La lotta per la casa contro la legge dei padroni – assedio al Tribunale civile

Oggi, 18 giugno, aderendo a una giornata nazionale di lotta contro la crisi, gli sfratti e le politiche di austerità, i Movimenti per il diritto all’abitare di Roma stanno assediando il tribunale civile di viale Giulio Cesare per impedire il dilagare degli sfratti per morosità incolpevole.

Il tribunale di viale Giulio Cesare a Roma sommerso dalla marea della protesta: contro gli sfratti, gli sgomberi e i pignoramenti, per il diritto alla casa e al reddito, non un passo indietro
La polizia carica e usa i manganelli, ma non basta: il popolo resiste, determinato a riconquistare i propri diritti. 20 tra feriti e contusi tra i manifestanti.

Aggiornamenti:
La lotta paga! Una delegazione dei movimenti per il diritto all’abitare incontra Morelli, presidente della sesta sezione. La richiesta è semplice: vogliamo la messa al bando degli sgomberi, degli sfratti e dei pignoramenti ADESSO!

Il presidente del tribunale Mario bresciano si impegna a chiedere al governo una moratoria sugli sfratti:

Il Presidente del tribunale concorda pienamente con l’idea che la pressione sociale sta salendo proprio a causa del problema casa, ha promesso che scriverà una lettera alla prefettura e al governo, e per conoscenza anche a Comune e Regione, per chiedere un intervento normativo sulla questione.

Caserma Pound attacca e poi scappa – Trastevere *hic sunt leones

Casapound tenta l’assalto al Cinema America Occupato e scappa

 

Durante la notte di mercoledi, a seguito dell’iniziativa dei forum dell’Acqua Bene Comune in piazza San Cosimato, convocata per festeggiare i due anni dalla vittoria referendaria, un manipolo di militanti di Casapound ha assaltato il Cinema America Occupato, un’occupazione limitrofa alla piazza che partecipava attivamente alla costruzione della giornata.

Ma, per i “legionari combattenti” questa volta è andata male: gli occupanti del cinema presenti all’interno dell’edificio, quando si sono resi conto di essere sotto attacco, hanno messo in fuga la squadraccia, scendendo in strada a difesa di tutte le attività del cinema: centinaia di proiezioni cinematografiche ad offerta libera, un corso di teatro gratuito, laboratori di pittura, concerti di tutti i generi, giochi in piazza con i bambini, iniziative a difesa del territorio, incontri e dibattiti, eventi a sostegno dei collettivi delle scuole circostanti e la costruzione della prima aula studio di Trastevere.

In seguito al fallito assalto, la squadraccia ha pensato bene di aggredire un gruppo di ragazzi di ritorno da una serata a Trastevere: ma anche questa volta i fascisti del terzo millennio, rifiutati dalle persone che si trovavano a passare in quella via, sono stati costretti alla fuga.

Trastevere, quartiere di storica tradizione antifascista, rifiuta il fascismo in tutte le sue forme. Queste vili aggressioni sono messe in atto in un periodo difficile per il Cinema America, in quanto tentano di farne una questione di ordine pubblico per facilitarne lo sgombero. Ma chi frequenta l’occupazione di Trastevere sa bene che il Cinema America consiste in ben altro: non si fermeranno le iniziative in piazza, non si fermerà la programmazione, tanto meno i lavori di riqualifica e i progetti avviati in questi mesi.
Ci scusiamo con il vicinato per il chiasso in strada, che ovviamente non è dipeso da noi. Ringraziamo anche chi, svegliatosi nel cuore della notte e affacciatosi alla finestra, ha capito subito la situazione e ci ha aiutato nell’allontanare la squadraccia di Casapound.

Trastevere è antifascista!
HIC SUNT LEONES!
Cinema America Occupato

Il silenzio è dei colpevoli per un controdispositivo di liberazione dal sessismo

Spesso accade che migliaia di persone attraversino l’ex cinodromo occupato per una serata di musica e socialità. L’autogestione contamina lo spazio e la libertà produce liberazione. Ma a qualcuno di tutto questo non gliene frega un bel niente e, inconsapevole del pericolo che corre, può decidere di usare violenza per avvicinare l’”oggetto” del suo desiderio.

Vogliamo scrivere queste semplici riflessioni per non rimanere in silenzio di fronte ad episodi a cui non possiamo e non vogliamo assuefarci. Vogliamo rompere il silenzio con un urlo liberatorio contro il sessismo e la violenza di genere.

 

Non rimaniamo certo basiti del fatto che spazi occupati e liberati, come il nostro, non siano immuni da eventi di questo tipo. Come compagne e compagni di Acrobax ci rendiamo perfettamente conto (anche perché lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle) che il sessismo è interiorizzato, trasmesso e perpetrato nella società e quindi, purtroppo, anche in quel piccolo pezzetto di mondo che sentiamo nostro e che con impegno ogni giorno proviamo a stimolare, incitare, esortare e spronare verso un’alterità e una trasformazione dell’esistente fatta di autodeterminazione, solidarietà e lotte contro le ingiustizie sociali.

Non serve ricordare la gravità e il numero degli episodi di violenza di genere che si susseguono in Italia come in tutto il mondo. Ce lo ricorda ogni giorno una cronaca affamata di sensazionalismo e buona morale. La nostra rabbia cresce di fronte alle risposte false e ipocrite quali il braccialetto elettronico o l’aggravante del “femminicidio” da parte di una politica integralista che vieta le più banali libertà in tema d’interruzione di gravidanza, coppie di fatto, divorzio rapido per poi battersi il petto di fronte alle conseguenze di tanto oscurantismo.

Non esiste repressione che risolva la questione, non ci culliamo nell’idea che una nuova fattispecie di reato oggi tolga un “femminicidio” domani.

Pensiamo, piuttosto, che anche in questo caso dobbiamo e vogliamo partire dal basso: dai bisogni e dai desideri negati.

Quando occupammo il ministero della piangente ministra Fornero, l’8 marzo 2012, dicemmo chiaramente che “la crisi non è neutra”. C’è una questione di precarietà oggettiva, di vita, di affetti, di ansie e paura, di lavoro e reddito da risolvere. Reddito per tutt*, anche per le donne che denunciano abusi da cui spesso non riescono a staccarsi per le povere condizioni materiali che vivono. Sulla vita delle donne la crisi travolge i falsi miti del lavoro e della carriera come fattori di emancipazione sociale e lascia intorno il deserto, e la famiglia come cattedrale.

In mancanza di forti anticorpi sociali fatti di autodeterminazione e cospirazione, la crisi rischia di produrre, come in altri paesi europei, una deriva di destra, tradizionalista e conservatrice decisamente funzionale al necessario controllo sociale.

Un problema dunque sociale, culturale ed anche economico che attiene alle forme di sopraffazione su cui si fonda la nostra società. Un problema che deve essere messo al centro di quella critica costituente che portiamo avanti ogni giorno sforzandoci con sempre maggiore determinazione nel costruire insieme uno spazio di rottura e di liberazione, una risposta reale, concreta e solidale.

Partiamo da noi, dalle iniziative queer-gay-lesbo-trans, dallo sport popolare antifascista-antisessista-antirazzista, dai corsi di autodifesa femminile organizzati nella palestra La Popolare, fino ai percorsi di lotta per la libertà di movimento e il diritto ad un’esistenza degna oltre il capitale.

Partiamo da noi per organizzare la nostra rabbia…

A me, vittima non lo dici!

Intervista a Matteo Miavaldi autore del libro “I due marò.Tutto quello che non vi hanno detto”

Intervista a Matteo Miavaldi (www.china-files.com) autore del libro “I due marò.Tutto quello che non vi hanno detto”, ed. Alegre, 2013

 

 

 

 

 

 

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Per una rottura politica contro la governance neoliberista, video interventi

 

Presentiamo i video dell’incontro con Maurizio Lazzarato tenutosi ad Acrobax lo scorso 5 Aprile 2013 (http://www.indipendenti.eu/blog/?p=28505) introduzione a cura  del Lab Alexis, intervista a Lazzarato a cura del Lab Acrobax a seguire dibattito con interventi di:

 

 

 

 

 

Benedetto Vecchi del il Manifesto

Gianluca Pittavino del csoa Askatasuna Torino

Dario Lovaglio M15 Barcellona

Marco dello 081 Napoli

Federico Primosig attivista Stoccolma

 

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Political divide: il cinquanta per cento degli italiani se ne fotte dei partiti, vecchi e nuovi

di Lanfranco Caminiti

Di sicuro c’è solo che si è votato. Ma la fluidità del comportamento elettorale è ormai tale che diventa un busillis non solo predire con una qualche approssimazione politica quel che succede ogni volta, ma anche quel che succederà la prossima volta. Il cinquanta per cento degli elettori non va a votare. Dopo la Sicilia, dopo il Friuli, in questa tornata di amministrative il fenomeno si è esteso a livello nazionale, e a Roma sia per numero che per senso ha un significato macroscopico. Identificare il profilo di questo “non elettore” è davvero complicato, perché — è questo, a mio parere, il dato nuovo e perturbante del sistema — non è sempre lo stesso soggetto [sociale, economico, geografico] a andare a far parte di questo nuovo “blocco”. Qui il fenomeno, in un certo senso dato per scontato da sondaggisti e spin doctor, di quel venti per cento di resistenti e indifferenti alla liturgia democratica elettorale, quasi una “plebaglia elettorale” di chi scribacchiava un insulto o preferiva il mare se era la stagione buona o stiracchiarsi a letto se era una stagione fredda, si è modificato in uno “zoccolo politico”. Da un sistema politico congelato in due enormi blocchi, la Dc e il Pci — che era il “segreto” funzionamento della Prima repubblica —, siamo passati, attraverso il bipolarismo acciaccato di centrodestra e centrosinistra della Seconda repubblica che avrebbe dovuto ammodernarci nel normale ricambio di governo tra uno schieramento e l’altro, a una spaccatura tra chi vota e chi no, che sembra la formula nuova della Terza repubblica. Il cinquanta per cento degli elettori italiani non va a votare con una motivazione politica “forte”. Il “fattore A”, A come astensione, è andato a sostituire il “fattore K”, come Kommunismus, che era la “norma fondamentale”, la Grundnorme della Prima repubblica. Solo che il fattore K era un elemento di “stallo” e fu intelligenza comunista quella di governare dall’opposizione. Il fattore A è invece un elemento di instabilità e non si vede ancora chi riesca a governarla — mi sembra poca cosa il ragionamento di chi considera automatico un rafforzamento del governo Letta. «Uno vale uno», che sarebbe il principio democratico introdotto dal 5 stelle, non è più vero, perché uno non va a votare e se ne fotte.

 

La retorica del lavoro e quella di internet

Ci sono due fenomeni che in qualche modo si possono accostare, senza sovrapporsi, a questo, di una metà di elettori che non esercitano più il loro diritto/dovere di voto. Il primo è quello riguardante le persone che non cercano più lavoro, perché non lo trovano, e sono scoraggiati tanto da non mettersi più in fila, non consultare gli elenchi ai Centri per l’impiego, non mandare in giro curriculum, non bussare più ad alcuna porta, non chiedere neppure più alla cerchia degli amici e dei parenti; sommando i circa tre milioni di inattivi con i circa due milioni di disoccupati arriviamo a una cifra consistente che va vicino alla metà della forza lavoro disponibile, con grosse concentrazioni tra le donne e i giovani e nel Sud, quindi con notevoli squilibri nella distribuzione regionale. Detto tra parentesi, a guardare questi dati viene da pensare quanto sia ideologica e indecente la posizione di chi è contrario all’introduzione del reddito minimo di cittadinanza perché “scoraggerebbe” le persone dalla ricerca di un lavoro, acquietandole in un universo assistito, e in definitiva di parassitaria sopravvivenza. Ideologica perché sembra aggrappata a un universo di riferimento dell’occupazione di massa e della produzione affluente che nessuna ripresa e nessuna crescita potrà mai più garantire; e indecente perché hanno la faccia di tolla di dirlo con l’aria di chi di preoccupa per te e cerca il tuo bene, quando lo “scoraggiamento” da non lavoro è già un dato di fatto. L’altro fenomeno da accostare riguarda la diffusione di internet e della rete e dei social network, di cui si fa un gran parlare per la sua influenza politica e per la deliberazione democratica, e che in realtà resta confinato a ventinove milioni di italiani — peraltro in statistiche di ammucchiate comuni dove gli utenti più pervicaci stanno assieme a quelli che in rete ci vanno solo una volta al mese e magari solo per la posta elettronica —, con una distribuzione più intensa in alcune province e non in altre, diverse zone del Sud connesse poco e male, e con venti milioni che non frequentano la rete e che sembrano indifferenti, refrattari [non gliel’ha mica consigliato il medico, e non è mutuabile], ma continuano a vivere benissimo senza e, soprattutto, a poter mantenere, se si vuole, un buon livello di informazione sugli eventi attraverso strumenti più tradizionali: la radio, moltissimo, la televisione, i giornali locali. Potremmo dire — con beneficio d’inventario, certo — che metà del paese è “separata in casa” dall’altra metà. Non è propriamente una divisione geografica e non è neppure una divisione verticale, nel senso che non si riconoscono facilmente questioni di reddito, di sicurezze sociali, di appartenenza e identità, di ruolo, di età, che in qualche modo renderebbero similare una metà e altrettanto quell’altra. Invece, non è così. Le due metà non sono speculari, e alcuni caratteri di densità — per la mancanza di lavoro il fatto che la concentrazione più alta stia fra i giovani, oppure fra le donne e comunque dove bassa è la scolarizzazione, per la connessione il fatto che le persone anziane siano le più refrattarie e le aree metropolitane più periferiche come i comuni più piccoli, mentre invece scolarizzazione, età e status rendono più similari gli utenti forti, in generale perché nel Sud le negatività sembrano maggiori — contraddicono ogni semplificazione sociologica.

 

Political divide e implosione sociale

Mutuando un termine legato alla diffusione di internet, il digital divide, parlerei proprio di un political divide. È qualcosa di molto diverso dall’antipolitica, di cui si è tanto parlato e si continua a fare — io, poi, credo che il Movimento 5 Stelle, sempre tirato in ballo, rappresenti semmai l’arcipolitica — perché, come per quel fenomeno legato al lavoro, c’è uno scoraggiamento, perché, come per quel fenomeno legato alla connessione alla rete, c’è una indifferenza, o meglio: una consapevolezza dell’impossibilità di costruire una relazione qualunque di vantaggio fra se stessi e la rete. Una volta c’era “la maggioranza silenziosa”, non protestava, ma votava. E faceva pesare col voto le proprie opinioni, le proprie preferenze, le proprie ossessioni. In un tempo in cui “prendere parola”, scendere in piazza, protestare, lottare, era la democrazia, sottrarsi nel silenzio in penombra del voto era conservatore, reazionario. Qui invece sembra affermarsi qualcosa di diverso. Questo cinquanta per cento, che sembra refrattario alle battaglie di rinnovamento del Pd, sia in salsa liberale sia in salsa socialdemocratica, alle rifondazioni delle rifondazioni comuniste, alle sirene del berlusconismo, alle sfuriate e alle proteste del M5S, è una piaga o una riserva — come suol dirsi ripetutamente adesso a ogni piè sospinto — della democrazia e della repubblica? Non siamo gli Stati uniti, dove da tempo ben più della maggioranza degli elettori non si iscrive ai registri e non partecipa al voto. Tra una cosa e l’altra, un presidente americano — cioè il leader della più grande potenza della storia — è al comando con circa un venti per cento dei cittadini che lo hanno scelto. Ma a parte le differenze di grandezza e di storia, i partiti in Italia sono stati la grande scuola della democrazia, della partecipazione, della promozione sociale. E chi non faceva vita politica aveva mille altre occasioni per partecipare alla vita sociale. Da noi invece, la vita economica è strettissima e la vita sociale si è andata progressivamente sfaldando. E se le pulsioni sociali non hanno voice, non hanno exit, per riprendere le categorie di Hirschman, tendono a implodere anche drammaticamente.

 

Si può vivere senza partiti?

Daniel Cohn-Bendit, il ragazzo anarchico che partendo da Nanterre infiammò le barricate del Maggio francese, l’ebreo tedesco espulso dalla Francia che fece urlare nei cortei del 1968 «Nous sommes tous juif allemandes», il fondatore, con Joschka Fischer, del movimento dei Grunen, i Verdi tedeschi, i Realo pragmatici che hanno avuto un ruolo importante nella politica della Germania degli ultimi venti anni, l’europarlamentare che si è battuto per difendere e diffondere i temi ecologici in Europa, non si ricandiderà alle elezioni. Cohn-Bendit ha condensato in un piccolo libro — una cinquantina di pagine — da poco arrivato in libreria una serie di convincimenti maturati nel tempo: Pour supprimer les partis politiques!? Réflexions d’un apatride sans parti, Editions Indigènes, che è insieme una rapida autobiografia e un pamphlet contro il partito politico — qualsiasi, possiamo supporre anche il “suo”, dei Verdi —, questo artificio che dalla rivoluzione giacobina passando per la rivoluzione d’Ottobre e le riflessioni di Weber si è incistato nel continente. Il titolo del pamphlet di Cohn-Bendit riecheggia un altro piccolo grande libro, della filosofa e militante Simone Weil, scritto nel 1940: Note sur la suppression générale des partis politiques. Cohn-Bendit, che non ha alcuna intenzione di abbandonare la scena pubblica, pensa che siano necessarie piuttosto forme di cooperazione, di associazione fra cittadini per portare avanti proposte, proteste e per conquistare «l’autonomie». Per quanto possa essere interessante, e lo è, per quello che una biografia può raccontare di un periodo storico e del suo lascito, la dichiarazione di intenti di Cohn-Bendit sembra più una presa d’atto che un programma. Voglio dire: i partiti politici sono già soppressi, c’è poco da interrogarsene e agitarsene in merito. Non credo che la disaffezione quando non l’ostilità ai partiti politici — di cui l’Europa sta sperimentando varie forme, un po’ dovunque, dalla crescita dell’astensione al proliferare di movimenti apertamente contro i partiti alla rinascita di movimenti identitari, territoriali— sia solo una questione “politica”, dipenda cioè esclusivamente dalla crisi delle ideologie e degli orientamenti che hanno caratterizzato il Novecento. Credo piuttosto che la crisi dei partiti politici debba essere ricondotta alla crisi dell’universalità e alle modificazioni produttive. L’una e l’altra — universalità e produzione — sono le strutture della rappresentanza politica, della cittadinanza. La storia europea dal Seicento al Novecento è storia dello Stato, senza lo Stato — il suo monopolio della forza, il patto di obbedienza in cambio di sicurezza — saremmo condannati alla frantumazione, all’implosione, alla sopraffazione, alla guerra intestina. È in questa “visione” che sta la centralità dello Stato e trova ragione lo strumento del partito politico per conquistarlo o per mantenerne il comando. La storia dello Stato del Novecento è stata storia di conflitti tra partiti del proletariato e partiti della borghesia, tra partito del capitale e partito del lavoro. Ed è stata una storia grande. Era qui — capitale e lavoro — la materialità del partito politico. La materialità del conflitto e del compromesso. Si può ancora dire oggi che esista un partito del capitale, il “comitato d’affari della borghesia”? E, di converso, si può ancora dire che esista un partito del lavoro? Sembra piuttosto che capitale e lavoro siano senza un partito “proprio”, sembra anzi che ne facciano bellamente o mestamente a meno. Il capitale, inoltre, può fare a meno dello Stato, dello Stato-nazione, ha dismesso lo Stato, e per questa via il lavoro [il lavoro che produce] non può più usare lo Stato ai propri fini. Lo Stato è un involucro vuoto, o meglio un apparato privo di senso e di scopo — guardate com’è carta straccia la nostra Costituzione —, tranne la propria riproduzione. In questo “parassitismo” è rimasto intrappolato il partito politico. I processi multitudinari — la scomposizione della classe operaia dalla sua unicità in mille prestazioni d’opera, una volta che la fabbrica e il suo modello di produzione non è stato più il parametro delle relazioni sociali — hanno investito in pieno la “borghesia”, frammentandone a sua volta la sua unicità di comportamento, di status. Il comando dei processi come l’investitura di una missione sono passati direttamente alle nuove élite. Transnazionali come il denaro. L’atomizzazione, l’individualizzazione non sono stati processi che hanno colpito solo il “proletariato”, ma anche le classi medie. Per un verso si è tutti “ceto medio”, per un altro si è sempre tutti a rischio di scivolare dall’inclusione verso l’esclusione.

 

Riappropriazione del voto e critica della politica

Un comportamento sociale così massiccio come l’astensione al cinquanta per cento non può più essere letto solo come uno degli aspetti di liquidità sociale o di “crisi della rappresentanza politica”, che sposta l’attenzione e il focus sulle questioni dei partiti e dell’esercizio della trasmissione della delega, tralasciando la soggettività politica del soggetto che esercita il “non voto”. Piuttosto, sembra una “opzione politica”, cosciente e determinata: una critica della politica. Qui dunque stiamo: la politica, intesa come costruzione di un consenso e esercizio della sua forza non è certo scomparsa. Anzi, cresce la consapevolezza di questa necessità. È sui territori, nella vita quotidiana che si sperimentano forme nuove di associazione tra liberi e uguali. Tra movimenti e istituzioni si apre una dinamica nuova, di conflitto e compromesso quando necessario, che è tutta da costruire e scoprire.

 

29 maggio 2013

Commento sull’ultima tornata elettorale

Un commento a margine dell’esito elettorale è già possibile farlo, certo non con la solerzia di chi in prima persona deve affrontare i propri errori o sconfitte nella piccola dama elettorale prendendo parola subito, come si dice, a caldo magari sperando nell’ultima agenzia stampa. Noi da altro canto preferiamo un altro stile avendo scelto un taglio, una traiettoria che non prevede candidarsi ad alcunché se non a fluidificare organizzare e sedimentare quotidianamente la rottura politica contro la governance neoliberista. Ad ogni modo con una certa soddisfazione e inquietitudine che tanto viviamo sempre nella vita vissuta bio politicamente nelle lotte e nei conflitti aperti, e quindi con una certa abitudine stimolante, di chi non ha nulla da perdere se non le catene dei dispositivi di comando che lo attanagliano, rileviamo alcuni punti politicamente qualificanti sui quali vale la pena scrivere due righe con il sorriso sulle labbra.

L’astensione ha travolto il dato elettorale e scompaginato il quadro politico.

Qualunque sindaco verrà eletto a Roma ad esempio dove la media degli astenuti si è rilevata di 10 punti superiore a quella nazionale non avrà nessuna legittimità politica di imporre alcunché alla cittadinanza. Per noi le elezioni sono nulle, così come miserevolmente si sono praticamente annullate da sole tutte le forze politiche vecchie e nuove: dalla protesta civile del 5 stelle a quella un po’ più sbarazzina della sinistra ecologica e catalica del PD, dai partiti dei padroni a quella dei consulenti, dai partitini di sinistra che si accontentano del 6% a Roma che poi corrisponde alla metà sul territorio della penisola, agli errori consumati anche più a sinistra progettando opzioni vecchie peraltro concependole in sedicesima, ammantandole di nuove. Ci dispiace dirlo, perché su alcuni temi per carità, compagni come prima, in ogni caso se può essere utile e meno autoreferenziale a fronte della situazione data caratterizzata da una certa inadeguatezza dei movimenti, il “ve l’avevamo detto” risuona limitato oggi anche a chi lo pronuncia, sempre se si ha ancora voglia di volare un po’ più in alto della palude scegliendo di non sciacallare sulle disgrazie altrui.

Altro stile, scelto e determinato.

Oggi lo scenario politico è cambiato, trasformato verticalmente, non si può rimanere sul terreno della ripetizione dell’eterno ritorno sempre più sbiadito. E’ cambiata la fase e si andava preparando da tempo, il lungo corso di questa crisi, il ciclo che si sta chiudendo non è ancora terminato e se non saremo noi dal basso ad individuare il varco della transizione lo farà il partito trasversale dell’ordine ordo-post, del gotha e senato globale di quel neoliberismo che in questo inferno ci ha cacciato. I terreni sono e saranno quelli dove noi abbiamo combattuto fin’ora, pensiamo ai grandi temi dei movimenti a cui la stessa politica si è dovuta piegare, dal reddito garantito ai nuovi diritti, dalla precarietà alla disoccupazione, ai bisogni negati nelle disuguaglianze perseguite da un modello sempre più tiranno. Del resto non è una novità la lotta di classe è un po’ come fare l’amore bisogna (almeno) essere in due. I padroni e i loro tecno segugi in parlamento, la esercitano tutti i giorni, è il momento che il precariato eserciti la sua legittima e sacrosanta conflittualità. Ciò che indubbiamente rappresenta un passaggio di avanzamento ovvero quello di aver imposto nel dibattito mainstreaim i temi di cui sopra come ad esempio il reddito garantito, la posta in gioco oggi sarà quella di far diventare le nostre rivendicazioni una vera frana sociale che deve cadere addosso alla governance attraverso le pratiche e le forme della riappropriazione, far vivere e respirare quella rottura e insubordinazione  destituente di cui oggi più che mai abbiamo profondamente bisogno. Abbiamo bisogno  di spazi indipendenti di movimento, dispositivi pubblici ed autorganizzati capaci di sviluppare processi sociali reali che partendo da una dimensione territoriale riescano a contrastare le politiche che metterà in campo  il governissimo.

 Ci vedremo nelle piazze, nelle strade, molto presto per costruire tassello dopo tassello un clima sociale adeguato, affinchè le stagioni che seguiranno non siano solo “calde” e roventi ma che diventino per lor signori banchieri, politici di professione, truffaldini del capitalismo finanziario semplicemente infernali.

 

Nodo redazionale indipendente

Dichiarazione Comune Maribor – Lubiana Hub Meeting 2013

L’Hub Meeting 2013 Maribor ‐ Lubiana è la continuazione di un processo di incontri dei movimenti europei. Abbiamo condiviso le nostre esperienze attorno a cinque argomenti: governance della città, saperi, migrazione, donne crisi e cura sociale radicale; ed il processo costituente.

Iniziando dalle nostre differenze locali abbiamo discusso dell’apertura di uno spazio comune in cui pensiamo l’Europa non come spazio geografico diviso da confini e definito da strutture egemoniche, ma piuttosto come una regione definita dalla lotta. In ciò consideriamo anche le lotte della Primavera Araba, e le differenze tra sud e nord. Questo è un processo in cui immaginiamo lo spazio comune attraverso il quale le lotte locali risuonano ad un livello transnazionale. Il processo costituente è un orizzonte cruciale da essere riempito con contenuti e pratiche che devono essere basate su un’inchiesta generale in cui i movimenti siano incorporati, rispettando l’eterogeneità della società e le situazioni locali.

C’è un bisogno generale di attaccare il capitale finanziario, la troika, ecc. non solo su un livello simbolico ma anche in modo materiale attraverso pratiche concrete. Non basta parlare ai movimenti già inclusi nel processo, ma vanno generalizzate le lotte. Come movimenti ed attivisti vogliamo considerarci come immersi nella società e non separati da essa. Vogliamo creare lotta sui terreni dove il sistema capitalistico si riproduce: ad esempio nella governance della città, nei saperi, nella migrazione, nella cura sociale ed in un processo costituente Europeo calato dall’alto.

Nel seminario “Governance della Città” abbiamo discusso le lotte e le pratiche nella città e nello spazio urbano e l’organizzazione dei bisogni sul territorio.

Nel seminario “Migrazione” abbiamo discusso le lotte contro qualsiasi confine economico e politico attraverso cui abbiamo scoperto le linee che intersecano le lotte dei rifugiati e le lotte dei lavoratori migranti. Abbiamo riconosciuto i Saperi come un campo di battaglia fondamentale che ci dà gli strumenti per creare nuove lotte.

Nel seminario “Donne, Crisi e Cura Sociale Radicale” abbiamo discusso il collegamento tra il patriarcato, il capitalismo e la crisi. In apertura si è discusso di come inserire prospettive femministe nella lotta comune contro l’austerità. Successivamente si è trattato di meccanismi di cura sociale radicale nella comunità.

E nel seminario “Processo Costituente” abbiamo discusso sul lavorare ad uno “sciopero sociale” con una prospettiva di lungo termine, laddove “Sciopero Sociale” comporta forme di sciopero al di fuori dei sindacati formali, ecc.

Abbiamo inchiestato i meccanismi ed i metodi di come le persone creino da sé e siano coinvolte in tali azioni e diffuse reti di pratiche, adottando il prossimo 15 Maggio come un primo esperimento.

Oltre a questo, riconosciamo che ci sia un’agenda di eventi europei, incluse le giornate di mobilitazione di Blockupy FrankfurtQue Se Lixe A Troika e Plan de Rescate Ciudadanonella prospettiva di ulteriori passi verso l’autunno, e sottolineiamo che questi eventi devono essere strumenti utili per costruire un processo costituente.

Con amore, i partecipanti dell’Hub Meeting 2013

http://hubmeeting20a.wordpress.com/italiano-2/

Lettera aperta al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, alla giunta e a tutti i neoeletti consiglieri regionali.

 

Dopo la scandalosa / fallimentare / drammatica esperienza dell’amministrazione Polverini, anche noi confidiamo che il rinnovato consiglio restituisca dignità a questa regione e renda giustizia a chi ne ha subito i torti più grandi.

Ci indirizziamo prioritariamente a Lei, Presidente Zingaretti, e alla sua squadra in quanto, nel ricco programma di governo emerge fin dai primi capitoli la volontà di un cambiamento radicale nel modo di lavorare della regione. Con un paragrafo dedicato all’utilizzo efficiente delle risorse, una indicazione chiara per la riorganizzazione  del sistema degli enti strumentali e un particolare riferimento al ruolo strategico di Sviluppo Lazio.

Siamo ex lavoratrici e lavoratori precari di questa agenzia, rimasti senza lavoro a causa di scelte incomprensibili e ingiustificabili di una amministrazione incapace e incompetente, che ha continuato a gonfiare le rendite parassitarie dei super-consulenti inutili e ha incassato come unico risultato lo spreco delle ingenti risorse dei fondi europei.

Siamo persone serie e qualificate che dopo aver lavorato per anni dentro Sviluppo Lazio, offrendo tutta la nostra competenza e disponibilità, malgrado rapporti di lavoro precari e illegittimi, definiti dalle forme contrattuali più odiose (lavoro dipendente mascherato da finte partite IVA, contratti a progetto, lavoro interinale e quant’altro) sono state lasciate a casa senza un futuro e senza dignità.

____ La nostra storia ____

Sviluppo Lazio svolge un ruolo strategico per lo sviluppo e l’attrazione degli investimenti, è il principale strumento regionale per l’attuazione delle politiche comunitarie, per la gestione dei fondi europei destinati all’innovazione, all’ambiente, alla cultura, alla coesione sociale, è interamente a capitale pubblico e riceve affidamenti in-house esclusivamente dalla Regione Lazio, che esercita sull’agenzia un controllo funzionale “analogo” a quello esercitato sui propri servizi.

Negli ultimi 2/3 anni, nel nome di una non meglio definita razionalizzazione delle risorse, decine di collaboratori precari di questa agenzia hanno perso il loro posto di lavoro entrando nel tunnel della disoccupazione, delle lunghe vertenze legali, della perdita di dignità e sicurezza.  Il lavoro precario si è trasformato in una vita precaria.

Con grande disinvoltura si è scelto di non rinnovare i contratti di collaborazione, che pure permettevano l’attuazione dei programmi finanziati con i fondi europei, mentre si è continuato impunemente ad affidare consulenze d’oro a pensionati e ad ex dirigenti fallimentari e a sperperare risorse in inutili eventi autocelebrativi e altrettanto inutili consigli di amministrazione.

I programmi di sostegno alle piccole e medie imprese, agli Enti locali, alle scuole, agli ospedali, per la cultura, per la ricerca e l’innovazione, per lo sviluppo sostenibile restavano al palo mentre l’azienda navigava a vista, senza un organigramma, senza una visione, senza strategie, e mandava in fumo milioni di euro dei fondi strutturali europei.

Sviluppo Lazio adesso è una società dove il numero delle figure apicali (dirigenti e quadri di 3°/4° livello) è superiore a quello dei dipendenti, con un consiglio di amministrazione eccessivamente numeroso e retribuito e con risultati di spesa sulla programmazione europea 2007-2013 tra i peggiori d’Italia e d’Europa.

La classe dirigente di Sviluppo Lazio e della passata amministrazione regionale, ha preferito dover affrontare decine e decine di cause e vertenze legali, con costi imprevedibili, piuttosto che razionalizzare realmente l’azienda e affrontare seriamente i propri compiti e i propri obiettivi.

____ Le nostre istanze ____

Alla nuova classe politica chiamata a governare la Regione Lazio

chiediamo che sia ristabilita giustizia ed equità:

–        attraverso il reintegro immediato di tutti i lavoratori e le lavoratrici espulsi senza motivo, ponendo fine a tutte le vertenze legali in corso;

–        attraverso l’individuazione delle gravi responsabilità del ‘servizio acquisti e risorse umane’ e dei vertici della società nella gestione del personale, nell’uso improprio di contratti di lavoro autonomo per attività di routine e negli inutili sprechi di risorse per consulenze altamente remunerate non giustificabili per lo svolgimento delle attività aziendali.

Proponiamo inoltre l’attuazione di una reale razionalizzazione delle risorse che comprenda:

–  una attenta e puntuale valutazione delle responsabilità dirigenziali nella mancata attuazione dei programmi europei e nella perdita di gran parte dei contributi relativi alla programmazione 2007-2013;

–  l’accorpamento di tutta la rete delle agenzie strumentali partecipate da Sviluppo Lazio (BIC, FILAS, Unionfidi ecc.) e lo spostamento in un’unica sede di proprietà regionale;

–  la riduzione del numero di consiglieri di amministrazione di Sviluppo Lazio e la soppressione dei compensi e del gettone presenza come previsto dalla normativa vigente (L 122/2010 art.6 co.2)

–  la pubblicazione on-line delle retribuzioni annuali e di tutte le informazioni previste dalla L.69/2009 art.21, di tutti i dirigenti, in quanto società interamente a capitale pubblico;

–  l’imposizione di un tetto massimo al reddito dei dirigenti, nonché un tetto massimo per la variabile “ad-personam” dei  quadri direttivi.

Cosa c’è di meglio di un cornetto e un buon caffè per iniziare insieme una lunga giornata di lotta?!

Siamo entrati a via musa ieri mentre centinaia di famiglie facevano lo stesso in altri 11 edifici abbandonati sparsi nella città. Una marea di persone: famiglie, single, migranti, italiani, precari, disoccupati, studenti che hanno deciso di smettere di attendere, di riprendersi un diritto elementare come quello ad avere un tetto sopra la testa senza mediare i loro bisogni con i conti in banca dei palazzinari. In una città stuprata dal cemento dove si costruisce per costruire, in cui il comune dichiara la presenza di oltre 260.000 case sfitte, la casa è un miraggio per decine di migliaia di persone costrette ad arrancare a presso alle rate del mutuo o all’affitto.

È la città “reale” della gente che ci vive, ci lavora o ci studia che si scontra con la città degli amministratori, sono i nostri bisogni che confliggono con le leggi dell’accumulazione e della rendita.

La storia dello stabile che abbiamo occupato è allo stesso tempo esemplare e grottesca: esemplare perché attraverso la cessione di patrimonio pubblico, l’erogazione di lauti appalti e la costituzione di un fondo bancario ad hoc l’amministrazione di turno (in questo caso la provincia) regala milioni di euro al palazzinaro di turno (in questo caso Parnasi) con un metodo riproposto talmente tanto spesso da sembrare un modello. Grottesca perché a coprire questa operazione speculativa non è un progetto di riqualificazione di un quartiere di periferia, la costruzione di infrastrutture per il trasporto pubblico o misure di contrasto all’emergenza abitativa ma bensì l’edificazione di una monumentale sede per un ente che non esiste più, non provano neanche più a convincerci che le loro speculazioni possano avere una ricaduta positiva sulla città. Si saranno stancati anche loro di ascoltare bugie tanto spudorate.

Alle sei del pomeriggio sono arrivati blindati e polizia, hanno chiuso via musa e ci hanno intimato di lasciare lo stabile: volevano che uscissimo senza sapere cosa ne sarà di questa palazzina bellissima, senza conoscere i nomi degli ex consiglieri provinciali che tuttora gestiscono il fondo paribas incaricato di vendere lo stabile, senza che nessuno si prendesse la briga di spiegare il senso della chiusura di due studentati al centro di Roma in una città che ospita 200000 studenti universitari. La determinazione di chi era dentro lo stabile e di chi immediatamente è arrivato ad esprimerci solidarietà ha evitato che ciò fosse possibile. domani mattina vorrebbero chiudere questa esperienza sperando che nessuno metta più il naso nei loro affari. Noi saremo svegli ad aspettarli, chiunque voglia farci compagnia troverà caffè e cornetto, ci vediamo alle 7.00