Workshop sulla crisi finanziaria | Giurisprudenza RomaTre

Dal Collettivo FuoriLegge: Cercheremo di condurre un’analisi sulle principali dimensioni della crisi e le conseguenti politiche di austerity che, come da prassi, ricadono sui soliti noti. Sono davvero queste la soluzione al problema? o non fanno altro che nasconderlo nel breve periodo? Parteciperanno alla discussione docenti di economia politica dell’università Roma Tre.

Negl’ultimi tempi abbiamo potuto apprezzare al livello mondiale fenomeni di partecipazione con pochi precedenti. Il filo conduttore di queste esperienze si concretizza in qualcosa che da sempre connota i popoli, ma che da poco assume caratteri qualificanti: le persone sentono il bisogno di aggregarsi per condividere preoccupazioni, indignazioni, lotte e conoscenze, ma questa volta al fine di realizzare analisi e riflessioni originali, rispetto alle quali il regime mediatico/politico, per quanto apparentemente plurale, sembra impermeabile. Questo regime non contempla alcuna interpretazione della crisi economica che non sia quella dettata dal mondo finanziario, e non considera affatto quella che viene dalla Rete, frutto dell’auto produzione degli stessi soggetti che si ritrovano nelle piazze di tutto il mondo. I mercati e la finanza, infatti, vengono ormai intesi come un potere “naturale” in quanto incontestabile, sorgente di benessere per quanti lo accettano pedissequamente e vi partecipano, ma sordo determinatore della soccombenza economica di interi paesi, se non di continenti. Una sordità che si estrinseca nei confronti delle istituzioni democratiche, che perdono in modo progressivo la loro sovranità, diventando orpelli macchinosi superflui agl’occhi di chi, invece, sente prepotentemente aumentare il proprio bisogno di partecipazione democratica nella determinazione delle politiche economiche e sociali che connotano quotidianamente le loro vite. Quelle vite che in miriadi di ambiti sembrano inesorabilmente accomunate dalla dimensione precaria, da intendere oggi come la dimensione senza uscita di coloro i quali non hanno più modo di dire “noi la crisi non la paghiamo” (intendendo con ciò un moto di volontà e orgoglio nell’imputare ai veri debitori i loro debiti), quanto più attualmente “noi la crisi non la possiamo pagare”: non esistono più concrete categorie di diritti sociali da rinunciare o da scambiare per una solvenza salvifica. Ed è proprio per questo che chi interpreta gli interessi del sistema bancario, e in Italia sono gli interpreti del commissariamento europeo, ora paiono essere inclini a concetti di equità e sviluppo: è ormai troppo evidente che i superprofitti di alcuni non possono convivere con la precarietà dei molti. Ma la risposta alla speculazione finanziaria da parte di questi pseudo-tecnocrati rientra pienamente nel meccanismo della speculazione stessa. E così quegli stessi tecnocrati saranno obbligati a derogare alle regole “non regole” del mercato tanto idolatrate, aprendo le saracinesche di fondi monetari internazionali, creati, in fondo, proprio nella consapevolezza del non poter far altro che ricapitalizzare le economie predestinate al collasso. Questo ciclo, che è quantomeno intuito dai tanti che si aggregano in giro per il mondo, è praticamente ignorato dalle opposizioni del nostro paese, ancora perse nella scelta tra lo statalismo e il rispetto del dio mercato, e soprattutto ferme nell’analisi alla richiesta di dimissioni di Berlusconi, in modo talmente improduttivo che a provocarle è bastato un sorrisetto di Sarkozy.

Non esistono in questo paese proposte alternative. Questo dato di fatto ci induce inesorabilmente alla ricerca di luoghi collettivi capaci di alleviare il bisogno di confronto e di elaborazione, di analisi e di proposta, fuori da vecchi schematismi e scevri da settarismi inattuali al cospetto di una nuova sfida per i 99% di ogni dove: trovare la forza di creare dal basso una vera opposizione internazionale all’oppressione impostaci dai mercati e dai banchieri, che già ormai da tempo hanno individuato la preda, nell’imminenza di un’aggressione ai diritti sociali senza precedenti in Italia, chiamata austerity. Per far ciò, accogliendo l’intenzione generalizzata nel nostro ateneo di creare una assemblea capace di rispondere ai bisogni predetti, il collettivo di giurisprudenza di roma3 crede sia opportuno organizzare un workshop su questi temi, aperto a tutte le realtà e a tutti gli individui che si pongono criticamente gli interrogativi per la costruzione di un’alternativa reale e che, nel rispetto dei valori dell’antifascismo, dell’antisessismo e dell’antirazzismo, siano inclini al dibattito e alla discussione, ovviamente orientata prima di tutto alla conoscenza dei fenomeni economici finanziari, ma poi incline anche a criticarne i fondamenti. Le modalità di una tale presa di coscienza consisteranno, per nostra iniziativa, nella produzione di documenti di avvicinamento al workshop, contenenti analisi e prese di parola interessanti e costruttive, in un divenire di autoformazione che può e deve essere stimolato dalle adesioni alla giornata e da ciò che ognuno si sente di proporre all’attenzione degli studenti, culminando così in un giorno, nella metà di dicembre, che sarà organizzato proprio alla luce dei contributi fruiti fino a quel momento.

Nella speranza di una partecipazione ampia e condivisa.

Martedi 13 dicembre dalle 16 – AULA 7 Facoltà di giurisprudenza Roma tre Via Ostiense 159

evento fb:
http://www.facebook.com/events/178017065626953/

Dalle lotte universitarie catalane al movimento 15M

Rotte indipendenti dei movimenti globali

Mercoledì 7 nella facoltà di lettere di Roma3 si svolgerà un incontro con i compagn@ della Universitat Lliure La Rimaia, crear, lluitar, poder popular di Barcellona.

Progetto politico, popolare ed autogestito, che nasce nel 2008 in piena fermentazione delle lotte universitarie contro la riforma Bologna, processo che persegue la realizzazione di uno spazio europeo per l’università e la ricerca basato sulla competizione. Voluto dai poteri forti come grande sforzo di convergenza dei sistemi universitari, tale riforma è, in realtà, l’ennesimo tentativo di voler ridurre l’accesso ai saperi ad una logica mercantile volta più a valorizzare i profitti piuttosto che la libera conoscenza.

L’università libera La Rimaia é uno spazio fisico e simbolico, statico e dinamico, che raggruppa soggettività e collettivi, che vogliono praticare una trasformazione radicale dello status quo attuale.

Tale esperienza é stata anche una delle tante che in Catalunya e più in generale nello stato spagnolo, ha creato un tessuto sociale, attivo e recettivo, che ha permesso, negli ultimi mesi, l’esplosione di quel processo radicale, innovatore e trasformatore conosciuto come movimiento 15M o movimento de los y las indignad@s.

Un movimento indipendente che sta dando origine a un processo costituente dal basso caratterizzato da una forte critica all’attuale sistema di rappresentanza politica e che pratica un attivo conflitto contro il clima di misure antisociali di austerity neoliberali promotrici solo di segregazione ed esclusione sociale.

Un movimento nato con l’occupazione delle piazze contro la zonizzazione capitalista dello spazio pubblico, sovvertendo l’uso commerciale, immobiliario, finanziario e turistico del centro metropolitano. Uno spazio in cui é emerso uno straordinario dispositivo territoriale di potenziamento della cooperazione sociale e che si sta traducendo in un movimento di assemblee territoriali e in una nuova architettura della politica sociale del comune.

Il 15M sperimenta pratiche e processi nella costruzione di una rete coordinata di contropotere attraverso le assemblee di quartiere (asambleas de barrios). Un movimento che, dallo stato spagnolo, assume un carattere di spazio pubblico di cooperazione internazionale grazie all’Hub Meeting di Barcellona nel quale si è promossa la giornata di lotta globale contro l’austerity del 15 Ottobre in cui più di 950 cittá hanno gridato un “determinato no” alle politiche di gestione dell’attuale crisi.

Nella città di Barcellona la divisione del multitudinario corteo del 15 Ottobre in tre parti e l’occupazione dei posti emblematici dei tre diritti sociali – educazione, sanità e diritto all’abitare- duramente colpiti dall’implosione della ristrutturazione capitalistica segna la volontà di passare dall’indignazione generalizzata all’azione collettiva. Una presa di parola che attraverso la trasformazione e indipendenza sta cambiando il nostro futuro!

La facoltà di lettere di Roma Tre, del resto, in questi mesi è stata il luogo di costruzione di processi di autorganizzazione sui saperi e i beni comuni, dall’esperienza della libera università autogestita (L.u.i.s.a), al laboratorio inchiesta, entrambe nate dentro i percorsi politici di Retelettere. Per questo l’incontro con i compagni e le compagne di Barcellona segna un momento di continuità rispetto alle lotte nella facoltà e nel territorio, e un utile strumento di confronto con realtà, seppur lontane geograficamente, con le quali molto può essere condiviso nello scenario europeo della crisi.

Programma della giornata

Pranzo sociale alle ore 13:00

Assemblea/dibattito: ore 14:00

Visto che il prossimo HubMeeting si svolgerá in Italia, invitiamo tutte e tutti a prendere parola e ad arricchire la discussione mettendo a confronto le esperienze, le analisi e i progetti.

 

Retelettere per L.u.i.s.a., LOA Acrobax

Focus group: diritto all’insolvenza pane quotidiano

 Focus group: diritto all’insolvenza – il pane quotidiano

Martedì 8 novembre

ore 18.30

Acrobax [ex-cinodromo]

Il punto san precario di roma invita ad un focus group di approfondimento e rilancio verso lo sciopero precario.

 In un momento di crisi, in cui l’unica soluzione dei poteri finanziari, delle banche e dei precarizzatori, rimane l’austerity c’è una nostra risposta rispetto al debito che ci vogliono far pagare: il diritto all’insolvenza.

La domanda sulla quale vorremmo ragionare è: come si traduce l’insolvenza nella quotidianità? Come si riesce a costruire una cindivisione delle e nelle lotte dei precari su questo tema? Come si fa di questa suggestione un’arma contro la precarietà?

 Ci hanno detto per anni che le privatizzazioni e le liberalizzazioni erano l’unico modo per ridurre il debito pubblico (ehmbè) mentre oggi, dopo quasi 20 anni di sistematico smantellamento del welfare state e di deregolamentazione del “mercato” del lavoro, il debito pubblico è cresciuto a dismisura.

Un debito non più costituito dai risparmi delle famiglie italiane ma piuttosto in possesso di operatori finanziari (banche, agenzie di rating… chi controlla il controllore?) che speculano sulla presunta debolezza degli stati per alzare i tassi di rendimento dei titoli in un circolo vizioso che non fa altro che far lievitare il volume stesso del debito.

Le ricette? le stesse che hanno portato, o almeno certamente non impedito, l’attuale fase di crisi. La scelta ora sembra essere tra un governo indebolito, corrotto e screditato contro un governo forte, magari di unità nazionale, con una grande voglia di fare il primo della classe tanto in Europa quanto nei consessi di G8 o G20 dove ancora abbiamo l’onore di essere invitati.

 Quale sarebbe l’alternativa? la tobin tax sulle transazioni finanziarie recentemente ripresa dalla coppia d’oro Merkel-Sarkozy? La separazione tra banche commerciali e di investimento come propone Obama? sarebbero davvero questi strumenti di neoregolazionismo in grado di risolvere le ingiustizie e le diseguaglianze sociali, di scompaginare l’attuale assetto dei poteri che porta il mondo verso la catastrofe climatica e la guerra globale permanente?

 Ormai sono evidenti la disapprovazione, l’indignazione e la saturazione del 99% dell’umanità globale. Ma è un’occasione di grande trasformazione che non può finire nel grande abbraccio ecumenico delle riforme di facciata. Non possiamo permetterlo per quel fronte trasnazionale che vede i suoi momenti più alti nelle primavere arabe, nelle prese di distanza del continente sudamericano, nelle tante lotte e resistenze del vecchio e del nuovo continente.

 Le indicazioni vengono e devono venire dal basso. La soluzione sta in quelle pratiche che sempre più si diffondono, anche grazie alle nuove tecnologie della comunicazione sociale su scala globale. La sottrazione dallo sfruttamento del capitale sulle nostre vite e la riappropriazione dei nostri (bi)sogni avviene nell’autorganizzazione sui territori della produzione, della vita messa in produzione nella sua complessità.

 Affermando il diritto a non pagare l’affitto in città con decine di migliaia di case vuote e stabili in disuso regalati alla speculazione, il diritto a non pagare il biglietto del treno il cui prezzo è stabilito a prescindere dal servizio offerto a pendolari e viaggiatori e dai tanti soldi già pubblici delle infrastrutture di viabilità, il diritto a non pagare i contributi all’INPS per pensioni che non vedremo mai, le assicurazioni obbligatorie su macchine e motorini che ci spennano in virtù del conclamato cartello oligopolistico che hanno formato e persino il canone rai, ultima beffa in ordine di importanza, ma non meno lesivo della nostra dignità.

E ancora altri piani di articolazione si stanno delineando.

Vogliamo parlarne insieme e farne il nostro pane quotiniano.

Vogliamo non pagare questa crisi, vogliamo sottrarci al ricatto con cui si pretende di far passare per nostro il fallimento altrui.

 Ci vediamo Martedì 8 novembre, alle 18.30, ad Acrobax (ex-cinodromo) per un momento di discussione, approfondimento ed autoformazione.

 

 

 

 

 

Distruggere la paura, affermare il comune

 di COLLETTIVO UNINOMADE

0. Nella sera romana illuminata dai fuochi di Piazza San Giovanni, abbiamo cominciato a interrogarci sulla giornata del 15 ottobre, su ciò che ha rivelato nelle molteplici scale geografiche che si sono incrociate a produrne la dimensione globale, sulla forza e sulle potenzialità che ha fatto emergere, sui problemi che consegna alla nostra riflessione e alle nostre pratiche. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo da materialisti, convinti – per citare uno che la sapeva lunga – che le azioni umane non vadano derise, compiante o detestate, ma prima di tutto comprese. Proviamo a farlo con queste note, segnalando alcuni dei punti che ci sembrano più rilevanti.

1. Partita da un appello degli indignados spagnoli, la mobilitazione del 15 ottobre si è diffusa in centinaia di città ai quattro angoli del pianeta, a riprova dell’efficacia di uno stile di azione e di un linguaggio politico (quello degli indignados, appunto) che meglio di altri paiono adattarsi alle modalità asimmetriche con cui la crisi colpisce società e popolazioni in diversi contesti geografici. La profondità della rottura dello sviluppo capitalistico si è riflessa nello specchio globale del 15 ottobre, offrendo un quadro ancora parziale ma tuttavia rivelatore dell’intensità delle lotte e delle ipotesi costituenti che ovunque cominciano a presentarsi. Straordinarie sono state le mobilitazioni di Madrid e Barcellona, concluse con assedi ai palazzi del potere, con occupazioni di scuole, palazzi e ospedali. Ma molto importanti sono state anche le manifestazioni negli Stati Uniti, che hanno portato un osservatore attento come Immanuel Wallerstein a parlare del più rilevante movimento sociale in quel Paese dal ’68. Anche qui l’occupazione fisica di uno spazio centrale a New York e l’indignazione di fronte al potere della finanza sono stati i tratti fondamentali di una radicalità che si è diffusa, in particolare dopo l’occupazione del ponte di Brooklyn, in altre città statunitensi. Attorno a questi punti alti della dinamica di indignazione si sono disposte le altre iniziative, più o meno consistenti dal punto di vista della partecipazione ma comunque essenziali nel dare un respiro globale alla giornata.

2. La manifestazione di Roma si è collocata all’interno di questo quadro con evidenti elementi distonici, che erano apparsi chiaramente già nelle modalità della convocazione e nel percorso della sua preparazione. Politicismo e provincialismo hanno pesato in Italia come in nessun altro contesto, e troppi sono stati i tentativi di sovrapporre il classico format della “manifestazione nazionale” a una convocazione che, proprio in quanto proveniente “dall’esterno”, garantiva una mobilitazione che nessuna forza organizzata è oggi in grado di determinare. Le logiche della rappresentanza (politico-istituzionale e/o di movimento) hanno così fin da principio introdotto elementi di “corruzione” all’interno della costruzione italiana del 15 ottobre. E non è certo un caso che realtà di lotta forti e radicate ma estranee alla logica della rappresentanza, come il movimento NoTav e gli “stati generali della precarietà” siano stati immediatamente indicati dai media come “responsabili” degli incidenti. La ricerca del precario gentile e del militante ragionevole, meglio ancora se ravveduto da un passato di sregolatezza, è stata una costante nei giorni successivi al corteo romano, essenziale alla costruzione della favoletta di un movimento “buono” (cioè compatibile con le logiche della rappresentanza) e una minoranza di “cattivi” e guastatori. Repubblica è stata particolarmente zelante in questa ricerca, a cui ha fatto da contraltare una patetica attività “investigativa” per individuare le realtà politiche da colpire. Ma come spesso accade, il “partito dell’ordine” ha unito in un unanime coro forcaiolo improbabili alleati – da Di Pietro a Maroni, da Repubblica al TG1.

3. La manifestazione, in ogni caso, è stata prima di tutto gigantesca, percorsa al proprio interno da una profonda eterogeneità sociale e culturale, prima ancora che politica. L’antiberlusconismo è stato senz’altro ben presente nei toni e nei sentimenti di molti e molte partecipanti. E abbiamo visto nella delazione di massa cominciata già in piazza, e poi rilanciata dai media (in primo luogo ancora da Repubblica), la faccia più inquietante dell’apologia della legalità che ha attraversato negli ultimi anni gli stessi movimenti. Su tutt’altro versante, è emersa la presenza di un’area che ha caratterizzato la prima parte del corteo con azioni dirette, a volte contro obiettivi chiaramente individuati (ad esempio le banche) a volte con cieca furia distruttiva. Tra queste due aree, il corteo romano era fin troppo affollato di gruppi, gruppetti e gruppazzi, ciascuno con le sue ipotesi su come rappresentare l’unità del movimento che manifestava a Roma. Nessuno è stato in grado di farlo, tutte quelle ipotesi si sono dimostrate non all’altezza del problema che politicamente la giornata del 15 poneva, quando non velleitarie. Questa “densità” di strutture politiche che in forme diverse fanno riferimento al “movimento” è una peculiarità italiana che ha finito per agire da freno rispetto al dispiegarsi di dinamiche di unificazione della protesta che altrove, ad esempio nei due casi citati in precedenza (in Spagna e negli Stati Uniti), si sono dispiegate in modo originale e autonomo. Nel vuoto politico che si è aperto a Roma sabato (ma che già si era palesato nelle settimane precedenti) lo spaesamento si è unito alla rabbia, fino all’esplosione di rivolta sociale in Piazza San Giovanni, con ore di resistenza e attacco di fronte alla violenza della polizia, a cui hanno partecipato migliaia di giovani e meno giovani. Qui, con ogni evidenza, comportamenti, pratiche, modi di stare in piazza (tra cui vanno ricordati quelli delle migliaia di altri manifestanti che semplicemente hanno rifiutato di andarsene) hanno dato allo scontro un segno totalmente diverso rispetto a quanto si era visto nelle ore precedenti.

4. Là dove si è manifestata in forme politicamente significative, la dinamica dell’indignazione presenta caratteri di radicale rottura, indipendentemente dal fatto che si esprima in forme diverse dallo scontro di piazza. E’ evidente in Spagna la rottura con la rappresentanza politica, a partire dalla banale circostanza che il movimento si è formato contro un governo di “sinistra” in cui molti avevano visto l’astro nascente di un nuovo riformismo socialista e non può certo avere nel Partito popolare il suo interlocutore. Ma l’occupazione degli spazi urbani, il dilagare nei quartieri, le occupazioni e le esperienze di autogestione dei servizi alludono a una dimensione pienamente costituente. Negli Stati Uniti d’altro canto, in un contesto completamente diverso dal punto di vista delle tradizioni e delle dinamiche politiche, è stata in primo luogo l’occupazione degli spazi urbani, al prezzo di centinaia di arresti, a esprimere la radicalità e consolidare la forza del movimento. Diffusa ovunque è poi la parola d’ordine della lotta contro il debito, che allude a un essenziale terreno di campagna comune. Crediamo che questi aspetti di radicalità e rottura segnino un punto di non ritorno per lo sviluppo delle lotte e dei movimenti dentro la crisi. Si tratterà di “tradurli” nei diversi contesti, senza pensare che esistano modelli “universali” (o “globali”). Ma indietro non si torna! A fronte dei processi di precarizzazione lavorativa ed esistenziale, di pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione finanziaria, di emarginazione sociale, che nella crisi mostrano la loro faccia più feroce, la radicalità delle pratiche deve impiantarsi su una composizione sociale che sempre più trova nella povertà la propria cifra d’insieme. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a noi sembra che le lotte dentro la crisi debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il Capitale e contro la povertà che esso ci impone.

5. Se questo è lo scenario che si prefigura per i prossimi mesi, si tratta di comprendere che la povertà viene vissuta da posizioni soggettive assai diversificate, profondamente eterogenee. Questa eterogeneità è un elemento costitutivo della composizione del lavoro vivo contemporaneo. Non lasciamoci ingannare dalla retorica, certo utile per costruire mobilitazione ma non priva di insidie, del 99% della popolazione contrapposto alle oligarchie finanziarie: suggerisce un’immagine di compattezza e di omogeneità dei referenti “sociali” del movimento che ovviamente non trova riscontro nella realtà. Comportamenti distruttivi, se non auto-distruttivi, sono connaturati ad alcune di queste posizioni soggettive. Quando alcune periferie della povertà, come era accaduto a Roma il 14 dicembre ed è tornato ad accadere il 15 ottobre, scendono in piazza, non è il caso di attendersi da loro proposte di riforma costituzionale. Lo si era visto del resto con la rivolta delle banlieues francesi nel 2005 e lo si è visto di nuovo quest’estate in Inghilterra. Non si tratta di fare un’apologia “estetizzante” dei comportamenti che hanno caratterizzato queste insorgenze. Si tratta di scegliere prima di tutto da che parte stare. E c’è una bella differenza tra stare con i poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerali intoccabili, lebbrosi. Media, polizia e sistema politico non hanno dubbi su quale sia la parte giusta da cui stare. Noi neppure.

6. Solo un programma positivo, maggioritario, materialmente definito può probabilmente vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei poveri. Per dirla nei termini più semplici possibili: il problema di come far stare insieme in un corteo romano l’artista del Teatro Valle condannato alla precarietà e l’adolescente di Tor Bella Monaca che tendenzialmente a teatro non andrà mai è il problema che poniamo quando parliamo di programma. Il fatto che anche la semplice allusione a questo programma sia mancata nella preparazione del corteo romano del 15 ottobre è ampiamente riconosciuto nel dibattito che attraversa il movimento in questi giorni. Al più si è avvertita la presenza da parte di alcune componenti di un “programma minimo” costruito interamente attorno a linee di alleanza sindacale e politico-istituzionale (e non può stupire che a molti quel programma minimo sia apparso come un “opportunismo massimo”). A ciò si aggiunge la mancanza di obiettivi caratterizzati a un tempo da radicalità, immediata leggibilità e potenziale condivisione da parte della grande maggioranza dei manifestanti. C’era qui, soprattutto considerando i numeri imponenti del corteo, un limite di fondo che ha avuto un ruolo di primo piano nel determinare la dinamica romana di sabato scorso. Davvero grottesco, in particolare, ci è sembrato il tentativo di riesumare per l’occasione del 15 ottobre il modello del “social forum”. Ci è sembrato grottesco perché non teneva in nessun conto i cambiamenti profondi che si sono prodotti rispetto a una stagione di lotte e mobilitazioni certo importantissima, ma che aveva tra l’altro conosciuto il proprio scacco in una dinamica di rappresentazione sul terreno dell’opinione pubblica e della società civile di cui proprio il modello del “social forum” era stato espressione. La sconfitta della straordinaria mobilitazione globale contro la guerra in Iraq il 15 febbraio del 2003, quando milioni di donne e uomini scesero in piazza in tutto il mondo inducendo il New York Times (e l’ineffabile Repubblica di rimbalzo) a parlare della “seconda potenza mondiale”, è ancora viva nella memoria dei movimenti. Immaginiamo che qualcuno, il 15 ottobre, abbia ricordato con nostalgia l’oceanica manifestazione romana di quel giorno di febbraio. Molti di noi hanno invece ripensato al senso di impotenza provato in quell’occasione di fronte a una guerra che stava per cominciare e che non eravamo riusciti a fermare. E hanno semmai avvertito una certa somiglianza tra quel senso di impotenza e lo spaesamento di molti manifestanti romani il 15 ottobre. Né nelle piazze spagnole né a Zuccotti Park a New York si respirano senso di impotenza e spaesamento.

7. Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità della decisione, ovvero la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli anni Novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. In Italia, questo movimento si è espresso attorno alle elezioni amministrative e nei referendum della scorsa primavera, nelle lotte contro la TAV in Val di Susa, vive nelle mille esperienze di auto-organizzazione e di lotta di precari e migranti. Si tratta di lasciargli spazio e voce, nella consapevolezza che solo un progetto costituente può unificare tutti nel movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato. Ma c’è ben altro. La chiave del modello costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile –, ma senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre vittime del saccheggio capitalistico odierno. Non aver paura è resistere al potere ed esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. Attorno alle lotte contro il debito, le privatizzazioni, contro la speculazione sulle “grandi opere”, per l’organizzazione comune dei servizi di Welfare e per la riappropriazione della rendita finanziaria alcuni elementi di programma stanno cominciando materialmente a definirsi. Non è certo all’interno dei confini degli Stati nazionali che questi elementi possono comporsi e saldarsi efficacemente! La conquista dello spazio europeo, lacerato dalla crisi e trasformato nelle sue stesse geografie tanto dalla crisi stessa quanto dai movimenti di rivolta nel Maghreb, torna qui a proporsi come compito immediato e straordinariamente urgente per le lotte e per i movimenti.

Ps: mentre scriviamo molte ragazze e ragazzi sono ancora in galera. Chiederne l’immediata scarcerazione, senza se e senza ma, è il dovere comune di tutte e tutti. Pensiamo che nessuno possa avere dubbi su questo.

www.uninomade.org

 

Il coordinamento cittadino di lotta x la casa sul 15Ottobre

Sabato 15 ottobre eravamo in piazza.

 Sabato 15 ottobre eravamo in piazza. Ci capita spesso, abituati/e come siamo a contendere metro dopo metro la città agli speculatori e a chi ne difende gli interessi. Eravamo in piazza con la nostra solita composizione: uomini e donne da tutto il mondo che hanno scelto la via dell’auto-organizzazione e della lotta per non soccombere alla schiavitù degli affitti o del mutuo.

 

Non eravamo soli. Insieme a noi centinaia di migliaia di persone, a Roma come nel resto del mondo manifestavano contro le politiche di austerity imposte con la forza dalle istituzioni finanziarie mondiali per far pagare a sfruttati e sfruttate i debiti con cui i finanzieri si sono arricchiti.

 

In tutte le sedi possibili, prima del 15, abbiamo evidenziato che la rabbia sociale contenuta in una giornata del genere non avrebbe potuto essere circoscritta nel ristretto spazio che una serie di organizzazioni più o meno rappresentative le avevano riservato: una passeggiata lontano dai palazzi del potere con comizi finali, che in alcuni casi prefiguravano una candidatura a succedere a Berlusconi nell’ordinaria amministrazione della crisi.

 

I fatti ci hanno dato ragione. Non ci interessa la cronaca. Ci basta rilevare che l’andamento di quella giornata ha travolto gli argini di qualunque rappresentanza, comprese quelle “di movimento”.  

Il variegato mondo di soggetti sociali colpiti dalla crisi ha dimostrato di essere irrappresentabile. Resta aperto il problema di come possa auto-organizzarsi ed estendere il conflitto dalle grandi piazze alla quotidianità delle contraddizioni sociali: territori, reddito, lavoro e beni comuni.

 

Siamo abituati/e anche, di tanto in tanto, ad essere sbattuti come mostri in prima pagina dai mass-media dei padroni di centro-destra o di centro-sinistra, secondo le circostanze. Per questo esprimiamo la nostra assoluta vicinanza a tutti quei compagnie e quelle compagne a cui la forsennata campagna stampa in atto attribuisce la “regia occulta” degli scontri. In primis compagni e compagne del LOA Acrobax, che da anni, a volto scoperto e alla luce del sole, sono parte integrante del nostro movimento e nelle nostre occupazioni, nei nostri picchetti, nelle nostre tendopoli si battono per conquistare il diritto ad una abitazione dignitosa, in una città vivibile per tutti e per tutte.

 

Quello a cui non siamo abituati né abituate è ad assistere ad una vergognosa campagna di invito alla delazione di massa che vede in prima fila quegli esponenti del centro-sinistra che, ahinoi, alcuni pezzi di movimento anelano a vedere alla guida del paese. Costoro gareggiano con Maroni nel chiedere arresti in massa e leggi speciali. Inevitabilmente questo costituisce uno spartiacque: da una parte chi ci vuole in galera, dall’altra chi vuole aiutare lo sviluppo di un movimento di massa di opposizione sociale, in grado, finalmente, di invertire i rapporti di forza nella nostra società, mettendo in pratica, mediante la lotta, l’auto-organizzazione e la riapproprazione le parole d’ordine contro il debito, per il reddito e per i beni comuni.

 

Solidarietà a chi ha avuto la casa perquisita.

Solidarietà a compagni e compagne arrestati/e.

Libertà subito per tutti e tutte.

 Coordinamento cittadino di lotta x la casa – Roma

 

Comunicato del Presidente dell’XI° Municipio Andrea Catarci in solidarietà con il Laboratorio Acrobax

Il Laboratorio Acrobax è una realtà attiva da anni nel Municipio Roma XI. Negli spazi dell’ex Cinodromo occupati e recuperati ad uso pubblico dal 2002, è presente un centro giovanile, uno spazio socio-abitativo in cui vivono 15 persone, una palestra, un campo di basket, un campo di rugby in cui si gioca il campionato di serie C, una sala prove per la musica. Si fanno iniziative quotidianamente ed alla luce del sole, per contrastare il precariato, l’emergenza abitativa, il caro-vita e l’uso delle armi, per promuovere lo sport per tutti, elemento di integrazione e confronto leale, per migliorare il quartiere, in particolare il degradato tratto di Lungotevere Dante. Tra il 2006 ed il 2007 due giovani di questa comunità, Antonio prima e Renato poi, hanno vista troncata la propria breve esistenza, il primo sul lavoro facendo trasporti veloci col motorino, l’altro assassinato all’uscita di uno stabilimento balneare da due giovani con simbologie neofasciste. I tragici fatti hanno rafforzato i legami con le altre realtà territoriali, già ampiamente consolidati.

Se qualcuno ha partecipato al rito vuoto e ingiusticabile della rottura di vetrine ed ha compiuto gesti ed azioni illegali va ovviamente accertato, ma che si indichi quel posto come palestra per il terrorismo oltre ad essere falso sa di sadico. E che Acrobax venga sbattuto in prima pagina e diventi una priorità del Ministro Maroni e del Sindaco Alemanno, in un clima da caccia alle streghe, è quanto di peggio sta producendo l’imperante subcultura antidemocratica ed autoritaria.

 

Andrea Catarci

Presidente del Municipio Roma XI

“Né buoni, né cattivi” – Intervista di Acrobax al Manifesto

di Eleonora Martini –

ROMA DOPO GLI SCONTRI – Grande discussione tra i partecipanti alla manifestazione.

Polemiche sugli incidenti Né buoni, né cattivi

«L’album di figurine ricostruito da certi media è ridicolo. Gli avvenimenti di sabato rivelano la temperatura sociale del Paese».

Parla un militante di Acrobax, uno dei centri sociali additati come cabina di regia degli scontri Sono stati additati dai media mainstream come la macchina organizzativa degli scontri di sabato scorso a Roma. I militanti del centro sociale romano Acrobax, insieme ai torinesi di Askatasuna e ai padovani del Gramigna, sarebbero secondo un «teorema preordinato» – così lo definiscono – la base logistica e di regia della battaglia che ha trasformato per la prima volta da tempo immemore la piazza di arrivo di una manifestazione in un campo di macerie. «È falso». Un confronto con loro deve partire necessariamente da questo assunto. Non vuole avere un nome, il militante di Acrobax con cui parliamo, «per una scelta politica, non giudiziaria: perché una voce senza nome è più ascoltata di tanti personalismi».

Dunque non siete voi gli artefici degli scontri di sabato?

L’album di figurine ricostruito da certi media è ridicolo. Noi, i militanti del Gramigna, per esempio, non li abbiamo nemmeno mai visti in una riunione. Con gli attivisti No Tav, invece, come con molte altre realtà italiane ed europee della rete degli Stati generali della precarietà abbiamo costruito insieme un percorso di lotta che continueremo a portare avanti. Un percorso condiviso da un movimento amplissimo, internazionale ed europeo, che sulla base dell’appello del 15 ottobre si è riunito a Barcellona per organizzare la resistenza alla politica di austerity dettata dai poteri finanziari globali. Non a caso, eravamo a pieno titolo nello spezzone iniziale del corteo. Ma il punto che sfugge ai più è che uno spezzone sia pur organizzato e militarizzato di rivoltosi non avrebbe avuto la forza di tenere sotto scacco per ore la polizia e trasformare piazza San Giovanni in un campo di battaglia. La resistenza, lì, è stata diffusa, la guerriglia l’hanno fatta migliaia di manifestanti. E noi con loro. Ma è su questo che si deve riflettere: come mai un piccolo gruppo di «violenti» è riuscito a trascinare con sé tanta gente? Chi erano queste persone?

È vero. Chi era in piazza quel giorno ha visto crescere il numero di “arruolati” alla guerriglia nel giro di qualche ora. Dapprima solo un “plotone” di miliziani nero vestiti, poi, a San Giovanni, gruppi non più definibili. Dunque tra di voi non c’era un disegno prestabilito per far saltare la manifestazione degli indignati?

Il comitato 15 ottobre sapeva benissimo che noi non riconoscevamo e contestavamo le loro scelte politiche. Come è avvenuto in tutto il mondo – da New York a Milano – noi volevamo portare la nostra protesta sotto i palazzi del potere. Quando dico «noi» intendo dire le migliaia di persone che hanno partecipato ad un’intera area di corteo. La nostra manifestazione sarebbe dovuta finire altrove, non in piazza San Giovanni. Le nostre azioni erano mirate, politiche. Volevamo sanzionare l’abuso di potere che costruisce zone rosse off-limits. Ma soprattutto mettere in pratica il diritto all’insolvenza, riappropriarci dei beni di consumo, far valere i nostri diritti negati – dalla casa al lavoro, dai saperi alla salute. Su questo tipo di lotte ci mettiamo la faccia e puntiamo alla riproducibilità delle nostre azioni. Non lasceremo soli chi vive sulla propria pelle l’esclusione imposta dalle banche centrali e dalle finanze globali, né li lasceremo alle destre o alla Lega.

Avete raggiunto i vostri obiettivi, sabato scorso?

Non abbiamo risolto il problema ma l’abbiamo reso evidente. Anche se non siamo caduti nella trappola della polizia e non abbiamo forzato il muro costruito a difesa del centro trasformato in zona rossa. E non abbiamo nemmeno paura di dire che certe azioni, come bruciare le auto all’interno del corteo o danneggiare la statua della Madonna, sono stupide e irresponsabili. Ma è stata colpa delle cariche della polizia e del modo di gestire le forze dell’ordine se gli scontri sono finiti proprio dentro la piazza dove il corteo avrebbe dovuto approdare. È davanti ai caroselli impazziti della polizia e alle auto lanciate contro la folla, che i manifestanti si sono uniti ai pochi «violenti», come li chiamate voi, iniziali.

 Abbiamo già raccontato ai lettori del manifesto la strana gestione delle forze di polizia in piazza San Giovanni. Ma insomma, non la firmate voi, quella violenza primaria e impulsiva senza grandi doti comunicative che ha devastato Roma?

Bisogna capire che c’è anche quella, anche se non era affatto nei nostri piani. Dovremmo tutti cercare di leggere i fatti di sabato come un termometro che misura la temperatura sociale di questo Paese.

Ha spiazzato anche voi, dunque?

Noi non facciamo le pulci alle varie anime del movimento, ciascuno sceglie la propria pratica politica. Così come non consideriamo nemici nemmeno coloro che scelgono strade di rappresentanza politica. C’è il massimo rispetto per chi sceglie le rappresentanze sindacali e studentesche. La nostra non è antipolitica, ma la consapevolezza dello svuotamento delle rappresentanze politiche. Certo, però, non saremo il capro espiatorio di un Paese – il cui tasso di disoccupazione giovanile sta al 30-35%, che vive in una dittatura mediatica unica al mondo, in assenza totale di tutele per i lavoratori e con un welfare tradizionale azzoppato dai tagli – nel quale è ovvio che il tappo è ormai saltato. Noi non provochiamo la rivolta ma nemmeno faremo i pompieri: meglio che tutto ciò emerga. A questo punto, o le rappresentanze politiche mostrano uno scatto di responsabilità, cercando di comprendere il senso e di dare delle risposte al conflitto, oppure quello che è successo sabato non è che l’inizio. E non è una minaccia, è una constatazione.

Cosa è cambiato rispetto alla manifestazione del 14 dicembre scorso?

Quello era solo corpo studentesco, sabato scorso invece in piazza c’era il corpo sociale metropolitano e precario. Allora si puntava alla sfiducia del governo e l’opposizione costituita ancora una sorta di rappresentanza politica parlamentare. Oggi le politiche di austerity sono condivise da tutto l’arco parlamentare. Per questo, senza fare alcuna apologia della violenza, diciamo che se il conflitto non trova altri sbocchi, in qualche modo esplode. È chiaro che si vuole instaurare uno stato d’eccezione per poi gestirlo in emergenza.

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Roma, il racconto di un autonomo: “Niente comizi, la piazza si conquista”

Gianluca, redattore di Infoaut, spiega dall’interno l’origine politica della violenza alla manifestazione degli indignati a Roma. “Bruciare macchine e spaccare la statua della Madonna è stata una gigantesca cazzata, ma attaccare banche e ministeri è un segnale politico”. E conferma la presenza in piazza di ultras del calcio e “reduci” degli anni Settanta
“Certo ci sono stati episodi deliranti, come bruciare le macchine, cosa che finisce solo per spaventare il corteo, o spaccare la statua della Madonna. Sono cazzate pazzesche. Ma attaccare le banche o gli uffici dei ministeri, che piaccia o meno, è un’indicazione, un segnale politico”. Gianluca, redattore di Infoaut, portale di politica e controinformazione di diversi collettivi dell’area autonoma, spiega la violenza esplosa alla grande manifestazione degli Indignati a Roma, terminata in ore di scontri in piazza San Giovanni, e con l’annullamento di tutti gli interventi finali.

Lui era lì, nel cosiddetto “blocco nero”, quello dei manifestanti coperti da caschi e cappucci che sono diventati protagonisti delle violenze. “Non raccontiamoci la storiella di due o trecento ‘black bloc’, magari fascisti o infiltrati della polizia”, continua Gianluca. “Tra il Colosseo e piazza San Giovanni, alla testa del corteo si è venuta a formare una componente di migliaia di giovani che non si riconoscevano negli organizzatori della manifestazione”. Addirittura cinque-diecimila, secondo il redattore di Infoaut, testata che in un editoriale definisce i fatti di Roma un episodio di “resistenza”.

Qui sta il cuore della frattura tra pacifici e violenti, con i secondi che di fatto hanno monopolizzato le cronache della protesta tra incendi e sassaiole. “La costruzione del 15 ottobre in Italia è stata nettamente al di sotto di quello che doveva essere. Gli organizzatori sono cadaveri: gruppi, sindacati e partitini che non esprimono niente nelle città, nelle scuole… Secondo loro, il corteo doveva finire con dei comizi elettorali, un modo secondo noi stupido di coronare una giornata di lotta. E la manifestazione sarebbe passata lontano dai veri luoghi della responsabilità”. Vale a dire i palazzi del potere, ritenuti colpevoli della crisi e del “furto” del futuro per le giovani generazioni.

Così, ragiona ancora Gianluca, molti hanno deciso di “uscire” dal programma preconfezionato. “Si possono anche deprecare le violenze di due o trecento persone, ma quando migliaia di giovani resistono per ore alla polizia è un fatto politico, come è accaduto anche nella manifestazione studentesca del 14 dicembre, sempre a Roma. Invece di aspettare i comizi, si sono presi la piazza. Questi giovani sanno che il loro futuro non esiste e non sono più riassumibili e compatibili in partiti, sindacati, associazioni. Se il percorso ufficiale della manifestazione avesse toccato i palazzi del potere, forse le cose sarebbero andate diversamente”.

Le azioni dei “neri” hanno provocato rabbia e reazioni molto decise da parte dei manifestanti che, nella stragrande maggioranza, puntavano a una giornata pacifica. E che invece si sono visti “scippare” i contenuti della protesta dalla risonanza mediatica degli scontri. Ma Gianluca la vede diversamente: “I contenuti politici ormai si conoscono: la crisi economica, il governo che sta in piedi a stento. Non si capisce perché la rivolta vada bene solo in Egitto”.

Alla fine, chi erano i violenti di piazza San Giovanni? “Al di là dei gruppi storici, c’è ormai uno strato sociale che si esprime in questo modo. Certo che Nichi Vendola dice che non si riconosce in quella piazza, ma neppure quella piazza lo voterà mai, perché sa che da lui arriveranno le solite ricettine”. Gianluca conferma che a manifestare a Roma c’erano anche gruppi ultras del calcio: “Ho visto ragazzi con lo striscione contro la ‘tessera del tifoso’, ma va capito che gli ultras sono un fenomeno sociale di massa. Rappresentano una forma di conflitto che per me sta al di sotto, ma dopo la normalizzazione del ministro Maroni tornano in strada e trovano un ambiente affine. Non sono alieni, sono anche loro proletari, stanno anche loro nelle scuole, nei luoghi di lavoro”. Così come, in mezzo a tanti ragazzi, si sono dati da fare contestatori più attempati, “quaranta-cinquantenni provenienti da altre battaglie”.

A questo punto, conclude, la definizione di “black bloc” diventa stretta. Il termine lo inventò la polizia tedesca negli anni Ottanta per definire gli Autonomen, che nei cortei facevano più o meno le stesse cose viste a Roma il 15 ottobre e si vestivano tutti di nero anche per rendere più difficile il riconoscimento nei filmati della polizia. In seguito, è stato utilizzato per definire la tattica di piccoli gruppi più o meno coordinati che si infiltravano nei cortei e ne uscivano per colpire gli obiettivi simbolo del capitalismo. Per Gianluca, i protagonisti degli scontri di Roma sono invece “una minoranza, ma di massa”.

Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.

dal manifesto.it

Chi sono?/ I «RAGAZZI DEL 14 DICEMBRE» DI NUOVO PROTAGONISTI
Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.
Se la governance «stile Bce» esautora la politica, si moltiplicano le figure sociali che non trovano più rappresentanza.

Hammett (da Il Manifesto di domenica 16 ottobre)

Aver poca memoria è un guaio. Un mondo politico affetto da questo male è gerontocrazia. Quello che è avvenuto ieri è un’estensione del 14 dicembre dell’anno scorso. Più in grande, più lontano dai «palazzi del potere», più intenso. Segnala che c’è un problema nel corpo sociale. Un problema che non trova rappresentanza, né a livello politico né sindacale. Ma esiste e non si può rimuovere con i fervorini giornalistici o, peggio, con le dichiarazioni nerborute del politico-che-rende-dichiarazione-alla-stampa.
Segnala che le soluzioni alla crisi stile «lettera Bce» – riducendo drasticamente la spesa pubblica – stanno annullando gli strumenti di «mediazione sociale». Per chi ha ancora un lavoro o una pensione, un riduzione di coperture o diritti è una sciagura in progress, cui cercare di resistere con le unghie e coi denti, magari intaccando i risparmi di una vita con lo sguardo ancora rivolto alla condizione precedente che si cerca – giustamente – di difendere. Per chi si affaccia ora «in società» e cerca di capire quale sia il suo posto, lo stesso taglio indica che per lui non c’è un grande futuro. O forse non c’è proprio.
Quando ieri, sopra le mappe geografiche dei Fori Imperiali, hanno tirato su lo striscione «di chi è la storia? è nostra», si potevano vedere centinaia di ragazzi che magari di storia ne masticano poca, ma non possono accettare di non farne parte. Di non avere ruolo, di essere «mercanzia»; per di più di poco prezzo.
E qualcuno lo capisce, sia sul piano empirico che su quello analitico (più complicato, ma più illuminante). Quando intervistammo i ragazzi del 14 dicembre questa «crisi della politica» ci venne sintetizzata in modo plastico: «Se – come potere – dico che ‘a causa della crisi’ non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che ‘la mediazione’ non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico».
Questa è la condizione della politica del prossimo futuro, quella stilizzata nella lettera di Draghi e Trichet, quella che espropria i singoli paesi della scelta più importante: quella sulla politica economica. Potranno legiferare sul testamento biologico o le intercettazioni, ma non su quale parte della popolazione strangolare e quale tutelare. È tutto qui il campo di applicazione della democrazia occidentale?
Discorso astratto? Il contrario. «Bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono; si parla di sofferenza precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e governance, o avrà le mani legate». Sono passati dieci mesi e in tutti questi giorni abbiamo potuto ascoltare politici di maggioranza e di opposizione esercitarsi sullo spartito: «ce lo chiede l’Europa», seguito da un «purtroppo» o un «per fortuna».
Questi ragazzi abitano le nostre periferie, forse qualcuno anche quartieri più «in». Si vedono tra loro più simili di quanto magari non càpiti ai rispettivi genitori. Arrivano nel centro della città come stranieri in territorio nemico, con coordinate persino approssimative. A dicembre un soldo di cacio con la faccia svelta mi fermò sul ponte per piazza del Popolo per chiedere «signore, qual’è la strada per palazzo Chigi?». E non pensava di entrarci come portaborse…
Dieci mesi fa hanno tenuto le strade del centro per quasi un’ora. Ieri si sono esibiti in diretta tv per oltre tre ore, fin quando le ombre della sera non li hanno portati lontano dalle telecamere. Ma sempre in corsa, contro «obiettivi simbolici» che non sposteranno di una virgola gli equilibri sociali e politici. O magari lo faranno in peggio. Però questa generazione «nata precaria» esiste, l’abbiamo creata «noi» a colpi di «pacchetto Treu» e «legge 30». Reagiscono alla «frammentazione sociale» in modo ruvido, magari «poco simpatico». Ma esiste ed esige risposta. Voltare le spalle e lasciare il problema alla polizia è la risposta peggiore.

Doveva finire con qualche comizio…

da www.infoaut.org

In Italia la giornata del #15 ottobre ci consegna una realtà che mentre scriviamo viene descritta fotogramma per fotogramma dai tg e dai siti informativi, come il giorno in cui un manipolo di teppisti si é impossessato di una giusta causa ed ha rovinato tutto.

Più o meno le stesse parole di Mario Draghi, e quelle di Bersani che si spinge più in là, chiedendo a Maroni di riferire in parlamento nei prossimi giorni perché, come per il 14 dicembre dello scorso anno, si ha paura che i ragazzi colorati con le tende o avevano al loro interno qualche infiltrato di Kossiga memoria, o che le forze dell’ordine abbiano “lasciato fare” il manipolo di teppisti apposta.
La realtà ancora una volta è un’ altra e va ben al di là di queste considerazioni e di quelle che iniziano a circolare tra il movimento.
Al 15 ottobre ci si è arrivati in una situazione assurda, dove gli organizzatori dei comizi finali in piazza San Giovanni, avevano desistito da tempo di sfilare verso i palazzi del potere romano, che era l’unica cosa incisiva in una giornata del genere. Le iniziative dei giorni scorsi volevano smorzare e incanalare una rabbia diffusa e irrapresentabile che oggi si è manifestata in tutta la sua espressione.
Può anche essere vero che all’inizio la giornata avesse preso una piega difficile da spiegare (ma più comprensibile di altre volte se possiamo dire) con l’attacco a banche, Suv e compro oro, ma poi quello che si è visto è stato tutt’altro che qualche gruppo di esagitati, infiltrati, carabinieri o fascisti che dir si voglia nei social network.
Si è visto un corteo di giovani, per lo più giovani, non rappresentati da nessuno neanche all’interno del movimento, che in quel “Que se ne vayan todos”, si sono riconosciuti appieno.
Giovani studenti, precari o disoccupati che si sono portati anche la maschera antigas nello zaino, perché pensavano di partecipare ad una giornata di riscossa, un po’ come per il 14 dicembre dell’anno scorso, dove nonostante tutti i calcoli degli organizzatori, il corteo straripò, fuori dai recinti e dalle mediazioni.
Diciamola tutta, se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso.
La giornata di oggi, piazza San Giovanni nella fattispecie, si è trasformata in ore di resistenza di massa alle forze dell’ordine, chiamate a respingere una rabbia sacrosanta verso un presente di austerity. Magari non è comprensibilissimo ai più, ma le ore di resistenza romana odierna hanno detto chiaro e tondo che al debito, ai sacrifici, alla casta, all’austerity a senso unico, che ribellarsi è qualcosa che può unire, e che può succedere.
Oggi poteva solo succedere qualcosa in più dei piani prestabiliti, era normale, era nell’aria, spiace che ci sia chi non lo ha voluto vedere e si è voluto coccolare il suo orticello fatto di qualche poltroncina con Sel alle prossime elezioni.
Spiace la rinuncia degli organizzatori a puntare dritta verso i palazzi del potere, perché questo ha lasciato di fatto mano libera alla spontaneità, che non essendo indirizzata, ha consumato, dall’inizio, passo per passo, l’attacco a tutto ciò che è considerato simbolo del sistema di iniquità.
Era destino, ed era giusto, siamo nell’Italia dei Berlusconi e dei ceti politici sempre verdi.
Doveva finire con qualche comizio in piazza San Giovanni, è finita con ore di resistenza…
Que se ne vayan todos (ma proprio todos).