L’Italia e il Mediterraneo in rivolta

da www.infoaut.org

Verso e oltre il 15 ottobre

Il 15 ottobre si svolgeranno in tutta Europa le manifestazioni lanciate dal movimento 15M per estendere oltre i confini spagnoli la pratica della protesta contro la casta che pretende di farci pagare gli effetti della crisi finanziaria. La scadenza di Roma ha inevitabilmente convogliato su di sé le attenzioni e le aspettative dei soggetti sociali che, in Italia, ritengono sia giunto il momento di far sentire la propria voce, e credono che, senza un’Onda Italiana, le politiche di palazzo sapranno superare la crisi istituzionale nel segno di una continuità conservatrice, antipopolare e contraria agli interessi della maggioranza. Si è diffusa in molti una consapevolezza di fondo: l’attuale condizione storica richiede un salto di qualità nei nostri comportamenti politici. Il sacrificio in piazza di Mohamed Bouazizi, il ragazzo tunisino che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010, ha aperto una nuova fase nel Mediterraneo. Il versante meridionale è entrato in una lunga e complessa fase rivoluzionaria, in grado di modificare in modo inaudito gli equilibri sociali interni a quei paesi e quelli internazionali. Sul versante settentrionale, anzitutto con le mobilitazioni di massa che attraversano la Spagna e la Grecia – paesi che, su un diverso livello, accusano pesantemente gli effetti della crisi mondiale, diventandone a loro volta propulsori – il conflitto sociale è entrato di prepotenza nel cuore degli equilibri monetari del nuovo secolo: l’Unione Europea.

Questi movimenti non sembrano analizzabili, e tanto meno governabili, attraverso ricette precostituite; ci consegnano un’evidenza che è impossibile non assumere nell’analisi generale: si è aperta una fase politica di sperimentazione dal basso. La primavera mediterranea non è e non sarà orientale o occidentale, democratica o dispotica, pacifica o violenta: le categorie in cui è rimasto impigliato gran parte del pensiero politico degli ultimi decenni, anche all’interno dei movimenti, saranno devastate dall’impatto dei conflitti sociali che già si affacciano su questo decennio. Il dato essenziale è il protagonismo di massa di soggetti sociali nuovi, moderni, che si pongono su un livello di rottura radicale tanto con i dispositivi di gerarchizzazione sociale e del reddito, tanto con le forme tradizionali della sovranità politica e territoriale. Dalle migrazioni di massa ai flussi grammatologici di insubordinazione attraverso il web, questi soggetti si presentano come sfuggenti, ingovernabili, insensibili tanto alle imposizioni delle frontiere politiche quanto a quelle linguistiche, giuridiche, informatiche. In questo scenario crediamo sia necessario ovunque consegnare ai movimenti, alle piazze e alle lotte tutta la nuova sovranità, la voce in capitolo, la progettualità rivoluzionaria. Non ci servono “alternative” di contenimento, né sul versante di una “guida” o “gestione” della crisi da parte delle istituzioni della casta, né all’interno dei movimenti.

La crisi non è un male obiettivo, naturale ed inevitabile, senza colpevoli, senza responsabilità soggettive; e le nostre chiamate alla mobilitazione devono essere cassa di risonanza dei desideri e della rabbia sacrosanta di tutte e tutti, senza limitazioni ideologiche o programmatiche, senza sovrastrutture progettuali che esulino dalla pura e semplice necessità di riprodurre nel nostro paese e nel mondo una dinamica estesa e avanzata di conflitto sociale. Ciò di cui abbiamo bisogno sono serbatoi di mania della trasformazione, overdosi di utopia, cuori roventi, esigenza dell’imprevedibile. Cosa vogliamo da questo autunno? Cosa da questo ottobre? La piazza spagnola ci ha fornito una traccia semplice e chiara, proponendo la pretesa di una negazione pratica dell’assetto istituzionale e politico che ereditiamo in Europa: Que se vayan todos! è il loro grido, e deve essere anche il nostro. Ad ogni capo del globo, con le tende, le canzoni o le molotov, i movimenti stanno affermando che con questa organizzazione dell’economia, con questa costituzione della sovranità politica non si può andare avanti. Non si può, nei due sensi di questa espressione: perché non si vuole e perché non è più possibile. È una dimensione soggettiva e oggettiva del non potere, quella che abbiamo attorno e di fronte a noi.

E l’Italia? È la grande assente, fino a questo momento, dei processi in atto: non dal punto di vista dell’attacco alle condizioni di vita e della prospettiva di default, naturalmente, ma dal punto di vista del conflitto; è l’unico grande paese mediterraneo a non essere lambito dal fuoco della rivolta, dall’uragano dell’indignazione. Di fronte al quadro profondamente nuovo che i processi di delegittimazione dell’ordine costituito rappresentano, nella nostra penisola sembra ancora essere ingombrante la tendenza all’elemento rituale, al dejà vu, a un insensato eterno ritorno dell’identico. Si pretende di incanalare la ricchezza politica che si orienta da mesi verso l’autunno in una sfilata ordinata e disciplinata, lontana dal centro e dai palazzi del potere, come indicato dalla questura della capitale. Si vorrebbe fornire una sponda, attraverso questa scadenza, a progetti politici visti e rivisti, che intendono convogliare in un voto istituzionale il desiderio di cambiamento che dal referendum alle manifestazioni studentesche del 7 ottobre cresce nel nostro paese. A beneficio di chi o di cosa, ci chiediamo? Non ne possiamo più del rito e della chiacchiera giornalistica sull’autunno caldo: vogliamo un Autunno Infernale.

Vogliamo un inverno duro per chiunque tenti di farci pagare la crisi. Vogliamo una primavera dei movimenti. Vogliamo anni di negazione dell’esistente, vogliamo un’Italia Valsusina. Non vogliamo un nuovo-vecchio uomo della provvidenza, di destra o di sinistra, alla guida di un progetto politico scaduto in partenza. Ciò che vorremmo fosse chiaro a tutte e tutti è che la casta è finita; e quando parliamo di casta intendiamo non soltanto Berlusconi e Tremonti, Bossi e la Marcegaglia, Bersani o Di Pietro, Montezemolo, Napolitano o Marchionne; intendiamo tutte le forme della vecchia politica, ben al di là dei nomi dei partiti, dei ministri, dei presidenti e dei candidati; intendiamo anche Vendola e De Magistris, ossia coloro che intendono cavalcare la voglia di cambiamento affinché il cambiamento non avvenga mai, affinché prevalgano ancora la delega e la politica di mestiere, gli aggiustamenti strategici, il compromesso annunciato. E ci chiediamo: cosa vorrebbero elemosinare i movimenti da questi signori? E che cosa dalle istituzioni stesse? Non soltanto le chiacchiere e le illusioni, ma persino i soldi sono finiti! Resta una società polarizzata e paralizzata, l’arricchimento spietato o l’impoverimento totale, la bancarotta. È forse il momento di salire sul carrozzone dei partiti, di accettare la logica che, reprimendo e recuperando il conflitto sociale, ci ha portati a questo disastro? È forse l’ora di imporre ai movimenti sociali strutture rigide o autoritarie, prospettive non condivise, destinazioni annunciate?

Il potere politico capitalista risiede completamente, e non da ora, nelle istituzioni finanziarie globali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Federal Reserve. I governi nazionali, le istituzioni internazionali o locali non sono che gli agenti dell’applicazione quotidiana di decisioni prese in quei teatri dal personale tecnico del capitalismo moderno: sono svuotate di qualsiasi autonomia amministrativa o politica. Come se non bastasse, di qualsiasi legittimità: lo si ode nell’eco dei tumulti e delle insurrezioni che agitano il mondo, che si espandono da New York a Damasco, da Santiago del Cile a Londra. L’ingresso nelle istituzioni del default non è l’obiettivo dei movimenti. Il potere politico “alternativo”, o antagonista, è nelle piazze, nelle strade, nelle rivoluzioni; è nelle assemblee di Barcellona, di Tunisi, della Val Susa. Non c’è delega, non c’è candidatura di cui in Italia, oggi, i movimenti possano comprendere il senso. Per questo crediamo che, il 15 ottobre e dopo il 15 ottobre, occorra consegnare a questo paese, finalmente, gli spazi comuni e aperti dove le istanze sociali, schiacciate dalla cappa di uno stato impresentabile e parassitario, possano esprimersi liberamente. Tutte le idee, tutte le istanze, tutte le voglie di questa società disastrata, tutte le progettualità della protesta non possono che trarre ossigeno dall’ingresso dell’Italia in questo Mediterraneo inquieto, e nell’Europa delle tre “A”: quella del conflitto sociale. L’Italia merita il cambiamento, quello vero. E non si potrà cambiarla, per davvero, senza rimetterla al centro del variopinto planisfero delle lotte sociali.

 

www.infoaut.org

VERSO IL 15 OTTOBRE VAL SUSA CHIAMA ITALIA

da www.notav.info

Scriviamo queste righe dalle nostre montagne, sperando che dalle Alpi possano arrivare a tutto lo stivale, da Cortina a Lampedusa. La nostra valle vive un momento di lotta intensa, di resistenza: ogni giorno è qui, ormai, un giorno decisivo. Dai nostri presidi, dalle nostre baite, dai nostri paesi, dalle strade e dai sentieri che li collegano, attorno al fortino militarizzato creato dal governo a difesa del non-cantiere dell’Alta Velocità, stiamo resistendo. Ed è da resistenti che ci rivolgiamo a voi, che ci rivolgiamo all’Italia. La lotta No Tav è una lotta per la difesa della salute e del territorio, ma non solo: è una lotta contro la consegna della ricchezza prodotta collettivamente, in tutto il paese, nelle mani di pochi. È una battaglia contro l’alleanza strategica tra stato e mafia, ma è anche l’idea di un mondo diverso, costruito insieme attraverso nuove pratiche di decisione dal basso. È un movimento in difesa della nostra valle, che amiamo ora come non avevamo mai amato, ma è anzitutto un grido che si leva da un luogo nel mondo, rivolto a tutto il mondo.

Il 15 ottobre, in Europa e non solo, migliaia di persone risponderanno all’appello che giunge dagli indignados spagnoli: da coloro che, a partire dal marzo scorso, hanno deciso di trasformare, a modo loro, la vita politica del loro paese. Persone comuni – non eroi! – proprio come noi e voi, che hanno invaso le piazze delle loro città, parlando alla Spagna della società che vorrebbero costruire, sulle ceneri della classe politica che governa il loro paese. Come la Val Susa non può vincere senza l’Italia – e, lo diciamo con convinzione, un’Italia migliore non può nascere senza la vittoria della Val di Susa – così i ragazzi spagnoli non possono vincere senza l’Europa. Che cosa vogliono? Una politica e un’economia al servizio di tutte e tutti, il rispetto per l’essere umano e per l’ambiente, la morte definitiva dell’accentramento del potere mediatico, dell’abuso sistematico di quello politico, della corruzione, del commissariamento globale da parte della grande finanza. Ogni volta che ripetiamo questi stessi, identici concetti nelle nostre assemblee popolari, ogni volta che li gridiamo lungo le vigne o sotto le reti della militarizzazione, sentiamo di portare avanti una lotta che è la loro stessa; ma è la stessa degli studenti greci e tunisini, dei ragazzi che vengono arrestati sul ponte di Brooklyn e di quelli che cambiano la storia in piazza Tahirir.

Allora che aspettiamo? Il tiranno che ci governa è a Roma! A Roma è il mandante politico dell’invasione militare della Valle, a Roma è il mandante politico del Tav: decrepito, vergognoso e trasversale, proprio come in Spagna, proprio come in Grecia. A Roma sono i palazzi che hanno partorito una manovra di assassinio di due o tre generazioni, e mentre con una mano rapinano gli italiani di 20 miliardi di euro, con l’altra firmano gli accordi con la Francia per regalarne 22 al malaffare, distruggendo con il Tav le nostre vite e la nostra vallata. Mentre già discutono la necessità di una manovra bis per attaccare ancora più a fondo, in nome dei diktat della BCE, la società italiana, spendono 90.000 euro al giorno per gasarci al CS e reprimere in ogni forma il nostro dissenso, per la sola colpa di esserci ribellati al loro decennale strapotere. Questo è ormai la Val di Susa, del resto: un pericoloso esempio per tutte e tutti, da sradicare con la forza. Cosa aspettate? Cosa aspettiamo? Se vogliamo un futuro, un futuro qualsiasi, non abbiamo scelta: dobbiamo sfidare la casta – tutta la casta! – e dobbiamo vincere. A Roma ci saremo per sentire ancora il vostro abbraccio, dopo mesi difficili in cui abbiamo sofferto, ma anche sognato; e tra i nostri sogni ci sarà sempre quello in cui vi vediamo marciare fin sotto i palazzi del potere, e lanciare tutti insieme il grido che arriva, forte e chiaro, dalla Spagna: Que se vayan todos!

Breve storiella del debito pubblico

dal blog della militant…

Come sappiamo già da mesi, alcuni paesi europei sono stati privati del loro potere politico di indirizzo economico, e sostituiti da strutture europee economico-finanziarie quali la Banca Centrale Europea, il famigerato Fondo Salva Stati (variante europea del Fondo Monetario Internazionale), nonché dalla stessa Unione Europea e dalla Banca Centrale Tedesca. Di fatto, parlare di commissariamento è fin troppo poco: quello che stanno vivendo i paesi più indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel corso dell’ottocento e del novecento, decine di paesi del secondo e terzo mondo, con l’FMI al posto del Fondo Salva Stati, la Banca mondiale al posto di quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione Europea. Tutti paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le politiche economico-sociali. La storiella del debito, dunque, è abbastanza vecchia da poter essere presa a modello per capire cosa accadrà in Italia, ricordando anche cosa successe a qualche paese invaso dalle stesse cure che toccheranno a noi. Prima di tutto, è stato preparato a dovere il terreno culturale su cui poi andare a intervenire. Si sono create le condizioni psicologiche che hanno portato la gente ad avere una fottuta paura del debito pubblico, così da vedere il ridimensionamento dello stesso come condizione imprescindibile per andare avanti. La storia è più o meno questa: i mercati, che sono formati dalla massa di cittadini-risparmiatori che investono i propri risparmi nelle banche comprando obbligazioni o azioni delle società quotate in borsa, stanno portando un attacco speculativo verso i paesi indebitati vendendo le azioni o le obbligazioni di questi paesi, intimoriti dalla possibile insolvenza di questi paesi. Questi mercati, dunque, non sono altro che una sorta di opinione pubblica mondiale sui fatti economici, per cui se decidono di vendere determinate azioni o obbligazioni è perché non si fidano più della stabilità (=solvibilità) di ciò che hanno in portafoglio. Questa opinione pubblica è spaventata dall’enorme massa di debito di alcuni grandi paesi europei, dunque questo crollo di fiducia determina una fuga di capitali dai paesi indebitati. Quindi il vero motivo di questa sfiducia collettiva è, in fin dei conti, il debito pubblico. Cosa avrebbe prodotto questo debito pubblico? Il debito pubblico sarebbe il risultato di anni di gestione scellerata e spendacciona di questi stati, che nel corso del tempo avrebbero accumulato un debito nel confronti dei loro cittadini in virtù delle proprie politiche di sperpero di denaro pubblico, di salari troppo elevati, di pensioni troppo alte, di servizi pubblici garantiti e così via. Insomma, la soluzione dovrebbe essere quella di rientrare di questo debito riformando l’economia, abbattendo pezzi di stato sociale ormai non più proponibili perché sarebbe finito il tempo delle “vacche grasse”, in cui un po’ tutti abbiamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”, mentre sarebbe giunta l’ora di “tirare la cinghia”. E’ ora di liberare l’economia dai lacci e laccioli che la imbrigliano, diminuendo la spesa statale, abbassando le tasse e così via, per far risalire finalmente la fiducia degli investitori internazionali nei nostri confronti così da generare di nuovo profitti e crescita economica. Torna, vero? Questa, in linea di massima, la visione politica odierna di ciò che sta succedendo in Italia e nei paesi maggiormente indebitati. Bene, tutto questo è falso. Anzitutto, i mercati. Nei mercati finanziari non investono i cittadini, i risparmiatori, i contribuenti o come sono stati definiti nel corso di questi anni coloro che detengono azioni in borsa. Nei mercati finanziari agiscono le società di intermediazione mobiliare, le istituzioni finanziarie e monetarie, i fondi pensione e i fondi d’investimento, le banche, le assicurazioni. Ciò non vuol dire che sia vietato ai cittadini di poter investire in borsa, e sicuramente ci saranno molti “privati” che decidono di impegnare il gruzzoletto risparmiato in azioni. Però gli attori dei mercati borsistici sono altri, sono coloro che possiedono i capitali, quelli veri, e che muovono stock di azioni che niente hanno a che vedere con quelle che potrebbe spostare il singolo risparmiatore. Dunque, nei mercati non è riflessa alcuna opinione pubblica mondiale, o europea. Questi stessi attori protagonisti nelle borse sono gli stessi che nel corso degli anni hanno prodotto la gran parte del debito pubblico italiano. Riflettiamoci un istante con un semplice esempio: poniamo che un ipotetico fondo pensione statunitense possieda, mettiamo, 50 milioni di euro in azioni a Piazza Affari, e realizzando una manovra speculativa decida di venderli. Questa vendita (sommata ad altre vendite) produrrà un abbassamento del valore della borsa italiana di un qualche punto percentuale, che si rifletterà in campo economico in una perdita di fiducia delle istituzioni finanziarie verso la nostra struttura finanziaria, andando così ad aumentare le percentuali di rischio di solvibilità del nostro paese, che quindi andranno ad aumentare il tasso d’interesse che servirà a comprare i nostri titoli del tesoro. Un aumento del tasso d’interesse significa che per acquistare i nostri titoli dovremmo offrire più soldi, per trovare mercato, e così facendo saremmo costretti ad indebitarci di più. Ecco come, in questo semplice quanto evidente esempio, il nostro debito pubblico sarebbe aumentato senza che sia avvenuto alcun tipo di movimento nell’economia reale, nessun aumento di spesa pubblica, nessun abbassamento delle tasse o aumento delle pensioni. Questo è esattamente ciò che sta accadendo all’economia finanziaria italiana per quanto riguarda il debito pubblico, che ricorda vagamente ciò che è accaduto nel corso della storia per le economie dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa che hanno assaggiato la cura dell’FMI. Enormi manovre speculative ai danni delle economie dei paesi emergenti, che aumentava a dismisura il loro debito pubblico – detenuto dagli investitori esteri – e che costringeva, con l’acqua alla gola, queste economie all’abbraccio mortale delle istituzioni finanziarie internazionali guidate da Washington. Perché tutto questo sta avvenendo in Italia in questi anni e non è avvenuto prima? Perché fino all’inizio degli anni novanta il debito pubblico italiano era detenuto da strutture finanziarie italiane (banche e assicurazioni), era un debito interno, detenuto quasi esclusivamente da attori italiani che non avevano alcun interesse a far crollare la fiducia di un mercato nel quale detenevano la stragrande maggioranza di azioni e in cui avevano il loro territorio economico d’appartenenza. Con la crescente finanziarizzazione dei mercati, con il progressivo abbattimento di ogni frontiera per lo spostamento dei capitali, per la cavalcata trionfale della deregulation finanziaria, i mercati azionari italiani si sono sempre più fusi con quelli internazionali. Oggi la quota di debito pubblico detenuta da investitori internazionali è del 52,4%, a fronte del 5,59% del 1991 (dati Bankitalia). Questi investitori internazionali hanno, al contrario di quelli nazionali, tutto l’interesse alle manovre speculative nei confronti di un qualsiasi stato. Non solo perché non rischiano nulla, potendo spostare i propri capitali da una parte all’altra del mondo nel giro di un click col mouse, ma soprattutto perché un aumento del rischio d’insolvenza fa salire i tassi d’interesse per collocare i nostri titoli pubblici sul mercato. Si stabilisce un circolo vizioso per cui più uno stato è a rischio fallimento e più genera profitti per gli investitori internazionali, generando ulteriore debito e dunque aumentando il rischio fallimento. Chi detiene dunque il nostro debito pubblico? Secondo i vari organi di propaganda neoliberista, il debito pubblico dovrebbe essere la quota che ognuno di noi rischia di perdere se lo stato fallisse, i soldi che lo stato ci dovrebbe dare e che non è in grado di onerare (sempre perché è vissuto al di sopra delle sue possibilità e altre mega bufale del genere). Al momento in cui scriviamo, ogni italiano dovrebbe avere una quota di 33.000 euro sul proprio groppone. Anche questo è falso. Il debito pubblico italiano è detenuto per il 52% da quelle istituzioni finanziarie estere di cui sopra (fondi speculativi, banche, assicurazioni, società di intermediazione e così via); per il 32% da banche e istituzioni finanziarie italiane; dal 4% dalla Banca d’Italia e solo per l’11% dalle famiglie e da altre società non finanziarie. Insomma, circa l’85% del nostro debito pubblico è detenuto dalle banche, italiane o estere. Se noi dovessimo finalmente fallire, chi perderà i propri “risparmi” saranno proprio quelle istituzioni finanziarie che hanno contribuito ad esacerbare questa crisi, che ci stanno speculando sopra anche oggi, e che stanno costringendo, tramite la longa manus delle tecnostrutture europee, alle riforme economiche che invece andranno ad incidere, queste si in maniera indelebile, sulla vita delle famiglie italiane. Ovviamente, delle famiglie più povere, visto il carattere squisitamente di classe della manovra economica appena approvata e dettata da Bruxelles. Capito perché non possiamo fallire? Perché fallirebbero le banche e i fondi europei che nel frattempo stanno giocando in borsa col nostro debito pubblico, sicure del fatto che, al momento del bisogno, sarà l’economia reale dei lavoratori in carne ed ossa a ripagare i debiti che vengono prodotti ad ogni movimento speculativo. Questo giochetto, e cioè utilizzare il grimaldello del debito pubblico, gonfiato ad arte dalla finanza internazionale, per poter riformare in senso neoliberista l’economia degli stati, è stato usato nel corso degli anni, come abbiamo detto, proprio nei confronti di quei paesi che avevano bisogno di un “aggiustatina” economica, o che risiedevano su territori appetibili economicamente, o possedevano una vasta mano d’opera a basso costo desiderosa di farsi sfruttare. E non solo in Argentina o in Cile, in Corea del Sud o in Messico come in Brasile o in Bolivia, ma anche in quei paesi del “primo” mondo che avevano bisogno di una svolta liberista, come l’Inghilterra della Thatcher o gli Stati Uniti di Reagan. Questi episodi storici di introduzione forzata di misure neoliberiste sono partiti tutti dall’assunto di un debito pubblico troppo elevato, di una riforma dell’economia per ridimensionarlo e dell’impossibilità di andare avanti in questo modo. Proprio grazie a questo, e alla battaglia culturale (stravinta) sulla necessità di avere un debito in ordine per marciare verso il progresso e il benessere, è stato possibile la vittoria schiacciante del neoliberismo in molti stati. Oggi è il turno dell’Italia, della Grecia, della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda. Sebbene paesi capitalisti e liberisti, hanno ancora uno strato socio-economico basato sulla presenza dello Stato nell’economia, hanno ancora un potenziale non indifferente di profitto per la finanza speculativa mondiale. E’ per questo che o usciamo dalla logica del debito, decidendo di non pagare i nostri debiti agli speculatori internazionali, oppure saremo costretti nell’abbraccio mortale di una nuova spinta neoliberista che devasterà ulteriormente il nostro paese. E’ una riflessione un po’ retorica, ovviamente, visto che sappiamo bene di che pasta sono fatte le nostre “sinistre” e quali sono le loro visioni del mondo per quanto riguarda l’economia e il rapporto con l’Europa. Ma sono riflessioni che dovremmo fare nostre in vista del 15 Ottobre, quando l’opposizione a questa crisi creata dal capitale manifesterà per le strade di tutta Europa. Ci vediamo nella lotta. Riferimenti interattivi e bibliografici: – Girolamo De Michele su debito, manovra finanziaria e speculazione internazionale http://www.carmillaonline.com/archives/2011/08/003994.html#003994 – Andrea Fumagalli su Uninomade http://uninomade.org/la-farsa-dellemergenza-economica-parte-ii/ – Chi ha in mano il nostro debito? http://www.linkiesta.it/chi-detiene-debito-pubblico-italiano- – Rapporto della Banca D’Italia dove, se si ha la pazienza di andarselo a spulciare, si scoprirebbero cose interessanti http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp – “Breve storia del neoliberismo”, di David Harvey, 2005, edizioni Il Saggiatore

http://www.militant-blog.org/?p=5498#more-5498

Dichiarazione dell’Hub Meeting15S di Barcellona, verso il 15Ottobre a Roma

Dichiarazione del Hub Meeting partecipanti 15S

Noi, reti e persone che hanno partecipato al Meeting 15SHub, riunione svoltasi a Barcellona tra il 15 e il 18 settembre, dichiariamo che

– Rifiutiamo il concetto di austerità per affrontare l’attuale crisi e risolverla, in quanto tale approccio presuppone una gestione autoritaria
 e antidemocratica dei beni comuni.

– Denunciamo le politiche di austerità che si traducono in un aumento della diseguaglianza e in un attacco frontale ai fondamenti del welfare e dei diritti conquistati in anni di dure lotte sociali dei movimenti.

– Sottolineamo come, allo stesso tempo, queste politiche di austerità favoriscano interessi economico-finanziari privati, quegli stessi interessi che sono alla base del modello di sviluppo e che ci hanno condotto all’attuale crisi.

Quella che stiamo osservando non è solo una crisi economica, ma  anche e soprattutto una crisi politica. E’ l’apice del processo di disgregazione del patto sociale europeo e rivela impietosamente l’assoluta incapacità
dell’attuale sistema politico di gestire decentemente il bene comune.

A fronte della condizione di precarietà materiale ed esistenziale sempre più diffusa, reclamiamo un processo di democratizzazione radicale della gestione economica e politica in Europa, che consenta la costruzione di un nuovo modello di welfare che poggi su due pilastri:
l’introduzione di un reddito di esistenza, incondizionato, e l’accesso effettivo e libero ai diritti e ai beni comuni
(sanità, istruzione, casa, ambiente, conoscenza).

Per conseguire questi obiettivi, è essenziale un nuovo modello di politica fiscale europea e un nuovo approccio alla questione del debito. Condizione necessaria ma non sufficiente perché ciò possa realizzarsi è l’introduzione di un nuovo insieme di diritti sociali, tra i quali è prioritario il diritto al fallimento per gli individui.

Salviamo le persone, non le banche.
Consideriamo inoltre necessario garantire l’accesso libero alle reti di comunicazione e la neutralità di queste stesse reti, alla conoscenza e all’istruzione e ci opponiamo a qualsiasi processo di privatizzazione e mercificazione del sapere.

In un quadro in cui precarizzazione e disoccupazione continuano a crescere incontrollate, la condizione migrante è l’esempio più eclatante della distruzione dei diritti del lavoratore e dello svilimento delle condizioni di lavoro.
Consideriamo ciò che sta accadendo nel campo lavoro migrante uno scellerato laboratorio di quel che si intende applicare a tutta la classe lavoratrice in un futuro prossimo. Rivendichiamo con forza e urgenza la necessità di svincolare la fruizione da parte dei migranti dei diritti sociali, politici e di cittadinanza dal contratto di lavoro. Al tempo stesso, riteniamo che l’accesso a tali diritti debba essere garantito anche i familiari dei migranti che lavorano in
Europa. Siamo tutti migranti, nessun essere umano può essere illegale!

Dobbiamo trasformare gli attuali modelli di democrazia e riappropriarci della politica, con la partecipazione diretta a tutti gli aspetti della vita sociale, politica ed economica. L’attuale modello di democrazia rappresentativa è evidentemente superato. Non c’è nessuno che ci rappresenti!

Per tutti questi motivi, convochiamo la cittadinanza per il prossimo 15 Ottobre affinché possa esprimere con forza il rifiuto di questa strategia di uscita dalla crisi e rivendicare una democrazia che sia reale.

Non abbiamo più nulla da perdere ma tutto da guadagnare!

15SHM Statement

18 Sep

Declaración de los participantes del 15S Hub Meeting

Nostras, las redes y personas participantes en el encuentro 15SHub Meeting que tuvo lugar en Barcelona entre los días 15 y 18 de septiembre

Rechazamos el concepto de austeridad para explicar la actual situación de crisis y afrontar su solución ya que supone una gestión autoritaria y antidemocrática de la riqueza común.         

Denunciamos que las políticas de  austeridad producen  un incremento de  las desigualdades y un ataque  frontal contra los pilares del Estado del Bienestar europeos y los derechos sociales que éste ha garantizado como resultado de las múltiples luchas sociales.

Al mismo tiempo, estas políticas de austeridad favorecen los intereses económico-financieros   privados responsables del modelo de desarrollo económico que ha provocado la actual crisis.

Ésta no es tan sólo una crisis económica sino sobre todo una crisis política. Es la culminación de la ruptura del pacto social europeo. Además pone en evidencia el agotamiento del sistema de partidos políticos en la gestión del bien común.

Ante la precariedad material y existencial, reclamamos la democratización de la economía  y de la gobernanza europea que permita la construcción de un nuevo modelo de bienestar social fundado en dos aspectos: la provisión de una renta básica incondicional y el acceso efectivo y libre a los derechos sociales y los bienes comunes (sanidad, educación, vivienda, medioambiente, conocimiento ..)

Para la consecución de este modelo se hace necesaria una política fiscal, presupuestaria y social europea así como la auditoría de la deuda. Condición necesaria pero no suficiente para ello es el reconocimiento de un nuevo catálogo de derechos sociales, entre los cuales se revela prioritario el derecho a la quiebra de las personas: rescatemos a las personas no a los bancos.

También consideramos necesario garantizar la neutralidad y el libre acceso  a la red, al conocimiento y la educación contra las dinámicas privatizadoras y mercantilizadoras del saber.

En una situación de precariedad y desempleo creciente, la condición migrante es el más claro ejemplo de la privación de los derechos laborales y de la desvalorización de la actividad productiva. La condición del trabajo migrante es el modelo que pretende ser impuesto al conjunto de la población trabajadora. Reivindicamos la desvinculación de los derechos sociales, políticos y de ciudadanía del contrato de trabajo. Así mismo reivindicamos la concesión de los mismos al conjunto de los migrantes residentes en los países europeos. Todos somos migrantes y nadie es ilegal.

Debemos  transformar los modelos de democracia y reapropiarnos de la política a  partir de la participación directa en todos los ámbitos de la vida  social, política y económica.  El actual modelo de democracia representativa está agotado: nadie nos representa.

Por estos motivos convocamos a la ciudadanía el próximo 15 de Octubre para que exprese su rechazo a las políticas de salida de la crisis y reivindique de una verdadera democracia.

 

Nada que perder, todo por ganar

http://bcnhubmeeting.wordpress.com/

 

Appello per una assemblea a Bologna verso i meeting transnazionali di Barcellona e Tunisi

Dal 15 al 18 Settembre a Barcellona, dal 29 Settembre al 2 Ottobre a Tunisi, sono in programma due meeting transnazionali. Due importantissimi appuntamenti per provare a stringere sempre più reti transnazionali di lotta in un percorso iniziato già qualche anno fa in varie assemblee e momenti di conflitto attorno al Bologna Process, sparsi in tutta Europa e non solo.

In questa fine estate, in cui gli effetti della crisi globale iniziata quattro anni fa hanno subito una accelerazione improvvisa, diventa sempre più chiaro che possibilità di salvatori della patria non ce ne possono più essere nello spettro della rappresentanza nazionale: quando la moneta viene stampata a Bruxelles, i fondi monetari hanno sede a New York e la Borsa e’ legata agli indici di Londra, Francoforte e Parigi l’unica risposta per iniziare a riappropriarci dei nostri bisogni e desideri e’ quella di combattere sullo stesso piano della finanza globale.

Uno spazio transnazionale nel quale costruire campagne comuni per il diritto alla bancarotta, sul nuovo welfare, il reddito, i saperi e percorsi di trasformazione radicale del presente. I Signori della crisi proseguono nel voler applicare le ricette neo-liberiste responsabili della crisi stessa, che si traducono immediatamente in macelleria sociale, e in Italia una manovra lacrime e sangue viene approvata in maniera assolutamente bipartisan.

Al contempo dall’altro lato troviamo sempre più lotte e rivolte che si accendono a ciclo continuo. Dallo scorso Ottobre le mobilitazioni studentesche e precarie in Italia e Inghilterra, le nuove forme di sciopero in Francia e Grecia, la primavera araba, gli Indignados, le lotte sui beni comuni come la No Tav, hanno iniziato a creare un tessuto comune in espansione di opposizione alla crisi. Le metropoli inglesi in fiamme di poche settimane fa e l’inarrestabile continuità della conflittualità degli studenti cileni che assediano la capitale da mesi, le banlieue parigine sempre pronte a riesplodere e la continuità delle insurrezionali nel Maghreb pur nell’ambivalenza della fase in cui reazione e movimenti si scontrano anche e soprattutto nei post rais, continuano a muoversi in questo solco e ad approfondirlo. Una lunga scia che ha visto l’emersione di una nuova composizione di classe in formazione composta in prima fila
dal precariato cognitivo e da giovani proletari delle metropoli. Un messaggio è ormai evidente: di fronte alla logica del saccheggio imposta dalla finanziarizzazione vi sono intere generazioni pronte a battersi, nell’eterogeneità delle lotte, per riconquistare il proprio futuro.

E’ dunque oramai imprescindibile strutturare relazioni e connessioni tra i vari conflitti globali, anche a partire dalle nostre università per una formazione legata alla cooperazione e non alla competizione, per l’autodeterminazione del percorso formativo e di vita, nel momento in cui vediamo che questo significa direttamente la costruzione di lotte sul piano dei bisogni materiali. Nuove povertà aumentano giorno dopo giorno quando invece la ricchezza della messa in comune di saperi, abilità e capacita’ può aprire ad un mondo nuovo dove non esistano più la deprivazione e la mancanza di futuro e possibilità.

Per questo proponiamo un appuntamento per discutere di questi temi. Una assemblea nazionale all’università di Bologna il 13 Settembre pensiamo sia un decisivo primo passaggio per affrontare un autunno che si preannuncia molto caldo anche nelle nostre città. Il meeting di Barcellona è per il
Knowledge Liberation Front l’occasione per organizzarsi insieme al movimento delle acampadas spagnole e alle altre reti europee per la costruzione di una grande giornata di mobilitazione transnazionale per il 15 ottobre. Dopo il momento costituente del Klf a Parigi a Febbraio che ha lanciato il meeting di Tunisi in una assemblea in festa per la caduta di Mubarak e la settimana transnazionale di mobilitazione contro le banche di fine Marzo, un nuovo passo per discutere ed organizzare percorsi di opposizione alla crisi all’altezza dell’autunno alle porte.

Oggi ci sembra più che mai necessario dotarci collettivamente di un orizzonte condiviso per affrontare nel modo migliore possibile le macerie che crollano di questo ancient regime e da lì riaprire al cambiamento radicale della realtà che abbiamo di fronte. Nella crisi non c’è più spazio per le mediazioni: o si sta con le lotte, o si sta con il governo dei sacrifici. Noi abbiamo già scelto, perché noi siamo la loro crisi!

L’assemblea si terrà martedì 13 Settembre alle ore 16 alla facoltà di
Lettere e Filosofia, via Zamboni 38

Realtà promotrici del Knowledge Liberation Front

per info scrivi a knowledgeliberationfront@gmail.com

Con i Riots la storia volta pagina!

Causati anche dall’esproprio di ricchezza verso banche e enti sovranazionali, i riots inglesi segnano il limite delle democrazie liberali, qualcosa di simile al passaggio storico dal Medioevo alla modernità: che cosa resterà in piedi?

Non si sottrae alle domande. Precisa più volte il suo pensiero. Anche se vive divisa tra New York e Londra, legge attentamente i giornali per capire cosa sta accadendo nella vecchia Europa, dove ha avuto la sua educazione sentimentale alle scienze sociali, prima di spostarsi in America Latina e successivamente negli Stati Uniti. Saskia Sassen è nota per il suo libro sulle Città globali (Utet), anche se i suoi ultimi libri su Territori, autorità, diritti (Bruno Mondatori) e Sociologia della globalizzazione (Einaudi) ne hanno fatto una delle più acute studiose su come stia cambiando i rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giuridico sotto l’incalzare di una globalizzazione economica che sta mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Per Saskia Sassen, il capitalismo non può che essere globale. E per questo ha bisogno di istituzioni politiche e organismi internazionali che garantiscono la libera circolazione dei capitali e le condizioni del suo regime di accumulazione della ricchezza. Per questo ha sempre guardato con sospetto le posizioni di chi considerava finito lo stato-nazione. Come ha più volte sottolineato, lo stato-nazione non scompare, ma cambia le sue forme istituzionali affinché la globalizzazione prosegua, industriata, il suo corso. E allo stesso tempo ha sempre sottolineato come le disuguaglianze sociali siano immanenti al capitalismo contemporaneo. Ma l’intervista prende avvio dalle rivolte inglesi, a cui ha dedicato un articolo, scritto con Richard Sennet, e apparso sul New York Times. Articolo nel quale, fatto abbastanza inusuale per gli Stati Uniti, i due studiosi pongono la centralità della «questione sociale» per comprendere cosa stia accadendo nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.
La rivolta come reazione violenta alla disoccupazione; oppure come effetto del perverso fascino che esercitano le merci. Sono le due spiegazioni dominanti sulle sommosse che hanno investito Londra e altre città inglese. Qual è, invece, il suo punto di vista?
In ogni sommossa c’è uno specifico insieme di elementi che consentono allo scontento generale di convergere e prendere forma nelle azioni di strada. In Gran Bretagna ci sono tre grandi componenti che hanno provocato la rivolta a Londra, Birmingham, Liverpool, Manchester e altra città del Regno unito.
La prima componente è la strada, cioè lo spazio privilegiato da chi non ha accesso ai consolidati e codificati strumenti politici per la propria azione politica. Nelle rivolte inglesi è emersa una forte ostilità verso la polizia, incendi, distruzione della proprietà privata. Ad essere colpiti sono stati negozi o edifici gestiti, abitati da persone che vivono la stessa condizione sociale dei rivoltosi.
Il secondo elemento che ha funzionato come detonatore è la situazione economica, che vede la perdita del lavoro, di reddito, la riduzione dei servizi sociali per una parte rilevante della popolazione. Per me questo aspetto ha influito molto di più nello scatenare la rivolta più che l’uccisione di un giovane uomo di colore da parte della polizia. La disoccupazione giovanile è, nel Regno Unito, al 19 per cento. Una percentuale che raddoppia in alcune aree urbane, come quella del quartiere dove viveva il giovane ucciso..
Il terzo fattore sono i social media, che possono diventare uno strumento davvero efficace per far crescere una mobilitazione. E in Inghilterra c’è stata una successione davvero interessante nell’uso dei social media. Inizialmente Twitter e Facebook sono stati usati per informare su ciò che stava accadendo e per invitare la popolazione a scendere nelle strade. Ma la seconda notte, la parte del leone l’hanno fatta gli smartphone Blackberry, perché usano un servizio di messaggistica che non può essere intercettato dalle forze di polizia. La grande capacità dei social media di funzionare come strumento di coordinamento della rivolta è data dal fatto che la successione degli scontri appare come scandita da un preciso piano. I focolai della rivolta sono stati più di trenta, quasi che tutto sia stato pianificato e coordinato, appunto, con i social media..
Uno solo di questi fattori non spiegherebbe quattro notti di scontri, incendi, saccheggi. Presi insieme, ogni fattore ha alimentato l’altro. Inoltre, sono convinta che se usciamo da una espressione asettica come disagio sociale il disagio sociale ci troviamo di fronte a storie dove il dolore, la collera delle proprio condizioni di vita non cancellano la speranza per un futuro diverso. Queste sommosse rendono evidente una questione sociale che non può essere affrontata, come ha fatto David Cameron, come un fatto criminale.
Londra è una delle città globali da lei studiata. Una metropoli che vede una stratificazione sociale molto articolata. Città globale vuol dire povertà, precarietà nei rapporti di lavoro. Inoltre la crisi economica sta provando un impoverimento che non risparmia nessuno dei gruppi e classi sociali della popolazione, eccetto solo per quei top professional che non sanno bene cosa significa la parola crisi. Non potremmo dire che le rivolte inglese sono figlie del neoliberismo?
In tutte le città globali la povertà è una costante. Inoltre, ho spesso scritto che le dinamiche economiche, sociali e politiche insite nella globalizzazione hanno come esito una crescita di lavori sottopagati e dei cosiddetti working poors, i lavoratori poveri. Ci troviamo di fronte a una situazione dove il passaggio dalla disoccupazione a lavori sottopagati e dequalificati è continuo. Uno degli aspetti, invece, meno indagati delle global cities, e su cui sto lavorando all’interno del progetto di ricerca The Global Street, Beyond the Piazza, è il ruolo sempre più rilevante assunto dalla cosiddetta cultura di strada nel condizionare le forme di azione politica tanto a Nord che a Sud del pianeta.
I conflitti di strada sono parte integrante della storia moderna, ma erano sempre complementari alle forme politiche consolidate. Recentemente, invece, hanno assunto un ruolo più rilevante, perché l’occupazione dello spazio è espressione del potere dei movimenti sociali. Le sollevazioni dei popoli arabi, le proteste nella maggiori città cinesi, le manifestazioni in America Latina, le mobilitazioni dei poveri in altri paesi, le lotte urbane negli Stati Uniti contro la gentrification o le rivolte americane contro la brutalità della polizia sono tutti esempi di come la strada sia il veicolo del cambiamento sociale e politico.. Ma se questo appartiene al recente passato, possiamo citare anche le recenti mobilitazioni a Tel Aviv. In Europa parlate degli indignados, riferendovi alla Spagna. Ma tanto a Madrid che Tel Aviv abbiamo assistito a vere e proprie occupazioni delle piazze che sono durate giorni, settimane, sperimentando forme di organizzazioni e di decisione politica distanti da quelle dominanti nelle società. Quello che voglio sottolineare è che ci troviamo di fronte a forme di protesta che coinvolgono una composizione sociale eterogenea, dove ci sono disoccupati, ma anche lavoratori manuali di imprese che hanno conosciuto processi di downsizing e delocalizzazione, colletti bianchi, ceto medio impoverito. E sono forme di protesta che nascono e si consolidano al di fuori degli attori politici tradizionali (partiti, sindacati). Gli indignados di Madrid chiedono certo lavoro, servizi sociali, ma anche una profonda trasformazione del rapporto tra governo e governati. La piazza, la strada non sono dunque solo il luogo dove si avanzano rivendicazioni, ma anche lo spazio per rendere manifesto il potere dei movimenti sociali.
La crisi del neoliberismo ha caratteristiche drammatiche. Alcuni paesi hanno dichiarato bancarotta, altri sono arrivati sul punto di fallire (la Grecia); altri sono diventati sorvegliati speciali della Banca centrale europea che di fatto ha sospeso la loro sovranità nazionale. E le proposte per uscire alla crisi è un insieme di misure di politica economica e sociale che potremmo definire di liberismo radicale. Lei che ne pensa?
Nel mio lavoro di ricercatrice ho difficoltà ad usare il concetto di crisi per spiegare cosa sta accadendo in molti paesi, dagli Stati Uniti all’Europa. Ci troviamo in una situazione inedita, sotto molto aspetti. Ci sono certo paesi in forte difficoltà economica; altri però hanno tassi di crescita e di sviluppo impressionanti. Detto più semplicemente, stiamo assistendo a un imponente spostamento della ricchezza da una parte della società verso un’altra. E questo coinvolge le risorse finanziarie dello stato, del piccolo risparmio, delle piccole attività imprenditoriali. Una sorta di concentrazione della ricchezza nelle mani di una esiga e tuttavia ricchissima minoranza. E tutto ciò senza che tale concentrazione della ricchezza possa essere recuperata attraverso il sistema della tassazione. È questo il dramma che stanno vivendo alcuni paesi.
Non ci troviamo cioè di fronte a una realtà oscura, difficile da comprendere o ala risultato di una cospirazione o di un fenomeno che per interpretare serve la cabala. La tragedia che ci troviamo a fronteggiare è che questa situazione è l’esito non di un evento naturale, ma di un processo politico dove il potere esecutivo, anche quando composto da persone oneste e integerrime, ha favorito, con leggi e decisioni, la concentrazione e l’espropriazione della ricchezza da parte di una minoranza. La Citibank negli Stati Uniti è stata salvata dal fallimento dal governo con 7 miliardi di dollari. Soldi provenienti dal prelievo fiscale, che negli Usa è molto generoso verso i ricchi. Dunque è stata salvato con i soldi della working class e del ceto medio. Se ci spostiamo in Europa, la pemier tedesca Angela Merkel ha deciso di spostare una parte delle finanza statale per salvare alcune banche. In altri termini è lo stato, o alcuni organismi sopranazionali, che hanno favorito questo spostamento della ricchezza nelle mani di banche, imprese finanziarie. L’Unione europea è sì intervenuta per salvare la Grecia, ma solo perché il suo fallimento avrebbe messo in ginocchio banche e imprese finanziarie, che hanno fatto profitti attraverso il meccanismo del cosiddetto «debito sovrano». Non so se per queste imprese sia corretto parlare di crisi. Godono, tutto sommato, buona salute, visto che il potere esecutivo corre sempre in loro soccorso. Il risultato è l’impoverimento di buona parte della popolazione, che vede tagliati i servizi sociali e le pensioni.
Tutto ciò mostra i profondi limiti delle democrazie liberali. Siamo cioè di fronte a un profondo cambiamento nei rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E tra questi e l’economia. Qualcosa di simile, nella sua profondità, è accaduto nel passaggio dal Medioevo alla modernità, quando si formarono gli stati nazionali e furono gettate le basi dello stato moderno. Quello che serve è una adeguata prospettiva storica per analizzare la realtà contemporanea. Nel libro Territori, autorità, diritti sottolineo le analogie tra quel passaggio d’epoca e la situazione attuale. Oggi, come allora, è la forma stato che viene investita da un terremoto. Capire cosa resterà in piedi, e cosa diverrà macerie serve anche a intervenire politicamente affinché tale espropriazione di ricchezza possa essere fermata.

da Il Manifesto del 17 agosto 2011
Intervista di Benedetto Vecchi a Saskia Sassen

Il comune in rivolta!

 

di JUDITH REVEL e TONI NEGRI

Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.

Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:

1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche. La dittatura politica dei vari Ben Ali e quella politico-economica delle nostre democrazie di facciata non saranno certo equivalenti – anche se le seconde hanno per decenni accuratamente costruito, appoggiato e protetto le prime – ma ormai la voglia di democrazia radicale è ovunque e traccia un comune di lotta a partire da fronti diversi, permette intrecci e mescolanze, ibrida le rivendicazioni dagli uni con quelle degli altri;

2) dove le medesime forze sociali, che soffrono della crisi in società con rapporti di classe ormai decisamente controllati da regimi finanziari in economie miste, manifatturiere e/o cognitive, si muovono su terreni diversi con pari determinazione (i movimenti degli operai, degli studenti, e dei precari in genere, prima; ed ora movimento sociali complessi del tipo “acampados”);

3) dove la ripresa di movimenti di puro rifiuto, attraversati da composizioni sociali quanto mai complesse, stratificate sia verticalmente (classi medie che precipitano verso il proletariato dell’esclusione), sia orizzontalmente (nelle diverse sezioni della metropoli, fra gentrificazione e zone ormai “brasilianizzate” – come ricorda la Sassen –, dove cioè i rapporti fra gang cominciano a lasciare segni di kalashnikov sulle pareti dei quartieri, perché l’unica – drammatica, entropica – alternativa all’organizzazione delle lotte è quella della criminalità organizzata).

Le attuali rivolte inglesi appartengono a questa terza specie ed assomigliano molto a quelle che hanno attraversato qualche tempo fa le banlieues francesi: misto di rabbia e di disperazione, di frammenti di auto-organizzazione e di spezzoni di sedimentazione di altro tipo (gruppi di quartiere, solidarietà di rete, tifoserie ecc.), esprimono ormai l’insopportabilità di una vita ridotta a macerie. Le macerie che le rivolte lasciano dietro a se stesse, senz’altro inquietanti, non sono alla fine così diverse da quelle che costituiscono il quotidiano di molti uomini e donne oggi: brandelli di vita ad ogni modo.

Come aprire la discussione su questo complesso di fenomeni dal punto di vista di un pensiero del comune? Quanto verremo qui di seguito formulando, ha la sola intenzione di aprire uno spazio di dibattito.

Innanzitutto, ci sembra si tratti di respingere alcune interpretazioni che i mezzi di comunicazione delle classi dominanti veicolano.

Si sostiene in primo luogo, che si tratta di movimenti (questi di cui parlavamo) da considerare, dal punto di vista politico, nella loro “radicale” diversità. Ora, che questi movimenti siano politicamente diversi è ovvio. Ma che lo siano “radicalmente” è semplicemente idiota. Tutti questi movimenti sono, infatti, radicalmente qualificati non semplicemente – a secondo dei casi – dall’opposizione a Ben Ali o ad altri dittatori, non dalla denuncia del tradimento politico di Zapatero o di Papandreou, non dall’odio nei confronti di Cameron o dal rifiuti dei diktat della BCE – ma piuttosto, tutti insieme, dal rifiuto di pagare le conseguenze dell’economia e della crisi (niente sarebbe più errato che considerare la crisi come catastrofe accaduta all’interno di un sistema economico sano; niente di più terribile del rimpianto per l’economia capitalistica prima della crisi), cioè dell’enorme spostamento di ricchezza che queste stanno provocando a favore dei potenti, organizzati nelle forme politiche dei regimi occidentali (democratici o dittatoriali, conservatori o riformisti…).

Queste sono rivolte che nascono in Egitto o in Spagna o in Inghilterra, dal rifiuto allo stesso tempo, dell’assoggettamento, dello sfruttamento e del saccheggio che l’economia ha predisposto sua vita di intere popolazioni del mondo, e delle forme politiche nelle quali la crisi di questa appropriazione biopolitica è stata gestita. E questo vale anche per tutti i regimi cosiddetti “democratici”. Questa forma di governo non sembra preferibile, se non per l’apparente “civiltà” con la quale maschera l’attacco sferrato alla dignità e all’umanità delle esistenze che frantuma: la dissoluzione dei rapporti di rappresentanza ha raggiunto misure rovinose. Quando si afferma che esistono – secondo i criteri della democrazia occidentale – differenze radicali fra la rappresentanza nella Tunisia di Ben Ali o nella Tottenham, o nella Brixton di Cameron, si finge semplicemente di non vedere l’evidenza: la vita è stata troppo compressa e saccheggiata per non esplodere in un moto di rivolta. Per non parlare dei dispositivi di repressione, che riportano l’Inghilterra ai tempi dell’accumulazione originaria, alle prigioni di Moll Flanders o alle fabbriche di Oliver Twist. All’affissione delle foto dei ragazzi rivoltosi sui muri e sugli schermi delle città inglesi, andrebbe davvero opposta la stampa grand format delle facce da maiali (altra variante dei PIGS?) dei padroni delle banche e delle finanziarie che hanno condotto interi quartieri a quella condizione, e che continuano a fare della crisi occasione di profitto.

Torniamo alla vulgata dei giornali. Diverse sarebbero queste rivolte, poi, dal punto di vista etico-politico. Alcune legittime, come nei paesi del Maghreb, perché la corruzione dei regimi dittatoriali avrebbe condotto a condizioni di miseria; comprensibili quelle degli studenti italiani o degli “indignados” perché “precarietà è brutto”; criminali quelle dei proletari inglesi o francesi, semplici movimenti di appropriazione di quello che non è loro, di vandalismo, e di odio razziale.

Tutto ciò è in gran parte falso, perché queste rivolte tendono – fra le diversità, che non si tratta qui di negare – ad avere natura comune. Non sono rivolte “giovanili”, ma rivolte che interpretano condizioni sociali e politiche considerate del tutto insopportabili da strati di popolazione sempre più maggioritari. La degradazione del salario lavorativo e di quello sociale è andata oltre quel limite che gli economisti classici e Marx identificavano nel livello di riproduzione dei lavoratori e chiamavano “salario necessario”. Ed ora, che i giornalisti dichiarino che queste lotte sono prodotte da derive del consumismo, se osano!

Ne viene una prima conclusione. Questi movimenti possono essere “ricompositivi”. Essi penetrano in effetti le popolazioni – che si tratti di lavoratori finora garantiti o di precari, di disoccupati o di chi non ha mai conosciuto altro che “attività”, arte di arrangiarsi, lavoretti sommersi – e ne esaltano i momenti di solidarietà nella lotta contro la miseria. Nella povertà e nella lotta per reagirvi si ricongiungono ceti medi declassati e proletariato migrante e non, lavoratori manuali e cognitivi, pensionati, casalinghe e giovani. Qui si ritrovano condizioni di lotta unitaria.

In secondo luogo, salta immediatamente agli occhi (ed è questo che soprattutto inorridisce gli interlocutori che pretendono vedere caratteristiche consumistiche in questi movimenti) che questi non sono movimenti caotico-nichilisti, che non si tratta di bruciare per bruciare,  che non si vuole decretare la potenza distruttiva di un no future inedito. Quarant’anni ormai dopo il movimento punk (che fu peraltro, alla faccia degli stereotipi, appassionatamente produttivo), non sono movimenti che decretano, avendola registrata e introiettata, la fine di ogni futuro ma che al contrario vogliono costruirlo. Essi sanno che la crisi che li tocca non è dovuta al fatto che i proletari non producono (sotto padrone o nelle condizioni generali della cooperazione sociale che ormai innerva i processi di captazione del valore), o non producono abbastanza, ma al fatto che sono derubati del frutto della loro produttività; che cioè essi devono pagare una crisi che non è la loro; che i sistemi di sanità, di pensionamento, di ordine pubblico, se li sono già pagati mentre la borghesia accumulava per le guerre ed espropriava per il suo proprio profitto. Ma soprattutto sanno che dalla crisi non si uscirà se loro, i rivoltosi, non mettono le mani nei meccanismi di potere e nei rapporti sociali che quei meccanismi regolano. Ma, si obbietterà, quei movimenti non sono politici. Quand’anche esprimessero posizioni politicamente corrette (come spesso è avvenuto per gli insorti nord-africani o per gli indignados spagnoli) – aggiungono i critici – quei movimenti si pongono pregiudizialmente fuori o in posizione critica dell’ordine democratico.

Per forza, ci sembra di poter aggiungere: nell’ordine politico attuale, è difficile, se non impossibile, trovare fori, passaggi, percorsi attraverso i quali un progetto che attacchi le attuali politiche di superamento della crisi, possa darsi. Destra e sinistra, quasi sempre, si equivalgono. La patrimoniale riguarda i redditi da 40/50 mila euro per gli uni, quella di 60/70 mila euro per gli altri: sarebbe quella la differenza? La difesa della proprietà privata, l’estensione delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni sono all’ordine del giorno di ciascuna parte. Il sistema elettorale è ormai puramente e semplicemente ridotto a sistema di selezione di delegati dei ceti privilegiati. Ecc, ecc. I movimenti attaccano tutto questo: sono politici o no quando lo fanno? I movimenti sono politici perché si pongono su un terreno non rivendicativo ma costituente. Attaccano la proprietà privata perché la conoscono come forma della loro oppressione ed insistono piuttosto sulla costituzione e la gestione della solidarietà, del Welfare, dell’educazione – insomma, del comune, perché ormai è questo l’orizzonte di vita dei vecchi e dei nuovi poveri.

Naturalmente nessuno è tanto stupido da pensare che queste rivolte producano immediatamente nuove forme di governo. Ciò che tuttavia queste rivolte insegnano è che “ l’uno si è diviso in due”, che la compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo è ormai solo una vecchia fantasmagoria – che non c’è modo di riunificarla, che il capitale è definitivamente schizofrenico, e che la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente dentro questa rottura.

Noi speriamo che i compagni che ritenevano le insurrezioni un vecchio arnese delle politiche dell’autonomia sappiano riflettere su quanto sta avvenendo. Non è sfiancandosi nell’attesa di scadenze parlamentari, ma inventando nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, che tutti insieme potremo comprendere l’a-venire.

da www.uninomade.org

 

Appunti per un’utopia concreta!

di Rafael Di Maio

L’indipendenza, tra sovranità politica, emergenza sociale e stato di eccezione.

La vita politica in Italia scorre nella crisi di sistema, insieme globale e locale, economica e culturale. Si moltiplicano e si addensano le contraddizioni sociali mentre le disuguaglianze e le nuove precarietà si riproducono in seno alle vite di milioni di persone, tra vecchi e giovani senza futuro, in una latente e dormiente guerra civile non dichiarata. In questo complesso tornante della storia, in questa fase di permanente eccezionalità, le decisioni e le scelte politiche che si producono non possono e non devono essere dettate esclusivamente dal freddo calcolo della tattica, distorcendo a proprio comodo il tempo e lo spazio.

Lo scenario politico che attraversiamo si ricombina su tutti i piani, quello economico, sociale e culturale. La crisi verticale del sistema finanziario, pubblico e privato, rappresenta la cornice di trasformazione epocale e strutturale e il nuovo paradigma di costituzione – narrazione – del potere. Una crisi che travolge il modello neoliberista che decade inesorabilmente verso il baratro, insieme ai suoi principi di sviluppo e di progresso. Siamo di fronte all’ultima crisi del fordismo e dell’industrialismo e alla prima grande crisi dell’economia della conoscenza. E’ una crisi di transizione – come nel 600’ agli albori della modernità dove la transizione si dava dal feudalesimo dei locali ed arbitrari centri di potere, alla statuale e moderna forma del potere governamentale, alla reductio ad unum della forma moderna dello Stato.

Oggi viviamo nella nuova transizione, quella dall’immagine del mondo moderno ed industriale alla forma contemporanea dell’economia immateriale e della conoscenza. Viviamo come il resto del pianeta in questa lunga fase di declino e crisi sistemica dell’opzione neoliberista, ma politicamente in una condizione particolare, specifica, locale. Quello italiano rappresenta il quadro politico d’insieme più inquietante nel territorio europeo: prevalentemente dominato dalle destre populiste, dal crollo delle sinistre istituzionali e da un governo conservatore e autoritario. Del resto è una consuetudine di alcuni paesi europei quella di istituire in risposta alla crisi economica un’opzione politica e di governo prevalentemente conservatrice e reazionaria, così fu in Italia, Spagna e Germania, negli anni trenta durante la grande depressione. Sovrano fu, chi decise sullo stato di eccezione. Ieri come oggi, eccezione e sovranità determinano lo spazio politico, irrigimentano con la paura lo spazio comune, la città e la sua vita sociale. Ieri come oggi, eccezione e sovranità costituiscono lo spazio urbano e metropolitano, ne compenetrano la sintesi istituzionale. Non a caso la poleis deriva dalla stessa radice etimologica dei due termini, politica e polizia, qui leggi, sovranità ed eccezione. La politica si afferma come polizia della città, nel controllo dei corpi e delle relazioni produttive che nella polis nascono e si riproducono. Il governo sull’eccezione è la forma pura del potere politico e nel contempo è l’esaltazione della beffa alla democrazia, maschera scomposta del sovrano e dei suoi sudditi. Sarebbe legittimo ora domandarsi, cosa ci sorprende ancora nella politica? Se il problema fosse solo il governo Berlusconi, saremmo dei pazzi a non aver ancora tentato di buttarlo giù in ogni modo! Ma appunto, per sostituirlo con chi? Con quali rapporti di forza e dentro quali assetti costituzionali? Se questa è una crisi di sistema, perché lo è? E’ una crisi che nasce solo da qualche speculazione finanziaria? O è forse l’intero sistema capitalistico ad essere ormai insostenibile e sempre più parassitario, intossicato, nocivo?

Nelle più “prestigiose” università, dove in passato si è studiato e ricercato molto per sostenere e poi esportare l’ideologia “mercatista” e neoliberista, oggi addirittura  sono attivi corsi, dottorandi e lectures  in nome del post-capitalismo. Cioè lo stesso sistema capitalistico occidentale si assume ormai come frontiera degli assetti di potere, decadenti, da ripensare, da reinventare. uello italiano infaqueE’ finita la mediazione politica insieme al modello sociale europeo e il suo processo welfaristico. Il patto, quello che era il “new deal” è diventata una vecchia mutanda. E’ terminata l’intima relazione tra conflitto sociale, relazioni sindacali e sintesi politica, insieme, alla rete di protezione sociale dello Stato moderno. E’ finita la stagione dove la stessa produzione industriale necessitava della politica come contrattazione: degli alti salari, della piena occupazione e della rete di welfare. Finisce anche l’idea stessa della mediazione e del dialogo sociale. Semplicemente, la coesione non è più necessaria. E ce ne stiamo accorgendo risalendo la mappa della crisi o meglio delle crisi industriali, delle vertenze e delle sofferenze del mondo del lavoro, l’unica vera controparte sono i reparti celere. L’unico nuovo welfare previsto dalla governance è la polizia. Lungi dall’essere stata una fase pre-rivoluzionaria, in ogni modo, la stagione del welfare state viene archiviata dai guardiani della globalizzazione in nome della stessa crisi di cui ci stiamo preoccupando.

Dobbiamo necessariamente ridefinire lo spazio politico, saper andare oltre, gettare lo sguardo verso un orizzonte comune. Bisogna lavorare con l’immaginazione. Un po’ come si fa con la musica e la letteratura, con il freestyle nell’hip hop o con il montaggio nel cinema. Per costruire l’alternativa politica e perseguire un cambio materiale, economico e sociale, non è sufficiente volare alto. Dobbiamo intervenire sulla sfera pre-politica o se si preferisce post-politica della trasformazione culturale, incidere lì dove sappiamo che si gioca la vera libertà, incidere sulla frontiera della conoscenza. Sul punto alto della contraddizione, dove si determina l’emancipazione e la libertà. Come sempre la fabbrica del consenso è prima di tutto fabbrica di ignoranza, a maggior ragione in una società dove sul piano culturale si sfiorano ormai livelli indecenti di istruzione – teniamo presente che un terzo degli italiani è pressoche analfabeta, a cui si somma un altro terzo, considerato analfabeta di ritorno. E non a caso sul crinale della libera condivisione del sapere, oggi, si nega l’espressione artistica e creativa dell’attività umana, troppo spesso compressa dalla precarietà, dai brevetti della proprietà intellettuale, dall’organizzazione gerarchica del lavoro, in una società dove la precarizzazione del lavoro e le filiere del consumo rappresentano le maglie dispiegate del controllo sociale. Nella complessità del ragionamento e nella sfiducia dilagante nei confronti della politica e dei partiti, dobbiamo avere dalla nostra parte quella lungimiranza visionaria del potere costituente, della politica come trasformazione della realtà.

Dentro la stessa oscura realtà che attraversiamo è necessario ricostruire quei legami sociali spezzati. Nella costituzione materiale  delle donne e degli uomini che la rendono attiva e propulsiva è possibile cambiare la politica. Difficilmente la si potrà trasformare nella svuotata rappresentanza formale o nella messianica speranza di un salvatore. Dobbiamo ri-significare la realtà, avendo consapevolezza dei centri di potere che siamo chiamati ad affrontare dentro l’attuale modello di società complessa, terziarizzata, separata ed individualizzata, finora prevalentemente sedotta dalla corruzione e dall’autoritarismo, ipnotizzata dal consumo. Ma nella strada obbligata di dover difendere con i denti il diritto di resistenza, dobbiamo poter coltivare una politica visionaria e costituente, a partire dai nostri territori dove è progressivamente cresciuto negli ultimi anni l’elemento della ribellione in nome della sovranità e della decisionalità dal basso. Un elenco sarebbe qui sminuente. Basti fare mente locale alle tante battaglie di resistenza in difesa dei beni comuni, contro le grandi opere e le speculazioni immobiliari, contro i grandi eventi e le speculazioni finanziarie, che dal nord al sud della penisola negli ultimi tempi si sono moltiplicate e rafforzate.

La potenza di fermare una decisione stabilita dai grandi tavoli e consessi del potere locale e transnazionale, è una delle forme del potere costituente di cui parliamo. Un potere che determina non solo nuova partecipazione popolare ma che irradia, con una logica rovesciata e sovversiva della sovranità, la decisione nello spazio politico. Chi decide su cosa? E’ un quesito che rappresenta la prima forma d’indipendenza delle comunità locali dalle nuove oligarchie e dai nuovi centri del potere. E’ la forma di vita che costruisce potere costituente. E’ l’alterità che sul territorio sedimenta indipendenza, che si fa potenza, nuova res-pubblica. 

In primo luogo indipendenza dal sovrano. E immediatamente dopo dal sistema capitalistico. Partendo da qui possiamo ripensare l’indipendenza anche sotto un profilo culturale, facendo crescere la prospettiva ideale e la praticabilità politica, necessariamente dentro e insieme, se lo si desidera ancora, a quella radicale visione alternativa della realtà sociale ed economica che vogliamo poter autogestire, immaginare, praticare. A partire dai grandi e piccoli NO che saremo in grado di far crescere, potremo immaginare le forme dei SI e delle alternative possibili. Anche a costo di rievocare fuori dalle mode, l’esercito di quei sognatori, di zapatista memoria, che hanno a metà degli anni 90’ umilmente riaperto alla nostra generazione la possibilità dell’autogoverno, il simbolo del conflitto e della degna alterità, per il cambiamento di un’opzione politica ancora possibile. Tutto sommato, a distanza di dieci anni, anche se “giocato” malissimo sul piano della politica, il movimento (quello giornalisticamente definito no-global) aveva ragione, ce lo riconoscono un po’ tutti! Oggi più che mai, quello che sostenevamo sulle barricate di Seattle, di Praga o di Genova nel biennio anticapitalista della transizione (1999/2001) si sta materializzando in un’imbarazzante crisi sistemica per il potere globale, insieme economica e politica. Quello che noi abbiamo continuato a dire anche negli anni recenti, purtroppo sempre più divisi, tribalizzati e in taluni casi anche banalmente regalati al politicismo nella “saga no-global alla italiana”, era corretto. Era ed è tutto vero. Il capitalismo neoliberista sta depredando il pianeta e la sua umanità, in un’ossessiva e compulsiva ideologia del profitto, fino a rendere il mare nero, fino a far dire a alla BCE e al FMI che la crisi appunto è sistemica e che il modello attuale, per l’appunto, non è più sostenibile. Alla crisi economica corrisponde il tracollo della politica e della sua rappresentanza formale.

Questo è un passaggio importante sul quale vale la pena di ragionare politicamente sotto il profilo dei movimenti indipendenti anche a partire da cosa, dentro, intorno e a sinistra, sta nascendo con le “Fabbriche di Nichi”. Sorvolando la prima critica, quasi scontata, che riguarda quello che si sente spesso da più parti, ovvero il tema dell’accentramento personalistico e del lìderismo – che indubbiamente rappresenta un limite del processo in corso, che ha un po’ il sapore amaro dei tempi odierni – la scelta messianica della figura religiosa del salvatore – fa emergere in realtà con grande semplicità i limiti evidenti per affrontare la difficile sfida in corso. Se a Niki malauguratamente gli casca un vaso in testa, che fa tutta la nuova sinistra mobilitata, aspetta che cresca da qualche parte un altro carismatico poeta? Invero per la sinistra radicale istituzionale così come per quella per l’autorganizzazione sociale, il temi reali rimangono sempre gli stessi: come si sostengono le lotte, come ci si radica sul territorio, come si condividono i saperi, come si coniuga alterità, immaginario e presenza reale, come si accumula credibilità politica all’interno delle alleanze sociali che si costruiscono nelle città, come si fa vivere il controllo democratico dal basso sul territorio contro le speculazioni, come si anima e si organizza la resistenza alle scorribande neofasciste. In sostanza come si accumula potenza per il cambiamento al di là di questa o quell’opportunità politica?

Osservando da vicino la fase post-ideologica dentro quello svuotamento dei corpi intermedi, rappresentati dai partiti di massa o dalle organizzazioni sindacali, c’è un punto dirimente, che vuole essere un invito alla riflessione intorno all’opzione che prende piede con l’imminente candidatura di Vendola al governo del Paese. Un’osservazione che non può sfuggire alla consapevolezza di chi da anni anima i movimenti sociali, radicali, indipendenti e alternativi che dir si voglia e di chi – suo malgrado – ha imparato a conoscere il sistema politico italiano, il Paese del Gattopardo, dove realmente tutto cambia, affinché nulla muti.

Con la crisi della rappresentanza politica nella crisi sistemica del capitalismo globale, si evidenzia un aspetto centrale del processo in corso che rafforza il seguente ragionamento. Vi è una macrofisica che potremmo sintetizzare con la fine della partecipazione di massa alla politica, la fine della fiducia nelle istituzioni corrotte, la fine della governabilità dall’alto, dell’azione governamentale top down. Ma scopriremo poi un successivo livello che è quello relativo al sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica, ovvero di quella crisi nella crisi: la fine del bipolarismo, il riemergere, contro le false credenze del partito liquido, della soggettività organizzata ed identitaria – la Lega Nord sta lì a dimostrarlo – una legge elettore antidemocratica definita “porcata” da chi l’ha redatta, dove in realtà considerando le astensioni prende la formale maggioranza in Parlamento,  quella che è una reale minoranza nel Paese.

E ancora, la forma bloccata della democrazia incompiuta degli ultimi quindici anni dove ogni spazio riformatore, ogni iniziativa di avanzamento e modernizzazione dei diritti ha dovuto fare i conti con i veti incrociati, i ricatti, i giochi di potere, le continue mediazioni al ribasso. Tutto ciò non accade per caso. Vi è una radicata e profonda strumentalità dietro questo schema. In Italia (e non solo!) vi sono gruppi di potere, lobby trasversali, corporazioni nel mercato e nello Stato che non hanno nessun interesse affinché muti la struttura sociale consolidata o l’iniqua divisione della ricchezza socialmente prodotta. Le oligarchie economiche al potere non hanno nessuna intenzione di mediare con i precari che crescono esponenzialmente, con i pensionati al minimo, con i cassaintegrati senza futuro, con i disoccupati di lunga durata. Non solo, le caste al potere sguazzano nella crisi, si rigenerano, mentre si appellano alle politiche dimagranti della Unione Europea, della BCE e dell’FMI. E non hanno nessun interesse a cedere le porzioni di privilegio accumulato, non hanno nessuna intenzione di pagare le tasse e di investire sulla conoscenza o sull’avanzamento culturale.

In definitiva alcuni gruppi di potere in Italia governano sempre, a prescindere dalle sfumature, determinando pesantemente qualsiasi esecutivo e azione di governo. Fino a quando non muteranno radicalmente i rapporti di forza economici e sociali nella costituzione materiale, taluni assetti di potere, incideranno più di qualsiasi scommessa ideale e finiranno per condizionare anche una “radicale sorpresa” come quella rappresentata per esempio dalle Fabbriche di Nichi. La governance locale e globale da un lato e le tecnostrutture dall’altro, occupate ad interim dalle figure apparentemente solo tecniche, bastano di per sé a rendere anche una maggioranza elettoralmente qualificata, incapace ed impossibilitata a dare seguito all’azione di governo preannunciata nella campagna elettorale. Basta un direttore generale non allineato a bloccare o ritardare le attività di un assessorato o di un ministero, con la burocrazia pilotata, i veti incrociati, i ricorsi e i piccoli cabotaggi. Anche laddove si è Presidente di Regione (e Vendola ne sa qualcosa) basta un ministro economico, come l’attuale, per essere imbavagliati e commissariati. E anche se il nuovo leader divenisse Premier, laddove volesse attuare una radicale riforma sociale dovrebbe stare dentro il patto di stabilità, all’interno dei parametri di Maastricht (o i nuovi vincoli che verranno), dentro la soglia del 3% sul rapporto deficit/pil, dovrebbe attenersi al rigoroso contenimento della spesa pubblica, alle direttive della Commissione europea e via discorrendo.

In definitiva la governance politica della globalizzazione economica ha determinato una stratificazione così articolata della complessità, che ai cittadini sfugge non solo il controllo della macchina, ma anche la conoscenza di come si accende il motore o si cambiano le marce. Per quello diciamo da anni che la rivolta o è globale o non è. Che il cambiamento o sarà radicale, o semplicemente non potrà essere. Ovviamente una spinta riformatrice coraggiosa, un ascolto disinteressato delle istanze sociali o una sensibilità istituzionale diversa dagli ultimi governi, non potrà che essere un passo di avanzamento complessivo, anche per i movimenti. Sotto questo aspetto non si possono avere dubbi. All’aumentare del peso della sinistra istituzionale, per esempio negli anni ’60/’70 – in cui il conflitto sociale rappresentava il motore della democrazia – aumentava anche il peso e il protagonismo politico dei movimenti rivoluzionari ed extraparlamentari – si pensi anche ad esperienze di governo molto avanzate in altre parti del mondo, come nel Cile di Allende. Tra l’altro anche lì c’era un poeta che fu candidato alle primarie del 1969, dal partito comunista cileno, si chiamava Pablo Neruda. Ma in Italia di quell’esperienza si fece una “confusione” tanto grande addirittura da chiamarla “sindrome cilena”. La questione rimane per come è stata fin qui descritta. Dal solo piano alto del governo, la trasformazione mediata, graduale e dall’interno del sistema-Italia, rappresenta una meta irraggiungibile, “un’utopia irrealizzabile”. Al contrario, ciò che sembra irrompere dai piani bassi, ciò che sembra uscire dal cassetto dei sogni, dal desiderio dell’assalto al cielo, apre la strada per “un’utopia concreta”, necessaria. Disvela un cammino di riscatto e di emancipazione, una via per la libertà e l’indipendenza da intraprendere umilmente, fino alla vittoria!

Bibliografia sragionata:

G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003

F. Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Il mulino, Bologna 1984

C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè editore, Milano 1998

A. Negri, Il potere costituente, Sugarco edizioni, Varese 1992

C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2003

I libri vanno letti per essere dimenticati” M. Montaigne, Essais

 *articolo uscito sul  X° numero di Loop (settembre/ottobre 2010)

“Nessuno ci rappresenta”. Un contributo dagli Indignados di Barcelona

Introduzione. Nessuno ci rappresenta, la piazza come costruzione dell’utopia possibile!

L’articolo scritto da due attivisti di “acampada bcn” di Barcellona per indipendenti.eu analizza il movimento degli Indignados: la genealogia, l’organizzazione quotidiana, le rivendicazioni e le prospettive future. Il punto di vista soggettivo della narrazione scandisce la potenza della cooperazione sociale. “Toma la calle” diventa la metafora dell’alternativa possibile e della nuova società in costruzione. I protagonisti di questo processo che sta invadendo la società spagnola sono le generazioni precarie che non possono immaginare un futuro, costrette a vivere in un eterno presente tra lavori intermittenti, disoccupazione giovanile e affitti esorbitanti. Gli Indignados sono nati “dentro e contro” la crisi, un movimento che rifiuta la rappresentanza politica istituzionale. La “plaza” è diventata una dichirazione d’indipendenza realizzata da migliaia di soggetti in tutto il paese, “la plaza” si è trasformata nella costruzione del “comune”.

“Ara ens toca a nosaltres, a un nosaltres immens i global” (Ora é il nostro momento, per un nostro momento immenso e globale).

“Nessuno ci rappresenta”.
La plaza” come metafora della nuova società

“Nessuno ci rappresenta”. Uno slogan, un grido di indignazione che risuona in centinaia di piazze spagnole. “Nessuno ci rappresenta” è un abisso che implica l’azione: se nessuno ci rappresenta, dobbiamo prenderci la responsabilitá personale e collettiva di trasformare la società. “Nessuno ci rappresenta” non è, quindi, un’esclamazione nichilista, ma piuttosto è la fine della delega, il crack da cui emerge la capacitá di autorganizzazione. La plaza come forza della cooperazione sociale.

La presa di parola

La plaza si trasforma in un’esplosione. La plaza ha rotto il silenzio facendo esplodere multitudini di parole.

I gruppi di discussione e i comitati con differenti contenuti politici, si dividono in sotto-comitati creando una narrazione permanente. Nelle moltitudinarie assemblee generali. In cucina, nelle code per prendere da mangiare e lavare i piatti. Nelle banche, nelle strade che circondano la plaza sopraffollata, negli incontri casuali con tutti perché tutti sono nella plaza; sotto le tende, le strutture, i punti d’informazione e nei punti di assistenza sanitaria. Sopra le bio-case costruite sugli alberi, nell’orto comunitario, nei discorsi proclamati dal microfono del palco. La parola esplode in piazza, scorre attraverso la città e si riappropria di concetti come democrazia, economia, politica. La parola torna a ripronunciare veritá diluite che ora tornano ad essere reali: solidarietà, assemblea, rivoluzione. Le parole ri-nominano delle pratiche, è il filo che traccia una nuova collettivitá. Senza il fiume di parole che si scambiano di giorno e di notte, senza le parole che rimbombano esponenzialmente tra le migliaia di persone, la plaza non sarebbe mai nata.

Dal 15 Maggio a la plaza

Il 15 Maggio 2011 in decine di cittá della Spagna, migliaia sotto lo slogan di “Democracia Real Ya” (“Democrazia reale subito”) si sono riappropriate delle strade al grido di: “No somos mercadería en manos de políticos y banqueros“ (“Non siamo merci di scambio in mano di politici e banchieri”). Questi slogan, e le relative forme di comunicazione asssociate, sono stati i primi in grado di catalizzare il malessere sociale determinato dall’esplosione della crisi strutturale del sistema capitalista. Tale mobilitazione non deve, peró, essere intesa come una manifestazione esclusivamente di attivisti, ma piuttosto come “espressione creativa dell’anonimato”. La prima espressione di una comunitá spontanea, effimera, non omologabile, somma di individuali ed infinite indignazioni.

A questo punto ci poniamo delle domande: è stata sufficiente la mobilitazione del 15Maggio a soddisfare il vento di rabbia delle “vite senza orizzonte e futuro”? Era possibile trovare dei canali condivisi per continuare il processo innescato?

A quanto pare la storia é stata scritta. L‘unico ritorno possibile era quello appena iniziato: partire dal comune. A partir da questi concetti inizia la prima notte di accampamento a Madrid; il giorno seguente a Barcellona 59 persone- incredule, insicure e titubanti- si concetrano a Plaza Catalunya. Inizia cosí l’imprevedibile percorso che trasforma la plaza in un soggetto politico indomabile.

La prima notte

Alle 20.30 del 16 Maggio, gli operatori della nettezza urbana irrigano e rinfrescano la plaza, mentre la polizia municipale sbadiglia. Ai lati della grande piazza ci sono gruppi di persone dubbiose ed impazienti. Occhiate che si interrogano a vicenda, risate di nervosismo. Aspettative. Alla fine qualcuno accenna un passo verso il centro della plaza, ci sediamo in cerchio. Oggi non abbiamo portato niente, dobbiamo andare a cercare cartoni nei negozi circostanti. Domani, si ribadisce, arriveremo piú preparati, con sacchi a pelo, materiale per fare striscioni, bombolette spray, vernice. Domani inizieremo a condividere. Che ognuno faccia il suo stricione, il suo cartello rivendicativo. Qui, ognuno deve rappresentare se stesso e se stesso deve rappresentare il comune. Inizia l’assemblea. Si propone che i pompieri in lotta, gli studenti universitari, i lavoratori e le lavoratrici in lotta della sanitá e dell’educazione convergano a plaza Catalunya e che la stessa plaza diventi l’epicentro delle mobilitazioni contro i tagli sociali del governo. Si insiste e si ribadisce che a Madrid in un solo giorno sono passati da centinaia a migliaia. Scoppiano applausi. L’importante é “twitterare” e condividere informazioni attraverso i social network, si devono avvisare le persone: é la prima notte ed é necessario che tutto questo si mantenga vivo. Bisogna scattare foto, spammarle nel web, diffonderle. Le/i compagni di tele.cat sono giá con noi, loro rimangono quando le altre televisioni- quelle ufficiali- se ne vanno. Esce la proposta di dividerci in comissioni: comitato comunicazione e comitato striscioni. Esce la proposta di scrivere un comunicato, qualcuno risponde che: il comunicato é che siamo qui!

Chi puó venire all’ “accampata”? Tutti quelli che vogliono, peró a titolo individuale. E i sindacati? I sindicati no, peró lavoratori sindacalizzati si. Proposta del nome? Si accetta #acampadabcn. Si scrive su uno striscione di cartone: “Lo más oscuro de la noche es antes del amanecer” (“La parte più oscura della notta è prima dell’alba”). Turni durante la notte, qualcuno inizia a portare acqua, pane, biscotti e frutta. Gli operatori della nettezza urbana vorrebero pulire la plaza un’altra volta. I cartoni si accumulano e a mezzanotte siamo giá un centinaio. Un altro striscione dice: “Plaza Catalunya = Plaza Tahrir Aixó acaba de començar” (Plaza Catalogna = Plaza Tahrir tutto questo é appena cominciato).

Territorio comune per l’autogestione

Contro la zonizzazione capitalista dello spazio pubblico, sovvertendo l’uso commerciale, immobiliario, finanziario e turistico del centro metropolitano, la plaza emerge come uno straordinario dispositivo territoriale, fisico, corporale di potenziamento della cooperazione sociale. La plaza come spazio fisico di autorganizzazione.

La cucina autorganizzata, raccogliendo i viveri che arrivano in solidarietá da tutta la cittá, alimenta quotidianamente migliaia di indignad@s. La cucina diventa un nodo di raccolta delle donazioni dei produttori di agricultura biológica: é necessario mangiare bene per sostenere la lotta.

Le decine di bagni pubblici, non forniti dal comune di Barcellona, verrano comprati grazie alla solidarietá e all’ incipiente economia collettiva della plaza.

Plaza Catalunya viene risignificata anche linguisticamente, divisa in differenti aree con i seguenti nomi Tahrir, Islanda, Palestina: nomi suggestivi per le zone dove si articola il dibattito politico. Con il passare delle giornate le commissioni diventano sempre di piu e acquistiamo una maggiore capacità organizzativa.

Commissione sanitá, formata per le/gli indignid@s del medesimo settore pubblico (dottori/esse, infermieri/e, personale amministrativo), si prende cura del nostro benestare fisico e psicologico.

Commissione infrastruttura approvvigiona e immagazina gli strumenti necessari per vivere la plaza, per delimitare spazi, per proteggerci dal sole e dalla pioggia, per fornire le assemblee della necessaria amplificazione..

Commissione comunicazione-sonora, audiovisuale, networks sociali- per trasmettere piu in lá della plaza quello che succede nella plaza: la plaza global.

Biblioteca popolare.

Commissione ecologia scrupolosamente applicati al caso: raccolta differenziata e riciclaggio dei rifiuti, pedagogia ecologica e creazione di un orto comunitario.

Commissione Internazionale: 150 traduttori nonché linguaggio dei muti durante le assemblee generali.

Commissione legale.

Autogestione delle necessitá contingenti ed immediate, preludio della voluta autogestione della vita. Se il capitale ha espropriato la cooperazione sociale convertendola in pura merce, nella plaza il processo si inverte. Abbiamo capito che dalla capacitá produttiva delle persone possiamo collettivizzare la richezza sociale.

Autorganizzazione e assemblea: la partecipazione politica

En plena campaña electoral, hem fet una acampada general” (“In piena campaña elettorale, abbiamo fatto una accampata generale”). La cosí chiamata “Transició a la democràcia” (Transizione verso la democrazia) dello stato spagnolo, creó un’architettura istituzionale in cui il potere politico dei movimenti popolari contro il franchismo venne praticamente annientato. Come uno specchio rovesciato della realtà sociale, i partiti politici si autoproclamarono come unici detentori dell’azione poltica. Nel corso del tempo, lo schiacciamento della trasformazione- stato-democrazia, democrazia-rappresentativa, democrazia dei partiti- soffocó la ricchezza dell’autorganizzazione popolare gettando le basi per quella politica che oggi giorno è deformata, corrotta e rivolta solo a privilegiare il ceto politico a cui è stato delegato tutto il potere.

Oggi, nelle “accampate” si dichiara: “Apostem per una transformació profunda de la societat, i sobretot apostem perquè sigui la pròpia societat la protagonista d’aquest canvi” (“Ci impegnamo per una trasformazione profonda della societá e soprattutto ci impegnamo perché sia la stessa societá la protagonista di questo cambiamento”).

Abbiamo imparato dal Cairo, dall’Islanda, da Madrid. Abbiamo imparato dalle rivolte árabe del Nord Africa, le quali, oltrepassando il mediterraneo, hanno stimolato, promosso e fatto sentire la forza necessaria per rompere la dinamica dell’impotenza. Stiamo perdendo la paura. Ci siamo ripresi le strade e stiamo facendo di un sogno, la realtá. Il malessere individuale che per molti anni abbiamo sentito chiusi nella solitudine é uscito per trovare complicitá e per trovare una comune cospirazione. Non esiste democrazia reale senza giustizia sociale. La plaza non é solo un esercizio di disobbedienza tattica che sovverte le leggi di uno spazio pubblico normalizzato, ma é disobbedienza strategica, perche attraverso la piazza stiamo diffondendo un’alternativa, un ‘utopia possibile. Un’altra forma di partecipazione política disobbedendo ai restrittivi accordi che hanno escluso la società a partir dell’epoca della menzionata transizione. Autorganizzazione e assemblea. “Ara ens toca a nosaltres, a un nosaltres immens i global” (Ora é il nostro momento, per un nostro momento immenso e globale).

Pratiche della nuova politica

Nei giorni successivi arriviamo a decine di migliaia. La plaza si afferma sempre piú come spazio comune di complicitá: intessiamo progetti comuni per la trasformazione sociale. Intelligenza collettiva. Intelligenza precaria. Intelligenza organizzativa, rispettando al massimo le differenti opinioni. Come? In che modo? Nessuno lo sa, o in fondo tutti lo sanno. Le ore passano tranquille. Ognuno ha il suo ruolo, un suo posto. Ognuno é attivo protagonista della trasformazione sociale. Ognuno condivide il suo sapere, la sua capacitá operativa per fare della resistenza specifica una forza collettiva. Le commissioni: comunicazione, azione, diffusione, contenuti politici.

I contenuti politici: punti di rivendicazione, economía, lavoro, migranti, vivienda, democrazia diretta e autorganizzazione, diritti civili e politici, teoria e concetti politici, legge elettorale, ecologismo, femministes indignades, scienza e tecnologia, medios de comunicación libres, cultura, educazione, alimentazione e consumo critico.

Le commisssioni si riuniscono quotidianamente approfondendo le tematiche poltiche. Dibattiti con centinaia di persone.

La casserolada giornaliera delle 21.00. Manifestazione di una forza che non cerca unificazione, ma che é unitaria nella sua molteplicitá. La casserolada è la catarsi, la forza di un momento epico. É un richiamo al momento costituente dell’assemblea generale delle 21.30 dove la potenza multitudinaria scoppia con una efficacia dirompente.

Simboli gestuali per esprimere accordo, disaccordo e discussione accompagnano la lotta. Votazioni con le mani verso l’alto, massima attenzione nell’osservare e contare il possibile elemento di disaccordo. Migliaia di persone che dal basso organizzano, discutono, decidono. Migliaia di persone che stanno imparando a costruire qualcosa di nuovo.

Il tempo del contrapoder

Vamos lentos porqué vamos lejos” (Andiamo piano perchè andiamo lontano). Risuonano sensibiltá e specificitá Zapatiste contro la fretta e la pressione a cui ci sottopone il sistema. Dovremmo offrire urgentemente alternative sociali quando il sistema non é stato capace di farlo in 30 anni? La plaza è un’interruzione del tempo egemonico, politico ed economico. En La plaza, stabiliamo il tempo adeguato ai processi di democrazia diretta. Pazienza, perseveranza, determinazione: stiamo imparando ad organizzarci. Nel nostro tempo nascono proposte interessanti: alcune volte a mitigare l’attuale malessere sociale, altre volte a gettare le basi di una nuova realtà sociale. Le idee sorgono a partire dagli spazi che noi stessi costruiamo, una combianzione di reti sociali e assemblee. Comunichiamo in rete. Decidiamo in assemblea.

Attualmente, il concetto di plaza é la valida soluzione. La plaza liberada dal basso é l’alternativa reale perché é un attacco diretto alle poltiche istituite dall’eteronomia.

É l’inizio di un proceso costituente. É la produzione di una nuova metodologia, é il programma. É lei stessa una metastasi. Inizia l’estensione delle assemblee nei quartieri. Si ipotizza la creazione di un movimento di assemblee popolari che realizzeranno la nuova architettura della politica sociale. La creazione di una rete coordinata di contropotere. Processo di metamorfosi costante in continua evoluzione, ricombinante delle molteplici soggettività e delle complesse composizioni sociali- generazionali, politiche, materiali- nate dalla implosione della ristrutturazione capitalistica. Una forza di resistenza, di creatività, che si esprime nelle multitudinarie assemblee generali, ma anche un reticolare processo costituente negli infiniti spazi della vita sociale. Una valanga che avanza a partire da strategia e obiettivi comuni, da un calendario di lotta comune, da un plan de lucha.

La plaza non solo propaga esponenzialmente la potenza sociale indignata, ma organizza la suddetta indignazione. Un processo di maturazione in grado di affrontare molteplici intenti di sgombero- violenti, impotenti, ridicoli e ricchi di gratuito sadismo- con i quali si pretende annichilire l’emergente spazio costituente.

Come si diceva in Argentina nel 2001, “l’autonomia è autorganizar, è autopensar è la capacità di sviluppare tutte le complessità riproducendo in maniera fedele la propria potenza.” La plaza non vuole rinunciare a niente perché nella plaza vogliamo tutto.

Flavia Ruggieri – Ivan Miró

#acampadabcn

Barcelona, maig-juny del 2011

Sciopero generale a Barcellona

18-spagna-018Se non sai se partecipare allo sciopero, se non puoi farlo, se vorresti farlo ma non sai con chi e né come, se credi che é da tempo che é arrivato il momento di convocare uno sciopero generale, e che, soprattutto, il tuo sciopero non é valido solo per un giorno…

Se sei precario, se sei disoccupato.

Se lavori senza contratto o non hai il permesso di soggiorno

Se ti hanno ridotto la pensione

Se sei stanco di pensare e temere che non avrai mai una casa né un lavoro…

Il 25 settembre é il giorno di chi non puó scioperare, prendiamo le strade….riprendiamoci la cittá…

Occupazione dell’edificio del “banco nacional de españa”, nel pieno centro della cittá catalana. Da tre anni vuoto e venduto a una immobiliaria, la quale avrebbe dovuto costruire gli appartamenti piú lussuosi e cari di tutta barcellona, peccato che l’anno scorso sia fallita!!

http://blip.tv/file/4166889

Sgombero del Banesto (banco español occupato il 25)

http://blip.tv/file/4183292

Corteo di plaza Catalunya

http://blip.tv/file/4181391

ALTRI VIDEO:

http://barcelona.indymedia.org/newswire/display/404512/index.php

Il bilancio è 33 arresti.

Comunicato dopo la repressione dello sciopero.

I recenti fatti avvenuti in Spagna durante il primo sciopero generale dell’era Zapatero indicano e confermano un forte stato di conflitto sociale determinato dalla poltica anticrisi di un governo che, seppur considerato in Europa uno dei pochi di sinistra, si é rivelato completamente intransigente nei confronti di chi dichiara e denuncia pubblicamente che il prezzo di questa crisi non la vuole pagare.

Il bilancio complessivo é di 43 arresti, di cui 5 attualmente confermati in stato di fermo, mentre, da quanto annunciato oggi dai Mossos d’esquadra (polizia autonomica catalana), ulteriori arresti sono previsti nei prossimi giorni.

Nei 4 giorni passati a Barcellona é nato un nuovo movimento, un movimento contrario al solito e ormai anacronistico e falso sciopero dei sindacati concertativi. Un movimento che partendo dalla domanda di che cosa significa scioperare quando il tasso di disoccupazione arriva al 26 %, interessando il 60 % dei giovani compresi tra 18 e i 35 anni, risponde con la scelta della ricerca di un denominatore comune tra tutti i soggetti che questa crisi la stanno subendo nel profondo. Un movimento che ribadisce il fondamentale concetto della non rappresentanza né sindacale e né tantomeno politica trasformando uno sciopero generale in uno sciopero sociale generalizzato.

Non é un caso la scelta della vecchia sede del banco nazionale spagnolo, nel pieno centro della cittá catalana, come luogo di aggregazione, come luogo di apertura di spazi di politicizzazione e azione trasversale, come luogo di una ricerca di tattiche e strategie comuni per collettivizare i problemi e per diffondere fermamente che barcollare perennemente tra precarietá e disoccupazione é un problema di tutti.

La forte reazione repressiva voluta dal consiglio degli interni catalano e attuata dai Mossos d’esquadra con l’intento di voler mascherare come “violenza” la leggitima rabbia per una situazione di constante ingiustizia, testimonia che questa é la strada giusta.

Violenza é lavorare per un salario di miseria e non arrivare a fine mese, violenza é minacciare i lavoratori che vogliono aderire ad uno sciopero contro una imminente riforma del lavoro che precarizzerá ancor piú le vite di tutti.

Solidarietá massima a tutti i compagni arrestati. Le lotte sociali non si arrestano.

É difficile pensarlo e imaginarlo, abbiamo perso l'abitudine...

Se non sai se partecipare allo sciopero, se non puoi farlo, se vorresti
farlo ma non sai con chi e né come,
se credi che é da tempo che é arrivato il momento di convocare uno
sciopero generale,
e che, soprattutto, il tuo sciopero non é valido solo per un giorno...

Se sei precario, se sei disoccupato
Se lavori senza contratto o non hai il permesso di soggiorno,
Se ti hanno ridotto la pensione,
Se sei stanco di pensare e temere che non avrai mai una casa né un
lavoro...

Il 25 settembre é il giorno di chi non puó scioperare, prendiamo le
strade....riprendiamoci la cittá...

http://blip.tv/file/4166889

Occupazione dell'edificio del "banco nacional de españa", nel pieno centro
della cittá catalana. Da tre anni vuoto e venduto a una immobiliaria, la
quale avrebbe dovuto costruire gli appartamenti piú lussuosi e cari di
tutta barcellona, peccato che l'anno scorso sia fallita!!