Perchè la memoria è un ingranaggio collettivo

E’ ormai da alcuni mesi che realtà sociali ed antagoniste propongono un dibattito dopo la proiezione del film “Diaz, don’t clean up this blood” di Daniele Vicari. E il perché risiede, probabilmente, non in una corsa sfrenata a ripetere meccanicamente iniziative su tutto il territorio nazionale ma, piuttosto, nella necessità di trovare dei momenti di approfondimento e discussione di una delle pagine più forti della storia italiana.
Perchè chi vuole vedere quel film sa di essere di fronte ad un episodio che è entrato ormai a far parte degli eventi che hanno segnato questo paese. Lo sono quei giorni, le ore, i giorni e le settimane che lo hanno preceduto.
Le aspettative e le energie di chi lo ha preparato e vissuto. Di chi lo ha subito, sulla propria coscienza e sulla propria pelle. Chi lo ha respirato nella sua portata di trasformazione e di disvelamento di una nuova fase del nostro paese e dei poteri che lo governano.
Perchè, come ogni evento di portata storica, tralasciando l’epica che questa affermazione porta con se, ha un coinvolgimento e un’influenza non solo per chi vi ha partecipato, dalla parte dei sommersi o dalla parte dei salvati, ma anche per chi si trova per sua superficilità, o per scelta o per età lontano da quegli eventi.

Perchè Genova è stato il racconto di un’ondata che ha portato prima, durante e dopo migliaia, centinaia di migliaia di persone in piazza. Genova non è stata, (perchè non lo è mai nella storia), un evento singolo, ma la parte più evidente di un iceberg.
E quello stesso movimento, non nelle sue strutture organizzate, nelle sue critiche e limiti, non nella sua sconfitta, ha sedimentato ed agitato potenza a livello globale.
Con le parole e i contenuti, con l’immaginario e le storie, con quello che è ne stata la sua ricchezza.
E’ stato il propellente per un’ondata di nuove lotte sociali che il potere ha temuto  e represso.

Per molti e molte di noi, Genova 2001 ha avuto un ruolo centrale nella crescita politica e di vita. Genova 2001 per molte e molti di noi ha rappresentato quel punto d’inflessione da cui non si torna indietro.
Molte e molti di noi erano a Via Tolemaide, a piazza Alimonda, e nei viali alberati davanti al porto. Eravamo presenti e volutamente coscienti di voler vivere quelle giornate, perché sapevamo che quelle giornate ci avrebbero fatto sentire vive e vivi. Perché in quelle giornate la ragione era dalla nostra parte. Perché in fondo e in maniera molto chiara, quelle giornate di contestazione andavano contro un modello di crescita neoliberista che 10 anni fa colpiva altre parti di mondo e che ora travolge in pieno la nostra piccola eurolandia.
E lo ha avuto per chi è stato a casa a vedere quelle immagini o semplicemente ha deciso da quel momento di mettersi in movimento.
Lo e’ stato per quelle decine di gruppi che sono sorti in tutta Italia all’indomani di quel Luglio.
E lo è stato per chi, in quelle giornate, aveva solo 10 anni.

E dire che la giustizia non fa parte di questo mondo ci sembra un’iniqua e sterile ovvietà. Ha invece più senso ribadire che, come sempre, lo stato assolve se stesso mentre per l’ennesima volta traduce un movimento politico di contestazione in un lento e sanguinoso processo a carico di pochi.

Il significato tutto politico della sentenza emessa dalla cassazione a luglio 2012 resta e rimane inequivocabile, una sentenza che è oggetto di una produzione discorsiva in strettissima relazione con i dispositivi del potere in atto. Una sentenza che decanta, afferma e sedimenta nuove pratiche del potere dichiarando che la vetrina di una banca vale di più di un corpo torturato, di una milza asportata o d’irreversibili lesioni all’apparato respiratorio. Questa è per noi l’unica verità politica che nessun tribunale di questa fantomatica democrazia potrà mai deliberare.
E meno male che in queste ultimi mesi una fortissima campagna sociale è riuscita in poche settimane a raccogliere l’indignazione di più di 10.000 persone. Una campagna che crede nella memoria come ingranaggio collettivo perché  solo partendo  dalla memoria collettiva è possibile tracciare quelle strategie e tattiche sociali per far si che le parole “devastazione” e “saccheggio” non diventino la ricetta pronta per aggredire chi, come unidici anni fa, continua ad avere una ferma determinazione nel voler contrastare un modello di governance che fa dello spread e della spending review il suo cavallo di battaglia.

Non sarà certo la priezione di un film a costruire una nuova ondata, né a far chiarezza e costruire nuovi spazi di confronto ed attivazione. Ma può essere un buono strumento per ricordare, non solo i fatti, ma le motivazioni.
Può essere la tappa di un percorso di lotta che si intreccia con molti altri.
E che afferma con sicurezza Libere tutti!

Invitiamo tutte e tutti alla proiezione del film DIAZ con la partecipazione
di Elio Germano, Paolo Calabresi, Paolo Giovannucci perchè si possa chiaccherare con gli attori, perchè ci si possa confrontare e perchè si possa essere olio per quell’ingranaggio collettivo.

Dalle ore 19
apericena per la campagna 10X100

Alle ore 21
proiezione film

LOA ACROBAX
Via della vasca navale
[Ponte Marconi]

L’incubo di una notte di mezza estate

Cosa avviene in questo squarcio di crisi dove al si salvi chi può dell’annunciata e probabile caduta dell’Euro si è passati ad un’apparente salviamo il salvabile, onoriamo gli interessi sul debito, calmieriamo lo spread? E in questa fase, che faranno i movimenti? attenderanno messianicamente l’autunno caldo come se fosse predestinato ad esser-ci, guradando il calendario e pensando magari che l’inarrestabile scorrere del tempo definirà un futuro ineluttabile? No, al contrario il calendario indica un forte abbassamento delle temperature nel periodo dell’autunno. Figuriamoci poi con la crisi. Quindi forse, è meglio partire da alcune “basi” certe del ragionamento e dipanare quindi una bozza, una traccia di lavoro politico, che possa essere utile nella futura e imminente stagione: se nei prossimi mesi non ci si mette un solido e determinato innesto di variabile indipendente, di conflitto sociale, di potere costituente, un buona quota di moover sociale nella forma delle forme costituzionale dei diritti, l’autunno che verrà, lungi dal ribollire, sarà freddo o comunque freddino, con buona pace dell’attesa condita dalle belle parole.

A partire da questa posizione, più che convinzione potremmo definirla decisione, procediamo da un lato a descrivere intanto, per usare vecchie parole, un’analisi di fase e dall’altro ad immaginarsi anche con nuove parole – diciamo, vecchia tattica per una nuova strategia – un cammino, un’opzione, un varco possibile, che possa spingere la nostra umanità a ripensare da capo il modello-mondo che vogliamo costruire e immaginare, senza la paura di affermarla, la necessità quindi sognatrice e rivoluzionaria di un’utopia concreta e transazionale, tutte parole peraltro femmine. La critica non può stare che sul  piano internazionalizzato dell’impero e l’azione politica non può che immaginarsi e assumersi dentro i flussi di movimenti transazionali che in ogni dove affermano le istanze del comune.

Quindi cosa avviene intorno a noi?

Fondamentalmente stanno ricontrattando i compensi e i profitti nel nuovo processo di valorizzazione. Il sistema capitalistico si assume nella crisi come trasformazione continua dei rapporti di potere tra lavoro vivo e capitale. Si dispongono così, nella grande transizione, a chiusura del ciclo fordista ma anche sulle ceneri del sistema welfaristico del defunto patto sociale, una nuova (possibile?) mediazione asimettrica, per rafforzare il proprio ruolo di supremazia anche attraverso il ricatto “globale” del debito –  ma certamente anche con una subdola e altrettanto incisiva forma di biopotere. Questo per contrapporsi permanentemente alla forma irrisolvibile di produzione biopolitica indipendente delle soggettività creative, cooperanti, antagoniste.

La finanziarizzazione ormai è un processo immanente al sistema produttivo e la dinamica continua della valorizzazione capitalistica è nuovamente ri-articolata e ridislocata su frontiere dell’innovazione, della sussunzione, cattura, cooptazione delle soggettività messe al lavoro dalle diverse e striate forme della produzione immateriale, cognitiva, relazionale, affettiva. Il processo di riorganizzazione del mondo del lavoro e del non lavoro procede sul passo spedito della riorganizzazione produttiva della grande trasformazione che qui vediamo incardinarsi tra un millennio e l’altro. Grande trasformazione produttiva per mezzo dell’inesauribile e inarrestabile processo di precarizzazione del lavoro e della vita, delle relazioni sociali e produttive.

Il fallito golpe planetario che gli Usa hanno provato a mettere in campo nel 2001 è servito comunque e fondamentalmente a dispiegare la nuova pressione del controllo e del ricatto globale neoliberista come dispositivo di potere sull’umanità, niente di meno che con la guerra globale come paradigma delle nuove relazioni internazionali, una nuova diplomazia della guerra preventiva. Del resto non potendo fare del giusto il forte, si fece del forte il giusto e si passò al paradigma della paura.

Il debito quello che per esempio in Equador definiscono immorale, da non onorare, perché accumulato da governi precedenti corrotti e criminali, è l’altro volto del ricatto. L’insostenibilità della moneta unica e della pressione delle norme di politica economica per sostenerla sono il corollario per questa piccola parte di mondo in declino chiamata Europa.

Siamo nel pieno di una grande transizione che s’incarna nel trapasso dei modelli, produttivi, economici, sociali. La fase attuale è quella dell’accumulazione originaria nel nuovo ciclo capitalista che nascendo sulle ceneri di una complessità di elementi, ormai superati che segnano la fine di una lunga fase dove da una lato l’economia della grande industria fordista e taylorita e dall’altro il nuovo – cioè ormai vecchio – patto sociale (new deal) tra i corpi intermedi – Stato, partiti, sindacati, chiesa, imprese – avevano permesso un pieno scambio, benessere (do you remeber welfare state? stato di benessere). Equilibrio e patto ovviamente ottenuto e continuamente mobilitato dal potere costituente del conflitto sociale.

Il passaggio che nelle trasformazioni produttive e lavorative si è consumato negli ultimi 30/40 anni dall’operaio sociale al precariato diffuso e metropolitano, è oggi in termini di soggettività antagonista ancora un territorio aperto di indagine, inchiesta militante, è ancora uno spazio non definito completamente nella sua composizione tecnica e politica ma sicuramente ineludibile ed irreversibile nel suo determinarsi nella nuova composizione sociale tra sussunzione formale del lavoro e nuovi piani della cooptazione, cattura e sussunzione reale della soggettività produttiva. Il focus di ragionamento che ci appare a questa altezza delle contraddizioni il nodo fondamentale della crisi è propriamente la crisi nella crisi, ovvero la crisi del processo di valorizzazione, come crisi specifica della misura del valore dentro le nuove trasformazioni avvenute in seno al processo produttivo e lavorativo. Dove si estrae valore oggi? quali sono i reali spazi della produzione contemporanea? Domande necessarie anche per capire dove colpire, non solo per capire chi siamo e come ci chiamiamo.

Nel postfordismo digitale salta il piano-sequenza lineare della misura del valore, della capacità/possibilità da parte del capitale di misurare la produzione immateriale. Ovvero nel capitalismo contemporaneo cognitivo e immateriale, è’ ormai evidente come il lavoro e la produzione immateriale siano definitivamente inaccessibili alle forme tradizionali della costituzionalizzazione nel diritto del conflitto di classe. Su questo piano inclinato della valorizzazione si fonda oggi l’incapacità da parte del capitale di determinare una misurazione salariale “adeguata”. Ora più che mai il reddito garantito deve essere posto sempre di più come rivendicazione di esistenza e di cittadinanza, così come abbiamo visto nelle giornate estive della lotta di Taranto, deve posizionarsi dentro questa contraddizione, come potenza aperta dai nuovi processi della valorizzazione, svincolandosi dalle mediazioni politiche o sindacali realmente tutte al ribasso. Rimane ciò che la precarietà e la precarizzazione ci lasciano sul terreno, un precariato sociale che dobbiamo rendere insorgente, indipendente, potente.

Come dicevamo prima siamo nel pieno della grande trasformazione. In un passaggio epocale, paradigmatico. Così come in altre transizioni, i passaggi furono lenti, ma inesorabili. Ora con alle spalle un novecento poco utile anzi in taluni casi dannoso per i movimenti che vivono e incarnano la contemporaneità – lo vediamo con la retorica del lavoro come bene comune o del bene-comunismo delle amministrazioni locali – ma tenendo un occhio critico e se possibile materialista sulla storia, ci pare cogente nella comparazione con il passato per costruire il futuro e l’immaginario dell’indipendenza un gioco con la storia che ci porta al secolo “lungo”, dove rotolò la prima testa coronata d’Europa, nell’Inghilterra del ‘600. Quel secolo intenso del processo di transizione dall’immagine feudale, all’immagine borghese del mondo. Allora come oggi nel pieno delle trasformazioni produttive si andava determinando una nuova composizione sociale che emergeva dentro il nuovo processo produttivo industriale che si andava affermando nell’Inghilterra degli Indipendenti e dei Levellers. Ieri, come oggi si affermava l’accesso incondizionato alla cittadinanza saldando il rapporto tra proprietà della terra e libertà comune un po’ come avviene oggi nelle montagne della Val Susa, si difendeva il nuovo spazio politico dell’enclousure pubblica. Oggi il precariato si trova un pò come i freeholders inglesi ai tempi dei Levellers, tra inclusione ed esclusione, tra auto valorizzazione e comando. E c’è un di più, oggi, il precariato nell’economia della conoscenza possiede i mezzi di produzione. Le sue macchine affettive, linguistiche e relazionali sono effettivamente in suo possesso. Come i freeholders in army così il precariato se sarà insorgente dovrà affermare nell’indipendenza – ieri della terra oggi del suo prezioso mezzo di produzione – la propria libertà. Indipendenza dal dispositivo del comando, dell’irrigimentazione e della cattura della nuova valorizzazione capitalistica.

Nodo redazionale indipendente

Agosto 2012

Quando la rottura è costituente – Riflessioni per i movimenti

di @angelobrunetti1

Spesso la retorica della  politica – anche di movimento  – salta a piè  pari la realtà sociale  producendo scollamenti  e divaricazioni  verticali tra governi e governati. Veri  e propri abissi.   Alla base di ciò che genericamente definiamo crisi economica – che la realtà sociale vive di riflesso spesso nella disperazione – vi sono elementi fondamentali che vanno ancora profondamente indagati e sui quali non ci concentreremo qui per necessità di sintesi.

Per riassumerle a grandi linee. Facendo  tesoro dell’analisi di Marazzi, cioè che nell’odierno  sistema di accumulazione vi è un  rapporto consustanziale tra produzione  e finanza, possiamo affermare  con certezza che oggi la finanziarizzazione,  pervasiva a livello dell’intero  ciclo economico, è divenuta parte  integrante della nostra vita quotidiana,  che le sua fonte di alimento è  la produzione di beni e servizi, ma  anche welfare, beni comuni, linguaggi, stili di vita.  La finanza si riproduce nella costituzione materiale dei corpi in quella che Marazzi definisce come: “la mobilitazione permanente per il capitale”.

Dentro tale dinamica, appare sempre più evidente un nesso indicibile, occultato e mistificato dal potere, quello tra crisi finanziaria e crisi del processo di valorizzazione. La “crisi nella crisi”, ovvero la crisi di tutti i metodi di misurazione del valore del lavoro, che fa saltare il banco delle formali regole economiche. Questo punto è politicamente dirimente.

In futuro, occorrerà inevitabilmente elaborare forme di sperimentazione politica da posizioni più avanzate e con traiettorie di più lungo respiro rispetto a quelle assunte fin qui dal movimento.

Se intendiamo la politica anche come costruzione dal basso di una nuova forma di organizzazione sociale, se siamo consapevoli che la “rottura” è necessaria per rendere costituente l’alternativa, allora dobbiamo fare un discorso di verità. I movimenti potranno cominciare a incidere sulla realtà politica solo una volta che avranno deciso cosa fare da grandi. Ciò prendendo atto dell’irreversibilità della crisi della rappresentanza politica, così come della svolta autoritaria in corso, necessaria all’instaurazione della dittatura dei mercati, i quali dettano ogni giorno di più le agende dei governi.

Se vogliamo costruire un’alterità che vuole riprendersi il protagonismo sociale, la capacità di  ristabilire gli spazi dell’autogoverno e rimettere in discussione le scelte operate sulle nostre teste, dobbiamo dissolvere l’intero quadro politico esistente, superando quel senso di impotenza che segna i limiti di un sistema bloccato e incancrenito. Ciò non significa esercitare lo scontro inseguendo un’estetica della violenza, ma rompere su tutti i piani, effettuando nell’immaginario e attraverso il desiderio collettivo una trasformazione prima di tutto culturale, che non può leggere il lavoro come bene comune e che non può partire dalle mediazioni al ribasso come quella sul reddito legandolo alla sopravvivenza del lavoro precario.  Almeno, non lo devono fare i movimenti. Questo nella piena consapevolezza della complessità, della stratificazione del rapporto di forza che si misura sui mille piani inclinati della società complessa che viviamo.

Dare respiro e “programma” alla protesta, alla rabbia sociale, renderla potere costituente – perché si tratta di riscrivere da capo la carta costituzionale, basti pensare per un momento a quanto è datato il primo articolo – sottraendola al nichilismo, significa dare un possibile senso comune all’alternativa che viene attraverso sempre più solide alleanze sociali.   Questo avevamo in mente quando, durante tutto l’anno passato, abbiamo lanciato in giro per il paese l’ipotesi (ancora in cantiere) di uno sciopero precario quale forma diffusa di rottura e iniziativa politica. Come sabotaggio, blocco dei flussi materiali e immateriali, attacco all’immagine e al brand dei precarizzatori. Il tema oggi rimane ancora quello, al di là del nome che potrà assumere nella prossima stagione politica.

Attraverso la materialità della lotta, si deve e si dovrà poter passare dal puro sfogo individuale della propria indignazione al pieno e reciproco riconoscimento collettivo. Si tratta di dare respiro alla soggettività precaria, per sottrarla alla dimensione individuale e confusamente spontanea, e di saper tessere una tela ricompositiva che ponga rimedio all’atomizzazione e alla frammentazione strutturale – del mondo del lavoro e del non lavoro e quindi delle relazioni sociali e produttive – in cui essa immersa.

Ma occorre farlo proprio lì, in quella stessa situazione frammentata, non altrove, con buona pace di tutti i sindacati. Tutto questo affinché si possa definire ciò che si annuncia come l’ipotesi di nuova ricomposizione di classe. A unire oggi i precari è semplicemente la rabbia. E questo ovviamente non basta. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia, intelligenza generale, mente collettiva, sovversiva, creativa. Quando diciamo di voler organizzare la nostra rabbia, ci disponiamo all’interno di questa opportunità di lavoro politico. Non si può continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano, quasi meccanicamente, l’uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassintegrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore.

Dentro le forme della lotta precaria può crescere un movimento realmente indipendente che tracimi oltre le risacche della routine militante e si ponga l’obiettivo di trasformare ra- dicalmente i processi di sfruttamento, accumulazione e valorizzazione capitalistici. Valorizzazione oggi dislocata nella co-creazione di valore, nella messa al lavoro reale delle soggettività che supera la messa a lavoro formale e che, nell’ambito dell’economia immateriale, si riproduce attraverso i servizi forniti da importanti multinazionali come Google o Facebook – con buona pace della fiom, con la sua metà degli iscritti informatici impropriamente inquadrati nel contratto dei metalmeccanici. Luoghi in cui l’utenza è prod-utenza, mentre il flusso della valorizzazione delega al lavoro formale il solo ed esclusivo ruolo di controllo sociale, nel tentativo di governare un disordine globale che ormai si esprime sotto tutti i cieli del vecchio patto atlantico. Se volete, ecco un altro punto dirimente, non scontato, impensabile fino a pochi anni fa: il mondo è nuovamente in rivolta.

E qui, volgiamo richiamare il contesto nostrano mettendolo per un momento in relazione con ciò che avviene in Europa e nel resto del mondo. Ci riferiamo alla stagione segnata dal 15 ottobre, che, a distanza di quasi un anno dagli eventi, richiede che vadano fatte ulteriori considerazioni.

Il 15 ottobre è andato ben oltre la finzione o la testimonianza. Ha sorpreso e travolto tutti. Noi compresi. Ma per una volta il programma era cambiato nella realtà così come era già accaduto l’anno precedente, il 14 dicembre. La dissociazione rancorosa nei confronti dei ragazzi e dei compagni che quel giorno hanno sfidato per ore lo Stato in piazza regalando la cartolina di un’Italia in crisi, arrabbiata e con la voglia di reagire – che sicuramente ha contribuito ad accelerare la caduta del governo – non solo è stata dolorosa, ma indegna; insopportabile poi se dettata da esigenze di compatibilità e mantenimento degli accordi che non tutti conoscevano. Dietro quella rivolta, un accumulo di forze, di tendenze e di processi sociali non codificabili per padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Ma anche per la generazione che aveva “diretto” il movimento a Genova. Non processi meccanici ma dinamici, processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavano di governare. E questo ovviamente vale anche per chi, nei movimenti, credeva di portare l’avanzo del banchetto del potere come premio ai più allineati alla governance, (quella buona eh!), quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune: eccoli tutti a braccetto a fare la fila per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato pure per loro. Non a caso dal 15 ottobre in poi tutte le posizioni politiche di movimento hanno sterzato, effettuando in taluni casi vere e proprie inversioni a U, arrivando addirittura a cercare altrove ciò che avevamo tentato di portare fin sotto casa loro, inseguendo ovunque, anche a Francoforte, il presente pur di non affrontare qui e ora il nostro futuro. Le lotte riverberate dalle comunità indipendenti che nel mondo si riproducono – e per fortuna si moltiplicano ovunque, da Occupy Wall Street in giù – e di cui noi facciamo pienamente parte, o trovano una sedimentazione materiale nei nostri territori a partire dalle nostre generazioni, o altrimenti saranno cicli di movimento vissuti da altri e scimmiottati da noi.

La strada da percorrere ci è indicata dalla straordinaria esperienza dei comitati per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni, come nella Val Susa, fondamentalmente la nuova dorsale dei movimenti sociali anticapitalisti, che, nel volgere di pochi anni, ha imposto al dibattito pubblico ciò che sembrava essere andato perduto per sempre. La radicale messa in discussione della categoria di profitto – categoria fondativa del capitalismo. Un altro dato dirimente nella complessità. E lo è ancor di più per il punto di vista precario se vuole poi essere anche il baricentro, il grand’angolo di qualcosa di più ampio ancora, per costruire l’alternativa come utopia concreta, in quella prateria sociale di cui spesso parliamo, che non deve più attendere la rigenerazione del cambiamento dall’alto, ma individuare il varco giusto per insorgere dal basso. Deve farlo, senza la paura di dirlo.

Roma, luglio 2012

Non ci avrete mai come volete voi, dalla Repubblica Indipendente di Taranto

Vogliamo vivere e non lavorare, non lavorare per morire.

Era abbastanza evidente da tempo ciò che sia andava
accumulando nel profondo meridione del nostro piccolo paese in declino ed era
abbastanza prevedibile che una scintilla avrebbe cominciato o meglio continuato
a incendiare quella prateria sociale che dopo il movimento dei forconi e degli
autotrasportatori in Sicilia, le battaglie dei contadini e pastori sardi,
avrebbe proseguito dalla Val di Susa in giù sulla strada tracciata dalle tante
resistenze sociali. E che quindi la scintilla nella prateria avrebbe continuato
la sua inarrestabile espansione e sedimentazione arrivando proprio a Taranto
non sorprende affatto soprattutto se un po’ si conosce la decennale battaglia portata
avanti dai comitati popolari e di quartiere che da anni denunciano in città ciò
che oggi anche la magistratura – fin’ora scimmietta sordomuta – ha
(finalmente!) evidenziato con la sentenza di chiusura immediata dell’Ilva.

Dopo decenni di inquinamento in nome del profitto come
forma dello Stato con il nome di Italsider, oggi una città risvegliata e mobilitata
dal basso di prima mattina ha radunato la migliore Taranto

in lotta che ha raccolto un dato politico così’
evidentemente nazionale che non a caso contestava con consapevolezza, chiarezza
e tanta forza proprio il governo Monti che guarda un pò, nella figura dei suoi
ministri, voleva venire ad imporre la legge del potere esecutivo, schierando la
politica e tante guardie, contro il potere giudiziario, contro una magistratura
che per una volta tanto ha

voluto perseguire i corrotti e criminali capitani d’industria, in questo caso
la Family Riva. Tirando le somme con un sol colpo il rispettabilissimo governo
Monti ha abrogato l’equilibrio fondamentale tra i poteri istituzionali della
formale democrazia che tanto vanno sostenendo a piè sospinto e
contemporaneamente decretato che l’unico possibile spazio produttivo e sito
lavorativo per i Tarantini rappresenti anche la loro eterna tomba.

Il governo dei professori senza provare questa volta
nessun rammarico, senza versare nemmeno una lacrimuccia, senza nemmeno battersi
un po’ il petto – quando si parla di soldini, di tanti soldini, non si scherza
più e si sa a quel punto le narrazioni vuote di contenuto si sciolgono come
neve al sole – ha niente di meno che posto in stato emergenza una città intera
minacciando decreti d’urgenza mettendosi frontalmente contro la magistratura
pur di difendere i padroni e un sito produttivo illegale come l’Ilva che nessun
altro paese europeo, permetterebbe di costruire con quelle dimensioni e tali
costi sociali. E non contento ha pensato bene per mezzo del questore e prefetto
di

vietare ogni manifestazione per non turbare la quiete
mortifera che padroni, governo e sindacati avevano ormai accordato. Dopo aver
mappato una nuova geografia dei conflitti ormai sempre più

estesi da una parte all’altra della penisola oggi
abbiamo toccato con mano una città ribelle e consapevole, arrabbiata e
politicamente intelligente pronta ad una lotta lunga, consapevole quindi di
dover resistere alla tentazione di chiudere la partita proprio come vorrebbero
le controparti politiche e aziendali. Rompendo il divieto della questura, la
piazza radunata già dalle prime ore della mattina

ha cominciato a riempirsi fino a tracimare nella
strada principale e in corteo ovviamente non autorizzato ha scelto di
riprendersi le strade per cominciare a riprendersi il proprio futuro.
Irrappresentabilità ed indipendenza della lotta sono state le parole che si
ripetevano maggiormente

dall’affollato palco e si riferivano tanto al governo nazionale che ai governi locali,
come quello del governatore Vendola che ha tradito la cittadinanza di Taranto
riempendosi la bocca fino a pochi mesi fa’ con la sua nuova narrazione ecologista.

Una moltitudine di precariato sociale, che lavora
anche dentro l’Ilva ma soprattutto fuori (ma qui conta poco, la retorica pseudoperaista
la lasciano agli apportunisti) o magari è disoccupato e magari non lavora da anni,
oggi si è incontrato con pensionati, casalinghe, ragazze madri, tifosi, sindacalisti
di base, insegnanti, immigrati, turisti solidali della costa, in migliaia a
rompere il divieto e a dire chiaramente che la lotta a Tanto continuerà fino a
quando l’Ilva non chiuderà. Troppi morti causa questo lavoro. E ovviamente non
sono morti “bianche”, neutre senza responsabili.

A Taranto il tema del reddito garantito, sociale di
esistenza, si respirava per strada e se ne dovranno accorgere anche coloro che uniti-uniti contro
la crisi chiamavano lavoro bene comune la loro istanza fondamentale.

Qui la vicenda del reddito è anche contro il lavoro se
necessario dirlo. Ma sicuramente nella sua funzione principale, è contro il ricatto
che esercita la pressione del ciclo capitalista nocivo e infame che trasuda nelle nostre vite. A Taranto la
ferita aperta dalla nocività, dalla boria padronale, dagli scondinzolamenti
sindacali apre le strada alla ricchezza della vita contro il profitto, si
costituisce movimento per rompere la gabbia, per lottare contro la corruzione
del lavoro. Noi vogliamo vivere e non lavorare per morire,
questo rimbombava nelle strade di Taranto, negli slogan di migliaia di ragazzi che aprivano la
manifestazione senza bandiere e simboli di partito.

Diventa quindi paradigmatica questa lotta perché
diviene comune, nella chiave di volta delle contraddizioni che incarna, al
centro della crisi di sistema, dentro il nervo scoperto della follia
distruttrice del capitalismo.

Ci rivedremo molto presto nelle strade di Taranto

e aridatece le cozze fresche!

Nodo redazionale indipendente – alto Jonio

Alcune questioni sullo stato dei movimenti di Toni Negri

da www.uninomade.org

Alcuni compagni americani ed europei mi chiedono: ma perché in Italia non c’è stata Occupy? Perché l’unica espressione della moltitudine in lotta rimane attualmente il movimento della Val di Susa? Con un paradosso evidente: i no TAV, se hanno certamente radicamento forte, se esprimono una tonalità originale di lotta di classe nella post-modernità, non possiedono le caratteristiche dei movimenti Occupy – un’espansività generale della proposta sociale, una potenza destituente delle vecchie gerarchie  della rappresentanza – e soprattutto non possiedono ancora realmente una dinamica allargata di costituzione politica “comune” che apra a radicali rivolgimenti politici…

 

Ora il paradosso è anche un altro. Perché porsi questa domanda proprio quando  la dinamica di Occupy sembra già esaurita? Più generalmente: quando le primavere arabe sono in buona parte terminate sotto il tallone dei militari, nella tragedia della guerra civile o, dulcis in fundo, hanno prodotto regimi islamici che sembrano annunciare restringimenti di libertà e di pratiche politiche appena riscoperte, restaurazioni del vecchio sotto gli orpelli, semmai più tremendi di quelli delle vecchie dittature, del teologico-politico? Quando i movimenti europei sono stati soffocati dalla mefitica atmosfera della crisi economica, e quelli americani sono li lì dall’essere assorbiti dalle macchine politiche che dominano ormai interamente le scadenze elettorali?

 

Ma forse la realtà può essere letta altrimenti. Il movimento Occupy, laddove è insorto, quand’anche fosse stato sconfitto, ha rinnovato l’orizzonte dell’azione politica, sconvolgendo il fondamento dei programmi costituzionali e imponendo una nuova immagine della democrazia, affermando il “comune” al centro – nel cuore, e all’orizzonte – di ogni progetto sociale. Occupy è il movimento che più sembra aver approssimato l’esperienza della Comune di Parigi: ha segnato un passaggio senza reversibilità alcuna; ha, fin dentro la sua sconfitta, spalancato un insieme di possibili che ridefinisce d’ora in poi il mondo che verrà. In questo senso, ha vinto: ha costituito nuova grammatica politica del comune. Da Occupy non si torna in dietro.

 

Torniamo allora al punto. Perché dunque in Italia non c’è stata Occupy? La questione è irrilevante dal punto di vista della tendenza; è invece importante se vogliamo capire localmente l’agenda politica che avremo da gestire nei prossimi mesi – un’agenda i cui effetti immediati, concreti, biopolitici, riscontrabili nella materialità delle esistenze, dei modi di vita, dei sogni e delle disperazioni, non possono – non debbono – essere ignorati.

In Italia, probabilmente, non c’è stata Occupy perché, in buona parte, i movimenti italiani non hanno ancora superato l’orizzonte socialista novecentesco: questa loro continuità, ed il peso della loro tradizione, soffoca il nuovo regime dei desideri, delle aspirazioni, delle sperimentazioni – insomma di quello che abbiamo chiamato le nuove potenze costituenti del comune – che pure le nuove generazioni portano con se quando si aprono al politico. Quella continuità ha fatto dell’Italia un paese in cui la politica dei movimenti, nonostante le repressioni feroci, è sopravvissuta a se stessa e ha permesso la trasmissione di esperienze e saperi delle lotte essenziali; ma allo stesso tempo, ha paradossalmente impedito che nuove sperimentazioni si facessero strada. Il patrimonio delle lotte, cosi prezioso, non può diventare patrimoniale: se cede alla tentazione, diventa a sua volta ciò di cui tanto aveva sofferto in altri tempi: istanza di occultamento, obbligo di silenzio, volontà di cecità.

 

Nella loro lunga storia, i movimenti italiani si sono essenzialmente espressi (successivamente o simultaneamente) in tre “luoghi” della pratica politica: nelle fabbriche, nelle università e nei centri sociali.

Ora, però, nelle fabbriche sono spesso schiacciati da una improvvida alleanza che essi stessi hanno tentato con l’organizzazione socialista del mondo del lavoro. Solo raramente l’ideologia della produttività è stata assunta nelle fabbriche come il nemico da combattere; quando lo è stata, ce ne siamo scordati. La trasformazione del lavoro a cavallo fra XX e XXI secolo non è stata riflettuta per quello che effettivamente è (e che i movimenti, precisamente, trent’anni fa, hanno contribuito a rendere evidente): una trasformazione radicale – dall’operaio massa all’operaio sociale; dal lavoro materiale al lavoro “immateriale”, linguistico, cooperativo, affettivo; fino all’egemonia del lavoratore cognitivo. Sindacati socialisti e sindacatini fabbrichisti hanno troppo spesso continuato a considerare il lavoro “bene comune”, cioè niente di più – e niente di meno – che la “giusta misura” dello sfruttamento capitalista.

 

Nelle scuole e nelle università, poi, l’autonomia dei movimenti, anche quando ha contestato il “merito” – e troppo poche volte lo ha fatto in maniera realmente efficace e schietta  –  non è quasi mai riuscita a incarnare, materializzare e organizzare una vera domanda di libertà dei saperi. Raramente ha provato a costruire lotte attorno allo studio, alla formazione, alla qualificazione in quanto programmi di costruzione politica del comune. E spesso si è arenata nella strenua difesa di un “pubblico” ormai incapace di proteggere le scuole e l’università contro il loro smantellamento, e diventato strumento principe della messa al lavoro della produzione sociale. Il riformismo non è mai cosa bella – in alcuni casi, facendosi coraggio, lo si capisce quando, disperatamente, cerca di salvare il salvabile; ma lo si odia quando si fa complice delle politiche del peggio: assoggettamento, declassamento, disciplinarizzazione, sfruttamento, disprezzo – il tutto per salvare uno Stato che sembra poco preoccupato di salvare i suoi “cittadini”.

 

Quanto al modello dei centri sociali, che è stato fondamentale – in particolare nella fase post-repressione che ha caratterizzato il difficile guado dala fine degli anni ’70 ai primi anni dei ’90, ha troppo spesso perso ogni prospettiva politica che non fosse subordinata all’interesse della propria riproduzione, della propria sopravvivenza. I centri sociali sono stati, per la maggiore, luoghi, strumenti, prodotti di una stagione di lotte continuata con altri mezzi nonostante la sconfitta degli anni ’70; ma sono diventati, in tanti casi, il fine di se stessi – l’unico orizzonte di una realtà ormai ridotta al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo. Molti si sono dunque piegati alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica. Hanno smarrito ogni capacità di azione e non a caso stanno spesso, negli ultimi anni, ripiegando su linee istituzionali a livello locale e/o nazionale. Certo, localmente, l’analisi può sembrare ingiusta. In molti casi, lo è. Ma la domanda va posta lo stesso: siamo sicuri che il modello “slow food” sia davvero adeguato alle scommesse e alle sfide davanti alle quali la crisi ci mette? O che l’imprenditorialità “buona” basti a dimenticare il gioco al massacro che si sta svolgendo subito fuori dalle mura, nelle nostre vite?

 

Insomma: tre luoghi “storici” dell’autonomia sociale, che hanno reso possibile la resistenza e l’organizzazione, la sperimentazione di pratiche, l’invenzione di altri modi d’azione; ma tre luoghi che, proprio perché “storici”, sembrano oggi sempre più inadeguati. Tre luoghi che troppo frequentemente sembrano pezzi di modernariato della nostra memoria, ricchezze patrimoniali un po’ imbalsamate: foglie di fico ben leggere davanti all’incedere della realtà. Tre luoghi che sono diventati tre “beni comuni” come sempre lo sono stati nelle parrocchie, il lavoro, lo studio e il patronato – laddove bene comune significa solo bene vicino, locale, bene di condivisione, bene da condividere in famiglia. Il comune, se non è il prodotto di una dinamica costituente, si riduce a ciò: una serie di commons sicuri di suscitare consenso popolare – come non essere d’accordo con la difesa della natura, il buon vivere, la genuinità, il buon gusto -, e spesso immediatamente travisati da discorsi di elogio dell’Ancien Régime: quanto si stava bene prima – prima dell’Europa, prima delle macchine, prima della tecnica, prima della modernità, prima della globalizzazione, prima dell’operaio sociale, prima del consumo di massa. Evviva: torniamo a Peppone e don Camillo, alla dignità del lavoro operaio, all’Italia che vive di poco e lavora tanto, alle balere. Per carità, lasciamo alla Chiesa e alla Lega, o a quel che rimane del vecchio PCI che non finisce di sopravvivere alla propria morte, quella assurda e mortifera nostalgia.

 

Non contenti di questo, molti movimenti sociali si sono infilati in una strada contorta e buia, accettando i ricatti loro posti sulla questione della “violenza”, sulla valutazione della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni, sono stati colpiti di accecamento davanti alla corruzione che le infestava. Che ci volesse l’ultima sentenza su Genova per capire da quale parte stava la violenza? E quale giochetto infame avevano fatto e continuavano a fare tutti coloro che, di fronte ad un movimento in crescita (che andava di pari passo con crescita del disagio, della disperazione e della rabbia di tutti quelli che oggi, letteralmente, non ce la fanno più) ricattavano ad ogni motto “riottoso” – “violenza si, violenza no”?

Molti, nei centri sociali, hanno cercato alleanze politiche dentro un quadro parlamentare che andava disfacendosi ed hanno stretto alleanze sindacali che hanno avuto l’effetto opposto a quello che era realmente desiderato: hanno spinto i sindacati ancor più verso posizioni corporative, negando ogni tematica di reddito sociale o di alleanza con altri strati precari. In certi casi, hanno perfino considerato le rivolte arabe, i riots inglesi, e alcune forme di auto-organizzazione come passaggi negativi, come regressioni politiche, come pure “spontaneità” infra- o impolitiche.  Siamo sicuri che provare a capire prima di giudicare non ne valeva la pena? O si era talmente ossessionati dalla propria sopravvivenza che tutto il resto diventava secondario?

Fino agli ultimi  capovolgimenti in data: sentiamo tanti, oggi, piagnucolare sul fatto di non aver ragionato abbastanza sul ricatto “a proposito di violenza” che hanno subito; si lamentano del fatto  che la loro presunta internità alle dinamiche sociali non è riuscita a trasformarsi in una estraneità attenta e critica agli sgambetti ed alle inerzie continuamente subite – sicché ora si chiedono se doversi richiamare niente di meno che all’“illegalità di massa”…. Ci sembra solo un lamento, come l’altro che abbiamo inteso in questi mesi, e che ci lascia – anche questo – a non dir poco esterrefatti: Dio è violent!

 

Per chi ha vissuto tutto questo dall’interno dei movimenti, questa fase assomiglia molto a quella che seguì il disfacimento dei gruppi sessantotteschi nei primi anni ’70. Come per i centri sociali provenienti dal movimento no global, anche allora, nel 1973-74, i partitini sopravvivevano a se stessi. Alcuni, presentatisi alle elezioni, erano stati spazzati via, altri si erano barricati attorno a giornali ed iniziative sparse. Il mondo, quello delle lotte operaie e delle lotte sociali, andava ormai avanti senza di loro. Fu così che, a partire dal ‘73-‘74 l’autonomia emerse e mostrò improvvisamente la sua enorme forza di resistenza e di proposta (di resistenza: vale a dire di proposta) – almeno fino al ’77. Poi, ancora, sopravvisse come etica e come modello organizzativo alla sconfitta dei movimenti, e torniamo all’inizio della nostra analisi.

 

Oggi si tratta di rinnovare quel modello. I suo limiti di allora – troppa spontaneità dei singoli, troppa violenza di massa – sembrano già superati dalle attuali caratteristiche della composizione dei nuovi movimenti – spazialmente diffusi, culturalmente convergenti (non a caso è sul terreno dei lavoratori della cultura che in Italia c’è stato, da ultimo, qualche positivo fracasso), politicamente rivolti alla costituzione del “comune”. Questo è quello che vogliamo chiamare Occupy.

 

C’è bisogno di un nuovo protagonismo. Proponendo l’autonomia diffusa dei movimenti, sappiamo che la ricerca di nuovi obiettivi e la sperimentazione unitaria di nuove lotte sono il primo passaggio da realizzare. Lo “sciopero dei precari”, il “reddito di cittadinanza”, la riapertura urgente di forti lotte operaie sul salario, la pratica di risposte efficaci all’offensiva del capitalismo finanziario sul debito, la difesa sociale del Welfare ecc.: questi i passaggi principali sui quali la conricerca e la proposta di lotte unitarie debbono provarsi. Organizzare i poveri e gli operai insieme, non semplicemente per il salario ma per il Welfare; organizzare gli studenti e gli indebitati di tutte le categorie, non semplicemente per misure di sostegno ma per il reddito universale di cittadinanza; organizzare i migranti insieme ai pensionati perché non è solo la cittadinanza che interessa i primi  e la garanzia di diritti ormai maturati i secondi, ma l’organizzazione biopolitica dell’esistenza tutt’intera.

 

L’autonomia dei movimenti deve riportare le sue lotte verso un obiettivo politico di composizione. Ed esso non può consistere se non nell’espressione di un potere costituente che rinnovi radicalmente l’organizzazione della vita nel lavoro e nella società.

 

Toni Negri

 

19 luglio 2012

 

 

NO IMU – NO BANCHE

Oggi sono scesi in piazza i movimenti di lotta x la casa di Roma, bloccando ripetutamente la strada, in prima fila il Coordinamento cittadino di lotta x la casa e la cooperativa inventare l’abitare, prima soluzione nella città di Roma per l’innovativo progetto di autorecupero, i cui cantieri sono fermi tra rimpalli continui tra l’amministrazione comunale e la Bcc, banca coinvolta dai mutui concordati nel progetto di autorecupero strappato con anni di lotte. E’ stato ottenuto un primo incontro nel quale i movimenti hanno esposto le loro ragioni, per lo sblocco immediato dei progetti di autorecupero, contro l’emergenza abitativa ma anche contro l’IMU per il blocco degli sfratti e per un piano nazionale di edilizia residenziale pubblica. In corteo poi i movimenti si uniti al presidio dell’inquilinato e ad altri movimenti per l’abitare.

Questo il volantino distribuito oggi:

Lunedì 18 Giugno dalle ore 12
Protestiamo davanti alla sede dell’ABI in piazza del Gesù 49

Ancora una volta, come movimenti per il diritto all’abitare e realtà autorganizzate della città, abbiamo deciso di scendere in piazza e di dare vita ad una nuova giornata di mobilitazione. Abbiamo scelto il giorno 18 giugno non a caso: dopo le già innumerevoli stangate fino al’aumento del biglietto ATAC ad 1 euro e 50, in questa giornata milioni di persone che hanno acquistato una casa in assenza di qualsiasi alternativa, saranno costretti a pagare con l’IMU, l’ennesimo balzello imposto da una crisi dei mercati finanziari che si sta scaricando interamente sulle spalle di lavoratori e pensionati, producendo una valanga di precarietà e disoccupazione. 
Dal pagamento dell’IMU saranno esentati ancora una volta i poteri forti, le Fondazioni (in testa quelle bancarie), il patrimonio invenduto dei palazzinari (per tre anni) che continuano a speculare su un bisogno primario come quello della casa e a devastare il territorio, il Vaticano (proprietario del 30 per cento del patrimonio immobiliare in Italia) che nonostante i “solenni” impegni pubblici continua a non pagare un Euro.
Il governo Monti che ha sostituito il cialtronesco governo Berlusconi, ha tentato di illudere, dietro una facciata di efficientismo, gli italiani. Il risultato è la totale svendita del patrimonio pubblico, l’aumento delle tasse e delle tariffe, della disoccupazione soprattutto giovanile, del ricorso agli ammortizzatori sociali (finchè verranno contemplati e comunque insufficienti), la caduta della produzione, la creazione di un nuovo soggetto emarginato (gli oltre 300 mila esodati)… e già stanno preparando nuovi provvedimenti che colpiranno una realtà sociale ormai stremata da anni di sacrifici che presto si troverà, probabilmente, di nuovo a pagare per “salvare” le banche.
In questa giornata vogliamo ribadire la necessità di costruire un fronte comune che si opponga allo stato di cose presenti, affinchè il nostro grido di protesta sommerga chi ci vorrebbe schiavi obbedienti agli ordini dei poteri forti e della grande finanza. Vogliamo farlo a partire dalla nostra città, da una Roma già messa in ginocchio dai privilegi e dall’incompetenza, dai tagli e dalle privatizzazioni, dagli aumenti delle tariffe e dalle cementificazioni di Alemanno e della sua banda. 
 
NOI NON CI STIAMO
 
Lunedì 18 Giugno torniamo, quindi a prendere parola nella città contro l’aumento del biglietto del Trasporto Pubblico Locale e le logiche privatistiche e di privatizzazione che stanno mettendo in ginocchio questo servizio pubblico essenziale. Produrremo iniziative diffuse nei nostri quartieri. Metteremo in campo di fronte alla sede dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), una iniziativa di protesta contro lo strapotere delle banche e della finanza sulle nostre vite. All’ABI siamo stati circa due mesi fa per rivendicare che venissero sbloccati i progetti di autorecupero abitativo fermi oramai da troppo tempo.  Nonostante le tante promesse sia dei funzionari dell’ABI che del gabinetto del sindaco di Roma nulla è accaduto. Evidentemente si vuole fermare perché fa paura, un percorso che porta che porta centinaia di persone e nuclei familiari a presidiare stabili abbandonati, a sottrarli alla vendita e a recuperarli producendo alloggi sociali a 200 o 300 euro al mese e spazi pubblici a disposizione dei nostri quartieri. Ma noi non molliamo..stiamo per tornare!
 
Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa
Cooperativa “Inventare l’Abitare”
Comitato Romano per le Autoriduzioni

Un’operazione di polizia ai tempi del burlesque

sexy&cool riot/art from London

Rivedendo le immagini usate dai media come feticcio della rabbia precaria che loro definiscono senza alcun segno politico, come violenza gratuita da sventolare e mostrare come giustificazione del linciaggio mediatico nei confronti di quei giovani e meno giovani che sono stati i protagonisti degli scontri di piazza san Giovanni o delle azioni più o meno efficaci della manifestazione del 15 Ottobre –  al netto della disinformazione di regime ci chiediamo retoricamente ma a ragione quale diritto di informazione possiamo ancora sperare in questa democrazia blindata dai mercati, piegata dal neoliberismo, umiliata dall’abuso di potere recidivo e dalla corruzione diffusa in una continua coazione a ripetere?

Una volta ancora ci dobbiamo chiedere cosa si aspettavano governanti, politici, controllori, editorialisti, ma anche quel popolo di sinistra “indignato” da anni assopito dal berlusconismo o ancor peggio da un certo antiberlusconiano atteggiamento, cosa si aspettavano e cosa credevano? che quelli che vivono in emergenza abitativa e precariamente tra una vertenza e l’altra o tra un contratto intermittente e l’altro, coloro che studiano e lavorano o studiano e lavorano nel “quarto settore dell’economia”, coloro che riempiono i numeri e le statistiche della disoccupazione giovanile – che poi fanno indignare tutti quanti nel crogiuolo del bel paese cattolico dove la condanna delle ingiustizie ha il sapore del senso di colpa universale – sarebbero stati zitti e sorridenti fino alla morte?

O magari pensano che coloro che vivono nella zona grigia dei milioni di inattivi siano veramente inattivi e non già schiavizzati nella voragine del lavoro nero, dove cari governanti, politici ed opinionisti veniteci voi a vedere come si vive con la testa dentro il cesso. Orbene questi sfruttati e disperati, precari e precarizzati un tempo garantiti, vanno compatiti e sono anime buone quando si lamentano della propria condizione e magari lo fanno li in cima ad una torre o sul tetto di un palazzo, salvo poi fottersene alla prima minaccia di spread, quando invece si organizzano per manifestare la propria degna rabbia e delle volte lo fanno in forma non propriamente dialettica e decidono di rappresentare magari quell’inferno che vivono tutti i giorni nella propria solitudine per una volta tanto collettivamente e in pubblica piazza, diventano i mostri neri, il nuovo pericolo pubblico, i marziani del teppismo urbano, i cavalieri del nuovo terrorismo, forse i veri eredi di Mefistofele chissà “hai visto, hanno distrutto e ucciso la madonna!” E magari mangiano pure i bambini. Forse allora i benpensanti vogliono dire che è meglio continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassa-integrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore? Strano il suicidio dovrebbe essere anch’esso contro la morale cattolica, eppure scandalizzano evidentemente più due banche rotte che i suicidi continui per colpa delle stesse banche.

Forse semplicemente la realtà del 15Ottobre è andata ben oltre la finzione o la testimonianza. Per una volta il programma è cambiato. Ed è stato un accumulo di forze, di coincidenze e di processi sociali incodificabili per voi, cari padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavate governare. E questo vale anche per chi nei movimenti pensava di portare l’avanzo riscaldato del banchetto dei politicanti come premio ai più allineati alla governance, quella buona eh! quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune, ecco tutti a braccetto con la minestra riscaldata per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato per tutti, pure per loro.

E  dopo aver già accumulato qualche prima condanna nei mesi immediatamente successivi a questa giornata del 15 Ottobre 2011 – considerata ormai all’indice degli annali neri della Repubblica, sempre quella Repubblica delle banane, delle stragi di Stato senza colpevoli, quella della Diaz e di Bolzaneto, sempre la Repubblica della P2, P3 e P4, insomma quella della mafia, e della mafia dell’antimafia – arriva la chiusura delle indagini, con un baccanale di Antiterrorismo, Digos e Ros – ma non litigavano tra di loro una volta? –

Nel buio dei tempi abbiamo, un piccolo lumicino che una volta tanto, succede, regola i conti all’interno degli apparati, governa la overbalance statuale e decide per un’altra opzione. Nel mandato il GIP respinge l’impianto dell’accusa, ridimensionando le misure cautelari e assumendo a tratti quasi il tono se non assolutorio quanto meno tendente ad attenuare gran parte delle accuse. In Italia tralaltro l’habeas corpus pare che ancora non l’abbiano del tutto abolito.

Addirittura per Acrobax c’è un sostanziale riconoscimento del lavoro politico svolto “al fianco dei poveri, per i diritti della classi meno abbienti a difesa dei più umili”, giusto, tutto vero, siamo quasi lusingati. Nella boria di questi tempi dove per mesi tra “la palestra del terrorismo” e l’isola ribelle della sovversione, tra il capo della Polizia e l’ex ministro degli Interni si sono moltiplicate e sprecate le definizioni del brand della paura appiccicato a noi come ai compagni della Val di Susa. Oggi abbiamo finalmente trovato una cosa veritiera tra tante menzogne e provocazioni.

Si, è vero, ci battiamo per i più poveri, siamo da sempre a fianco dei meno abbienti, dei più umili e un domani noi crediamo, saremo al fianco dei ribelli contro il neoliberismo che saranno meno poveri e più liberi, finalmente affrancati dalla vostra pietas, ipocrita e codarda. Si è vero ci battiamo da dieci anni contro la precarizzazione della vita e del lavoro, contro la precarietà che è sempre più un dispositivo complesso di comando, controllo e  disciplinamento dei nostri corpi, delle nostre vite, esistenze, passioni e desideri. Si è vero, contro la “corruzione” della precarietà, scegliamo la strada della lotta per la libertà.

Una precisazione, Acrobax non è un laboratorio né anarchico, né comunista, né libertario, forse è un pò di tutto questo, ma sicuramente e risolutamente è una piccola, ma insorgente, Repubblica Indipendente

Il passato conoscilo, il presente vivilo, il futuro (senza la lotta) dimenticalo!

Nodo redazionale indipendente

Video | Invito alla discussione, per la libertà di movimento!

Foto della Comune di Parigi 1871

Con alcune fondate ragioni riteniamo che il convegno sulla Libertà di movimento tenutosi il 7 Marzo scorso all’università Roma3 sia andato bene, oltre le aspettative e diciamo subito il perché. A volte parlare di repressione significa parlare delle sfighe, di quanto ci si sente attaccati, controllati ed intimiditi. Molto spesso la si mette su un piano della denuncia o delle volte della commiserazione collettiva. Bene, l’incontro sulla Libertà di movimento ha decisamente preso un’altra strada.

Guarda i video degli interventi del convegno

Con una certa gioia e necessaria porzione di umiltà abbiamo affermato alcune semplici questioni: prima di tutto e ne siamo orgogliosi, con desiderio e determinazione abbiamo rivendicato il nostro elementare compito, riportare le forme del conflitto sociale su di un piano pubblico mettendone in luce non la sola legittimità quanto la più ampia e utile dinamica costituente propria di quell’eccedenza sociale, di quella partecipazione popolare, che si dispone contemporaneamente come dispositivo di rottura ed elemento costituente, per la libertà di movimento e per la stessa indipendenza politica delle lotte. Crediamo fermamente che il conflitto sociale sia il motore della costituzione materiale, vero unico prerequisito reale per lo sviluppo costituzionale – che in alternativa diverrebbe semplice feticcio esterno alla realtà stessa, come spesso la politica e le istituzioni strumentalmente la intendono e lì nel feticcio costituzionale poi si concepiscono e si riproducono. Non ci sentiremo mai dei perseguitati perché abbiamo deciso e autodeterminato un percorso che ci vede in conflitto con loro, scelta lucida e politica che noi per primi dispieghiamo e rivendichiamo alla luce del sole, contro la precarizzazione e i precarizzatori, contro le lobby e le mafie, anche quelle targate antimafia.

 

Fondamentalmente l’assunto di fondo che ha promosso e sviluppato le tracce del ragionamento è partito dalla consistente convinzione materiale che noi siamo risolutamente in conflitto con loro, conflitto per e con il diritto di resistenza. Per resistere alla prepotenza dello Stato, alla boria delle truppe di occupazione nelle montagne della Val Susa lo scorso 3 luglio, così come alle cariche della polizia della recente Piazza San Giovanni di Roma del 15 Ottobre, prendendo poi queste giornate solo come ultimi due esempi del recente conflitto sociale, esempi che vedono peraltro nel loro epilogo giudiziario ancora vergognosamente carcerati alcuni compagni e alle misure cautelari altre ed altri, di cui il convegno ovviamente ha chiesto, già dalla sua introduzione, la loro immediata ed incondizionata liberazione.

 

E nel corso di queste settimane rileviamo una prima importante sentenza che rappresenta un esito non scontato dell’epilogo giudiziario di uno dei processi ai movimenti, sul tema del caro vita, quando il 6 Novembre del 2004 vennero prima indagati 105 attivisti poi rinviati a giudizio in 39, poi giunti a sentenza in 15, con l’accusa di concorso in rapina pluriaggravata, differenziando per alcuni anche il ruolo di organizzatori, come se il mondo fosse volontà e rappresentazione delle loro gerarchie e dispositivi di potere. Bene, dopo 8 anni di maxiprocesso il giudice ha stabilito non solo l’assoluzione per tutti e tutte ma anche perimetrato uno spazio giuridico ancora più importante, il fatto non sussiste, non è stata una rapina. E a questo punto, lo diciamo noi, è stata solo una minacciosa montatura, per la quale peraltro sono state già scontate settimane e mesi tra misure cautelari di arresti domiciliari e obblighi di firma – applicati per di più a distanza di mesi dal fatto contestato. Una minaccia a mezzo giudiziario che ha limitato molto l’iniziativa delle lotte, interdetto per alcuni anni lo spazio politico delle legittime pratiche di riappropriazione, inibendo e reprimendo per via preventiva, eventuali e possibili nuove iniziative.

 

E ora non bastano i commiati e i pietismi anche di coloro che dentro e oltre i movimenti si dolgono il petto, dopo aver fino a poco tempo fa intessuto relazioni con il Partito cosi detto Democratico che, mentre con una mano offre scorciatoie politicamente opportunistiche, con l’altra bastona e chiude i cancelli lasciando dietro le sbarre i nostri compagni e le nostre compagne Notav, con la pretesa cortese del mandante, Presidente Napolitano e dell’esecutore e repressore, Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli.

E allora servono le alleanza ma serve chiarezza e intelligenza politica, serve cuore e passione, ma è fondamentale il cervello, collettivo e sovversivo, per l’utopia concreta, per affermare il comune tra di noi, di ciò che in comune coltiviamo per noi, per la libertà nell’indipendenza.

A presto nelle strade per rovesciare il potere.

 

Nodo redazionale Indipendente

 

Giustizialismo e satrapia sono i due volti del comando, solo l’Indipendenza paga!

E’ in corso nel cuore dell’Europa fino alle sponde del Mediterraneo un nuovo processo costituente, che si dispone dal basso come nuda vita, contro la governance neoliberista, nel pieno di una guerra civile asimmetrica, dove le genti in lotta si confrontano contro i carri armati, dall’Egitto alla Grecia, dalla Tunisia all’Inghilterra. Siamo nella transizione di un paradigma, dalla guerra convenzionale tra Stati, alle odierne e asimmetriche guerre civili non convenzionali. Gli eserciti (del neoliberismo) contro i nuovi poveri
(del neoliberismo).

Nella crisi della misura del valore, nella crisi complessiva del processo di valorizzazione, si rompe anche il piano-sequenza
della politica come mediazione. La crisi della rappresentanza relega la governance al ruolo di una nuova poliziewisenschaft, in un progressivo distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione. In Italia il parlamento vive da anni prevalentemente in funzione delle sue strategie mirate alla cooptazione e al controllo sociale.
Nel mentre affina le sue mappe per dare corpo all’accelerazione di un processo neo autoritario le cui origini in Italia sono note a tutti.

Però la particolarità del momento che sta attraversando il nostro bel paese, caso politico unico nel laboratorio della crisi e della decadenza globale, vive un passaggio delicato che si apre su un vero campo di forze, su una tensione polare che de facto produce uno scenario di guerra civile, politica e culturale. Lo abbiamo già letto e scritto nel dibattito di questa rivista. Si chiude una fase politica insieme all’apertura ad un nuovo ciclo economico, che ora s’incardina nella grande crisi, in quel
precipuo processo di transizione, dalla centralità dell’industria all’economia della conoscenza. Ma ovviamente l’unicità non sta in sé nella fine di una stagione politica che potremmo definire, berlusconiana. Anzi, per chiudere
questa fase si sta disponendo una preoccupante filosofia dell’emergenza autoritaria, della critica allo stato di eccezione rovesciata di segno e si fa sempre più strada l’ipotesi del paradosso dei paradossi, che sarebbe quello del ripristino dell’equilibrio istituzionale attraverso fondamentalmente un golpe eversivo. Interno ed esterno agli apparati dello Stato. Non è l’idea del defunto ministro K, ma quella di autorevoli esponenti dell’intellighenzia italiana. Il vuoto supposto della forza sociale di un processo costituente
viene riempito con la richiesta dell’ordine per il ripristino dell’ordine, formalmente democratico. I “grandi progetti” di far fuori il Cavaliere con i riti propiziatori di palazzo o con i dispositivi giudiziari a tratti alterni a
quelli morali, sono andati ben oltre le ipotesi più fantasiose che potevamo immaginare. In definitiva per la terza volta la Repubblica Italiana fa ricorso, per supplire alla mediocrità della politica, alla via giudiziaria. Prima, con
lo stato di emergenza e le leggi speciali evocate ed applicate per annichilire la spinta rivoluzionaria nel decennio caldo che è seguito in Italia al maggio francese, poi per disarcionare una classe politica corrotta nello scandalo tangentopoli, ora per reprimere l’asse di potere del Cavaliere divenuto un imbarazzante Nerone che con la sua lira sta lì a cantare le storielle mentre
ormai Roma brucia da anni, dopo averlo peraltro tutelato e protetto per anni nel suo conflitto di interessi. In ogni caso, per scelta, l’opposizione preferisce portare l’acqua con le orecchie agli apparati piuttosto che organizzare non dico la rivolta ma almeno un’opposizione sociale credibile. Quindi si apre un’enorme prateria che nemmeno il sindacato più grande d’Europa pensa di poter
condurre al cambiamento politico. In Italia e nella UE la crisi economica è soprattutto politica e culturale, e non riguarda l’intero sistema globale, riguarda invece precisamente il blocco occidentale e il patto atlantico che lega dalla fine della seconda guerra mondiale, gli interessi degli USA a quelli della Comunità europea (e sì, perché vista da una certa angolatura del pianeta, il sistema capitalistico non è in crisi ovunque. In Cina o in Brasile la cosi detta crescita è infatti a due cifre). Non è la fine del mondo, ma di una parte
del mondo in cui l’Italia è integrata. Le guerre civili e le catastrofi ambientali divengono però le somme del neoliberismo, quello sì globale. Le immagini delle rivolte assumono un contorno sfumato nei confini delle geografie politiche, culturali, finanche antropologiche della nuova modernità. Il vento del sud è un vento di libertà, certo, contro la tirannide della classe politica
corrotta e venduta al mercato. Ma le differenze dei diversi orizzonti dei conflitti oggi non ci permettono riduzioni semplicistiche e banali. Dalle rivolte nel cuore dell’Europa e del mediterraneo si aprono sicuramente nuove prospettive. Ma le rivolte al centro del sistema di accumulazione finanziaria come quelle di Londra, Roma, Parigi, Atene, segnalano la novità nel cuore dell’innovazione e del decantato benessere (Do you remember welfare state?).

L’irrompere di un nuovo protagonismo sociale dei movimenti contro l’austerity, contro il piano capitalista dell’exit strategy dalla crisi, ovvero da quella stessa crisi che il piano capitalista ha provocato, è il nodo politico centrale che spaventa i potenti e che comincia a far paura. E lì nel punto più avanzato della contraddizione, nei suoi perimetri formali, che si accumula forza per il cambiamento dopo due decenni di egemonia del pensiero neoliberista. Ormai in massa territori si ribellano contro le grandi opere del comitato di affari delle speculazioni finanziarie e delle devastazioni ambientali. Da una punta all’altra della penisola riemerge con più forza ancora,
l’oscenità del conflitto sociale, fino a quella piazza del popolo e al fascino della sua lotta. E’ necessario quindi organizzarci. Immaginare una rivolta costituente nel nostro paese. Cominciare a dare seguito e spazio costruttivo alla rabbia della generazione precaria, bloccare ad oltranza questo paese, dare spazio ad uno sciopero, sociale, civile, ad uno sciopero precario! E insieme costruire la
piattaforma del possibile e non quella del presente, del desiderio e non quella della legge. Riprendiamoci la parola Libertà e lasciamo ad altri le regole.
Dobbiamo reinventare l’intelaiatura e lo schema delle così dette istituzioni, dobbiamo rifondarle. Abbiamo bisogno delle istituzioni del comune, per la nuova “regolazione” dal basso che parta dall’attacco ai profitti per generare e
riconoscere quella ricchezza socialmente prodotta dalla moltitudine precaria, permanentemente al lavoro, tra produzione formale ed informale, materiale ed immateriale, senza reddito adeguato e diritti riconosciuti.

Dobbiamo insorgere per un diritto comune, una nuova “magna charta” a partire dalla forma
materiale della costituzione, per la sovranità e l’autogoverno, oltre il nuovo
welfare, possiamo e dobbiamo necessariamente costruire e cooperare per un nuovo
modello di società!

In gioco c’è qualcosa in più di una riforma.

Dobbiamo riscrivere la nostra costituzione, cioè ridare forma alla forma, per diffondere e sostenere l’utopia necessaria.

Rafael Di Maio

*articolo uscito per Loop n° 13 Aprile/Maggio 2011

 

 

 

La riappropriazione non è reato. Reddito e diritti per tutti!

ll 6 novembre 2004 dopo mesi di mobilitazioni e riunioni in tutta Italia veniva organizzata a Roma una grande manifestazione per la richiesta di un reddito garantito per tutti e tutte.

Gli stessi movimenti che organizzarono quella manifestazione realizzarono anche delle azioni simboliche sul carovita e sull’accesso a beni e servizi per una vera redistribuzione della ricchezza. L’iniziativa effetuata al supermercato Panorama nella zona di Pietralata fu trasformata immediatamente dall’allora Governo Berlusconi, dal Ministero dell’Interno, dal centro-sinistra e dai media in nuovo episodio di “esproprio proletario”, per l’ennesima volta veniva riesumata la cartina di tornasole degli anni ’70 e il terrorismo e la risposta a quella giornata fu un’ accusa di concorso in rapina pluriaggravata per 105 persone.

Mercoledì 28 Marzo 2012, una sentenza del Tribunale di Roma assolve tutti gli imputati di quel processo perchè il fatto non sussiste. Non esiste la rapina perchè quell’azione era una dichiarazione della crisi che sarebbe venuta, dell’aumento della povertà della società italiana e della progressiva sottrazione di diritti e garanzie. Era un’azione politica per affermarel’impoverimento di tutti noi, precari, disoccupati, migranti, cittadini e cittadine, lavoratori a tempo indeterminato, donne e uomini di questo paese. Non certo un’iniziativa di una banda di criminali.

Allora entavamo in quel supermercato parlando di shopsurfing, del nostro paniere precario e della necessità di avere nuovi diritti di cittadinanza, nuove garanzie sociali. Oggi, purtroppo, la precarietà è generalizzata grazie ai governi di centrodestra e centro sinistra, ha travalicato  i muri dei posti di lavoro – anche quelli cosiddetti garantiti – e ha travolto le vite di milioni diitaliani di tutte le età, diventando un vero e proprio sistema di controllo disciplinare.

La crisi sta trascinando via gli ultimi residui di diritti e la nuova riforma del mercato del lavoro è un lampante esempio di come la stessa ricetta venga riproposta con ancora più vigore. Ma quest’assoluzione dimostra, di fronte alla fine di ogni mediazione sociale, l’unica capacità rimasta ai poteri forti: quella di reagire con criminalizzazione e ordine pubblico cercando di isolare e additare i movimenti sociali,  i precari che i organizzano o chi si batte per la difesa deibeni comuni come portatori di violenza e sopraffazione.
La verità è che in Italia come nel resto dell’Europa che conosciamo da troppi anni c’è un’indicazione conservatrice e fortemente ideologica che propaganda la soluzione del mercato come unica possibile soluzione e via d’uscita, che sacrifica la vita di tutti/e noi per l’esclusiva produzione di profitti.

Oggi diciamo che è ora di trasformare questo paese rimettendo al centro le pratiche di conflitto contro le politiche di austerity. Le lotte contro i processi di precarizzazione si caratterizzano ancora una volta come lotte per la libertà. Per questo non ci fermeremo ma anzi rilanciamo nuove mobilitazioni contro il caro-vita, le politiche di austerity e la riforma del mercato del lavoro. La chiusura di questo processo afferma il carattere persecutorio nei confronti delle opposizioni sociali, così come sta avvenendo attualmente nei confronti del movimento no-tav, che vede rinchiusi nelle carceri i compagni e le compagne a cui vengono applicate restrizioni da carcere speciale come il 41 bis. A loro va il nostro pensiero e la richiesta immediata ed incondizionata della loro liberazione.

Oggi splende anche il sorriso di Antonio, nostro fratello imputato di quel processo e morto nel mentre per la precarietà del lavoro, che afferma beffardamente: “il Re è nudo”.

Laboratorio Acrobax