Barcellona, 29M 2012: cronostoria della huelga general

La nostra narrazione dello sciopero sociale, precario, metropolitano!

 

Piu di 250000 secondo i media mean stream, 50000 secondo il corpo di polizia della guardia urbana. 82% di partecipazione allo sciopero secondo i sindacati, 22% secondo il governo. Come sempre, tutto dipende dal punto di vista.

Barcellona, 29M 2012, ore 00.00. Iniziano i picchetti organizzati dalla grande efficacia organizzativa e territoriale delle Assambleas de barrios. A mezzanotte e un minuto inizano a rimbombare per Barcellona suoni dei petardi accompagnati dal coro vaga, vaga, vaga general!

In pieno centro,  ci si ferma davanti a tutti i pub e ristoranti ancora aperti facendo presente che é l’ora di chiudere e di andare a casa a riposare perché domani sarà una grande giornata di lotta. Fra sorrisi delle cameriere e dei camerieri e facce imbronciate dei proprietari,  i pochi turisti presenti al coro di “turista terrorista”, vengono simpaticamente invitati a continuare a bere i loro fantastici cocktails colorati per strada. Ore 00.30, qualcheduno fa il furbetto.  Serranda chiusa, ma da fuori si sente musica pop a tutto volume. Si alza la serranda e…et voilà il locale continua a essere gremito di gente. Alla faccia attonita de los fiesteros gli si risponde con petardi dentro il locale e fialette fetide molto puzzolenti. Ed ecco che un fuggi fuggi generale attraversa la centrica Via Laietana. Pochi metri più su si intravede un bingo aperto. Bene, bene dice qualcuno. In questo caso, però, i gorilla alla porta fanno subito capire che non è aria. Si entra, altri petardi e altre fialette. Si prova a chiudere la serranda, rompendola. La notizia nella prima pagina della “La Vanguardia” della mattina seguente asserisce che un gruppo di antisistema ha assaltato il Bingo di Via Laietana rubando 2000 euro dalla casa. Magari fosse stato così…..

La passeggiata notturna si chiude in un locale/discoteca dove si sta celebrando una festa dal nome Ven a celebrar la huelga! (Vieni a festeggiare lo sciopero!!). Anche in questo caso però si capisce che non è possibile infliggere più di tanto. Tra una risata di nervosismo e l’altra e le camionette che iniziano a monitorare l’accaduto, si decide tornare a casa….seguirem demà! (continueremo domani!).

Barcellona, 29M 2012, ore 8.00. La declinazione dello sciopero generale a sciopero sociale si intravede già  nelle prime ore della mattina. Dai blocchi stradali alle entrate della città da parte di studenti  universitari, precari e soggettività varie in cerca di quel protagonismo tanto voluto e desiderato in una giornata come questa, si alzano elevate colonne di fumo. Lo stesso accade davanti le fabbriche del Poligono Industriale. Determinati  ed incisivi picchetti dei lavoratori riescono a chiudere completamente le fabbriche della SEAT, Ford e Coca-cola. In tutto il territorio nazionale lo sciopero del settore industriale ha  raggiunto circa il 90%, il quale, a sua volta, ha causato una diminuzione di richieste di energia elettrica del 20%.

Barcellona, 29M 2012, ore 10.00. La storia si ripete. Dai diversi quartieri, partono picchetti per arrivare al grande picchetto unitario (non convocato dai sindacati) nel barrio de Gracia delle ore 13.00. Dalla emblematica e storica Plaza Forat de la Vergonya  si parte in 20. Camminando per il centro il numero aumenta. I pochi piccoli negozi aperti si apprestano frettolosamente ad abbassare la serrande non appena intravedono la massa avanzare.

Questa mattina, però,  l’attacco è verso le grandi superfici. Stiamo vivendo uno sciopero che và oltre le vertenzialità lavorative. Uno sciopero sociale e metropolitano che trova la sua espressione anche in una Huelga de consumo, no compres, no vendas!  (sciopero del consumo, non comprare, non vendere!).  Con la complicità e gli occhiolini dei commessi e delle commesse vengono chiusi e lasciati completamente vuoti le grandi catene di supermercati  Dia, LIDL, Carrefour, Mercadona, Caprabo, Decathlon… riempiendo le entrate principali di adesivi e manifesti con su scritto: Tancat per Vaga General i Social (Chiuso per Sciopero Generale e Sociale). La Confederación Española de Comercio  ha calcolato che il bilancio è una perdita di circa 150 millioni di euro.

Arriva la notizia che durante il picchetto degli studenti universitari la polizia autonoma catalana (i Mossos d’esquadra) ha caricato duramente. 20 fermi, ed è solo l’inizio.  Altre cariche nei quartieri del Clot e Poble Nou. Bilancio delle prime ore della mattinata 6 arresti confermati, solo a Barcellona.

Barcellona, 29M 2012, ore 13.00. Il fiume di gente che arriva nel quartiere di Gracia è impressionante. Uno striscione riporta: Se va a acabar la paz social (sta per finiré la pace sociale), mentre altri ricordano a tutte e tutti che La Reforma Laboral genera sòlo màs Precariedad (La reforma del lavoro genera solo più precarietà) e che vogliamo una Educaciò i sanitat publica i de qualitat (Educazione e Sanità Pubblica e di Qualità). Stencil e adesivi  con su scritto: Ni Reforma Laboral, Ni Pacte Social (nè reforma del lavoro, nè patto sociale) invadono le vetrine di Zara, Luiss Vitton, HM, Cacharel, Benetton, Mango, Verskha, Levis, Desigual. Vetrine ignare del fatto che a distanza di poche ore saranno ben più sanzionate che da un “misero” attacchinaggio.

Nello sgomento generale si pensa a un Cual ès el Plan (Qual è il piano)?  Si ragiona sul fatto che entrare nelle stradine del Barrio de Gracia renderebbe ingestibile e pericoloso l’esito ottenuto. Approfittando della grande affluenza di gente si decide comunemente di andare direttamente verso la tana del lupo. Si inizia percorrendo una delle strade emblematiche del potere economico e finanziario della capitale catalana. Migliaia di persone scorrono lungo la via Diagonal…uh toh, la Deutche Bank prende fuoco. Uh, ma guarda anche la BBVA. Stessa sorte alle tante banche incontrate lungo il breve percorso Caixa Catalunya, Caja Mar, Caixa Tarragona, la sede del Banco Sabadell…..e a differenti siti istituzionali.

Ormai la tensione sta salendo e le sirene dei Mossos d’esquadra iniziano a farsi più vicine. Come spesso succede in terra catalana le camionette iniziano a caricare il corteo. Cassonetti  incendiati vengono utilizzati per fare barricate e impedire una loro veloce avanzata. Il corteo è però ormai già diviso in due, tre parti, mentre i Mossos continueranno per più di un’ora a fare caroselli e giri all’impazzata con l’intento di intimorire e arrestare qualcuno.

Tutte e tutti con facce che iniziano a far intravedere qualche vena di stanchezza mista alla felicità che un po’ di quel malessere e rabbia sociale sia venuto fuori , decidiamo di riposarci aspettando il picchetto convocato per le 16.30 dai sindacati di base CGT, CNT, IAC, COBAS, sempre a Gracia.

Gruppiscoli di persone invadono le panchine e i parchetti delle strade del centro di Barcellona mangiando panini rigorosamente comprati il giorno prima (oggi  si sciopera, non si deve comprare niente), mentre la città già tenta di recuperare la sua normalità con BCNeta (la corrispondente AMA) che prova a sgomberare e pulire le strade.

Barcellona, 29M 2012, ore 16.30. Di nuovo la stessa massa oceanica si riappropria delle strade. Questa volta però la composizione sociale è più variegata. Donne di tutte le età, mascherate con bigodini e vestaglia, danno vita alla Huelga de cuidado y trabajadoras domesticas (sciopero delle lavoratrici domestiche) reclamando la loro esistenza nella vita e nel lavoro. Pensionati, infermieri e infermiere vestite con camici bianchi e verdi, student*, professor*, lavoratori del così chiamato terzo settore animano  e danno vita al grande serpentone che scendendo per la via Pau Claris vuole raggiungere Plaza Catalunya. Contemporaneamente nella strada parallela si muove l’enorme corteo indetto dai sindacati confederali (CCOO, UGT e USOC). L’immagine è emblemática. A soli 100 metri di distanza, due mondi differenti, probabilmente l’uno che non si riconosce nell’altro, ma per noi va bene così. Come diciamo da molto tempo, non vogliamo essere contrapposti ad alcunché, vogliamo e chiediamo solo quello che ci spetta.

Nuovamente, il corteo prende colore, solo che, in questo caldo pomeriggio,  le banche e i negozi delle grandi corporation incendiati sono accompagnate dagli applausi di chi partecipa al corteo. Si arriva a Plaza Catalunya e lì, proprio lì, ci si avventa contro l’emblema del capitalismo spagnolo: El cortes Ingles. Centro commerciale la cui catena è riuscita ad arrivare anche nel più misero e sperduto pueblito della penisola Iberica.

Barricate e tafferugli durano fino a tarda sera. Un totale di più di 220 cassonetti bruciati, più di 50 banche. La durezza dell’atteggiamento dei Mossos d’esquadra si traduce con 44 arresti, 15 feriti in ospedale, 1 giovane ha perso un occhio, un altro la milza, un ferito disperso, sequestrato dai Mossos dentro una camionetta per più di un’ora, pestato e lasciato in condizioni pietose solo verso le 21 di sera solo per strada.

Barcellona, 30M 2012, ore 9.00 Nella metro di Barcellona una signora sta leggendo La Vanguardia che titola: “Gravi incidenti nella capitale catalana. Violenti antisistema assaltano banche”.

Timidamente mi avvicino e chiedo alla signora che pensa dell’articolo:”Nena, la cosa més violenta de tot será tornar a la normalitat” (La cosa più violenta di tutto sarà tornare alla normalità!).

 

11 Aprile – L’appello del Movimento NOTAV

da www.notav.info

 

Questo appello è rivolto a tutti gli uomini e donne che, in questi lunghi mesi di occupazione militare, in questi mesi di lotta e resistenza NoTav, si sono schierati al nostro fianco in ogni dove d’Italia.
Grazie a voi è stato chiaro a chi ha cuore e intelligenza che la lotta dei No Tav di quest’angolo di Piemonte è la lotta di tutti coloro che si battono contro lo sperpero di denaro pubblico a fini privatissimi, contro la devastazione del territorio, contro la definitiva trasformazione in merce delle nostre vite e delle nostre relazioni sociali.
Difendere la propria terra e la propria vita è difendere il futuro nostro e di tutti. Il futuro dei giovani condannati alla precarietà a vita, degli anziani cui è negata una vecchiaia dignitosa, di tutti quelli che pensano che il bene comune non è il profitto di pochi ma una migliore qualità della vita per ciascun uomo, donna, bambino e bambina. Qui e ovunque.
In ogni ospedale che chiude, in ogni scuola che va a pezzi, in ogni piccola stazione abbandonata, in ogni famiglia che perde la casa, in ogni fabbrica dove Monti regala ai padroni la libertà di licenziare chi lotta, ci sono le nostre ragioni.

Dopo la terribile giornata del 27 febbraio, quando uno di noi ha rischiato di morire per aver tentato di intralciare l’allargamento del fortino della Maddalena, il moltiplicarsi dei cortei, dei blocchi di strade, autostrade, porti e ferrovie, in decine e decine di grandi e piccole città italiane ci ha dato forza nella nostra resistenza sull’autostrada. 
In quell’occasione abbiamo capito che, nonostante le migliaia di uomini in armi, il governo e tutti i partiti Si Tav erano in difficoltà. Si sono aperte delle falle nella propaganda di criminalizzazione, si sono aperte possibilità di lotta accessibili a tutti ovunque.

Il 27 febbraio non si sono limitati a mettere a repentaglio la vita di uno dei noi, hanno occupato un altro pezzo di terra, l’hanno cintata con reti, jersey, filo spinato.

Il prossimo mercoledì 11 aprile vogliono che l’occupazione diventi legale. 
Quel giorno hanno convocato i proprietari per la procedura di occupazione “temporanea” dei terreni. Potranno entrare nel fortino fortificato come guerra solo uno alla volta: se qualcuno non si presenta procederanno comunque. L’importante è dare una patina di legalità all’imposizione violenta di una grande opera inutile. Da quel giorno le ditte potranno cominciare davvero i lavori.

I No Tav anche questa volta ci saranno. Saremo lì e saremo ovunque sia possibile inceppare la macchina dell’occupazione militare.

Facciamo appello perché quel giorno e per tutta la settimana, che promoviamo come settimana di lotta popolare No Tav, ci diate appoggio. Abbiamo bisogno che la rete di solidarietà spontanea che ci ha sostenuto in febbraio, diventi ancora più fitta e più forte.
Non vi chiediamo di venire qui, anche se tutti sono come sempre benvenuti, vi chiediamo di lottare nelle vostre città e paesi.
Vi chiediamo di diffondere la resistenza.

Il Movimento No Tav

Dispositivi x l’Indipendenza – la crisi economica nell’austerity!

 

La crisi economica nell’austerity: la grande trasformazione tra la crisi del processo della valorizzazione capitalistica, la nuova composizione sociale al lavoro e i dispositivi di comando e governance politica ed economica.

– Introduce Rafael Di Maio – Laboratorio Acrobax

– Andrea Fumagalli, Prof. Economia Politica all’università di Pavia

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal 2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario della narrazione che la governance politica europea produce, come interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di differenza interno alla misura di un valore particolare – che però determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento. Il divenire della crisi, complesso di  stratificazioni economiche, politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale, al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo “sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle “Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Loa Acrobax
via della vasca navale, 6 [ponte Marconi]
www.acrobax.org
www.indipendenti.eu

Giovedi 29 marzo-ore 17
Dispositivi per l’indipendenza
presso il LOA Acrobax

Segue la versione integrale della griglia di discussione:

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della
governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario
internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del
processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal
2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde
che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario
della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario
tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di
differenza interno alla misura di un valore particolare – che però
determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o
interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente
analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto
consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi
ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo
altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro
un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche,
politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo
economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello
olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi
l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto
effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge
inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di
transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da
un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale,
al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato
fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del
processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e
della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo
“sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle
“Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla
visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Quindi una crisi economica e finanziaria strutturale e sistemica,
dalla quale si pensa di poter uscire a seconda delle declinazioni
politiche o dei diversi interessi geo-strategici, attraverso strade o
canali differenti.

Oggi per dirla con Marazzi la finanza è parte integrante della nostra
vita quotidiana, è pervasiva a tutto il ciclo, e le fonti di
finanziarizzazione si sono moltiplicate in modo che le finanze sono
consustanziali alla produzione stessa dei beni e servizi. Questa
estensione delle “fonti di accumulazione del capitale finanziario,
vanno tenute presente per comprendere le trasformazioni del modello di
sviluppo/crisi post-fordista.

Il peso del debito privato spostato sul debito pubblico (in realtà
comprato dalle banche estere, come nel nostro caso, le banche
francesi, che detengono più del 40% del nostro debito sovrano) in
virtù della nuova crisi che stiamo conoscendo, impone agli stati come
gli USA o alla governance della comunità europea diretta dalla
cosidetta Troika – i cui destini peraltro sono incrociati e uniti sin
dal “patto atlantico” – d’individuare le possibili vie di uscita dalla
crisi, stagnazione e bassa crescita. Oggi come oggi, sostanzialmente
abbiamo due modelli sempre più divaricati tra loro che per
semplificazione potremmo etichettare con la Germania della Merkel da
un lato e gli USA di Obama dall’altro. A partire dall’approfondimento
di questi due modelli di crescita e gestione delle risorse pubbliche
vorremmo ampliare la visuale sulla crisi e sulle strade che vengono
indicate come possibili indicazioni anticicliche di uscita dalla crisi
verso una nuova ripresa economica. Vorremmo capire quali sono i punti
di reale differenza tra i due modelli di politica economica che
sinteticamente rintracciamo tra quello della Germania improntato
all’austerity e alla salvaguardia dei conti pubblici a discapito degli
investimenti sulle risorse dedicate alle politiche di welfare, e che
prevalentemente usa alcuni indicatori economici come rigida guida
quasi religiosa per impostare il governo della società e del suo stare
in comune. E quello degli USA che dall’apparizione di Obama ha
invertito le dinamiche fondative del sistema neoliberista, imposto a
se e al mondo sotto la sua influenza anche con la forza e con
l’ausilio di dittature militari come nel sud America negli anni 70 e
80, e che oggi ha decisamente cambiato la rotta delle politiche
economiche a partire dall’utilizzo delle risorse pubbliche e di un
diverso approccio ai parametri come il deficit o lo spread, dando tale
centralità al ruolo dello Stato nell’economia da far ipotizzare un
nuovo impianto keynesiano per la crescita e lo sviluppo capitalista.

Un terzo modello a cui dedicare un ulteriore momento di
approfondimento è il caso dei cosidetti paesi emergenti, i BRIC che
stanno attraversando il corso della crisi fuori da questo binomio a
partire da tutt’altro contesto e che però stanno conoscendo un livello
di crescita esponenziale e di sviluppo complesso tale da
ri-significare lo stesso concetto di crisi globale, a testimonianza
che non si tratta evidentemente, dal crack della Leman Brother in
avanti, della fine del mondo, ma della decadenza di una parte ben
precisa del mondo.  Un altro tema sul quale vorremmo concentrare le
nostre analisi e riflessioni riguardo il contesto economico e sociale
che si respira e si tocca con mano nel nostro paese, a partire dalle
ripercussioni sul MdL come effetto materiale della crisi finanziaria e
della sua ricaduta sul tessuto produttivo e lavorativo – e anche
dell’effetto delle politiche adottate dal governo Monti per seguire le
strade di exit strategy dalla crisi a partire dalla Riforma del MdL tutte peraltro concordate con la UE – sono le liberalizzazioni di alcuni settori
produttivi e le proteste che si stanno susseguendo per contrastarle.
Dopo l’assordante e inaspettato silenzio sulla riforma delle pensioni
a partire dal blocco sociale pensionandi di riferimento (classe
52/53/54) peraltro ampliamente sindacalizzato che si è fatto carico
del costo sociale della riforma delle pensioni, il paese sta facendo i
conti nelle scorse settimane con la caparbia e dura protesta di
alcuni soggetti produttivi ben precisi che sul tema delle
liberalizzazioni stanno costituendo una protesta sociale forte e
decisa – dal movimento dei forconi alla lotta degli autotrasportatori
– sulla quale vorremmo interrogarci a partire da due piani di analisi
inizialmente distinti, due ordini del discorso, paralleli ma
complementari:

Uno riguarda la struttura produttiva: Sergio Bologna per primo aveva
individuato all’interno delle trasformazioni produttive che hanno
costituito il processo di ristrutturazione e trasformazione nel
passaggio di fase dalla grande industria fordista all’economia
post-fordista dei servizi e della conoscenza, proprio nel settore del
trasporto e della logistica, un ambito produttivo centrale,
strategico. In primis come settore privilegiato nella specifica
creazione di valore – centrale nell’economia postfordista – dove la
valorizzazione capitalistica passa dalla produzione materiale delle
merci alla valorizzazione della loro distribuzione e circolazione. E
però il carico di valore aggiunto nei profitti della grande
distribuzione è stato possibile per la nuova organizzazione del lavoro
che ne è conseguita. La riorganizzazione della molecolare struttura
delle sub-forniture ri-articolate dentro le trasformazione della
composizione sociale a lavoro – nei processi di esternalizzazione che
tra gli anni 80 e 90 hanno dato il via al cosi detto esercito delle
Partite IVA – è un tema che vorremmo analizzare oggi alla luce di un
dato sociale nuovo, al netto quindi dell’analisi generale sullo stato
dell’arte dell’economia globale e finanziaria, gettando lo sguardo sul
corpo sociale coinvolto, che porta con sé alcuni elementi di
innovazione e trasformazione radicale anche dell’apparente
rovesciamento del rapporto capitale/lavoro che si delinea nella classe
dei cosi detti padroncini, ovvero delle partite IVA. Su questo blocco
sociale di riferimento a cui sempre per primo Sergio Bologna con
Andrea Fumagalli avevano dedicato la propria analisi relativamente al
lavoro autonomo di seconda generazione, l’importanza appare quindi più
che evidente di dover ancora scandagliare e analizzare in profondità
la vicenda ampliamente annunciata ed intuita della nuova composizione
sociale al lavoro, in questo caso anche in rivolta. E su questo piano
se volete più politico vorremmo dedicare l’attenzione del secondo
elemento complementare alla comprensione dell’attuale fase, ovvero
concentrare il nostro focus sulla composizione sociale del primo
grande blocco dei flussi nella produzione postfordista o anche sul
primo grande sciopero selvaggio del lavoro indipendente nella crisi.
Vorremmo capire se e quanto può essere considerata una protesta
dettata più da esigenze specifiche o corporative o quanto invece
questo non sia altro che l’inizio per una nuova ricomposizione di
classe – delle nuove classi, o della nuova stratificazione di classe –
che potrebbe portare ad una nuova definizione della rappresentanza
sindacale di interessi produttivi emergenti ma anche alla radicale
messa in discussione dell’intera forma dell’organizzazione del lavoro
e della distribuzione della ricchezza sul territorio.

 

Bibliografia di riferimento:

 

Mediterraneo – F. Braudel Einaudi

Lotte operaie e sviluppo capitalistico – R. Panzieri Einaudi

La violenza del capitalismo finanziario – C. Marazzi Ombre corte

Il lavoro di Dioniso – M. Hardt e A. Negri Manifesto Libri

Il lavoro autonomo di II° generazione – S. Bologna e A. Fumagalli Feltrinelli

 

Testi consigliati:

 

Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II – F. Braudel Einaudi

La grande trasformazione – K. Polany Einaudi

Comune – M. Hardt e A. Negri Rizzoli

Il comunismo del capitale – C. Marazzi Ombre corte

Ceti medi senza futuro – S. Bologna Derive e approdi

Oltre lo stato assistenziale – Per un nuovo patto tra generazioni – G.
Esping-Andersen Einaudi

I fondamentali sociali delle economie postindustriali – G.
Esping-Andersen Einaudi

L’immateriale – A. Gorz – Bollati Boringhieri

Dispositivi per l’Indipendenza: La crisi economica nell’austerity

La crisi economica nell’austerity: la grande trasformazione tra la crisi del processo della valorizzazione capitalistica, la nuova composizione sociale al lavoro e i dispositivi di comando e governance politica ed economica.

 

 

– Introduce Rafael Di Maio – Laboratorio Acrobax

– Andrea Fumagalli, Prof. Economia Politica all’università di Pavia

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal 2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di differenza interno alla misura di un valore particolare – che però determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche, politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA.
Oggi l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale, al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo “sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle “Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Loa Acrobax
via della vasca navale, 6 [ponte Marconi]
www.acrobax.org
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Giovedi 29 marzo-ore 17
Dispositivi per l’indipendenza
presso il LOA Acrobax

Segue la versione integrale della griglia di discussione:

Siamo oggi di fronte ad una crisi epocale, definita dall’interno della
governance europea e dello stesso establishment del gotha finanziario
internazionale  come crisi sistemica. Crediamo che alla base di ciò
che “giornalisticamente” definiamo “crack finanziario” ovvero del
processo economico formale costituitosi negli USA a partire dal
2007/2008, vi siano elementi fondamentali e caratteristiche profonde
che vanno indagate. Potremmo accontentarci infatti del corollario
della narrazione che la governance politica europea produce, come
interpretazione della crisi, anche attraverso un nuovo vocabolario
tecnico-governamentale, come ad esempio lo spread  (tasso di
differenza interno alla misura di un valore particolare – che però
determina la direzione generale delle politiche economiche di Stati o
interi mercati comunitari integrati come appunto la Comunità Europea).
Facendo tesoro della riflessione di Marazzi e della sua cogente
analisi sulla crisi finanziaria relativamente al rapporto
consustanziale tra economia e finanza, che potremmo definire quasi
ontologico nell’odierno sistema di accumulazione finanziario, crediamo
altresì che la crisi economica affondi le sue profonde radici dentro
un senso, un nesso, specifico, interno ad un processo di disvelamento.
Il divenire della crisi, complesso di stratificazioni economiche,
politiche e produttive, è per dirla con Braudel dentro un ciclo
economico. Ve ne furono quattro: il ciclo genovese XV sec. quello
olandese del XVII il ciclo inglese XVIII sec. e quello degli USA. Oggi
l’ultimo è a chiusura di un percorso geo-stratecigo che lo ha visto
effettivamente egemone negli ultimi due secoli e che volge
inesorabilmente al termine. Siamo nel pieno di un processo di
transizione, ad un salto di paradigma, caratterizzato anche da
un’altra transizione quella del passaggio dall’economia industriale,
al modello produttivo post-fordista.

Il nesso tra crisi e produzione, noi lo abbiamo rintracciato
fondamentalmente nella crisi della misura del valore, nella crisi del
processo di valorizzazione. Nella crisi della misurazione del lavoro e
della produzione formale ovvero nella crisi tutta interna allo
“sviluppo del capitalismo” mantenendo per dirla con il Panzieri delle
“Lotte operaie e sviluppo del capitalismo” uno sguardo critico sulla
visione progressista della storia e dello sviluppo del capitalismo.

Quindi una crisi economica e finanziaria strutturale e sistemica,
dalla quale si pensa di poter uscire a seconda delle declinazioni
politiche o dei diversi interessi geo-strategici, attraverso strade o
canali differenti.

Gli obiettivi dei seminari:

Oggi per dirla con Marazzi la finanza è parte integrante della nostra
vita quotidiana, è pervasiva a tutto il ciclo, e le fonti di
finanziarizzazione si sono moltiplicate in modo che le finanze sono
consustanziali alla produzione stessa dei beni e servizi. Questa
estensione delle “fonti di accumulazione del capitale finanziario,
vanno tenute presente per comprendere le trasformazioni del modello di
sviluppo/crisi post-fordista.

Il peso del debito privato spostato sul debito pubblico (in realtà
comprato dalle banche estere, come nel nostro caso, le banche
francesi, che detengono più del 40% del nostro debito sovrano) in
virtù della nuova crisi che stiamo conoscendo, impone agli stati come
gli USA o alla governance della comunità europea diretta dalla
cosidetta Troika – i cui destini peraltro sono incrociati e uniti sin
dal “patto atlantico” – d’individuare le possibili vie di uscita dalla
crisi, stagnazione e bassa crescita. Oggi come oggi, sostanzialmente
abbiamo due modelli sempre più divaricati tra loro che per
semplificazione potremmo etichettare con la Germania della Merkel da
un lato e gli USA di Obama dall’altro. A partire dall’approfondimento
di questi due modelli di crescita e gestione delle risorse pubbliche
vorremmo ampliare la visuale sulla crisi e sulle strade che vengono
indicate come possibili indicazioni anticicliche di uscita dalla crisi
verso una nuova ripresa economica. Vorremmo capire quali sono i punti
di reale differenza tra i due modelli di politica economica che
sinteticamente rintracciamo tra quello della Germania improntato
all’austerity e alla salvaguardia dei conti pubblici a discapito degli
investimenti sulle risorse dedicate alle politiche di welfare, e che
prevalentemente usa alcuni indicatori economici come rigida guida
quasi religiosa per impostare il governo della società e del suo stare
in comune. E quello degli USA che dall’apparizione di Obama ha
invertito le dinamiche fondative del sistema neoliberista, imposto a
se e al mondo sotto la sua influenza anche con la forza e con
l’ausilio di dittature militari come nel sud America negli anni 70 e
80, e che oggi ha decisamente cambiato la rotta delle politiche
economiche a partire dall’utilizzo delle risorse pubbliche e di un
diverso approccio ai parametri come il deficit o lo spread, dando tale
centralità al ruolo dello Stato nell’economia da far ipotizzare un
nuovo impianto keynesiano per la crescita e lo sviluppo capitalista.

Un terzo modello a cui dedicare un ulteriore momento di
approfondimento è il caso dei cosidetti paesi emergenti, i BRIC che
stanno attraversando il corso della crisi fuori da questo binomio a
partire da tutt’altro contesto e che però stanno conoscendo un livello
di crescita esponenziale e di sviluppo complesso tale da
ri-significare lo stesso concetto di crisi globale, a testimonianza
che non si tratta evidentemente, dal crack della Leman Brother in
avanti, della fine del mondo, ma della decadenza di una parte ben
precisa del mondo.  Un altro tema sul quale vorremmo concentrare le
nostre analisi e riflessioni riguardo il contesto economico e sociale
che si respira e si tocca con mano nel nostro paese, a partire dalle
ripercussioni sul MdL come effetto materiale della crisi finanziaria e
della sua ricaduta sul tessuto produttivo e lavorativo – e anche
dell’effetto delle politiche adottate dal governo Monti per seguire le
strade di exit strategy dalla crisi, tutte peraltro concordate
concordate con la UE – sono le liberalizzazioni di alcuni settori
produttivi e le proteste che si stanno susseguendo per contrastarle.
Dopo l’assordante e inaspettato silenzio sulla riforma delle pensioni
a partire dal blocco sociale pensionandi di riferimento (classe
52/53/54) peraltro ampliamente sindacalizzato che si è fatto carico
del costo sociale della riforma delle pensioni, il paese sta facendo i
conti proprio in queste settimane con la caparbia e dura protesta di
alcuni soggetti produttivi ben precisi che sul tema delle
liberalizzazioni stanno costituendo una protesta sociale forte e
decisa – dal movimento dei forconi alla lotta degli autotrasportatori
– sulla quale vorremmo interrogarci a partire da due piani di analisi
inizialmente distinti, due ordini del discorso, paralleli ma
complementari:

Uno riguarda la struttura produttiva: Sergio Bologna per primo aveva
individuato all’interno delle trasformazioni produttive che hanno
costituito il processo di ristrutturazione e trasformazione nel
passaggio di fase dalla grande industria fordista all’economia
post-fordista dei servizi e della conoscenza, proprio nel settore del
trasporto e della logistica, un ambito produttivo centrale,
strategico. In primis come settore privilegiato nella specifica
creazione di valore – centrale nell’economia postfordista – dove la
valorizzazione capitalistica passa dalla produzione materiale delle
merci alla valorizzazione della loro distribuzione e circolazione. E
però il carico di valore aggiunto nei profitti della grande
distribuzione è stato possibile per la nuova organizzazione del lavoro
che ne è conseguita. La riorganizzazione della molecolare struttura
delle sub-forniture ri-articolate dentro le trasformazione della
composizione sociale a lavoro – nei processi di esternalizzazione che
tra gli anni 80 e 90 hanno dato il via al cosi detto esercito delle
Partite IVA – è un tema che vorremmo analizzare oggi alla luce di un
dato sociale nuovo, al netto quindi dell’analisi generale sullo stato
dell’arte dell’economia globale e finanziaria, gettando lo sguardo sul
corpo sociale coinvolto, che porta con sé alcuni elementi di
innovazione e trasformazione radicale anche dell’apparente
rovesciamento del rapporto capitale/lavoro che si delinea nella classe
dei cosi detti padroncini, ovvero delle partite IVA. Su questo blocco
sociale di riferimento a cui sempre per primo Sergio Bologna con
Andrea Fumagalli avevano dedicato la propria analisi relativamente al
lavoro autonomo di seconda generazione, l’importanza appare quindi più
che evidente di dover ancora scandagliare e analizzare in profondità
la vicenda ampliamente annunciata ed intuita della nuova composizione
sociale al lavoro, in questo caso anche in rivolta. E su questo piano
se volete più politivo vorremmo dedicare l’attenzione del secondo
elemento complementare alla comprensione dell’attuale fase, ovvero
concentrare il nostro focus sulla composizione sociale del primo
grande blocco dei flussi nella produzione postfordista o anche sul
primo grande sciopero selvaggio del lavoro indipendente nella crisi.
Vorremmo capire se e quanto può essere considerata una protesta
dettata più da esigenze specifiche o corporative o quanto invece
questo non sia altro che l’inizio per una nuova ricomposizione di
classe – delle nuove classi, o della nuova stratificazione di classe –
che potrebbe portare ad una nuova definizione della rappresentanza
sindacale di interessi produttivi emergenti ma anche alla radicale
messa in discussione dell’intera forma dell’organizzazione del lavoro
e della distribuzione della ricchezza sul territorio.

 

Bibliografia di riferimento:

 

Mediterraneo – F. Braudel Einaudi

Lotte operaie e sviluppo capitalistico – R. Panzieri Einaudi

La violenza del capitalismo finanziario – C. Marazzi Ombre corte

Il lavoro di Dioniso – M. Hardt e A. Negri Manifesto Libri

Il lavoro autonomo di II° generazione – S. Bologna e A. Fumagalli Feltrinelli

 

Testi consigliati:

 

Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II – F. Braudel Einaudi

La grande trasformazione – K. Polany Einaudi

Comune – M. Hardt e A. Negri Rizzoli

Il comunismo del capitale – C. Marazzi Ombre corte

Ceti medi senza futuro – S. Bologna Derive e approdi

Oltre lo stato assistenziale – Per un nuovo patto tra generazioni – G.
Esping-Andersen Einaudi

I fondamentali sociali delle economie postindustriali – G.
Esping-Andersen Einaudi

L’immateriale – A. Gorz – Bollati Boringhieri

Libertà di movimento – Convegno all’università Roma Tre

I movimenti sociali e i precari indipendenti a convegno all’università Roma tre:

L’interdizione delle lotte sociali tra la crisi della democrazia, la dittatura dei mercati e la fine della mediazione politica, verso la costruzione materiale dell’alternativa: reddito, beni comuni, autogoverno.

La nostra libertà non si compra, non si paga.  Si strappa! Nella crisi economica a cui corrisponde la crisi della politica e della sua rappresentanza formale, prende forma la crisi della democrazia e delle sue fondamentali basi. Quello che sta avvenendo politicamente in seno alla governance europea e globale nell’ultimi anni di crisi economica è degno di nota e di riflessione se ancora si hanno a cuore gli spazi di democrazia reale e di agibilità politica in questa piccola parte di mondo. Ancor di più dovrebbe interessare chiunque voglia ancora opporsi ed alzare la testa di fronte alla dilagante e sistematica svolta autoritaria intrapresa dal nostro paese negli ultimi anni, ancor di più oggi che la nuova fase del Prof. Monti comincia a mostrare, oltre gli orpelli accademici, il suo volto feroce e insieme competente, quindi, ancor più pericoloso dell’archiviato governo Berlusconi.

La penalizzazione delle lotte sociali, dell’agibilità politica dei movimenti indipendenti, il bavaglio mediatico imposto alle opposizioni, il controllo poliziesco sugli attivisti, l’uso arbitrario della legislazione speciale antiterrorismo, significano molto di più e rappresentano un tratto ancor più inquietante se considerati all’interno nel contesto politico e sociale più generale nel quale si ascrivono. Dei movimenti sociali si occupa l’antiterrorismo quando questi assumono forme radicali ed indipendenti per imporre una capillare prevenzione e un’imminente e feroce repressione, oscura e vendicativa, che prende forma, nella fine della mediazione politica, come prerequisito della gestione autoritaria della crisi e diviene il vero tema del nuovo millennio, una crisi globale, generale, sistemica.

Un trattamento già avviato da tempo dentro quel generale laboratorio repressivo che i poteri dello Stato e dei centri di comando hanno inteso attuare all’interno di una profonda svolta autoritaria, cresciuta culturalmente e sedimentata particolarmente in Italia proprio all’ombra della crisi economica che da qualche anno in forma epocale travolge e ridefinisce lo spazio politico ed il tempo economico. All’interno di questa dimensione globale si va costituendo ovviamente anche in Italia la forma dell’ ”eccezionalità sulla norma” nel senso specifico della sospensione dell’ordinamento che la sorregge, trasformando in prassi politicamente consolidata la gestione autoritaria della crisi economica, politica e sociale. Certo non sempre seguendo percorsi lineari a volte come nel caso nel nostro bel paese per strappi e forzature, nuovi equilibri e rafforzati assetti di potere, come nel caso appunto del nuovo governo dei “Professori”.

Ma se qualcuno avesse raccolto i numeri su arresti, denunce, fermi e torture subite, morti in carcere o in commissariato, processi, pestaggi, a partire ad esempio dal recente 2001 ovvero l’anno del Global forum di Napoli e del G8 di Genova e ripercorresse fino ad oggi il decennio vissuto, ci troveremmo a fare i conti con decine di migliaia di cittadini passati per questure, varie Bolzaneto, carceri e tribunali, leggi speciali e dispositivi di prevenzione. Dopo Genova ci fu l’11 Settembre: la guerra globale dispiegò le sue strategie, forme, dispositivi, dal Patriot act in poi. Le manifestazioni contro i conflitti globali fino ai movimenti degli Indignados e di Occupy che hanno riempito le piazze e subìto la repressione di tutti i governi di destra e di sinistra hanno visto moltiplicarsi, mentre covava negli anni una crisi economica senza fine, le spese miliardarie per mandare truppe prima in Afghanistan, in Iraq poi in Libia, domani chissà anche in Iran. Fedeli agli USA con le basi Nato e le fabbriche di armi pronte a colpire, con commesse miliardarie come quelle degli F15 per le quali l’Italia è indebitata attraverso la Vergogna di Stato, crogiuolo di mazzette, corruzione, fascisti e servizi segreti, dal nome di Finmeccanica.

Con l’acuirsi della crisi economica e del suo impatto sociale, nei termini di crescente disoccupazione, precarietà, mancanza di elementari forme di welfare adeguate alle trasformazioni sociali, produttive e lavorative, nello spazio comune odierno, nella riproduzione delle forme di vita peraltro sempre più precarie e sempre più ai margini della libera scelta e della decisione politica, la repressione più o meno pubblicamente, colpisce ormai sempre più ampi settori sociali, dagli studenti in lotta ai lavoratori in sciopero con migliaia di precettazioni, dalle cariche della polizia sui blocchi stradali di cassaintegrati e disoccupati, agli sgomberi e agli sfratti delle case, agli ultras, assunti già da diversi anni come cavie sociali nel grande laboratorio della repressione, ai bloggers con le politiche liberticide di controllo e di censura nella rete. Fino ai precari devoti del Santo protettore, come quelli coinvolti dall’inchiesta su San Precario quando nella giornata nazionale per il reddito garantito del 6/11/2004 furono messe in campo azioni pubbliche di riappropriazione e autoriduzione in librerie e supermercati di Roma, furono indagati 105 attivisti di cui 15 oggi sono in attesa di giudizio e rischiano a breve di pagare la denuncia della precarietà e del caro vita che in quel giorno si voleva segnalare, con una sentenza pesante ed esemplare per la scelta arbitraria e strumentale della Procura di Roma d’imputare agli attivisti rinviati a giudizio il pesante e sproporzionato reato di rapina pluriaggravata.

O come in Val di Susa dove la determinazione popolare e radicale, gentile ma determinata a non indietreggiare di un solo metro, deve oggi fare i conti con un ignobile manovra a tenaglia, tra la criminalizzazione mediatica, la mistificazione “tecnica” e la retorica strumentale del governo che insieme ai sindacati utilizza il tema della crisi per avallare lo scempio del Tav con la devastazione, lo sperpero di risorse e il danno ambientale enorme che porta con se. La tenace resistenza No-Tav deve oggi fare i conti con una normativa d’emergenza varata a inizio anno che decreta l’inviolabilità del non-cantiere ritenendolo sito di interesse strategico nazionale, con la diretta ed esplicita minaccia di arresto per chiunque violi le disposizioni. Così come  in questi giorni il Movimento No-Tav deve fronteggiareun’ignobile inchiesta firmata dal Procuratore-capo di Torino, Giancarlo Caselli, che a tutt’oggi tiene tra misure cautelari e carcerazione preventiva, reclusi decine di attivisti e attiviste, nostri fratelli e sorelle di lotta, di cui chiediamo l’immediata scarcerazione.

E poi ancora il sovraffollamento delle carceri, di cui la stragrande maggioranza della popolazione è ancora in attesa di giudizio vivendo spesso una condizione detentiva disumana, all’applicazione infame del pacchetto sicurezza del Governo Berlusconi e delle leggi razziste che con gli illegali e famigerati CIE contribuisce a rendere nauseabonda l’aria che si vuol far respirare. Si arriva fino agli ultimi giorni del 2011 e alle ultime provocazioni solo dopo una lunga ed interminabile trafila di episodi e storie di quotidiana repressione ed intimidazione del dissenso contro quell’opposizione sociale che in questo paese, a tratti e seppur in forma discontinua e spontanea ha avuto comunque la capacità di porre al centro del dibattito “La Democrazia “ ed il fallimento della rappresentanza politica di segnare anche solo parzialmente il clima politico di questo paese. Il 14 dicembre del 2010 e del 15 Ottobre del 2011 sono lì a confermare quanto diciamo.

Urgono quindi spazi di confronto e di discussione.

Oltre l’indignazione è necessaria l’attivazione, il protagonismo sociale, l’iniziativa politica. È necessario aprire una vasta ed ampia campagna informativa che quantifichi la dimensione del processo autoritario in corso e ne denunci le condizioni, i metodi e le responsabilità politiche. È altrettanto necessaria una campagna comunicativa, una decisa presa di parola, che dia voce alla libertà di opporsi e di resistere, alla libertà di vivere e di non sopravvivere, al diritto naturale e profondamente radicato nell’uomo di pensare liberamente e di lottare per la condivisione dei beni comuni. Questo a cominciare non dal disperato e isolato urlo contro la repressione, ma attraverso un discorso politico che sia in grado non solo di misurare la miseria del presente ma anche e soprattutto di tracciare le vie della ricchezza del possibile, che mentre resiste con determinazione allo scempio che stiamo vivendo, sia in grado d’indicare le vie dell’alternativa, contro tutti i dispositivi di controllo, repressione ed interdizione.

Quindi a partire da una seria battaglia contro la precarietà e la precarizzazione che sia in grado di porre al centro dell’iniziativa di movimento il tema del reddito garantito, di base e incondizionato, proprio come conditio  per la vera libertà, come trampolino verso la libera attività umana, come dispositivo materiale di partecipazione e democrazia reale e radicale, come risposta non solo alla precarizzazione ed all’esclusione sociale, ma come via di costruzione di una società altra, i cui diritti e garanzie siano finalmente ancorate all’esistenza umana. All’intelligenza e alla partecipazione sociale, alla cooperazione e alla condivisione e non più al compianto lavoro, che con buona pace dei sindacati e partiti, è ormai sempre più precario, sempre più sfruttato, latente, peraltro a servizio dello sviluppo e della crescita  per l’accumulazione di pochi sulle spalle di molti, ormai troppi, per rimanere tutti schiavi, in silenzio e sorridenti.

 

Interventi

– Introduce e modera Rafael Di Maio – Laboratorio Acrobax

– Movimento Notav – Gianluca Pittavini – redattore di infoaut.org

– Prof. Luigi Ferrajoli: la crisi del potere formale nelle macerie della democrazia

– Prof. Giacomo Marramao: il ruolo nello Stato moderno nella crisi, la nuova polizeiwissenschaft

– Prof. Giovanni Russo Spena: Lo stato di eccezione, l’assolutismo liberista e la democrazia costituzionale

– Patrizio Gonnella, associazione Antigone

– Comitato Madri: Il potere e la vita, delle Madri di Roma città aperta

– Avv. Marco Lucentini: L’interdizione delle lotte sociali nella crisi

– Avv. Simonetta Crisci: Una panoramica dei processi giudiziari ai movimenti

– Prof. Andrea Fumagalli: il basic income come via per la vera libertà

– Cristian Sica – Laboratorio Acrobax – PsP-Roma: per un modello alternativo, reddito e beni comuni

– Bruno Papale – Coordinamento cittadino di lotta x la casa: Le lotte sociali come spazio di autonomia

– Studenti Roma3: condivisione dei saperi e libertà di movimento

Libertà x i NoTav – Libere tutte Liberi tutti!

mercoledì 7 marzo, ore 15
Fac. Lettere – Unirversità Roma3

Aula Verra

 

La Valle non si vende la Valle si difende, per l’Indipendenza e la libertà!

Sabato 3/3/2012 h 15 Piazzale Tiburtino – Roma – Tutti in piazza

La Valle non si vende la Valle si difende!

Uno scheletro della politica di palazzo come Fassino dice che il movimento NoTav è cambiato e non sa quanto è vero… non immaginano neanche questi signori quanto la lotta possa far crescere la consapevolezza delle proprie ragioni e la determinazione nel continuare ad affermarle anche man mano che il prezzo della resistenza cresce: notav in carcere, notav in ospedale, notav portati via di peso, calpestati e inseguiti fin nelle proprie case. Non immaginano neanche lor signori chiusi nei palazzi quanto la determinazione di quel popolo resistente abbia risvegliato le coscenze e le emozioni di tanti e tante che non possono assistere in silenzio alla miseria del presente, allo scippo di democrazia, all’ingordigia dei potenti nel divorare risorse, territori e umanità per i loro meschini profitti.

Come la battaglia per l’acqua bene comune ha centrato bene nello slogan “si scrive acqua si legge democrazia” così la ventennale lotta no tav ha affermato le sue ragioni e ora naturalmente si spinge oltre per evidenziare e contrastare quel gap di democrazia che ha ormai reso le istituzioni di ogni ordine e grado la mera interfaccia degli interessi privatistici di speculazione sulle risorse pubbliche e i beni comuni come appunto l’acqua o i territori.

 

El pueblo unido funziona sin partido!

Questo è il vero elemento che turba il sonno dei governanti non già la violenza il cui livello e la cui intensità rimane ben al di sotto di quella violenza che si dà nel sociale e nella quotidianità fatta di povertà galoppante, precarietà esistenziale e disgregazione sociale. Abbiamo letto sui giornali frasi del tipo “la drammatica sequenza” con riferimento al video del giovane con la barba rossa che “aggredisce un poliziotto inerme dietro la sua armatura” ma sappiamo bene che chi legge non è stupido anche perchè viviamo sulla nostra pelle la vera violenza: quella degli sfratti per morosità incolpevole, dei licenziamenti immotivati, del lavoro squalificato, svilito e sottopagato, quella dell’arroganza dei potenti che anche e soprattutto nella crisi trovano sempre nuove occasioni di speculazione e sfruttamento.

 

Quella che viene sbattuta in prima pagina come inaccettabile violenza mette il potere tutto di fronte all’irrimediabilità di una crisi della rappresentanza non più reparabile. Lo ammettono ormai gli stessi partiti che addirittura parlano di slittamento delle elezioni amministrative e perchè no anche di quelle politiche, il cui svolgimento sarebbe inutile e vanificato dall’egemonia dei tecnici su ogni velleità della politica rappresentativa.

Da Napolitano in giù tutti si sperticano in appelli alla coesione sociale sapendo bene che nel momento in cui la si invoca è già irrimediabilmente perduta.

Incrinata in maniera profondissima a partire proprio dal primo articolo della Costituzione laddove la coesione sociale fu affidata al lavoro: pensate per un attimo a cos’è il lavoro oggi e forse inizierete a capire perchè di coesione sociale davvero non si può più parlare.

Bisognerà che si comincino ad abituare lor signori: l’era del fair play e del consenso incondizionato al capitalismo e ai suoi dogmi non c’è più, l’era dell’Unione EUropea come panacea di tutti i mali dell’italietta tanto meno.

 

Nel nostro paese il trucchetto di sedare ogni dissenso rispetto alla gestione dell’austerity con l’inconfutabilità della ragione e dei tecnici rischia di infrangersi sulle Alpi della Valle di Susa.

 

Da Chiomonte ad Atene, da Bussoleno a Barcellona, da Giaglione al Cairo…

Resisteremo un giorno più di loro!
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Qualche settimana fa si è svolta un’operazione repressiva con decine di arresti e denunce nei confronti di attivisti/e NO TAV in tutta Italia. Da quel momento la solidarietà continua a esprimersi in molteplici forme, dal Nord al Sud del Paese: nessuna/o è sola/o, non ci sono buone/i e cattive/i. Un corteo di 80 mila persone si è riversato nella valle, da Bussoleno a Susa, per dire che il movimento NO TAV non si arresta e non ha paura. Il giorno dopo parte l’allargamento dei cantieri, attraverso l’esproprio militare delle terre valsusine. La resistenza dei NO TAV è immediata. Un compagno, Luca, per impedire l’avanzamento delle ruspe, si arrampica su un traliccio. Inseguito da un carabiniere rocciatore, cade, rischiando la vita: è tuttora ricoverato in ospedale in gravi condizioni. I giornali e i media screditano e minimizzano l’accaduto, insultando il coraggio e la determinazione di Luca. La risposta della Val di Susa è determinata, con blocchi e barricate che vengono immediatamente ricostruite non appena vengono sgomberate. Ancora una volta in tutta Italia la solidarietà si fa sentire con manifestazioni spontanee, presidi, blocchi stradali e ferroviari.
Queste sono solo le ultime pagine di una lotta che va avanti da 23 anni.
Di fronte all’attacco dello Stato nei confronti del movimento No Tav, di fronte alla repressione di ogni forma di conflitto, al di fuori del “consentito”, tanto il 3 luglio in Val di Susa quanto il 15 Ottobre a Roma, è necessario reagire. La lotta contro il Tav fa paura ai poteri politici, economici e giuridici, perché ne mette in discussione la loro stessa essenza. Si vuole reprimere l’autorganizzazione, il rifiuto della delega, la molteplicità e la radicalità di azioni e pratiche. Si vuole colpire tanto il dissenso e il contrattacco nei confronti dei poteri costituiti, quanto la condivisione di esperienze di vita che generano forme di cospirazione e di complicità sociale.
Anche attraverso Il TAV e la politica delle grandi opere il capitalismo vuole imporre ancora una volta l’idea di un mondo sottomesso alle leggi del profitto e dello sfruttamento affaristico dei beni comuni. La Val di Susa fa paura perché la lotta contro il Tav esprime la possibilità concreta di un cambiamento reale allo stato di cose presenti: determinarne il seguito spetta a tutti e tutte noi!

IL TAV E’ OVUNQUE, LOTTIAMO OVUNQUE CONTRO IL TAV

TUTTI/E LIBERI/E!

Sabato 3 marzo, ore 15:00, corteo NO TAV, partenza da Piazzale Tiburtino

Daje Luca, Sempre no Tav, a sarà düra!

Assemblea No Tav di RomaVisualizza altro

Roma studenti medi in mobilitazione *saveschoolsnotbanks*

Il 17 novembre in oltre quindicimila siamo scesi in piazza a Roma, siamo stati tantissimi studenti delle scuole che hanno animato le vie di questa città, partendo in cortei spontanei dai nostri istituti (in particolare oltre duemila studenti partiti dalle scuole di prati e del centro, hanno svolto un corteo lungo il muro torto arrivando poi alla Sapienza) e raggiungendo poi il concentramento unitario di scuole e facoltà ad Aldo Moro dal quale si è mosso un corteo selvaggio che ha trovato nella partecipazione numerosissima di studenti e studentesse delle scuole uno dei principali elementi di forza e caratterizzazione.

Abbiamo dimostrato che non siamo disposti a restare a guardare in silenzio mentre vengono prese decisioni sulle nostre vite, che sia Alemanno, Berlusconi o Monti a farlo.

E nel fare questo abbiamo dimostrato di essere un grande movimento di massa, che quotidianamente costruisce percorsi autonomi di partecipazione, aggregazione e conflitto nelle scuole e che ieri ha espresso ancora una volta la sua forza. Un movimento crescente che rappresenta la presa di parola di una generazione nata precaria e cresciuta ribelle che nessuno può pensare di ignorare o sottovalutare.

Abbiamo attraversato le vie e le piazze di Roma, senza autorizzazione, forti della convinzione che questa città ci appartene, che non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per manifestare le nostre idee. Ci fa sorridere che Alemanno si ostini a tentare di regolamentare la nostra rabbia, abbiamo più volte dimostrato che non ci stiamo alle sue imposizioni e ai suoi divieti, e non possiamo che ribadirgli che saremo determinati quanto imprevedibili.

Abbiamo deciso che nella giornata di insediamento del nuovo governo tecnico dovevamo essere sotto il Senato, mentre si votava la fiducia, proprio per comunicare a Monti che dovrà fare i conti con noi. Siamo il 99% e in massa rifiutiamo le politiche di neoliberismo che la Bce vuole imporre all’Italia.

E proprio mentre noi lanciavamo uova e ortaggi sotto il Senato, gli studenti di Milano, Torino e Palermo venivano caricati della forze dell’ordine. Vogliamo quindi esprimere tutta la nostra solidarietà ai nostri compagni delle altre città fermati e feriti e vogliamo anche dire al nuovo governo che se è effettivamente interessato a dialogare con gli studenti, come dichiara, può iniziare impedendo che la polizia attacchi cortei studenteschi nella giornata mondiale del diritto allo studio.

Abbiamo letto su diversi quotidiani e sentito in alcune trasmissioni televisive racconti di episodi mai accaduti nel corteo di ieri. Dai cortei infatti non è stato allontanato nessuno studente a volto coperto o con un casco. Abbiamo ripetuto più volte e ribadiamo ancora che non esistono i buoni o i cattivi del movimento, che il nostro movimento è unico, trasversale e di massa. Siamo scesi in piazza ieri con le modalità discusse assieme, con i nostri scudi Book Block proprio perchè non siamo disposti a non tutelarci da indiscriminati attacchi delle forze dell’ordine come quelli che abbiamo visto avvenire in altre città.

E mentre ci riprendevamo le strade di questa città, un ragazzo veniva condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione per i fatti del 15 ottobre. Anche a lui va tutta la nostra solidarietà proprio perchè troviamo assurdo che a pagare per quella giornata debbano essere degli studenti che si sono difesi da cariche indiscriminate in piazza San Giovanni, con una forzatura dello stesso diritto penale nelle imputazioni e nell’entità della pena.

Non siamo più disposti a sopportare che il nostro futuro, le nostre scuole, la cultura, i saperi, debbano pagare il prezzo di una crisi che non hanno provocato, anche per questo lungo il percorso del corteo abbiamo segnalato diverse banche fra cui Cariparma e Unipol con la V per vendetta e con lanci di uova, proprio per ribadire chi sono i responsabili di questa crisi, e chi è che deve sanare questo debito che a noi non appartiene.

Siamo tanti e siamo determinati, e continueremo a dire tutto questo riappropriandoci delle nostre scuole e dei nostri tempi, occupando i nostri istituti come ha fatto oggi il liceo Malpighi di Bravetta!

Nei prossimi giorni ci rivedremo più volte in piazza, proprio perchè abbiamo l’esigenza di dire che questa è la nostra battaglia, e la stiamo vincendo.

Studenti medi in mobilitazione

https://www.facebook.com/pages/Studenti-Medi-in-Mobilitazione/200419589987249

sabato 19 novembre 2011 ore 15.00
assemblea cittadina degli studenti medi

Note sul 15 ottobre

di TONI NEGRI

Ero e sono fuori, in queste settimane, in Spagna ed in Portogallo. Non ho seguito direttamente quello che è avvenuto a Roma. Ma sono stato sorpreso, direi sbalordito, nel leggerne cronache e commenti.

1) La divisione tra gli “indignati” e gli altri, i “cattivi”, è stata fatta prima di tutto da La Repubblica, l’organo di quel partito dell’ordine e dell’armonia che ben conosciamo (per non dire degli altri media). Non sembra che il comitato organizzatore della manifestazione si sia indignato molto per ciò. C’era forse un peccato originale alla base di questo oltraggio: chi aveva organizzato la “manifestazione degli indignati” non aveva molto a che fare con le pratiche teoriche e politiche che dalla Spagna si sono estese globalmente, talora in maniera massiccia, altre volte minoritaria: il rifiuto della rappresentanza politica e sindacale, il rigetto delle costituzioni liberali e socialdemocratiche, l’appello al potere costituente. In Italia, invece, un gruppo politico al limite della rappresentanza parlamentare si è appropriato il nome degli Indignados … E ora reclamano: “Lasciateci fare politica”.

2) Ma allora, si dirà, gli indignati “veri” sono i ragazzi che incendiano le macchine e fanno quel gran casino contro la polizia a San Giovanni? Certo che no. Qui nasce tuttavia il grande, se non l’unico problema. Chi possono essere gli unificatori del movimento? Chi costruisce oggi, in Italia, l’unità degli sfruttati, degli indebitati, dei non-rappresentati?

Le risposte a questi interrogativi sono molteplici. Tanti anni fa, Asor Rosa avrebbe detto: quei ragazzi pieni di rabbia appartengono alla “seconda società”, essa è inorganizzabile, essa è la non-politica. Oggi, alcuni rappresentanti del “movimento” diranno: sono estremisti, anarchici e insurrezionalisti, quindi pericolosi, quindi inorganizzabili. È forse vero. La conseguenza sarà allora la medesima che ne trasse Asor trent’anni fa: sono irrappresentabili? Anche qui: forse sì. Ma per questo li escludiamo per principio, prima ancora di aver capito perché erano tanti e di cosa erano l’espressione? Noi non crediamo che il ritornello di Asor Rosa possa valere come pregiudizio. A chi ce lo presentasse come tale, ci rivolgeremmo allora agli Indignados spagnoli ed universali per avere un’altra risposta. Gli Indignados sono un movimento dei poveri – sono anni che andiamo indagando e parlando di precarizzazione lavorativa e esistenziale, di pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione finanziaria, di emarginazione sociale. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a noi sembra che queste lotte debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il Capitale.

Dobbiamo ricordarci che laddove, in altri paesi d’Europa che pur conoscono grandi tradizioni di lotta, si è data l’incapacità a mettere insieme tutte le facce della nuova povertà, la sconfitta è stata generale, anche quando i movimenti erano duraturi e forti. La Francia, per esempio, non produce più lotte vincenti da quando il movimento studentesco ha smesso di congiungersi con quello delle banlieues. In Germania, non c’è più lotta da quando i Grünen Realos-pragmatici hanno isolato e liquidato i Fundis – gli occupanti delle case, quelli che lottavano assieme ai migranti, e avevano assunto la dimensione dei quartieri per tentare la costruzione di istituzioni del comune. Dobbiamo tornare a costruire un fronte dei poveri – tutti i poveri, dalla classe media immiserita in giù.

C’è dunque una bella differenza fra stare con i poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerarli intoccabili, lebbrosi. Loro – quelli che spaccano – hanno diritto a dirci di no, a rifiutarci, a preferire l’isolamento. Ma noi, non per questo li consideriamo estranei alla povertà. Il 14 dicembre, il 15 ottobre, e tante altre volte, li abbiamo visti in azione: alcune periferie della povertà sono scese in piazza. La polizia e i media le hanno immediatamente riconosciute: il potere è spesso bieco ma non è stupido. Perché i movimenti non potrebbero anche loro chiedersi chi sono, e provare a capire prima di giudicare? Forse perché dietro alla puzza al naso degli organizzatori, senti un rigetto di pelle?

3) Il colmo della cecità e della provocazione dei media (e, subito dopo, del Ministero degli Interni) è stato toccato quando hanno scelto di attaccare i movimenti NoTAV e San Precario – vale a dire le due realtà di movimento attualmente più forti. Forse le uniche che non abbiano aperture politiciste e che non siano interessate alla rappresentanza parlamentare, ma che piuttosto sono democraticamente piantate nel reale, nella società civile, e che producono effetti concreti immediati.

Dobbiamo stringerci attorno ai compagni che subiscono queste provocazioni – cosi come attorno agli incarcerati, di cui chiediamo la liberazione senza se e senza ma. Cos’altro fanno gli Indignados di Barcellona per gli arrestati dopo la tentata occupazione della Camera regionale catalana? Hanno riconosciuto che si trattava di un errore politico evidente, ma li difendono comunque in nome dell’unità del movimento. Vogliamo continuare a caricaturare i comportamenti pacifici degli Indignados spagnoli alla maniera di pecore gentili?

4) Oggi solo un progetto costituente può unificare tutti nel movimento. Non un “programma minimo” – un programma che non dia obbiettivi concreti ma solo linee di alleanza sindacale e parlamentare. Perché stupirsi che molti sentano questo programma minimo come un “opportunismo massimo”?

Centrale è invece oggi un progetto costituente che unifichi politicamente, e quindi sappia anche reagire alle eventuali componenti distruttive del movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato.

Ma c’è ben altro. La chiave del modello costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile -, ma senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre vittime del saccheggio capitalistico odierno.

Non aver paura è resistere al potere ed esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. I ragazzi – quelli che hanno fatto casino – esprimono, con la loro rabbia, non la capacità ma l’incapacità di rispingere la paura del potere. Si può tuttavia probabilmente vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei poveri – a condizione che si abbia un programma positivo, maggioritario, materialmente definito. Oggi quel programma del comune si è già ampiamente manifestato nei referendum e nelle elezioni municipali, contro le macchine partitiche. Si tratta di procedere su questo terreno.

Svolgere il tema del comune costituente nella lotta rappresenta dunque oggi forza maggioritaria. A Reggio Emilia nel 1960, e a Genova nel 2001, dei compagni sono stati uccisi – ma il movimento non aveva paura, era unito, vinse perché non escludeva nessuno a priori, mise polizia e governi davanti all’evidenza di un irresistibile ostacolo. Oggi, volendo presentarsi con un programma minimo, cercando alleanze in una parte del ceto politico screditata e corrotta quanto lo è il ceto politico di destra, si è finito per rafforzare Berlusconi. Tutti dunque sembrano consapevoli che siamo giunti ad una impasse. Un’impasse di programma prima che di metodo. Ma come metterlo nella testa di coloro che vedono un insorto in ogni povero che non ha più paura?

5) Siamo infine anche di fronte ad un’impasse di metodo. Non erano stati dati obbiettivi al corteo di Roma. Di contro, a Madrid, sono stati i palazzi del potere e le banche ad essere assediate da mezzo milione di Indignados. Gli stessi che, immediatamente dopo, hanno ripreso le loro attività di quartiere, uniti da un’unica organizzazione orizzontale, usando reti, socialnetworks e twitts in modo astuto, chiamando tutti dove c’era bisogno, su uno sfratto come nelle scuole occupate, o negli ospedali autoamministrati.

A Barcellona, duecentomila persone si sono ritrovate: poi si sono formati tre cortei, l’uno ha occupato un ospedale, l’altro l’università ed un terzo un enorme magazzino per farne un centro sociale. A Piazza San Giovanni bisognava invece arrivare per ascoltare i politici di prima, seconda e terza generazione? Vi stupisce che nasca il bordello che c’è stato? Qual è stato il metodo, qual è stata la gestione politica del comune in quel caso?

Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità della decisione – la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli anni novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. Si tratta di lasciargli spazio e voce.

 “Lasciateci fare politica”, dicono alcuni. Certo. Intanto, noi proviamo a costruire il movimento degli Indignados.

 18 ottobre 2011

http://uninomade.org/note-sul-15-ottobre/

 

Distruggere la paura, affermare il comune

 di COLLETTIVO UNINOMADE

0. Nella sera romana illuminata dai fuochi di Piazza San Giovanni, abbiamo cominciato a interrogarci sulla giornata del 15 ottobre, su ciò che ha rivelato nelle molteplici scale geografiche che si sono incrociate a produrne la dimensione globale, sulla forza e sulle potenzialità che ha fatto emergere, sui problemi che consegna alla nostra riflessione e alle nostre pratiche. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo da materialisti, convinti – per citare uno che la sapeva lunga – che le azioni umane non vadano derise, compiante o detestate, ma prima di tutto comprese. Proviamo a farlo con queste note, segnalando alcuni dei punti che ci sembrano più rilevanti.

1. Partita da un appello degli indignados spagnoli, la mobilitazione del 15 ottobre si è diffusa in centinaia di città ai quattro angoli del pianeta, a riprova dell’efficacia di uno stile di azione e di un linguaggio politico (quello degli indignados, appunto) che meglio di altri paiono adattarsi alle modalità asimmetriche con cui la crisi colpisce società e popolazioni in diversi contesti geografici. La profondità della rottura dello sviluppo capitalistico si è riflessa nello specchio globale del 15 ottobre, offrendo un quadro ancora parziale ma tuttavia rivelatore dell’intensità delle lotte e delle ipotesi costituenti che ovunque cominciano a presentarsi. Straordinarie sono state le mobilitazioni di Madrid e Barcellona, concluse con assedi ai palazzi del potere, con occupazioni di scuole, palazzi e ospedali. Ma molto importanti sono state anche le manifestazioni negli Stati Uniti, che hanno portato un osservatore attento come Immanuel Wallerstein a parlare del più rilevante movimento sociale in quel Paese dal ’68. Anche qui l’occupazione fisica di uno spazio centrale a New York e l’indignazione di fronte al potere della finanza sono stati i tratti fondamentali di una radicalità che si è diffusa, in particolare dopo l’occupazione del ponte di Brooklyn, in altre città statunitensi. Attorno a questi punti alti della dinamica di indignazione si sono disposte le altre iniziative, più o meno consistenti dal punto di vista della partecipazione ma comunque essenziali nel dare un respiro globale alla giornata.

2. La manifestazione di Roma si è collocata all’interno di questo quadro con evidenti elementi distonici, che erano apparsi chiaramente già nelle modalità della convocazione e nel percorso della sua preparazione. Politicismo e provincialismo hanno pesato in Italia come in nessun altro contesto, e troppi sono stati i tentativi di sovrapporre il classico format della “manifestazione nazionale” a una convocazione che, proprio in quanto proveniente “dall’esterno”, garantiva una mobilitazione che nessuna forza organizzata è oggi in grado di determinare. Le logiche della rappresentanza (politico-istituzionale e/o di movimento) hanno così fin da principio introdotto elementi di “corruzione” all’interno della costruzione italiana del 15 ottobre. E non è certo un caso che realtà di lotta forti e radicate ma estranee alla logica della rappresentanza, come il movimento NoTav e gli “stati generali della precarietà” siano stati immediatamente indicati dai media come “responsabili” degli incidenti. La ricerca del precario gentile e del militante ragionevole, meglio ancora se ravveduto da un passato di sregolatezza, è stata una costante nei giorni successivi al corteo romano, essenziale alla costruzione della favoletta di un movimento “buono” (cioè compatibile con le logiche della rappresentanza) e una minoranza di “cattivi” e guastatori. Repubblica è stata particolarmente zelante in questa ricerca, a cui ha fatto da contraltare una patetica attività “investigativa” per individuare le realtà politiche da colpire. Ma come spesso accade, il “partito dell’ordine” ha unito in un unanime coro forcaiolo improbabili alleati – da Di Pietro a Maroni, da Repubblica al TG1.

3. La manifestazione, in ogni caso, è stata prima di tutto gigantesca, percorsa al proprio interno da una profonda eterogeneità sociale e culturale, prima ancora che politica. L’antiberlusconismo è stato senz’altro ben presente nei toni e nei sentimenti di molti e molte partecipanti. E abbiamo visto nella delazione di massa cominciata già in piazza, e poi rilanciata dai media (in primo luogo ancora da Repubblica), la faccia più inquietante dell’apologia della legalità che ha attraversato negli ultimi anni gli stessi movimenti. Su tutt’altro versante, è emersa la presenza di un’area che ha caratterizzato la prima parte del corteo con azioni dirette, a volte contro obiettivi chiaramente individuati (ad esempio le banche) a volte con cieca furia distruttiva. Tra queste due aree, il corteo romano era fin troppo affollato di gruppi, gruppetti e gruppazzi, ciascuno con le sue ipotesi su come rappresentare l’unità del movimento che manifestava a Roma. Nessuno è stato in grado di farlo, tutte quelle ipotesi si sono dimostrate non all’altezza del problema che politicamente la giornata del 15 poneva, quando non velleitarie. Questa “densità” di strutture politiche che in forme diverse fanno riferimento al “movimento” è una peculiarità italiana che ha finito per agire da freno rispetto al dispiegarsi di dinamiche di unificazione della protesta che altrove, ad esempio nei due casi citati in precedenza (in Spagna e negli Stati Uniti), si sono dispiegate in modo originale e autonomo. Nel vuoto politico che si è aperto a Roma sabato (ma che già si era palesato nelle settimane precedenti) lo spaesamento si è unito alla rabbia, fino all’esplosione di rivolta sociale in Piazza San Giovanni, con ore di resistenza e attacco di fronte alla violenza della polizia, a cui hanno partecipato migliaia di giovani e meno giovani. Qui, con ogni evidenza, comportamenti, pratiche, modi di stare in piazza (tra cui vanno ricordati quelli delle migliaia di altri manifestanti che semplicemente hanno rifiutato di andarsene) hanno dato allo scontro un segno totalmente diverso rispetto a quanto si era visto nelle ore precedenti.

4. Là dove si è manifestata in forme politicamente significative, la dinamica dell’indignazione presenta caratteri di radicale rottura, indipendentemente dal fatto che si esprima in forme diverse dallo scontro di piazza. E’ evidente in Spagna la rottura con la rappresentanza politica, a partire dalla banale circostanza che il movimento si è formato contro un governo di “sinistra” in cui molti avevano visto l’astro nascente di un nuovo riformismo socialista e non può certo avere nel Partito popolare il suo interlocutore. Ma l’occupazione degli spazi urbani, il dilagare nei quartieri, le occupazioni e le esperienze di autogestione dei servizi alludono a una dimensione pienamente costituente. Negli Stati Uniti d’altro canto, in un contesto completamente diverso dal punto di vista delle tradizioni e delle dinamiche politiche, è stata in primo luogo l’occupazione degli spazi urbani, al prezzo di centinaia di arresti, a esprimere la radicalità e consolidare la forza del movimento. Diffusa ovunque è poi la parola d’ordine della lotta contro il debito, che allude a un essenziale terreno di campagna comune. Crediamo che questi aspetti di radicalità e rottura segnino un punto di non ritorno per lo sviluppo delle lotte e dei movimenti dentro la crisi. Si tratterà di “tradurli” nei diversi contesti, senza pensare che esistano modelli “universali” (o “globali”). Ma indietro non si torna! A fronte dei processi di precarizzazione lavorativa ed esistenziale, di pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione finanziaria, di emarginazione sociale, che nella crisi mostrano la loro faccia più feroce, la radicalità delle pratiche deve impiantarsi su una composizione sociale che sempre più trova nella povertà la propria cifra d’insieme. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a noi sembra che le lotte dentro la crisi debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il Capitale e contro la povertà che esso ci impone.

5. Se questo è lo scenario che si prefigura per i prossimi mesi, si tratta di comprendere che la povertà viene vissuta da posizioni soggettive assai diversificate, profondamente eterogenee. Questa eterogeneità è un elemento costitutivo della composizione del lavoro vivo contemporaneo. Non lasciamoci ingannare dalla retorica, certo utile per costruire mobilitazione ma non priva di insidie, del 99% della popolazione contrapposto alle oligarchie finanziarie: suggerisce un’immagine di compattezza e di omogeneità dei referenti “sociali” del movimento che ovviamente non trova riscontro nella realtà. Comportamenti distruttivi, se non auto-distruttivi, sono connaturati ad alcune di queste posizioni soggettive. Quando alcune periferie della povertà, come era accaduto a Roma il 14 dicembre ed è tornato ad accadere il 15 ottobre, scendono in piazza, non è il caso di attendersi da loro proposte di riforma costituzionale. Lo si era visto del resto con la rivolta delle banlieues francesi nel 2005 e lo si è visto di nuovo quest’estate in Inghilterra. Non si tratta di fare un’apologia “estetizzante” dei comportamenti che hanno caratterizzato queste insorgenze. Si tratta di scegliere prima di tutto da che parte stare. E c’è una bella differenza tra stare con i poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerali intoccabili, lebbrosi. Media, polizia e sistema politico non hanno dubbi su quale sia la parte giusta da cui stare. Noi neppure.

6. Solo un programma positivo, maggioritario, materialmente definito può probabilmente vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei poveri. Per dirla nei termini più semplici possibili: il problema di come far stare insieme in un corteo romano l’artista del Teatro Valle condannato alla precarietà e l’adolescente di Tor Bella Monaca che tendenzialmente a teatro non andrà mai è il problema che poniamo quando parliamo di programma. Il fatto che anche la semplice allusione a questo programma sia mancata nella preparazione del corteo romano del 15 ottobre è ampiamente riconosciuto nel dibattito che attraversa il movimento in questi giorni. Al più si è avvertita la presenza da parte di alcune componenti di un “programma minimo” costruito interamente attorno a linee di alleanza sindacale e politico-istituzionale (e non può stupire che a molti quel programma minimo sia apparso come un “opportunismo massimo”). A ciò si aggiunge la mancanza di obiettivi caratterizzati a un tempo da radicalità, immediata leggibilità e potenziale condivisione da parte della grande maggioranza dei manifestanti. C’era qui, soprattutto considerando i numeri imponenti del corteo, un limite di fondo che ha avuto un ruolo di primo piano nel determinare la dinamica romana di sabato scorso. Davvero grottesco, in particolare, ci è sembrato il tentativo di riesumare per l’occasione del 15 ottobre il modello del “social forum”. Ci è sembrato grottesco perché non teneva in nessun conto i cambiamenti profondi che si sono prodotti rispetto a una stagione di lotte e mobilitazioni certo importantissima, ma che aveva tra l’altro conosciuto il proprio scacco in una dinamica di rappresentazione sul terreno dell’opinione pubblica e della società civile di cui proprio il modello del “social forum” era stato espressione. La sconfitta della straordinaria mobilitazione globale contro la guerra in Iraq il 15 febbraio del 2003, quando milioni di donne e uomini scesero in piazza in tutto il mondo inducendo il New York Times (e l’ineffabile Repubblica di rimbalzo) a parlare della “seconda potenza mondiale”, è ancora viva nella memoria dei movimenti. Immaginiamo che qualcuno, il 15 ottobre, abbia ricordato con nostalgia l’oceanica manifestazione romana di quel giorno di febbraio. Molti di noi hanno invece ripensato al senso di impotenza provato in quell’occasione di fronte a una guerra che stava per cominciare e che non eravamo riusciti a fermare. E hanno semmai avvertito una certa somiglianza tra quel senso di impotenza e lo spaesamento di molti manifestanti romani il 15 ottobre. Né nelle piazze spagnole né a Zuccotti Park a New York si respirano senso di impotenza e spaesamento.

7. Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità della decisione, ovvero la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli anni Novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. In Italia, questo movimento si è espresso attorno alle elezioni amministrative e nei referendum della scorsa primavera, nelle lotte contro la TAV in Val di Susa, vive nelle mille esperienze di auto-organizzazione e di lotta di precari e migranti. Si tratta di lasciargli spazio e voce, nella consapevolezza che solo un progetto costituente può unificare tutti nel movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato. Ma c’è ben altro. La chiave del modello costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile –, ma senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre vittime del saccheggio capitalistico odierno. Non aver paura è resistere al potere ed esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. Attorno alle lotte contro il debito, le privatizzazioni, contro la speculazione sulle “grandi opere”, per l’organizzazione comune dei servizi di Welfare e per la riappropriazione della rendita finanziaria alcuni elementi di programma stanno cominciando materialmente a definirsi. Non è certo all’interno dei confini degli Stati nazionali che questi elementi possono comporsi e saldarsi efficacemente! La conquista dello spazio europeo, lacerato dalla crisi e trasformato nelle sue stesse geografie tanto dalla crisi stessa quanto dai movimenti di rivolta nel Maghreb, torna qui a proporsi come compito immediato e straordinariamente urgente per le lotte e per i movimenti.

Ps: mentre scriviamo molte ragazze e ragazzi sono ancora in galera. Chiederne l’immediata scarcerazione, senza se e senza ma, è il dovere comune di tutte e tutti. Pensiamo che nessuno possa avere dubbi su questo.

www.uninomade.org

 

Il coordinamento cittadino di lotta x la casa sul 15Ottobre

Sabato 15 ottobre eravamo in piazza.

 Sabato 15 ottobre eravamo in piazza. Ci capita spesso, abituati/e come siamo a contendere metro dopo metro la città agli speculatori e a chi ne difende gli interessi. Eravamo in piazza con la nostra solita composizione: uomini e donne da tutto il mondo che hanno scelto la via dell’auto-organizzazione e della lotta per non soccombere alla schiavitù degli affitti o del mutuo.

 

Non eravamo soli. Insieme a noi centinaia di migliaia di persone, a Roma come nel resto del mondo manifestavano contro le politiche di austerity imposte con la forza dalle istituzioni finanziarie mondiali per far pagare a sfruttati e sfruttate i debiti con cui i finanzieri si sono arricchiti.

 

In tutte le sedi possibili, prima del 15, abbiamo evidenziato che la rabbia sociale contenuta in una giornata del genere non avrebbe potuto essere circoscritta nel ristretto spazio che una serie di organizzazioni più o meno rappresentative le avevano riservato: una passeggiata lontano dai palazzi del potere con comizi finali, che in alcuni casi prefiguravano una candidatura a succedere a Berlusconi nell’ordinaria amministrazione della crisi.

 

I fatti ci hanno dato ragione. Non ci interessa la cronaca. Ci basta rilevare che l’andamento di quella giornata ha travolto gli argini di qualunque rappresentanza, comprese quelle “di movimento”.  

Il variegato mondo di soggetti sociali colpiti dalla crisi ha dimostrato di essere irrappresentabile. Resta aperto il problema di come possa auto-organizzarsi ed estendere il conflitto dalle grandi piazze alla quotidianità delle contraddizioni sociali: territori, reddito, lavoro e beni comuni.

 

Siamo abituati/e anche, di tanto in tanto, ad essere sbattuti come mostri in prima pagina dai mass-media dei padroni di centro-destra o di centro-sinistra, secondo le circostanze. Per questo esprimiamo la nostra assoluta vicinanza a tutti quei compagnie e quelle compagne a cui la forsennata campagna stampa in atto attribuisce la “regia occulta” degli scontri. In primis compagni e compagne del LOA Acrobax, che da anni, a volto scoperto e alla luce del sole, sono parte integrante del nostro movimento e nelle nostre occupazioni, nei nostri picchetti, nelle nostre tendopoli si battono per conquistare il diritto ad una abitazione dignitosa, in una città vivibile per tutti e per tutte.

 

Quello a cui non siamo abituati né abituate è ad assistere ad una vergognosa campagna di invito alla delazione di massa che vede in prima fila quegli esponenti del centro-sinistra che, ahinoi, alcuni pezzi di movimento anelano a vedere alla guida del paese. Costoro gareggiano con Maroni nel chiedere arresti in massa e leggi speciali. Inevitabilmente questo costituisce uno spartiacque: da una parte chi ci vuole in galera, dall’altra chi vuole aiutare lo sviluppo di un movimento di massa di opposizione sociale, in grado, finalmente, di invertire i rapporti di forza nella nostra società, mettendo in pratica, mediante la lotta, l’auto-organizzazione e la riapproprazione le parole d’ordine contro il debito, per il reddito e per i beni comuni.

 

Solidarietà a chi ha avuto la casa perquisita.

Solidarietà a compagni e compagne arrestati/e.

Libertà subito per tutti e tutte.

 Coordinamento cittadino di lotta x la casa – Roma