanno un problema, è compito del governo risolverlo. ‘Ho un problema, prenderò un sussidio’, ‘Sono senza casa, il governo me ne deve dare una’. Loro stanno spostando il loro problema sulla società. E la società non esiste. Ci sono uomini e donne individuali, e ci sono le famiglie. E nessun governo può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono prima guardare se stesse

La parola chiave qui è “auto-determinazione”. Come un’ideologia post-materialista è stata adottata per la flessibilizzazione dell’accumulazione capitalista è stato mostrato dai lavori di Boltanksi e Chiapello, soprattutto nel loro libro: “Il nuovo spirito del capitalismo”. Questa flessibilizzazione nel luogo di lavoro (gruppi, gerarchie livellate, outsourcing) consisteva in una maggiore insicurezza e, in ultimo, a un maggiore sfruttamento del lavoro umano, mentre prometteva maggiore autonomia e autodeterminazione. Questo è ciò che Michel Foucault esaminò nei suoi lavori sulla governamentalità e chiamò “Tecnologie del sé”. Alla fine ci si sente meglio ad essere responsabili per il proprio sfruttamento che sentire la frusta del padrone sulla schiena. Questo è il capitalismo 2.0.

Il fascino verso la responsabilità individuale da allora è accompagnato da politiche di crescente pressione sociale nella forma di un sistema di welfare mutilato, alti tassi di disoccupazione, maggiore carico di lavoro. Non sorprende che in questo periodo la discussione su una “società del rischio” (Ulrich Beck), rispetto ai rischi individuali (sociali) che dovevi accettare, ha guadagnato importanza.

Certamente il collasso del socialismo Est-europeo si è aggiunto al processo che è evoluto attraverso gli anni ’80 ma è giunto a pieno compimento solo quando un tipo differente di società è scomparso dalle cartine geografiche.

Guardando al 2001 (G8 di Genova, la repressione brutale e l’inizio della politica della guerra al terrore), è possibile considerare questo evento come una sorta di pietra miliare per i movimenti sociali? In che maniera ha determinato una qualche sorta di discontinuità per la cultura politica autonoma dei due decenni precedenti?

Tra la “Battaglia di Seattle” 1999 e le dimostrazioni anti-G8 a Genova la sinistra transnazionale sembrava essere forte e crescente. Ma è ovvio che dopo il 2001 c’è stato un certo declino nelle capacità di mobilitazione di una sinistra radicale. Penso, che questo non ha necessariamente a che fare con la repressione, ma con il fatto che con la guerra in Iraq è sorto un grande movimento per la pace di carattere liberale. Come si può osservare in altri tempi, un movimento così vasto ha spesso l’effetto di emarginare le voci e i movimenti più radicali. Questo, ad esempio, è stato il caso durante il grande movimento per la pace nei primi anni ’80 in cui il movimento autonomo inizialmente è stato una parte importante ma poi è stato messo da parte dal movimento tradizionale tramite la negazione di solidarietà.

Inoltre ci sono stati cambiamenti interni nei movimenti, essendo spesso autocritici verso la scena e la sua storia, per esempio quando si tratta di relazioni di genere e di attitudini chauviniste. Forse in questo troviamo anche un cambio generazionale nei movimenti, con il vecchio attivista che lascia le nuove modalità della politica alle spalle.

La recente crisi economica è stata accompagnata da un’esplosione di dissenso in tutto il mondo: sembra che la scelta della “sottrazione” (“drop out”) stia venendo sostituita da rivendicazioni collettive di carattere sociale e politico. Che opinione ti sei fatto?

Tutto sommato, oggi sembra essere più duro “sottrarsi”, perchè il sistema di welfare, come “rete di salvataggio”, non è lo stesso degli anni ’80 e’ 70 per molte parti d’Europa. D’altra parte, il concetto di sottrazione si è trasformato se guardiamo alla scena techno (specialmente a Berlino).

Le droghe sono cambiate, ma c’è sempre una tendenza alla rinuncia in questa scena. Se parli con gli attivisti più anziani, spesso esprimono l’incapacità di comprendere la voglia che hanno le giovani generazioni di studiare, tendere ad una carriera accademica o cose simili.

In generale, una attitudine anti-sistemica degli attivisti è più difficile da trovare rispetto a 20 o 30 anni fa. Ciò è evidente se guardi alla generale ricerca di consenso del movimento “blockupy”, ad esempio, che potrebbe essere all’origine di una mancanza di analisi radicale in questo movimento. La storia mostra che i tempi di crisi di solito non conducono ad una crescente radicalizzazione piuttosto ad una svolta conservatrice nella società, espressione di incertezza o anche di paura. E’ ancora più chiaro se guardiamo alla Germania o alla Grecia.

I movimenti sociali devono confrontarsi con nuovi modelli politici e sociali. Nell’agenda politica dei movimenti è tornata centrale la prospettiva del futuro: non è riduttivo guardarla solo dal punto di vista della delega?

Al momento vedo una scarsità di ragionamenti utopici. Se si chiedesse agli attivisti, che parlano di rivoluzione, cosa succederà il primo giorno dopo questa rivoluzione, non si avrebbero molte risposte. D’altro lato ci sono stati modelli elaborati di politiche riformiste, come per la Tobin-tax e iniziative sulle politiche globali. Qui ci troviamo davanti ad una tendenza realista/riformista che rispecchia una cultura politica degli “esperti”. Abbiamo idea della società nella quale vogliamo vivere e come raggiungere questo obiettivo in un mondo globalizzato, complesso e altamente industrializzato?

I movimenti si sono sempre confrontati con un approccio duplice alla sua storia: prima cosa, nella dinamica a cambiare il movimento ed emanciparlo dal proprio passato, c’è una tendenza al “disapprendimento”, come possiamo vedere nella scena punk degli anni 70 e più tardi in quella “autonoma” (in senso tedesco, ndt). Dall’altra un movimento deve studiare le proprie origini e vecchie analisi per non fare gli stessi errori di 20 anni prima. Tra questi due aspetti dovrebbe manifestarsi un nuovo movimento.

In linea generale i movimento dovrebbero chiedersi: che impatto hanno le azioni, siamo in grado di disturbare l’ordine egemonico prevalente? Siamo in grado di persuadere porzioni sempre più ampie di popolazione o desideriamo essere un blocco nell’ingranaggio? Come possiamo evitare di essere sussunti?

Una lezione che è stata appresa negli ultimi 40 anni di movimento è che il capitalismo non è come immaginato dalla vecchia sinistra ortodossa, un colosso dai piedi d’argilla che basta spingere per farlo collassare in 100 pezzi. Per la capacità del capitalismo di assorbire o modificare una certa ampiezza della critica (come dopo il “1968”) dovremmo piuttosto parlare di colosso dai piedi di gomma (o anche di schiuma)-puoi spingerlo, ma assorbe la pressione…

Tenendo questo in conto, i movimenti odierni possono imparare (o disimparare) molto.

S-Monti-amo la crisi

da www.infoaut.org

In coda ad una settimana e più di roventi polemiche intorno alla venuta in città del premier Mario Monti, oggi 16 giugno è scesa in piazza la Bologna che non ci stava ad accettare passivamente le passerelle del primo ministro diretta espressione delle banche e della finanza.

La Questura decide di creare una zona rossa militarizzando la zona centrale della città, ben conscia del fatto che la giornata di contestazione potrebbe rivelarsi attraversata da una pluralità di soggetti sociali indisponibili a sottostare al ricatto di provvedimenti come l’IMU, alle manovre lacrime e sangue, all’austerity generalizzata, a riforme universitarie nel solco delle precedenti, alla gestione della crisi post-terremoto, alla distruzione dell’articolo 18 e degli ultimi residui diritti dei lavoratori.

E così è. Dalle 15 l’incrocio tra piazza VII Agosto e via Indipendenza si riempie dei volti e delle voci di chi porta in piazza il suo rifiuto a questo governo esprimendosi in una forma rumorosa, ma determinata, di dissenso. Un cacerolazo contro la crisi, capace di andare con determinazione ( venendo più volte caricato dalle forze dell’ordine) a far sentire la propria voce fin sotto l’Arena del Sole dove era arroccato Monti, ma anche poi di bloccare la città per comunicare la presa di parola dei movimenti e delle lotte! Una piazza attraversatissima, che ha riunito in una sola voce tutti quelli che ai diktat della finanza internazionale non vogliono sottostare!

Una giornata importante quindi, che porta un’unica, iniziale, considerazione: come oggi a Bologna, è tempo che ovunque nel paese i ministri del governo tecnico ed il premier Monti non abbiano cittadinanza!

Diretta Live, con alla fine il video tratto da Repubblica.it

19:00 Sotto la R il corteo si conclude. Oggi Bologna non è stata ad ascoltare le parole di un banchiere protetto da zone rosse, scudi e manganelli, ma al contrario la parola l’hanno presa con forza tutt* quell* che rifiutano di sottostare ai ricatti del governo Monti, che rifiutano di accettare riforme sanguinarie, che dal basso vogliono contrastare queste politiche d’austerity!

18:50 Dal megafono si susseguono ancora interventi che parlano di precariato,lavoro,pensioni,studenti.

18:40 Il corteo arriva in piazza Re Enzo. La grande R della festa di Repubblica, sulla quale viene appeso lo striscione di apertura (“sMontiamo la crisi, Monti bologna non ti vuole!”)  oggi è stata cambiata di senso: é diventata la nostra grande R, quella della Rabbia, del Reddito per tutt*, della Riappropriazione, della Rinascita!

18:37 Oggi le zone rosse non ci impediscono di andare dove vogliamo, la folla passa sotto le due torri!

18:34 Da via irneio attraverso via borgo di San Pietro, via oberdan il cacerolazo arriva in piazza nettuno.

18:16 Dopo via Indipendenza ancora su via Irnerio, la folla grida “Monti degage!”, i cori e gli slogan continuano ad ecceggiare in una bologna paralizzata dal corteo.

18:00 Dopo quasi  4 ore di corteo, dopo le cariche, dopo aver sorpassato i blocchi delle forze dell’ordine la determinazione della gente non concede tregua alla controparte, i fischi continuano con la stessa intensità, gli slogan scanditi sono sempre piu’ incalzanti, il rumore continua a salire!

17:47 Il blocco sui viali viene forzato e oltrepassato dai manifestanti che riescono a tornare su via Indipendenza alla volta dell’Arena del sole.Non ci fermate, oggi bologna è nostra!

17:38 Il dissenso fa paura, i difersori dell’ordine continuano a bloccare il corteo , ora all’altezza di piazza medaglie d’oro vicino alla stazione dei treni.Ma la militarizzazione sempre piu’ consistente non spaventa chi si scaglia contro un governo che precarizza le vite, e il nervosismo delle fdo evidenzia la paura verso chi non vuole abbassare la testa!

17:32 Le forze dell’ordine cercano di imporre nuovi blocchi anche sui viali ma il corteo è sempre piu’ partecipato e vuole continuare ad esprimere la propira rabbia!

17:20 I viali sono bloccati dal cacerolazo!

17:11 Ancora piu’ di mille persone bloccano bologna ,il corteo punta verso i viali, gli interventi continuano a scagliarsi contro il governo delle banche, contro l’europa dell’austerity e contro l’1% che ci vorrebbe silenziosi e accondiscendenti. Noi non lo saremo mai e questa giornata lo dimostra!

17:06 La bologna delle lotte sociali paralizza la città! Il cacerolazo invade via Irnerio.

16:57 Il corteo continua a muoversi determinato per le strade di bologna.La gionata non finisce qui, Monti deve andare via!

16:49 In via Righi,sul lato destro del corteo i manganelli si abbattono anche sui musicisti della Samba Army  che con tamburi, rollanti e fiati accompagna il cacerolazo dall’inizio della giornata!

16:40 La folla grida: “Pagaci le tasse, Monti pagaci le tasse!”.Tra i manifestanti ci sono diversi contusi: la repressione è l’unica risposta che il governo delle banche possa concepire.

16:34 Il corteo è sempre piu’ vicino all’arena del sole, mentre tra gli interventi dal megafono si alzano le voci di chi ha vissuto il terremoto e non ne puo’ piu’ di false promesse e austerity!

16:24 Il cacerolazo incontra un nuovo blocco delle fdo all’altezza di via Righi, incrocio con via Indipendenza.L’assedio continua!

16:13 Il dissenso contro Monti invade la città! Il cacerolazo inizia a spostarsi verso via Irnerio per continuare l’assedio, in una bologna complice e solidale con i manifestanti!

16:06 Seconda carica della forze dell’ordine, il corteo continua, non arretra di un millimetro, non si scompone, rimane compatto! E ancora una pioggia di verdure e ortaggi contro quello che  è il vero marcio di questa giornata: i difensori del governo dell’austerity!

16:00 La piazza determinata non arretra dopo le cariche! I manifestanti continuano a ricoprire le forze dell’ordine di ortaggi marci!La folla grida via Monti,bologna non ti vuole!

15:50 Piovono pomodori marci  e i tutori della legge non esitano a caricare i manifestanti per difendere il presidente delle banche!

15:45 L’ assedio è sempre piu’ vicino al cordone che protegge l’arena del sole! Ma l’incredibile schieramento di forze dell’ordine e gli elicotteri che ronzano in cielo non spaventano chi è determinato ad esprimere il proprio dissenso e la propria rabbia contro l’1% arroccato nelle sue zone rosse protette dai suoi servi!

15:30 La Bologna del dissenso non cerca mediazioni! L’assedio verso l’arena del Sole continua,animato da un migliaio di persone che con bandiere NoTav, cartelli, strisconi, pentole e coperchi vogliono andare a gridare in faccia a Monti fuck austerity!

15:10 Diverse centinaia di persone avanzano su via Indipendenza in mezzo ad una gran frastuono!Cacerolazo contro il governo della banche!

15:00 Sempre piu’ persone confluiscono al cacerolazo e sempre piu’ il rumore si alza contro il governo Monti!Tantissime pentole, coperchi, tamburi e fischietti!

14:45 Già un qarto d’ora prima dell’appuntamento, tra piazza  VIII Agosto e via Indipendenza, ci sono circa150 persone pronte per contestare Monti!

14:20 Bolgna è blindata! Via Indipendenza e via dei Mille sono bloccate da un ingente schieramento di forze dell’ordine.

 

Video. Debito sovrano e diritto all’insolvenza (Fumagalli)

[media id=48 width=400 height=300]

Il governo precedente come l’attuale governo tecnico, pressati dalla sfiducia dei mercati e dalla speculazione finanziaria, hanno varato una manovra lacrime e sangue dopo l’altra in nome dell’emergenza. Ma i sacrifici che pretendono sono davvero così ineluttabili? Da dove viene questa crisi? Una panoramica sui sitemi di accumulazione finanziaria, per capire meglio chi sono, in realtà, questi fantomatici “mercati”.

Un momento di approfondimento con Andrea Fumagalli sulla crisi del neoliberismo e sul debito sovrano, con un duplice intento, quello di misurare per un verso le soggettività e le reti sociali indipendenti, le intelligenze di movimento, intorno alla riflessione teorica sulla crisi finanziaria, sul biopotere dei mercati, sul debito e il possibile default per poter individuare il moover politico e sociale della trasformazione, sul piano immediato e diretto dell’iniziativa di movimento e quindi anche delle proposte che ne scaturiscono come appunto quella al diritto all’insolvenza.

Navigazione

00:00 Introduzione sul diritto all’insolvenza

24:24 Perché tanta attenzione sull’Italia?

Giustizialismo e satrapia sono i due volti del comando, solo l’Indipendenza paga!

E’ in corso nel cuore dell’Europa fino alle sponde del Mediterraneo un nuovo processo costituente, che si dispone dal basso come nuda vita, contro la governance neoliberista, nel pieno di una guerra civile asimmetrica, dove le genti in lotta si confrontano contro i carri armati, dall’Egitto alla Grecia, dalla Tunisia all’Inghilterra. Siamo nella transizione di un paradigma, dalla guerra convenzionale tra Stati, alle odierne e asimmetriche guerre civili non convenzionali. Gli eserciti (del neoliberismo) contro i nuovi poveri
(del neoliberismo).

Nella crisi della misura del valore, nella crisi complessiva del processo di valorizzazione, si rompe anche il piano-sequenza
della politica come mediazione. La crisi della rappresentanza relega la governance al ruolo di una nuova poliziewisenschaft, in un progressivo distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione. In Italia il parlamento vive da anni prevalentemente in funzione delle sue strategie mirate alla cooptazione e al controllo sociale.
Nel mentre affina le sue mappe per dare corpo all’accelerazione di un processo neo autoritario le cui origini in Italia sono note a tutti.

Però la particolarità del momento che sta attraversando il nostro bel paese, caso politico unico nel laboratorio della crisi e della decadenza globale, vive un passaggio delicato che si apre su un vero campo di forze, su una tensione polare che de facto produce uno scenario di guerra civile, politica e culturale. Lo abbiamo già letto e scritto nel dibattito di questa rivista. Si chiude una fase politica insieme all’apertura ad un nuovo ciclo economico, che ora s’incardina nella grande crisi, in quel
precipuo processo di transizione, dalla centralità dell’industria all’economia della conoscenza. Ma ovviamente l’unicità non sta in sé nella fine di una stagione politica che potremmo definire, berlusconiana. Anzi, per chiudere
questa fase si sta disponendo una preoccupante filosofia dell’emergenza autoritaria, della critica allo stato di eccezione rovesciata di segno e si fa sempre più strada l’ipotesi del paradosso dei paradossi, che sarebbe quello del ripristino dell’equilibrio istituzionale attraverso fondamentalmente un golpe eversivo. Interno ed esterno agli apparati dello Stato. Non è l’idea del defunto ministro K, ma quella di autorevoli esponenti dell’intellighenzia italiana. Il vuoto supposto della forza sociale di un processo costituente
viene riempito con la richiesta dell’ordine per il ripristino dell’ordine, formalmente democratico. I “grandi progetti” di far fuori il Cavaliere con i riti propiziatori di palazzo o con i dispositivi giudiziari a tratti alterni a
quelli morali, sono andati ben oltre le ipotesi più fantasiose che potevamo immaginare. In definitiva per la terza volta la Repubblica Italiana fa ricorso, per supplire alla mediocrità della politica, alla via giudiziaria. Prima, con
lo stato di emergenza e le leggi speciali evocate ed applicate per annichilire la spinta rivoluzionaria nel decennio caldo che è seguito in Italia al maggio francese, poi per disarcionare una classe politica corrotta nello scandalo tangentopoli, ora per reprimere l’asse di potere del Cavaliere divenuto un imbarazzante Nerone che con la sua lira sta lì a cantare le storielle mentre
ormai Roma brucia da anni, dopo averlo peraltro tutelato e protetto per anni nel suo conflitto di interessi. In ogni caso, per scelta, l’opposizione preferisce portare l’acqua con le orecchie agli apparati piuttosto che organizzare non dico la rivolta ma almeno un’opposizione sociale credibile. Quindi si apre un’enorme prateria che nemmeno il sindacato più grande d’Europa pensa di poter
condurre al cambiamento politico. In Italia e nella UE la crisi economica è soprattutto politica e culturale, e non riguarda l’intero sistema globale, riguarda invece precisamente il blocco occidentale e il patto atlantico che lega dalla fine della seconda guerra mondiale, gli interessi degli USA a quelli della Comunità europea (e sì, perché vista da una certa angolatura del pianeta, il sistema capitalistico non è in crisi ovunque. In Cina o in Brasile la cosi detta crescita è infatti a due cifre). Non è la fine del mondo, ma di una parte
del mondo in cui l’Italia è integrata. Le guerre civili e le catastrofi ambientali divengono però le somme del neoliberismo, quello sì globale. Le immagini delle rivolte assumono un contorno sfumato nei confini delle geografie politiche, culturali, finanche antropologiche della nuova modernità. Il vento del sud è un vento di libertà, certo, contro la tirannide della classe politica
corrotta e venduta al mercato. Ma le differenze dei diversi orizzonti dei conflitti oggi non ci permettono riduzioni semplicistiche e banali. Dalle rivolte nel cuore dell’Europa e del mediterraneo si aprono sicuramente nuove prospettive. Ma le rivolte al centro del sistema di accumulazione finanziaria come quelle di Londra, Roma, Parigi, Atene, segnalano la novità nel cuore dell’innovazione e del decantato benessere (Do you remember welfare state?).

L’irrompere di un nuovo protagonismo sociale dei movimenti contro l’austerity, contro il piano capitalista dell’exit strategy dalla crisi, ovvero da quella stessa crisi che il piano capitalista ha provocato, è il nodo politico centrale che spaventa i potenti e che comincia a far paura. E lì nel punto più avanzato della contraddizione, nei suoi perimetri formali, che si accumula forza per il cambiamento dopo due decenni di egemonia del pensiero neoliberista. Ormai in massa territori si ribellano contro le grandi opere del comitato di affari delle speculazioni finanziarie e delle devastazioni ambientali. Da una punta all’altra della penisola riemerge con più forza ancora,
l’oscenità del conflitto sociale, fino a quella piazza del popolo e al fascino della sua lotta. E’ necessario quindi organizzarci. Immaginare una rivolta costituente nel nostro paese. Cominciare a dare seguito e spazio costruttivo alla rabbia della generazione precaria, bloccare ad oltranza questo paese, dare spazio ad uno sciopero, sociale, civile, ad uno sciopero precario! E insieme costruire la
piattaforma del possibile e non quella del presente, del desiderio e non quella della legge. Riprendiamoci la parola Libertà e lasciamo ad altri le regole.
Dobbiamo reinventare l’intelaiatura e lo schema delle così dette istituzioni, dobbiamo rifondarle. Abbiamo bisogno delle istituzioni del comune, per la nuova “regolazione” dal basso che parta dall’attacco ai profitti per generare e
riconoscere quella ricchezza socialmente prodotta dalla moltitudine precaria, permanentemente al lavoro, tra produzione formale ed informale, materiale ed immateriale, senza reddito adeguato e diritti riconosciuti.

Dobbiamo insorgere per un diritto comune, una nuova “magna charta” a partire dalla forma
materiale della costituzione, per la sovranità e l’autogoverno, oltre il nuovo
welfare, possiamo e dobbiamo necessariamente costruire e cooperare per un nuovo
modello di società!

In gioco c’è qualcosa in più di una riforma.

Dobbiamo riscrivere la nostra costituzione, cioè ridare forma alla forma, per diffondere e sostenere l’utopia necessaria.

Rafael Di Maio

*articolo uscito per Loop n° 13 Aprile/Maggio 2011

 

 

 

11 Aprile – L’appello del Movimento NOTAV

da www.notav.info

 

Questo appello è rivolto a tutti gli uomini e donne che, in questi lunghi mesi di occupazione militare, in questi mesi di lotta e resistenza NoTav, si sono schierati al nostro fianco in ogni dove d’Italia.
Grazie a voi è stato chiaro a chi ha cuore e intelligenza che la lotta dei No Tav di quest’angolo di Piemonte è la lotta di tutti coloro che si battono contro lo sperpero di denaro pubblico a fini privatissimi, contro la devastazione del territorio, contro la definitiva trasformazione in merce delle nostre vite e delle nostre relazioni sociali.
Difendere la propria terra e la propria vita è difendere il futuro nostro e di tutti. Il futuro dei giovani condannati alla precarietà a vita, degli anziani cui è negata una vecchiaia dignitosa, di tutti quelli che pensano che il bene comune non è il profitto di pochi ma una migliore qualità della vita per ciascun uomo, donna, bambino e bambina. Qui e ovunque.
In ogni ospedale che chiude, in ogni scuola che va a pezzi, in ogni piccola stazione abbandonata, in ogni famiglia che perde la casa, in ogni fabbrica dove Monti regala ai padroni la libertà di licenziare chi lotta, ci sono le nostre ragioni.

Dopo la terribile giornata del 27 febbraio, quando uno di noi ha rischiato di morire per aver tentato di intralciare l’allargamento del fortino della Maddalena, il moltiplicarsi dei cortei, dei blocchi di strade, autostrade, porti e ferrovie, in decine e decine di grandi e piccole città italiane ci ha dato forza nella nostra resistenza sull’autostrada. 
In quell’occasione abbiamo capito che, nonostante le migliaia di uomini in armi, il governo e tutti i partiti Si Tav erano in difficoltà. Si sono aperte delle falle nella propaganda di criminalizzazione, si sono aperte possibilità di lotta accessibili a tutti ovunque.

Il 27 febbraio non si sono limitati a mettere a repentaglio la vita di uno dei noi, hanno occupato un altro pezzo di terra, l’hanno cintata con reti, jersey, filo spinato.

Il prossimo mercoledì 11 aprile vogliono che l’occupazione diventi legale. 
Quel giorno hanno convocato i proprietari per la procedura di occupazione “temporanea” dei terreni. Potranno entrare nel fortino fortificato come guerra solo uno alla volta: se qualcuno non si presenta procederanno comunque. L’importante è dare una patina di legalità all’imposizione violenta di una grande opera inutile. Da quel giorno le ditte potranno cominciare davvero i lavori.

I No Tav anche questa volta ci saranno. Saremo lì e saremo ovunque sia possibile inceppare la macchina dell’occupazione militare.

Facciamo appello perché quel giorno e per tutta la settimana, che promoviamo come settimana di lotta popolare No Tav, ci diate appoggio. Abbiamo bisogno che la rete di solidarietà spontanea che ci ha sostenuto in febbraio, diventi ancora più fitta e più forte.
Non vi chiediamo di venire qui, anche se tutti sono come sempre benvenuti, vi chiediamo di lottare nelle vostre città e paesi.
Vi chiediamo di diffondere la resistenza.

Il Movimento No Tav

Dispositivi x l’Indipendenza – la crisi economica nell’austerity!

 

La crisi economica nell’austerity: la grande trasformazione tra la crisi del processo della valorizzazione capitalistica, la nuova composizione sociale al lavoro e i dispositivi di comando e governance politica ed economica.

– Introduce Rafael Di Maio – Laboratorio Acrobax

– Andrea Fumagalli, Prof. Economia Politica all’università di Pavia

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal 2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario della narrazione che la governance politica europea produce, come interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di differenza interno alla misura di un valore particolare – che però determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento. Il divenire della crisi, complesso di  stratificazioni economiche, politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale, al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo “sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle “Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Loa Acrobax
via della vasca navale, 6 [ponte Marconi]
www.acrobax.org
www.indipendenti.eu

Giovedi 29 marzo-ore 17
Dispositivi per l’indipendenza
presso il LOA Acrobax

Segue la versione integrale della griglia di discussione:

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della
governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario
internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del
processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal
2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde
che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario
della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario
tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di
differenza interno alla misura di un valore particolare – che però
determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o
interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente
analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto
consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi
ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo
altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro
un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche,
politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo
economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello
olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi
l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto
effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge
inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di
transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da
un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale,
al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato
fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del
processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e
della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo
“sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle
“Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla
visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Quindi una crisi economica e finanziaria strutturale e sistemica,
dalla quale si pensa di poter uscire a seconda delle declinazioni
politiche o dei diversi interessi geo-strategici, attraverso strade o
canali differenti.

Oggi per dirla con Marazzi la finanza è parte integrante della nostra
vita quotidiana, è pervasiva a tutto il ciclo, e le fonti di
finanziarizzazione si sono moltiplicate in modo che le finanze sono
consustanziali alla produzione stessa dei beni e servizi. Questa
estensione delle “fonti di accumulazione del capitale finanziario,
vanno tenute presente per comprendere le trasformazioni del modello di
sviluppo/crisi post-fordista.

Il peso del debito privato spostato sul debito pubblico (in realtà
comprato dalle banche estere, come nel nostro caso, le banche
francesi, che detengono più del 40% del nostro debito sovrano) in
virtù della nuova crisi che stiamo conoscendo, impone agli stati come
gli USA o alla governance della comunità europea diretta dalla
cosidetta Troika – i cui destini peraltro sono incrociati e uniti sin
dal “patto atlantico” – d’individuare le possibili vie di uscita dalla
crisi, stagnazione e bassa crescita. Oggi come oggi, sostanzialmente
abbiamo due modelli sempre più divaricati tra loro che per
semplificazione potremmo etichettare con la Germania della Merkel da
un lato e gli USA di Obama dall’altro. A partire dall’approfondimento
di questi due modelli di crescita e gestione delle risorse pubbliche
vorremmo ampliare la visuale sulla crisi e sulle strade che vengono
indicate come possibili indicazioni anticicliche di uscita dalla crisi
verso una nuova ripresa economica. Vorremmo capire quali sono i punti
di reale differenza tra i due modelli di politica economica che
sinteticamente rintracciamo tra quello della Germania improntato
all’austerity e alla salvaguardia dei conti pubblici a discapito degli
investimenti sulle risorse dedicate alle politiche di welfare, e che
prevalentemente usa alcuni indicatori economici come rigida guida
quasi religiosa per impostare il governo della società e del suo stare
in comune. E quello degli USA che dall’apparizione di Obama ha
invertito le dinamiche fondative del sistema neoliberista, imposto a
se e al mondo sotto la sua influenza anche con la forza e con
l’ausilio di dittature militari come nel sud America negli anni 70 e
80, e che oggi ha decisamente cambiato la rotta delle politiche
economiche a partire dall’utilizzo delle risorse pubbliche e di un
diverso approccio ai parametri come il deficit o lo spread, dando tale
centralità al ruolo dello Stato nell’economia da far ipotizzare un
nuovo impianto keynesiano per la crescita e lo sviluppo capitalista.

Un terzo modello a cui dedicare un ulteriore momento di
approfondimento è il caso dei cosidetti paesi emergenti, i BRIC che
stanno attraversando il corso della crisi fuori da questo binomio a
partire da tutt’altro contesto e che però stanno conoscendo un livello
di crescita esponenziale e di sviluppo complesso tale da
ri-significare lo stesso concetto di crisi globale, a testimonianza
che non si tratta evidentemente, dal crack della Leman Brother in
avanti, della fine del mondo, ma della decadenza di una parte ben
precisa del mondo.  Un altro tema sul quale vorremmo concentrare le
nostre analisi e riflessioni riguardo il contesto economico e sociale
che si respira e si tocca con mano nel nostro paese, a partire dalle
ripercussioni sul MdL come effetto materiale della crisi finanziaria e
della sua ricaduta sul tessuto produttivo e lavorativo – e anche
dell’effetto delle politiche adottate dal governo Monti per seguire le
strade di exit strategy dalla crisi a partire dalla Riforma del MdL tutte peraltro concordate con la UE – sono le liberalizzazioni di alcuni settori
produttivi e le proteste che si stanno susseguendo per contrastarle.
Dopo l’assordante e inaspettato silenzio sulla riforma delle pensioni
a partire dal blocco sociale pensionandi di riferimento (classe
52/53/54) peraltro ampliamente sindacalizzato che si è fatto carico
del costo sociale della riforma delle pensioni, il paese sta facendo i
conti nelle scorse settimane con la caparbia e dura protesta di
alcuni soggetti produttivi ben precisi che sul tema delle
liberalizzazioni stanno costituendo una protesta sociale forte e
decisa – dal movimento dei forconi alla lotta degli autotrasportatori
– sulla quale vorremmo interrogarci a partire da due piani di analisi
inizialmente distinti, due ordini del discorso, paralleli ma
complementari:

Uno riguarda la struttura produttiva: Sergio Bologna per primo aveva
individuato all’interno delle trasformazioni produttive che hanno
costituito il processo di ristrutturazione e trasformazione nel
passaggio di fase dalla grande industria fordista all’economia
post-fordista dei servizi e della conoscenza, proprio nel settore del
trasporto e della logistica, un ambito produttivo centrale,
strategico. In primis come settore privilegiato nella specifica
creazione di valore – centrale nell’economia postfordista – dove la
valorizzazione capitalistica passa dalla produzione materiale delle
merci alla valorizzazione della loro distribuzione e circolazione. E
però il carico di valore aggiunto nei profitti della grande
distribuzione è stato possibile per la nuova organizzazione del lavoro
che ne è conseguita. La riorganizzazione della molecolare struttura
delle sub-forniture ri-articolate dentro le trasformazione della
composizione sociale a lavoro – nei processi di esternalizzazione che
tra gli anni 80 e 90 hanno dato il via al cosi detto esercito delle
Partite IVA – è un tema che vorremmo analizzare oggi alla luce di un
dato sociale nuovo, al netto quindi dell’analisi generale sullo stato
dell’arte dell’economia globale e finanziaria, gettando lo sguardo sul
corpo sociale coinvolto, che porta con sé alcuni elementi di
innovazione e trasformazione radicale anche dell’apparente
rovesciamento del rapporto capitale/lavoro che si delinea nella classe
dei cosi detti padroncini, ovvero delle partite IVA. Su questo blocco
sociale di riferimento a cui sempre per primo Sergio Bologna con
Andrea Fumagalli avevano dedicato la propria analisi relativamente al
lavoro autonomo di seconda generazione, l’importanza appare quindi più
che evidente di dover ancora scandagliare e analizzare in profondità
la vicenda ampliamente annunciata ed intuita della nuova composizione
sociale al lavoro, in questo caso anche in rivolta. E su questo piano
se volete più politico vorremmo dedicare l’attenzione del secondo
elemento complementare alla comprensione dell’attuale fase, ovvero
concentrare il nostro focus sulla composizione sociale del primo
grande blocco dei flussi nella produzione postfordista o anche sul
primo grande sciopero selvaggio del lavoro indipendente nella crisi.
Vorremmo capire se e quanto può essere considerata una protesta
dettata più da esigenze specifiche o corporative o quanto invece
questo non sia altro che l’inizio per una nuova ricomposizione di
classe – delle nuove classi, o della nuova stratificazione di classe –
che potrebbe portare ad una nuova definizione della rappresentanza
sindacale di interessi produttivi emergenti ma anche alla radicale
messa in discussione dell’intera forma dell’organizzazione del lavoro
e della distribuzione della ricchezza sul territorio.

 

Bibliografia di riferimento:

 

Mediterraneo – F. Braudel Einaudi

Lotte operaie e sviluppo capitalistico – R. Panzieri Einaudi

La violenza del capitalismo finanziario – C. Marazzi Ombre corte

Il lavoro di Dioniso – M. Hardt e A. Negri Manifesto Libri

Il lavoro autonomo di II° generazione – S. Bologna e A. Fumagalli Feltrinelli

 

Testi consigliati:

 

Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II – F. Braudel Einaudi

La grande trasformazione – K. Polany Einaudi

Comune – M. Hardt e A. Negri Rizzoli

Il comunismo del capitale – C. Marazzi Ombre corte

Ceti medi senza futuro – S. Bologna Derive e approdi

Oltre lo stato assistenziale – Per un nuovo patto tra generazioni – G.
Esping-Andersen Einaudi

I fondamentali sociali delle economie postindustriali – G.
Esping-Andersen Einaudi

L’immateriale – A. Gorz – Bollati Boringhieri