Comunicato del Presidente dell’XI° Municipio Andrea Catarci in solidarietà con il Laboratorio Acrobax

Il Laboratorio Acrobax è una realtà attiva da anni nel Municipio Roma XI. Negli spazi dell’ex Cinodromo occupati e recuperati ad uso pubblico dal 2002, è presente un centro giovanile, uno spazio socio-abitativo in cui vivono 15 persone, una palestra, un campo di basket, un campo di rugby in cui si gioca il campionato di serie C, una sala prove per la musica. Si fanno iniziative quotidianamente ed alla luce del sole, per contrastare il precariato, l’emergenza abitativa, il caro-vita e l’uso delle armi, per promuovere lo sport per tutti, elemento di integrazione e confronto leale, per migliorare il quartiere, in particolare il degradato tratto di Lungotevere Dante. Tra il 2006 ed il 2007 due giovani di questa comunità, Antonio prima e Renato poi, hanno vista troncata la propria breve esistenza, il primo sul lavoro facendo trasporti veloci col motorino, l’altro assassinato all’uscita di uno stabilimento balneare da due giovani con simbologie neofasciste. I tragici fatti hanno rafforzato i legami con le altre realtà territoriali, già ampiamente consolidati.

Se qualcuno ha partecipato al rito vuoto e ingiusticabile della rottura di vetrine ed ha compiuto gesti ed azioni illegali va ovviamente accertato, ma che si indichi quel posto come palestra per il terrorismo oltre ad essere falso sa di sadico. E che Acrobax venga sbattuto in prima pagina e diventi una priorità del Ministro Maroni e del Sindaco Alemanno, in un clima da caccia alle streghe, è quanto di peggio sta producendo l’imperante subcultura antidemocratica ed autoritaria.

 

Andrea Catarci

Presidente del Municipio Roma XI

“Né buoni, né cattivi” – Intervista di Acrobax al Manifesto

di Eleonora Martini –

ROMA DOPO GLI SCONTRI – Grande discussione tra i partecipanti alla manifestazione.

Polemiche sugli incidenti Né buoni, né cattivi

«L’album di figurine ricostruito da certi media è ridicolo. Gli avvenimenti di sabato rivelano la temperatura sociale del Paese».

Parla un militante di Acrobax, uno dei centri sociali additati come cabina di regia degli scontri Sono stati additati dai media mainstream come la macchina organizzativa degli scontri di sabato scorso a Roma. I militanti del centro sociale romano Acrobax, insieme ai torinesi di Askatasuna e ai padovani del Gramigna, sarebbero secondo un «teorema preordinato» – così lo definiscono – la base logistica e di regia della battaglia che ha trasformato per la prima volta da tempo immemore la piazza di arrivo di una manifestazione in un campo di macerie. «È falso». Un confronto con loro deve partire necessariamente da questo assunto. Non vuole avere un nome, il militante di Acrobax con cui parliamo, «per una scelta politica, non giudiziaria: perché una voce senza nome è più ascoltata di tanti personalismi».

Dunque non siete voi gli artefici degli scontri di sabato?

L’album di figurine ricostruito da certi media è ridicolo. Noi, i militanti del Gramigna, per esempio, non li abbiamo nemmeno mai visti in una riunione. Con gli attivisti No Tav, invece, come con molte altre realtà italiane ed europee della rete degli Stati generali della precarietà abbiamo costruito insieme un percorso di lotta che continueremo a portare avanti. Un percorso condiviso da un movimento amplissimo, internazionale ed europeo, che sulla base dell’appello del 15 ottobre si è riunito a Barcellona per organizzare la resistenza alla politica di austerity dettata dai poteri finanziari globali. Non a caso, eravamo a pieno titolo nello spezzone iniziale del corteo. Ma il punto che sfugge ai più è che uno spezzone sia pur organizzato e militarizzato di rivoltosi non avrebbe avuto la forza di tenere sotto scacco per ore la polizia e trasformare piazza San Giovanni in un campo di battaglia. La resistenza, lì, è stata diffusa, la guerriglia l’hanno fatta migliaia di manifestanti. E noi con loro. Ma è su questo che si deve riflettere: come mai un piccolo gruppo di «violenti» è riuscito a trascinare con sé tanta gente? Chi erano queste persone?

È vero. Chi era in piazza quel giorno ha visto crescere il numero di “arruolati” alla guerriglia nel giro di qualche ora. Dapprima solo un “plotone” di miliziani nero vestiti, poi, a San Giovanni, gruppi non più definibili. Dunque tra di voi non c’era un disegno prestabilito per far saltare la manifestazione degli indignati?

Il comitato 15 ottobre sapeva benissimo che noi non riconoscevamo e contestavamo le loro scelte politiche. Come è avvenuto in tutto il mondo – da New York a Milano – noi volevamo portare la nostra protesta sotto i palazzi del potere. Quando dico «noi» intendo dire le migliaia di persone che hanno partecipato ad un’intera area di corteo. La nostra manifestazione sarebbe dovuta finire altrove, non in piazza San Giovanni. Le nostre azioni erano mirate, politiche. Volevamo sanzionare l’abuso di potere che costruisce zone rosse off-limits. Ma soprattutto mettere in pratica il diritto all’insolvenza, riappropriarci dei beni di consumo, far valere i nostri diritti negati – dalla casa al lavoro, dai saperi alla salute. Su questo tipo di lotte ci mettiamo la faccia e puntiamo alla riproducibilità delle nostre azioni. Non lasceremo soli chi vive sulla propria pelle l’esclusione imposta dalle banche centrali e dalle finanze globali, né li lasceremo alle destre o alla Lega.

Avete raggiunto i vostri obiettivi, sabato scorso?

Non abbiamo risolto il problema ma l’abbiamo reso evidente. Anche se non siamo caduti nella trappola della polizia e non abbiamo forzato il muro costruito a difesa del centro trasformato in zona rossa. E non abbiamo nemmeno paura di dire che certe azioni, come bruciare le auto all’interno del corteo o danneggiare la statua della Madonna, sono stupide e irresponsabili. Ma è stata colpa delle cariche della polizia e del modo di gestire le forze dell’ordine se gli scontri sono finiti proprio dentro la piazza dove il corteo avrebbe dovuto approdare. È davanti ai caroselli impazziti della polizia e alle auto lanciate contro la folla, che i manifestanti si sono uniti ai pochi «violenti», come li chiamate voi, iniziali.

 Abbiamo già raccontato ai lettori del manifesto la strana gestione delle forze di polizia in piazza San Giovanni. Ma insomma, non la firmate voi, quella violenza primaria e impulsiva senza grandi doti comunicative che ha devastato Roma?

Bisogna capire che c’è anche quella, anche se non era affatto nei nostri piani. Dovremmo tutti cercare di leggere i fatti di sabato come un termometro che misura la temperatura sociale di questo Paese.

Ha spiazzato anche voi, dunque?

Noi non facciamo le pulci alle varie anime del movimento, ciascuno sceglie la propria pratica politica. Così come non consideriamo nemici nemmeno coloro che scelgono strade di rappresentanza politica. C’è il massimo rispetto per chi sceglie le rappresentanze sindacali e studentesche. La nostra non è antipolitica, ma la consapevolezza dello svuotamento delle rappresentanze politiche. Certo, però, non saremo il capro espiatorio di un Paese – il cui tasso di disoccupazione giovanile sta al 30-35%, che vive in una dittatura mediatica unica al mondo, in assenza totale di tutele per i lavoratori e con un welfare tradizionale azzoppato dai tagli – nel quale è ovvio che il tappo è ormai saltato. Noi non provochiamo la rivolta ma nemmeno faremo i pompieri: meglio che tutto ciò emerga. A questo punto, o le rappresentanze politiche mostrano uno scatto di responsabilità, cercando di comprendere il senso e di dare delle risposte al conflitto, oppure quello che è successo sabato non è che l’inizio. E non è una minaccia, è una constatazione.

Cosa è cambiato rispetto alla manifestazione del 14 dicembre scorso?

Quello era solo corpo studentesco, sabato scorso invece in piazza c’era il corpo sociale metropolitano e precario. Allora si puntava alla sfiducia del governo e l’opposizione costituita ancora una sorta di rappresentanza politica parlamentare. Oggi le politiche di austerity sono condivise da tutto l’arco parlamentare. Per questo, senza fare alcuna apologia della violenza, diciamo che se il conflitto non trova altri sbocchi, in qualche modo esplode. È chiaro che si vuole instaurare uno stato d’eccezione per poi gestirlo in emergenza.

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20111018/manip2pg/04/manip2pz/311747/

 

Roma, il racconto di un autonomo: “Niente comizi, la piazza si conquista”

Gianluca, redattore di Infoaut, spiega dall’interno l’origine politica della violenza alla manifestazione degli indignati a Roma. “Bruciare macchine e spaccare la statua della Madonna è stata una gigantesca cazzata, ma attaccare banche e ministeri è un segnale politico”. E conferma la presenza in piazza di ultras del calcio e “reduci” degli anni Settanta
“Certo ci sono stati episodi deliranti, come bruciare le macchine, cosa che finisce solo per spaventare il corteo, o spaccare la statua della Madonna. Sono cazzate pazzesche. Ma attaccare le banche o gli uffici dei ministeri, che piaccia o meno, è un’indicazione, un segnale politico”. Gianluca, redattore di Infoaut, portale di politica e controinformazione di diversi collettivi dell’area autonoma, spiega la violenza esplosa alla grande manifestazione degli Indignati a Roma, terminata in ore di scontri in piazza San Giovanni, e con l’annullamento di tutti gli interventi finali.

Lui era lì, nel cosiddetto “blocco nero”, quello dei manifestanti coperti da caschi e cappucci che sono diventati protagonisti delle violenze. “Non raccontiamoci la storiella di due o trecento ‘black bloc’, magari fascisti o infiltrati della polizia”, continua Gianluca. “Tra il Colosseo e piazza San Giovanni, alla testa del corteo si è venuta a formare una componente di migliaia di giovani che non si riconoscevano negli organizzatori della manifestazione”. Addirittura cinque-diecimila, secondo il redattore di Infoaut, testata che in un editoriale definisce i fatti di Roma un episodio di “resistenza”.

Qui sta il cuore della frattura tra pacifici e violenti, con i secondi che di fatto hanno monopolizzato le cronache della protesta tra incendi e sassaiole. “La costruzione del 15 ottobre in Italia è stata nettamente al di sotto di quello che doveva essere. Gli organizzatori sono cadaveri: gruppi, sindacati e partitini che non esprimono niente nelle città, nelle scuole… Secondo loro, il corteo doveva finire con dei comizi elettorali, un modo secondo noi stupido di coronare una giornata di lotta. E la manifestazione sarebbe passata lontano dai veri luoghi della responsabilità”. Vale a dire i palazzi del potere, ritenuti colpevoli della crisi e del “furto” del futuro per le giovani generazioni.

Così, ragiona ancora Gianluca, molti hanno deciso di “uscire” dal programma preconfezionato. “Si possono anche deprecare le violenze di due o trecento persone, ma quando migliaia di giovani resistono per ore alla polizia è un fatto politico, come è accaduto anche nella manifestazione studentesca del 14 dicembre, sempre a Roma. Invece di aspettare i comizi, si sono presi la piazza. Questi giovani sanno che il loro futuro non esiste e non sono più riassumibili e compatibili in partiti, sindacati, associazioni. Se il percorso ufficiale della manifestazione avesse toccato i palazzi del potere, forse le cose sarebbero andate diversamente”.

Le azioni dei “neri” hanno provocato rabbia e reazioni molto decise da parte dei manifestanti che, nella stragrande maggioranza, puntavano a una giornata pacifica. E che invece si sono visti “scippare” i contenuti della protesta dalla risonanza mediatica degli scontri. Ma Gianluca la vede diversamente: “I contenuti politici ormai si conoscono: la crisi economica, il governo che sta in piedi a stento. Non si capisce perché la rivolta vada bene solo in Egitto”.

Alla fine, chi erano i violenti di piazza San Giovanni? “Al di là dei gruppi storici, c’è ormai uno strato sociale che si esprime in questo modo. Certo che Nichi Vendola dice che non si riconosce in quella piazza, ma neppure quella piazza lo voterà mai, perché sa che da lui arriveranno le solite ricettine”. Gianluca conferma che a manifestare a Roma c’erano anche gruppi ultras del calcio: “Ho visto ragazzi con lo striscione contro la ‘tessera del tifoso’, ma va capito che gli ultras sono un fenomeno sociale di massa. Rappresentano una forma di conflitto che per me sta al di sotto, ma dopo la normalizzazione del ministro Maroni tornano in strada e trovano un ambiente affine. Non sono alieni, sono anche loro proletari, stanno anche loro nelle scuole, nei luoghi di lavoro”. Così come, in mezzo a tanti ragazzi, si sono dati da fare contestatori più attempati, “quaranta-cinquantenni provenienti da altre battaglie”.

A questo punto, conclude, la definizione di “black bloc” diventa stretta. Il termine lo inventò la polizia tedesca negli anni Ottanta per definire gli Autonomen, che nei cortei facevano più o meno le stesse cose viste a Roma il 15 ottobre e si vestivano tutti di nero anche per rendere più difficile il riconoscimento nei filmati della polizia. In seguito, è stato utilizzato per definire la tattica di piccoli gruppi più o meno coordinati che si infiltravano nei cortei e ne uscivano per colpire gli obiettivi simbolo del capitalismo. Per Gianluca, i protagonisti degli scontri di Roma sono invece “una minoranza, ma di massa”.

Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.

dal manifesto.it

Chi sono?/ I «RAGAZZI DEL 14 DICEMBRE» DI NUOVO PROTAGONISTI
Una generazione nata precaria, mentre scompare la mediazione.
Se la governance «stile Bce» esautora la politica, si moltiplicano le figure sociali che non trovano più rappresentanza.

Hammett (da Il Manifesto di domenica 16 ottobre)

Aver poca memoria è un guaio. Un mondo politico affetto da questo male è gerontocrazia. Quello che è avvenuto ieri è un’estensione del 14 dicembre dell’anno scorso. Più in grande, più lontano dai «palazzi del potere», più intenso. Segnala che c’è un problema nel corpo sociale. Un problema che non trova rappresentanza, né a livello politico né sindacale. Ma esiste e non si può rimuovere con i fervorini giornalistici o, peggio, con le dichiarazioni nerborute del politico-che-rende-dichiarazione-alla-stampa.
Segnala che le soluzioni alla crisi stile «lettera Bce» – riducendo drasticamente la spesa pubblica – stanno annullando gli strumenti di «mediazione sociale». Per chi ha ancora un lavoro o una pensione, un riduzione di coperture o diritti è una sciagura in progress, cui cercare di resistere con le unghie e coi denti, magari intaccando i risparmi di una vita con lo sguardo ancora rivolto alla condizione precedente che si cerca – giustamente – di difendere. Per chi si affaccia ora «in società» e cerca di capire quale sia il suo posto, lo stesso taglio indica che per lui non c’è un grande futuro. O forse non c’è proprio.
Quando ieri, sopra le mappe geografiche dei Fori Imperiali, hanno tirato su lo striscione «di chi è la storia? è nostra», si potevano vedere centinaia di ragazzi che magari di storia ne masticano poca, ma non possono accettare di non farne parte. Di non avere ruolo, di essere «mercanzia»; per di più di poco prezzo.
E qualcuno lo capisce, sia sul piano empirico che su quello analitico (più complicato, ma più illuminante). Quando intervistammo i ragazzi del 14 dicembre questa «crisi della politica» ci venne sintetizzata in modo plastico: «Se – come potere – dico che ‘a causa della crisi’ non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che ‘la mediazione’ non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico».
Questa è la condizione della politica del prossimo futuro, quella stilizzata nella lettera di Draghi e Trichet, quella che espropria i singoli paesi della scelta più importante: quella sulla politica economica. Potranno legiferare sul testamento biologico o le intercettazioni, ma non su quale parte della popolazione strangolare e quale tutelare. È tutto qui il campo di applicazione della democrazia occidentale?
Discorso astratto? Il contrario. «Bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono; si parla di sofferenza precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e governance, o avrà le mani legate». Sono passati dieci mesi e in tutti questi giorni abbiamo potuto ascoltare politici di maggioranza e di opposizione esercitarsi sullo spartito: «ce lo chiede l’Europa», seguito da un «purtroppo» o un «per fortuna».
Questi ragazzi abitano le nostre periferie, forse qualcuno anche quartieri più «in». Si vedono tra loro più simili di quanto magari non càpiti ai rispettivi genitori. Arrivano nel centro della città come stranieri in territorio nemico, con coordinate persino approssimative. A dicembre un soldo di cacio con la faccia svelta mi fermò sul ponte per piazza del Popolo per chiedere «signore, qual’è la strada per palazzo Chigi?». E non pensava di entrarci come portaborse…
Dieci mesi fa hanno tenuto le strade del centro per quasi un’ora. Ieri si sono esibiti in diretta tv per oltre tre ore, fin quando le ombre della sera non li hanno portati lontano dalle telecamere. Ma sempre in corsa, contro «obiettivi simbolici» che non sposteranno di una virgola gli equilibri sociali e politici. O magari lo faranno in peggio. Però questa generazione «nata precaria» esiste, l’abbiamo creata «noi» a colpi di «pacchetto Treu» e «legge 30». Reagiscono alla «frammentazione sociale» in modo ruvido, magari «poco simpatico». Ma esiste ed esige risposta. Voltare le spalle e lasciare il problema alla polizia è la risposta peggiore.

Doveva finire con qualche comizio…

da www.infoaut.org

In Italia la giornata del #15 ottobre ci consegna una realtà che mentre scriviamo viene descritta fotogramma per fotogramma dai tg e dai siti informativi, come il giorno in cui un manipolo di teppisti si é impossessato di una giusta causa ed ha rovinato tutto.

Più o meno le stesse parole di Mario Draghi, e quelle di Bersani che si spinge più in là, chiedendo a Maroni di riferire in parlamento nei prossimi giorni perché, come per il 14 dicembre dello scorso anno, si ha paura che i ragazzi colorati con le tende o avevano al loro interno qualche infiltrato di Kossiga memoria, o che le forze dell’ordine abbiano “lasciato fare” il manipolo di teppisti apposta.
La realtà ancora una volta è un’ altra e va ben al di là di queste considerazioni e di quelle che iniziano a circolare tra il movimento.
Al 15 ottobre ci si è arrivati in una situazione assurda, dove gli organizzatori dei comizi finali in piazza San Giovanni, avevano desistito da tempo di sfilare verso i palazzi del potere romano, che era l’unica cosa incisiva in una giornata del genere. Le iniziative dei giorni scorsi volevano smorzare e incanalare una rabbia diffusa e irrapresentabile che oggi si è manifestata in tutta la sua espressione.
Può anche essere vero che all’inizio la giornata avesse preso una piega difficile da spiegare (ma più comprensibile di altre volte se possiamo dire) con l’attacco a banche, Suv e compro oro, ma poi quello che si è visto è stato tutt’altro che qualche gruppo di esagitati, infiltrati, carabinieri o fascisti che dir si voglia nei social network.
Si è visto un corteo di giovani, per lo più giovani, non rappresentati da nessuno neanche all’interno del movimento, che in quel “Que se ne vayan todos”, si sono riconosciuti appieno.
Giovani studenti, precari o disoccupati che si sono portati anche la maschera antigas nello zaino, perché pensavano di partecipare ad una giornata di riscossa, un po’ come per il 14 dicembre dell’anno scorso, dove nonostante tutti i calcoli degli organizzatori, il corteo straripò, fuori dai recinti e dalle mediazioni.
Diciamola tutta, se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso.
La giornata di oggi, piazza San Giovanni nella fattispecie, si è trasformata in ore di resistenza di massa alle forze dell’ordine, chiamate a respingere una rabbia sacrosanta verso un presente di austerity. Magari non è comprensibilissimo ai più, ma le ore di resistenza romana odierna hanno detto chiaro e tondo che al debito, ai sacrifici, alla casta, all’austerity a senso unico, che ribellarsi è qualcosa che può unire, e che può succedere.
Oggi poteva solo succedere qualcosa in più dei piani prestabiliti, era normale, era nell’aria, spiace che ci sia chi non lo ha voluto vedere e si è voluto coccolare il suo orticello fatto di qualche poltroncina con Sel alle prossime elezioni.
Spiace la rinuncia degli organizzatori a puntare dritta verso i palazzi del potere, perché questo ha lasciato di fatto mano libera alla spontaneità, che non essendo indirizzata, ha consumato, dall’inizio, passo per passo, l’attacco a tutto ciò che è considerato simbolo del sistema di iniquità.
Era destino, ed era giusto, siamo nell’Italia dei Berlusconi e dei ceti politici sempre verdi.
Doveva finire con qualche comizio in piazza San Giovanni, è finita con ore di resistenza…
Que se ne vayan todos (ma proprio todos).

Una prima presa di parola del Laboratorio Acrobax sulla giornata del 15/10

Il 15 ottobre a Roma abbiamo vissuto una giornata lunga e densa di avvenimenti su cui vorremmo esprimere alcune riflessioni, anche a fronte del linciaggio mediatico a cui siamo sottoposti.
Questo comunicato è una presa di parola rispetto alla pressione mediatica che si sta producendo intorno a quella giornata; diverso e con altri tempi sarà il dibattito di movimento.
La giornata è stata fatta vivere da migliaia di persone, di cui noi siamo stati una parte e come tale abbiamo provato a curare la riuscita e la capacità di sedimentare, che si sono mobilitate contro la crisi e l’austerity dimostrando che in Italia c’è un malessere diffuso e in quella partecipazione vediamo la volontà determinata di cambiare, di trovare strade alternative alle ricette della banca europea e prendere
parola in prima persona.
Questo l’abbiamo visto in maniera straordinaria nella grandissima partecipazione alla parte di corteo che abbiamo contribuito a costruire in assemblee pubbliche con centinaia di persone, con delegazioni di 15 città, dal nord al sud dell’italia, con migliaia di precarie/e, migranti e studenti, sotto le insegne di San Precario e Santa insolvenza. Immaginato e realizzato all’interno della rete degli
Stati generali della precarietà, nata nel corso dell’ultimo anno e che sta puntando alla realizzazione dello sciopero precario. Per questo abbiamo condiviso l’appello del 15 ottobre e siamo andati a Barcellona per la sua organizzazione internazionale e la costruzione di un movimento europeo.
Quella parte di corteo, a cui molte realtà si sono unite direttamente in piazza della Repubblica, aveva scelto di dare vita ad alcune iniziative di comunicazione, da quella all’albergo Exedra-Boscolo fino all’occupazione di fori imperiali che hanno costruito la nostra presa di parola pubblica e a viso aperto. A chi ci indica come regia di una presunta escalation del livello di scontro raggiunto dalla manifestazione rispondiamo che è semplicemente impossibile e fuori da ogni logica che una struttura cittadina possa organizzare una parte così ampia della manifestazione.
Nel corso del corteo si sono date delle azioni diverse dai livelli che noi abbiamo praticato o condiviso con la nostra rete. Non ci interessa entrare nel dibattito buoni e cattivi, violenza o non violenza che riteniamo molto strumentale e invece sicuramente molto più interessante è il ragionamento su come costruire relazione, condivisione e partecipazione in situazioni analoghe.
Crediamo che la gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine sia stata criminale e intenzionalmente mirata a dividere definitivamente il corteo, con le cariche generalizzate da via labicana, dove il nostro spezzone è stato caricato alle spalle, fino a piazza San Giovanni, con l’accanimento su manifestanti inermi e con caroselli dei blindati lanciati addosso alla gente. A questo migliaia di persone hanno risposto opponendo una tenace resistenza esprimendo una parte sostanziale di quella rabbia che vediamo ogni giorno crescere nel tessuto sociale italiano sempre più sottoposto ad
un’insopportabile precarietà della vita intera.

Leggiamo e vediamo nei mezzi di comunicazione una superficiale lettura di questa giornata a cui, purtroppo, molti esponenti politici danno la stura e che stanno costruendo addosso alle nostre spalle un capro espiatorio. Assurde e ridicole le insinuazioni nei nostri confronti.
Riteniamo grave aver mischiato come figurine di un album realtà e strutture, iniziative e strumenti comunicativi, immagini e simboli.
Una gran confusione che crea un mostro mediatico da sbattere in prima pagina. Noi non abbiamo nulla da nascondere perché sempre alla luce del sole abbiamo messo noi stessi nelle lotte contro la precarietà che costruiamo giorno dopo giorno.
Laboratorio Acrobax

L’Italia e il Mediterraneo in rivolta

da www.infoaut.org

Verso e oltre il 15 ottobre

Il 15 ottobre si svolgeranno in tutta Europa le manifestazioni lanciate dal movimento 15M per estendere oltre i confini spagnoli la pratica della protesta contro la casta che pretende di farci pagare gli effetti della crisi finanziaria. La scadenza di Roma ha inevitabilmente convogliato su di sé le attenzioni e le aspettative dei soggetti sociali che, in Italia, ritengono sia giunto il momento di far sentire la propria voce, e credono che, senza un’Onda Italiana, le politiche di palazzo sapranno superare la crisi istituzionale nel segno di una continuità conservatrice, antipopolare e contraria agli interessi della maggioranza. Si è diffusa in molti una consapevolezza di fondo: l’attuale condizione storica richiede un salto di qualità nei nostri comportamenti politici. Il sacrificio in piazza di Mohamed Bouazizi, il ragazzo tunisino che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010, ha aperto una nuova fase nel Mediterraneo. Il versante meridionale è entrato in una lunga e complessa fase rivoluzionaria, in grado di modificare in modo inaudito gli equilibri sociali interni a quei paesi e quelli internazionali. Sul versante settentrionale, anzitutto con le mobilitazioni di massa che attraversano la Spagna e la Grecia – paesi che, su un diverso livello, accusano pesantemente gli effetti della crisi mondiale, diventandone a loro volta propulsori – il conflitto sociale è entrato di prepotenza nel cuore degli equilibri monetari del nuovo secolo: l’Unione Europea.

Questi movimenti non sembrano analizzabili, e tanto meno governabili, attraverso ricette precostituite; ci consegnano un’evidenza che è impossibile non assumere nell’analisi generale: si è aperta una fase politica di sperimentazione dal basso. La primavera mediterranea non è e non sarà orientale o occidentale, democratica o dispotica, pacifica o violenta: le categorie in cui è rimasto impigliato gran parte del pensiero politico degli ultimi decenni, anche all’interno dei movimenti, saranno devastate dall’impatto dei conflitti sociali che già si affacciano su questo decennio. Il dato essenziale è il protagonismo di massa di soggetti sociali nuovi, moderni, che si pongono su un livello di rottura radicale tanto con i dispositivi di gerarchizzazione sociale e del reddito, tanto con le forme tradizionali della sovranità politica e territoriale. Dalle migrazioni di massa ai flussi grammatologici di insubordinazione attraverso il web, questi soggetti si presentano come sfuggenti, ingovernabili, insensibili tanto alle imposizioni delle frontiere politiche quanto a quelle linguistiche, giuridiche, informatiche. In questo scenario crediamo sia necessario ovunque consegnare ai movimenti, alle piazze e alle lotte tutta la nuova sovranità, la voce in capitolo, la progettualità rivoluzionaria. Non ci servono “alternative” di contenimento, né sul versante di una “guida” o “gestione” della crisi da parte delle istituzioni della casta, né all’interno dei movimenti.

La crisi non è un male obiettivo, naturale ed inevitabile, senza colpevoli, senza responsabilità soggettive; e le nostre chiamate alla mobilitazione devono essere cassa di risonanza dei desideri e della rabbia sacrosanta di tutte e tutti, senza limitazioni ideologiche o programmatiche, senza sovrastrutture progettuali che esulino dalla pura e semplice necessità di riprodurre nel nostro paese e nel mondo una dinamica estesa e avanzata di conflitto sociale. Ciò di cui abbiamo bisogno sono serbatoi di mania della trasformazione, overdosi di utopia, cuori roventi, esigenza dell’imprevedibile. Cosa vogliamo da questo autunno? Cosa da questo ottobre? La piazza spagnola ci ha fornito una traccia semplice e chiara, proponendo la pretesa di una negazione pratica dell’assetto istituzionale e politico che ereditiamo in Europa: Que se vayan todos! è il loro grido, e deve essere anche il nostro. Ad ogni capo del globo, con le tende, le canzoni o le molotov, i movimenti stanno affermando che con questa organizzazione dell’economia, con questa costituzione della sovranità politica non si può andare avanti. Non si può, nei due sensi di questa espressione: perché non si vuole e perché non è più possibile. È una dimensione soggettiva e oggettiva del non potere, quella che abbiamo attorno e di fronte a noi.

E l’Italia? È la grande assente, fino a questo momento, dei processi in atto: non dal punto di vista dell’attacco alle condizioni di vita e della prospettiva di default, naturalmente, ma dal punto di vista del conflitto; è l’unico grande paese mediterraneo a non essere lambito dal fuoco della rivolta, dall’uragano dell’indignazione. Di fronte al quadro profondamente nuovo che i processi di delegittimazione dell’ordine costituito rappresentano, nella nostra penisola sembra ancora essere ingombrante la tendenza all’elemento rituale, al dejà vu, a un insensato eterno ritorno dell’identico. Si pretende di incanalare la ricchezza politica che si orienta da mesi verso l’autunno in una sfilata ordinata e disciplinata, lontana dal centro e dai palazzi del potere, come indicato dalla questura della capitale. Si vorrebbe fornire una sponda, attraverso questa scadenza, a progetti politici visti e rivisti, che intendono convogliare in un voto istituzionale il desiderio di cambiamento che dal referendum alle manifestazioni studentesche del 7 ottobre cresce nel nostro paese. A beneficio di chi o di cosa, ci chiediamo? Non ne possiamo più del rito e della chiacchiera giornalistica sull’autunno caldo: vogliamo un Autunno Infernale.

Vogliamo un inverno duro per chiunque tenti di farci pagare la crisi. Vogliamo una primavera dei movimenti. Vogliamo anni di negazione dell’esistente, vogliamo un’Italia Valsusina. Non vogliamo un nuovo-vecchio uomo della provvidenza, di destra o di sinistra, alla guida di un progetto politico scaduto in partenza. Ciò che vorremmo fosse chiaro a tutte e tutti è che la casta è finita; e quando parliamo di casta intendiamo non soltanto Berlusconi e Tremonti, Bossi e la Marcegaglia, Bersani o Di Pietro, Montezemolo, Napolitano o Marchionne; intendiamo tutte le forme della vecchia politica, ben al di là dei nomi dei partiti, dei ministri, dei presidenti e dei candidati; intendiamo anche Vendola e De Magistris, ossia coloro che intendono cavalcare la voglia di cambiamento affinché il cambiamento non avvenga mai, affinché prevalgano ancora la delega e la politica di mestiere, gli aggiustamenti strategici, il compromesso annunciato. E ci chiediamo: cosa vorrebbero elemosinare i movimenti da questi signori? E che cosa dalle istituzioni stesse? Non soltanto le chiacchiere e le illusioni, ma persino i soldi sono finiti! Resta una società polarizzata e paralizzata, l’arricchimento spietato o l’impoverimento totale, la bancarotta. È forse il momento di salire sul carrozzone dei partiti, di accettare la logica che, reprimendo e recuperando il conflitto sociale, ci ha portati a questo disastro? È forse l’ora di imporre ai movimenti sociali strutture rigide o autoritarie, prospettive non condivise, destinazioni annunciate?

Il potere politico capitalista risiede completamente, e non da ora, nelle istituzioni finanziarie globali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Federal Reserve. I governi nazionali, le istituzioni internazionali o locali non sono che gli agenti dell’applicazione quotidiana di decisioni prese in quei teatri dal personale tecnico del capitalismo moderno: sono svuotate di qualsiasi autonomia amministrativa o politica. Come se non bastasse, di qualsiasi legittimità: lo si ode nell’eco dei tumulti e delle insurrezioni che agitano il mondo, che si espandono da New York a Damasco, da Santiago del Cile a Londra. L’ingresso nelle istituzioni del default non è l’obiettivo dei movimenti. Il potere politico “alternativo”, o antagonista, è nelle piazze, nelle strade, nelle rivoluzioni; è nelle assemblee di Barcellona, di Tunisi, della Val Susa. Non c’è delega, non c’è candidatura di cui in Italia, oggi, i movimenti possano comprendere il senso. Per questo crediamo che, il 15 ottobre e dopo il 15 ottobre, occorra consegnare a questo paese, finalmente, gli spazi comuni e aperti dove le istanze sociali, schiacciate dalla cappa di uno stato impresentabile e parassitario, possano esprimersi liberamente. Tutte le idee, tutte le istanze, tutte le voglie di questa società disastrata, tutte le progettualità della protesta non possono che trarre ossigeno dall’ingresso dell’Italia in questo Mediterraneo inquieto, e nell’Europa delle tre “A”: quella del conflitto sociale. L’Italia merita il cambiamento, quello vero. E non si potrà cambiarla, per davvero, senza rimetterla al centro del variopinto planisfero delle lotte sociali.

 

www.infoaut.org

Dispositivi per l’Indipendenza!

Con l’incontro del prossimo 28 Settembre vogliamo aprire un nuovo spazio di lavoro politico per l’indipendenza all’interno del percorso che ci porterà a costruire il 15 Ottobre con una grande manifestazione contro l’austerity. Proponiamo un momento di confronto e di approfondimento con un workshop di riflessione teorica sulla crisi del neoliberismo e sul debito sovrano, con un duplice intento, quello di misurare per un verso le soggettività e le reti sociali indipendenti, le intelligenze di movimento, intorno alla riflessione teorica sulla crisi finanziaria, sul biopotere dei mercati, sul debito e il possibile default e dall’altro lato individuare da subito il moover politico e sociale della trasformazione, sul piano immediato e diretto – immanente si potrebbe dire – dell’iniziativa di movimento e quindi anche delle proposte che ne scaturiscono come appunto quella al diritto all’insolvenza. Poter quindi legare allo sforzo teorico, sempre e di pari passo, un dibattito vero e aperto sulle pratiche e i conflitti. Ma, per rendere questo processo un fiume in piena e non una fusione a freddo, dobbiamo oggi più che mai sul crinale della storia segnata dalla crisi sistemica del capitalismo, immaginare e costruire un nuovo processo costituente per un’alternativa vera, dinamica e radicale. Vorremmo insieme poter cogliere il valore di questa specifica iniziativa nella prospettiva di costruire e sedimentare indipendenza e autonomia anche attraverso ulteriori momenti di dibattito e di confronto. Individuare le giuste traiettorie per costruire un laboratorio politico denso di nuovi legami. Relazioni, amicizie politiche, nuove intese nella condivisione non solo degli strumenti e dell’elaborazione teorica ma anche e soprattutto dentro un collettivo orientarsi nella produzione di movimento, alterità, forme di vita indipendenti. Sarà nostra cura nelle prossime settimane e nei prossimi mesi lavorare per costruire una grande manifestazione contro l’austerity il prossimo 15 Ottobre insieme a tutti coloro che vorranno cimentarsi con il conflitto sociale e praticare le nuove forme dello sciopero dentro e contro la precarietà, consapevoli che buona parte delle cose sono ancora tutte da costruire. Lo vogliamo fare insieme alle nostre compagne e compagni, fratelli e sorelle che si sentono parte di una comunità libera, aperta, ribelle e indipendente.

Mercoledì 28 h 18 Laboratorio Acrobax

Relatore Andrea Fumagalli – Prof. di economia politica all’Università di Pavia

Sono invitati ad intervenire: Collettivo Militant, Redazione Utopia, Comitato romano x l’acqua pubblica, Bin-Italia.

*si potrà seguire in streaming su www.indipendenti.eu

Appunti per un’utopia concreta!

di Rafael Di Maio

L’indipendenza, tra sovranità politica, emergenza sociale e stato di eccezione.

La vita politica in Italia scorre nella crisi di sistema, insieme globale e locale, economica e culturale. Si moltiplicano e si addensano le contraddizioni sociali mentre le disuguaglianze e le nuove precarietà si riproducono in seno alle vite di milioni di persone, tra vecchi e giovani senza futuro, in una latente e dormiente guerra civile non dichiarata. In questo complesso tornante della storia, in questa fase di permanente eccezionalità, le decisioni e le scelte politiche che si producono non possono e non devono essere dettate esclusivamente dal freddo calcolo della tattica, distorcendo a proprio comodo il tempo e lo spazio.

Lo scenario politico che attraversiamo si ricombina su tutti i piani, quello economico, sociale e culturale. La crisi verticale del sistema finanziario, pubblico e privato, rappresenta la cornice di trasformazione epocale e strutturale e il nuovo paradigma di costituzione – narrazione – del potere. Una crisi che travolge il modello neoliberista che decade inesorabilmente verso il baratro, insieme ai suoi principi di sviluppo e di progresso. Siamo di fronte all’ultima crisi del fordismo e dell’industrialismo e alla prima grande crisi dell’economia della conoscenza. E’ una crisi di transizione – come nel 600’ agli albori della modernità dove la transizione si dava dal feudalesimo dei locali ed arbitrari centri di potere, alla statuale e moderna forma del potere governamentale, alla reductio ad unum della forma moderna dello Stato.

Oggi viviamo nella nuova transizione, quella dall’immagine del mondo moderno ed industriale alla forma contemporanea dell’economia immateriale e della conoscenza. Viviamo come il resto del pianeta in questa lunga fase di declino e crisi sistemica dell’opzione neoliberista, ma politicamente in una condizione particolare, specifica, locale. Quello italiano rappresenta il quadro politico d’insieme più inquietante nel territorio europeo: prevalentemente dominato dalle destre populiste, dal crollo delle sinistre istituzionali e da un governo conservatore e autoritario. Del resto è una consuetudine di alcuni paesi europei quella di istituire in risposta alla crisi economica un’opzione politica e di governo prevalentemente conservatrice e reazionaria, così fu in Italia, Spagna e Germania, negli anni trenta durante la grande depressione. Sovrano fu, chi decise sullo stato di eccezione. Ieri come oggi, eccezione e sovranità determinano lo spazio politico, irrigimentano con la paura lo spazio comune, la città e la sua vita sociale. Ieri come oggi, eccezione e sovranità costituiscono lo spazio urbano e metropolitano, ne compenetrano la sintesi istituzionale. Non a caso la poleis deriva dalla stessa radice etimologica dei due termini, politica e polizia, qui leggi, sovranità ed eccezione. La politica si afferma come polizia della città, nel controllo dei corpi e delle relazioni produttive che nella polis nascono e si riproducono. Il governo sull’eccezione è la forma pura del potere politico e nel contempo è l’esaltazione della beffa alla democrazia, maschera scomposta del sovrano e dei suoi sudditi. Sarebbe legittimo ora domandarsi, cosa ci sorprende ancora nella politica? Se il problema fosse solo il governo Berlusconi, saremmo dei pazzi a non aver ancora tentato di buttarlo giù in ogni modo! Ma appunto, per sostituirlo con chi? Con quali rapporti di forza e dentro quali assetti costituzionali? Se questa è una crisi di sistema, perché lo è? E’ una crisi che nasce solo da qualche speculazione finanziaria? O è forse l’intero sistema capitalistico ad essere ormai insostenibile e sempre più parassitario, intossicato, nocivo?

Nelle più “prestigiose” università, dove in passato si è studiato e ricercato molto per sostenere e poi esportare l’ideologia “mercatista” e neoliberista, oggi addirittura  sono attivi corsi, dottorandi e lectures  in nome del post-capitalismo. Cioè lo stesso sistema capitalistico occidentale si assume ormai come frontiera degli assetti di potere, decadenti, da ripensare, da reinventare. uello italiano infaqueE’ finita la mediazione politica insieme al modello sociale europeo e il suo processo welfaristico. Il patto, quello che era il “new deal” è diventata una vecchia mutanda. E’ terminata l’intima relazione tra conflitto sociale, relazioni sindacali e sintesi politica, insieme, alla rete di protezione sociale dello Stato moderno. E’ finita la stagione dove la stessa produzione industriale necessitava della politica come contrattazione: degli alti salari, della piena occupazione e della rete di welfare. Finisce anche l’idea stessa della mediazione e del dialogo sociale. Semplicemente, la coesione non è più necessaria. E ce ne stiamo accorgendo risalendo la mappa della crisi o meglio delle crisi industriali, delle vertenze e delle sofferenze del mondo del lavoro, l’unica vera controparte sono i reparti celere. L’unico nuovo welfare previsto dalla governance è la polizia. Lungi dall’essere stata una fase pre-rivoluzionaria, in ogni modo, la stagione del welfare state viene archiviata dai guardiani della globalizzazione in nome della stessa crisi di cui ci stiamo preoccupando.

Dobbiamo necessariamente ridefinire lo spazio politico, saper andare oltre, gettare lo sguardo verso un orizzonte comune. Bisogna lavorare con l’immaginazione. Un po’ come si fa con la musica e la letteratura, con il freestyle nell’hip hop o con il montaggio nel cinema. Per costruire l’alternativa politica e perseguire un cambio materiale, economico e sociale, non è sufficiente volare alto. Dobbiamo intervenire sulla sfera pre-politica o se si preferisce post-politica della trasformazione culturale, incidere lì dove sappiamo che si gioca la vera libertà, incidere sulla frontiera della conoscenza. Sul punto alto della contraddizione, dove si determina l’emancipazione e la libertà. Come sempre la fabbrica del consenso è prima di tutto fabbrica di ignoranza, a maggior ragione in una società dove sul piano culturale si sfiorano ormai livelli indecenti di istruzione – teniamo presente che un terzo degli italiani è pressoche analfabeta, a cui si somma un altro terzo, considerato analfabeta di ritorno. E non a caso sul crinale della libera condivisione del sapere, oggi, si nega l’espressione artistica e creativa dell’attività umana, troppo spesso compressa dalla precarietà, dai brevetti della proprietà intellettuale, dall’organizzazione gerarchica del lavoro, in una società dove la precarizzazione del lavoro e le filiere del consumo rappresentano le maglie dispiegate del controllo sociale. Nella complessità del ragionamento e nella sfiducia dilagante nei confronti della politica e dei partiti, dobbiamo avere dalla nostra parte quella lungimiranza visionaria del potere costituente, della politica come trasformazione della realtà.

Dentro la stessa oscura realtà che attraversiamo è necessario ricostruire quei legami sociali spezzati. Nella costituzione materiale  delle donne e degli uomini che la rendono attiva e propulsiva è possibile cambiare la politica. Difficilmente la si potrà trasformare nella svuotata rappresentanza formale o nella messianica speranza di un salvatore. Dobbiamo ri-significare la realtà, avendo consapevolezza dei centri di potere che siamo chiamati ad affrontare dentro l’attuale modello di società complessa, terziarizzata, separata ed individualizzata, finora prevalentemente sedotta dalla corruzione e dall’autoritarismo, ipnotizzata dal consumo. Ma nella strada obbligata di dover difendere con i denti il diritto di resistenza, dobbiamo poter coltivare una politica visionaria e costituente, a partire dai nostri territori dove è progressivamente cresciuto negli ultimi anni l’elemento della ribellione in nome della sovranità e della decisionalità dal basso. Un elenco sarebbe qui sminuente. Basti fare mente locale alle tante battaglie di resistenza in difesa dei beni comuni, contro le grandi opere e le speculazioni immobiliari, contro i grandi eventi e le speculazioni finanziarie, che dal nord al sud della penisola negli ultimi tempi si sono moltiplicate e rafforzate.

La potenza di fermare una decisione stabilita dai grandi tavoli e consessi del potere locale e transnazionale, è una delle forme del potere costituente di cui parliamo. Un potere che determina non solo nuova partecipazione popolare ma che irradia, con una logica rovesciata e sovversiva della sovranità, la decisione nello spazio politico. Chi decide su cosa? E’ un quesito che rappresenta la prima forma d’indipendenza delle comunità locali dalle nuove oligarchie e dai nuovi centri del potere. E’ la forma di vita che costruisce potere costituente. E’ l’alterità che sul territorio sedimenta indipendenza, che si fa potenza, nuova res-pubblica. 

In primo luogo indipendenza dal sovrano. E immediatamente dopo dal sistema capitalistico. Partendo da qui possiamo ripensare l’indipendenza anche sotto un profilo culturale, facendo crescere la prospettiva ideale e la praticabilità politica, necessariamente dentro e insieme, se lo si desidera ancora, a quella radicale visione alternativa della realtà sociale ed economica che vogliamo poter autogestire, immaginare, praticare. A partire dai grandi e piccoli NO che saremo in grado di far crescere, potremo immaginare le forme dei SI e delle alternative possibili. Anche a costo di rievocare fuori dalle mode, l’esercito di quei sognatori, di zapatista memoria, che hanno a metà degli anni 90’ umilmente riaperto alla nostra generazione la possibilità dell’autogoverno, il simbolo del conflitto e della degna alterità, per il cambiamento di un’opzione politica ancora possibile. Tutto sommato, a distanza di dieci anni, anche se “giocato” malissimo sul piano della politica, il movimento (quello giornalisticamente definito no-global) aveva ragione, ce lo riconoscono un po’ tutti! Oggi più che mai, quello che sostenevamo sulle barricate di Seattle, di Praga o di Genova nel biennio anticapitalista della transizione (1999/2001) si sta materializzando in un’imbarazzante crisi sistemica per il potere globale, insieme economica e politica. Quello che noi abbiamo continuato a dire anche negli anni recenti, purtroppo sempre più divisi, tribalizzati e in taluni casi anche banalmente regalati al politicismo nella “saga no-global alla italiana”, era corretto. Era ed è tutto vero. Il capitalismo neoliberista sta depredando il pianeta e la sua umanità, in un’ossessiva e compulsiva ideologia del profitto, fino a rendere il mare nero, fino a far dire a alla BCE e al FMI che la crisi appunto è sistemica e che il modello attuale, per l’appunto, non è più sostenibile. Alla crisi economica corrisponde il tracollo della politica e della sua rappresentanza formale.

Questo è un passaggio importante sul quale vale la pena di ragionare politicamente sotto il profilo dei movimenti indipendenti anche a partire da cosa, dentro, intorno e a sinistra, sta nascendo con le “Fabbriche di Nichi”. Sorvolando la prima critica, quasi scontata, che riguarda quello che si sente spesso da più parti, ovvero il tema dell’accentramento personalistico e del lìderismo – che indubbiamente rappresenta un limite del processo in corso, che ha un po’ il sapore amaro dei tempi odierni – la scelta messianica della figura religiosa del salvatore – fa emergere in realtà con grande semplicità i limiti evidenti per affrontare la difficile sfida in corso. Se a Niki malauguratamente gli casca un vaso in testa, che fa tutta la nuova sinistra mobilitata, aspetta che cresca da qualche parte un altro carismatico poeta? Invero per la sinistra radicale istituzionale così come per quella per l’autorganizzazione sociale, il temi reali rimangono sempre gli stessi: come si sostengono le lotte, come ci si radica sul territorio, come si condividono i saperi, come si coniuga alterità, immaginario e presenza reale, come si accumula credibilità politica all’interno delle alleanze sociali che si costruiscono nelle città, come si fa vivere il controllo democratico dal basso sul territorio contro le speculazioni, come si anima e si organizza la resistenza alle scorribande neofasciste. In sostanza come si accumula potenza per il cambiamento al di là di questa o quell’opportunità politica?

Osservando da vicino la fase post-ideologica dentro quello svuotamento dei corpi intermedi, rappresentati dai partiti di massa o dalle organizzazioni sindacali, c’è un punto dirimente, che vuole essere un invito alla riflessione intorno all’opzione che prende piede con l’imminente candidatura di Vendola al governo del Paese. Un’osservazione che non può sfuggire alla consapevolezza di chi da anni anima i movimenti sociali, radicali, indipendenti e alternativi che dir si voglia e di chi – suo malgrado – ha imparato a conoscere il sistema politico italiano, il Paese del Gattopardo, dove realmente tutto cambia, affinché nulla muti.

Con la crisi della rappresentanza politica nella crisi sistemica del capitalismo globale, si evidenzia un aspetto centrale del processo in corso che rafforza il seguente ragionamento. Vi è una macrofisica che potremmo sintetizzare con la fine della partecipazione di massa alla politica, la fine della fiducia nelle istituzioni corrotte, la fine della governabilità dall’alto, dell’azione governamentale top down. Ma scopriremo poi un successivo livello che è quello relativo al sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica, ovvero di quella crisi nella crisi: la fine del bipolarismo, il riemergere, contro le false credenze del partito liquido, della soggettività organizzata ed identitaria – la Lega Nord sta lì a dimostrarlo – una legge elettore antidemocratica definita “porcata” da chi l’ha redatta, dove in realtà considerando le astensioni prende la formale maggioranza in Parlamento,  quella che è una reale minoranza nel Paese.

E ancora, la forma bloccata della democrazia incompiuta degli ultimi quindici anni dove ogni spazio riformatore, ogni iniziativa di avanzamento e modernizzazione dei diritti ha dovuto fare i conti con i veti incrociati, i ricatti, i giochi di potere, le continue mediazioni al ribasso. Tutto ciò non accade per caso. Vi è una radicata e profonda strumentalità dietro questo schema. In Italia (e non solo!) vi sono gruppi di potere, lobby trasversali, corporazioni nel mercato e nello Stato che non hanno nessun interesse affinché muti la struttura sociale consolidata o l’iniqua divisione della ricchezza socialmente prodotta. Le oligarchie economiche al potere non hanno nessuna intenzione di mediare con i precari che crescono esponenzialmente, con i pensionati al minimo, con i cassaintegrati senza futuro, con i disoccupati di lunga durata. Non solo, le caste al potere sguazzano nella crisi, si rigenerano, mentre si appellano alle politiche dimagranti della Unione Europea, della BCE e dell’FMI. E non hanno nessun interesse a cedere le porzioni di privilegio accumulato, non hanno nessuna intenzione di pagare le tasse e di investire sulla conoscenza o sull’avanzamento culturale.

In definitiva alcuni gruppi di potere in Italia governano sempre, a prescindere dalle sfumature, determinando pesantemente qualsiasi esecutivo e azione di governo. Fino a quando non muteranno radicalmente i rapporti di forza economici e sociali nella costituzione materiale, taluni assetti di potere, incideranno più di qualsiasi scommessa ideale e finiranno per condizionare anche una “radicale sorpresa” come quella rappresentata per esempio dalle Fabbriche di Nichi. La governance locale e globale da un lato e le tecnostrutture dall’altro, occupate ad interim dalle figure apparentemente solo tecniche, bastano di per sé a rendere anche una maggioranza elettoralmente qualificata, incapace ed impossibilitata a dare seguito all’azione di governo preannunciata nella campagna elettorale. Basta un direttore generale non allineato a bloccare o ritardare le attività di un assessorato o di un ministero, con la burocrazia pilotata, i veti incrociati, i ricorsi e i piccoli cabotaggi. Anche laddove si è Presidente di Regione (e Vendola ne sa qualcosa) basta un ministro economico, come l’attuale, per essere imbavagliati e commissariati. E anche se il nuovo leader divenisse Premier, laddove volesse attuare una radicale riforma sociale dovrebbe stare dentro il patto di stabilità, all’interno dei parametri di Maastricht (o i nuovi vincoli che verranno), dentro la soglia del 3% sul rapporto deficit/pil, dovrebbe attenersi al rigoroso contenimento della spesa pubblica, alle direttive della Commissione europea e via discorrendo.

In definitiva la governance politica della globalizzazione economica ha determinato una stratificazione così articolata della complessità, che ai cittadini sfugge non solo il controllo della macchina, ma anche la conoscenza di come si accende il motore o si cambiano le marce. Per quello diciamo da anni che la rivolta o è globale o non è. Che il cambiamento o sarà radicale, o semplicemente non potrà essere. Ovviamente una spinta riformatrice coraggiosa, un ascolto disinteressato delle istanze sociali o una sensibilità istituzionale diversa dagli ultimi governi, non potrà che essere un passo di avanzamento complessivo, anche per i movimenti. Sotto questo aspetto non si possono avere dubbi. All’aumentare del peso della sinistra istituzionale, per esempio negli anni ’60/’70 – in cui il conflitto sociale rappresentava il motore della democrazia – aumentava anche il peso e il protagonismo politico dei movimenti rivoluzionari ed extraparlamentari – si pensi anche ad esperienze di governo molto avanzate in altre parti del mondo, come nel Cile di Allende. Tra l’altro anche lì c’era un poeta che fu candidato alle primarie del 1969, dal partito comunista cileno, si chiamava Pablo Neruda. Ma in Italia di quell’esperienza si fece una “confusione” tanto grande addirittura da chiamarla “sindrome cilena”. La questione rimane per come è stata fin qui descritta. Dal solo piano alto del governo, la trasformazione mediata, graduale e dall’interno del sistema-Italia, rappresenta una meta irraggiungibile, “un’utopia irrealizzabile”. Al contrario, ciò che sembra irrompere dai piani bassi, ciò che sembra uscire dal cassetto dei sogni, dal desiderio dell’assalto al cielo, apre la strada per “un’utopia concreta”, necessaria. Disvela un cammino di riscatto e di emancipazione, una via per la libertà e l’indipendenza da intraprendere umilmente, fino alla vittoria!

Bibliografia sragionata:

G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003

F. Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Il mulino, Bologna 1984

C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè editore, Milano 1998

A. Negri, Il potere costituente, Sugarco edizioni, Varese 1992

C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2003

I libri vanno letti per essere dimenticati” M. Montaigne, Essais

 *articolo uscito sul  X° numero di Loop (settembre/ottobre 2010)

2009, G8 in Italia

berluG8G8 DI LUGLIO

Un G8 avvolto da un silenzio, al contrario di 8 anni fa a Genova, rotto solo dai vestiti delle Last Ladies e dai menù dei Grandi. Eppure, qualcosa si è mosso.

[singlepic id=393 w=320 h=240 float=]

ULTIME. Denunce per il G8 di Luglio (29 gennaio ’10)

Roma

Cariche e arresti alla manifestazione della V-Strategy: agenzievideo indymediacomunicati * Firma la petizione contro gli arresti * A Testaccio… * Lettera aperta sulla libertà di movimento (agosto 09) * C’era una volta il G8 (ottobre 09)

V-STRATEGY (ita-eng-esp) * V-Strategy @ Mattatoio * Rete No G8 Roma (ita-eng-esp) * Università chiusa per G8

L’Aquila

Siamo tutt@ aquilan@ – report 10 luglio * Sulle giornate di mobilitazione  contro il G8 (epicentrosolidale.org) * 10 Luglio: in marcia per l’Aquila * L’Aquila: una piazza in “armi” (Indymedia Abruzzo) * Il prefetto blocca la città * L’Aquila e le altre contro il G8 * Rete No G8 delle Marche

Da Italia & Europa

4 Luglio a Berlino

Stampa e media

Agenzie stampa 10 luglio * Agenzie 8 luglio * Agenzie 7 luglio * Agenzie 6 luglio * Arresti per il G8 di Torino (varie) * Genova 2001: chiesti due anni a De Gennaro (Corriere.it) * El G-8 de la crisis global en Roma-Aquila (Diagonal, esp) * No Global all’attacco (Il Giornale) * La delusione no global (Il Manifesto) * Obama in Italia (Ansa 24/6) – No global in Abruzzo (Abruzzo 24ore) * Messaggero sul G8Lo sciopero della celere

ALTRO:

Vademecum legale (Scarica rar format: itaengesp)

Infoline Legal Team Italia: 339.59.30.900 * 06.491563

UN ANNO DI CONTESTAZIONI AI G8-G14-G20

Maggio. G8 sulla sicurezza

Rete romana contro il G8 [Intolleranti al razzismo * Ed ora il G8 di Luglio]

Re-azioni della città ::: Oim [video * Corriere.it] Anagrafe [foto Repubblica] C.I.E. Ponte Galeria [foto Repubblica * Corriere.it]

Marzo. G14 a Roma e G20 a Londra

No G14 a Roma [Riprendiamoci le strade * Foto corteo]

Barcellona [foto 28 marzo]

G20 a Londra [video mappa della crisiClimate CampG20 di morte]